29/12/08

Exit strategy

di Lobanowski 1

La sensazione, forte, che monta in questi giorni, è che siamo vicini al capolinea dell’attuale gestione dell’U.S. Foggia 1920. Partiti in dieci, i soci che salvarono i satanelli dalle sabbie mobili del fallimento hanno perso pezzi lungo il cammino. Chi è informato delle voci di dentro parla di quattro o cinque imprenditori rimasti a tirar fuori i soldi, e tra questi c’è più d’uno che s’è stancato. A meno che non ti chiami Chinaglia, a meno che una società calcistica non ti serva come enorme lavanderia di denaro di dubbia provenienza, a meno che non sei un piccolo truffaldino alla Russo, la gestione di squadre di Prima Divisione è onerosa, non garantisce ritorni. Gli incassi sono quelli che sono, i contributi della Lega minimi, marginali l’apporto degli sponsor e dei diritti televisivi. Ci si rimette e basta. A meno che non ti riesca il gran salto nella serie superiore, dove è tutt’altra musica. Tutt’altri bilanci, anche se assieme agli introiti crescono le spese.

Capobianco e soci ci hanno provato a salire in B, spendendo tanto in giocatori e stipendi. Per due volte siamo andati vicini al sogno, a pochi e maledetti secondi dal sogno. Da queste parti, lo scrissi a luglio sostenendo la svolta gestionale – valorizzazione dei giovani, attenzione al bilancio e soprattutto alla vita della società – di Moratti o facoltosi mecenati del calcio non se ne intravedono. Se pensi a chi c’ha i soldi – volgarmente – a Foggia, pensi ai palazzinari. Uno come don Michele Perrone, il grande vecchio della Confindustria dauna, ci provò a prenderlo il Foggia, anni fa, all’asta fallimentare del Tribunale di Napoli. Arrivò ad offrire oltre 7 miliardi di lire. A quell’asta si presentarono due che al confronto di Perrone potevano essere etichettati come pezzenti, tal Villani (piccolo costruttore) e Mercuri (un avvocato). Offrirono di più, non si sa con quali garanzie. Il Foggia fu assegnato a loro. Ma non mantennero gli impegni presi, e il Foggia tornò nelle mani di curatele e profittatori. Azioni di disturbo commissionate. Apparve evidente la cosa. Fosse andato a Perrone, la storia dell’U.S. Foggia negli anni forse sarebbe stata differente.

Pensi a chi tiene i soldi e pensi a loro, ai palazzinari: a Perrone, o a Zanasi, che siede a capo di Confindustria e Camera di Commercio, e ai suoi sodali in associazione, ai Trisciuoglio, ai Zammarano, a Di Carlo, Caccavo. Poi ci sono i facoltosi proprietari terrieri, le grandi famiglie latifondiste alla Lepri. Gente ce n’è, con la pila, anche gente che allo stadio da sempre fa passerella. Per carità, mica lo comanda il dottore che se hai dei soldi devi “buttarli” in una società calcistica. Però quei dieci, o meglio quei cinque o sei, almeno ci hanno provato a fare squadra. In una terra da sempre allergica alla cooperazione e incline alla guerra per bande, dalla politica all’economia, hanno messo insieme le forze per un progetto che parlava alla città in maniera diretta. Imprenditori foggiani disposti a farsi carico dei costi di un elemento – il più popolare nel senso più vasto del termine – della comunità cittadina.

Alla comunità imprenditoriale l’appello di Capobianco e soci non è mai mancato in quest’ultimo periodo. Quasi un grido d’allarme. Aiutateci, sosteneteci, entrate in società, o finanche prendetevelo voi il Foggia, se siete in grado e avete i mezzi per fare meglio. Hanno sbagliato, come è facile che sbagli chi opera, Capobianco e soci. Soprattutto per dei novizi del settore. Ma chi se la sente di rimproverare qualcosa a queste persone, che da tifosi (un po’ più facoltosi di noi altri) coltivavano lo stesso identico sogno di tutti gli altri tifosi? Giocatori di grido e con ingaggi da serie B non hanno garantito la svolta, la necessaria – ai fini anche economici – promozione in B. Hanno sbagliato, è vero, anche nell’impostare la stagione in corso, annunciando di voler puntare su giovani di valore e finendo con raccogliere seconde file nemmeno tanto giovani, o imberbi giocatori provenienti da qualche primavera. Città campanilista, Foggia, che ha dato la croce addosso a Di Bari, il direttore sportivo oggi primo con la Pro Patria nel girone A (con Correa, Toledo e gente di categoria), colpevole di parlare con accento barese, e nulla e nessuno pare voglia imputare a Fusco, l’avvocato gagà napoletano, un mercato estivo disastroso. Ed oggi chi tiene in piedi la barca è gente come Coletti e D’Amico, quei giocatori che Di Bari aveva voluto a Foggia (per non parlare di quelli che stanno giocando bene altrove).

Città dove i giornalisti sono troppo tifosi, troppo vicini ai voleri della società, incapaci o negligenti anche nell’informare sul fatto che i giocatori sono fermi agli stipendi di settembre. E intanto Fusco sta lì e continua a dettare legge. Via Novelli, che di ricominciare con una squadra dilaniata dal mercato di gennaio evidentemente non ne aveva voglia (se sono vere le voci sulle partenze di Coletti, Salgado, e altri sei o sette giocatori). Sembrerebbe una exit strategy, come la chiamano gli strateghi della guerra. Un recuperare risorse in maniera quasi disperata per dare un futuro alla società, e magari a fine anno mollare a qualcun altro, qualcuno con entusiasmo nuovo e soldi freschi.

E in una città dalla storia sgranata, abituata a vivere ripiegata su stessa, con lo sguardo perennemente rivolto al passato, senza chissà quali fasti ma sul quale almeno è possibile abbandonarsi in amarcord e costruire leggende; una città dalla scarsa mobilità sociale dove il cognome conta più d’ogni cosa, dove Zanasi è Zanasi da 30 anni, la città dei circoli chiusi, massonica, facile che per molti alla parola futuro non possa che essere affiancato il nome di Casillo. E magari di Zeman. Un dio di qualunque religione ce ne salvi. Non so se sarei in grado di sostenerlo questo ritorno al passato. Ma il problema resta: se mollano questi, chi se lo prende l’U.S. Foggia 1920?

22/12/08

Che c'è?

di Lobanowski 2

Domenica 21 dicembre, Crotone-Foggia 1-0

Che canto malinconico, che canto malinconico
Cogl'ogni cuore tenero cogl'ogni cuore tenero


Lodi alla pasta al forno, certo. Lodi alla parmigiana. Ci sono anche i primi rientrati, i fuori sede cronici. Il vino rosso è buono e la partita inizia, ma sul primo bicchiere già s’addensano crucci.
Ti domandi: che c'è? E la risposta non si fa attendere.

C’è che se vai in curva, il campo lo vedi e non lo vedi, seguendo il crinale delle intermittenze. Emozionali. C’è che sali i gradoni e, una volta in posizione, ti occupi del contesto, che poi è il palcoscenico principale. E fissi l’omino sulla transenna e ti concentri per non sfalsare il coro che s’alza, torrenziale. E alzi le braccia, e quelli davanti a te fanno lo stesso. E batti le mani, e senti il battimani attorno. Ritmato, cadenzato. E poi passa quello che grida Borghetti e dai l’avviso a quelli che hai attorno. E ti frughi nelle tasche e molli i venti centesimi nel palmo di quello davanti che si è girato e fa colletta, e poi tratta col tizio burbero che, alla fine, non cede. Tre flaconi di Caffè Sport, 4 euro e 50. E gridi, e ridi, e commenti un fatto che ti è venuto in mente, e ridi di nuovo mentre l’omino dice che stiamo facendo cagare, e che se siamo in tanti è perché dobbiamo crederci, e cantare, e cantare ancora. Che vedere la partita è roba datribuna ovest. E tu, che di partita hai visto dieci minuti assemblati, ma hai l’argento vivo addosso, di nuovo ti scuoti, ti concentri, chiedi quanto manca alla fine del primo tempo, ti fermi a guardare i tifosi avversari. E li giudichi, peggio di un magistrato di Tangentopoli. Poi cerchi tra i gradoni o chiedi agli altri dov’è finita la bandiera. E te la fai passare, e sventoli, e la guardi sventolare, e mentre che sei attento come un pitbull, uno da sopra ti chiede di abbassarla e scatta il parapiglia. E quando l’arbitro fischia, cacci con lo sguardo lo sguardo di quello che sta per scendere a comprare la birra. E resti in piedi, a guardare cosa fanno gli altri gruppi, che dicono i volti di quelli che conosci, mentre tutto attorno è un continuo informarsi su cosa fanno le altre.Per farla breve, se vai in curva neppure te ne accorgi.

Ma quando, per via di eventi inevitabili o imprevedibili, quando l’Osservatorio proibisce la trasferta o l’influenza ti inchioda a letto, la partita ti tocca vederla, dal primo all’ultimo minuto di recupero. E allora non puoi fare a meno di notarle, certe cose. Quanto questa squadra giochi male, ad esempio. Che con questa è finito il girone d’andata, e non siamo in grado di fare tre passaggi di fila; che si gioca su una sola fascia, come un pugile azzoppato, contando sull’esterno che corre come un’attrazione da circo, come Roberto Carlos alla playstation. Allo stadio, mentre quello s’imbizzarrisce, commenti il nuovo vizio di fare Brum, Brum, Brum che sale dai lati. Qui, no. Qui lo noti che la difesa non è alta, non è bassa, non è accorta. Te ne accorgi che la difesa non è niente; niente di ben definito, quanto meno. E ti viene un fremito a pensare che quello era il punto debole che temevi in Novelli. E quando la palla rimbalza tra portiere e difensore, el’avvoltoio avversario è appostato e la butta dentro, che neppure se l’aspettava, non puoi non rimpiangere la curva. Quel luogo dove tutto è possibile ed hai mille attrattive capaci di distrarti dal sopraggiungere della coscienza. Dal grillo parlante. In curva prendi il gol, ti ricomponi, e lanci il grido della riscossa. Qui, non sai quale piastrella del pavimento rimirare. Ma niente sceneggiate, niente tecnicismi inutili. Siamo tifosi, votati ad un ideale di sofferenza e ascetismo. Lo schermo è in alto, penzolante da un muro. Disposti in file, con la gente in piedi davanti alla porta a vetri. Renato mi aveva avvisato, quando ha letto l’invito in Facebook: non spargere la voce, che già siamo tanti. Vero, mea culpa. Quaranta minuti al termine e la certezza che saremo stati fortunati a vedere un tiro in porta. Il pari non è contemplato tra le ipotesi. Dovrei dire Chi se ne frega. Ma non sono in curva, e neppure nel settore. E non è la stessa cosa.

15/12/08

La qualità del silenzio

di Lobanowski 2

Domenica 14 dicembre, Foggia-Ternana 2-1

Francoforte. Dovevo essere a Francoforte, oggi. Tutt’al più a Mainz, che poi sarebbe Magonza. Due biglietti nel trolley. FSV Frankfurt-Sankt Pauli. Serie B tedesca, l’occasione imperdibile di vedere il Sankt Pauli, di imparare un paio di cori da tramandare ai posteri, di conoscere i suoi tifosi in trasferta. Invece.

Invece all’una e venti sono oltre la prima linea di filtraggio, e sto srotolando lo stendando. Vai, vai, mi fa il poliziotto. E vado. Daniele ci ha raccontato di un incontro fortuito: Oggi vengono i compagni vostri, gli ha ironicamente detto un tale. Penso all’alberghetto delle fiabe che avevo prenotato. Sbuffo. Uno steward, alla terza porta, ci dirotta: Quelli dei club alla prima. Nessuno di noi ha fiatato. Si vede così tanto che siamo un gruppo? Entriamo che non ci sono ancora le guardie. Nel piazzale, nessun volantinatore del Regime. Aria strana, sospesa. Saliamo la prima rampa, la seconda, siamo dentro. Lo sguardo da destra a sinistra, da sinistra a destra. 13 individui. Nell’intera curva, a parte noi, ci sono 8 persone, sparpagliate con maestria. È presto, ma la Sud vuota mette i brividi. Dispiegare la stoffa, rattoppare il fissaggio, lanciare la corda oltre la grata, tirare verso sé, annodare, una, due volte. Un nodo alto, altissimo. Un passo indietro, rimirare. Oggi la pezza è superba, mai attaccata così bene. Il tocco di classe: due lievi giri di nastro da imballaggio agli angoli bassi. E voilà. Relax. In campo non c’è nessuno, neppure le squadre. Sono le due meno dieci, e siamo quasi soli. Che sia successo qualcosa di grave, modello undici settembre, e non ne sappiamo niente? L’istinto di mettersi al telefono, due volute con la bandiera, per prendere il ritmo, una proposta di bar. Mancano anche gli striscioni. Aria strana, lo dicevo. E il pensiero corre ai contrafforti in stile teutonico. Ri-sbuffo. Finché un ragazzo giunge dal basso, ci guarda, ci parla e mi stacca dal torpore: Uagliù, ma non lo sapete che oggi non si espongono striscioni? Silenzio. No che non lo sappiamo, abbiamo avuto una settimana piuttosto impegnata. La contestazione, eccola qua. Le prime domande si affacciano, inevitabili. Meglio metterle a tacere, meglio staccare subito lo stendardo, di fretta, senza neppure guardarlo. Che oggi basterebbe uno sguardo per ripensarci. Riunione, giù alle porte.

Oggi non si canta, non si incita, non si esulta e non si fischia. Impassibili, come il vento durante un minuto di raccoglimento. Muraglia muta contro l’umiliazione. Che pare cosa facile a dirsi, ma i foggiani li conosciamo. E sappiamo che nessuna posizione prolungata può mai attrarre la loro attenzione per più di pochi istanti. Incostanti nei lavori di pazienza, umorali come il mese di marzo, scommettiamo che non durerà. Che ci sarà da innervosirsi, da succhiarsi il fegato. E il pensiero corre al volo che si è alzato su Roma senza di me. Arriva il volantino. I sospetti si tramutano in altrettante certezze. La pessima prestazione di Lanciano, i 5 gol al passivo, l’atteggiamento della squadra in trasferta. Certo. Ma oggi resteremo in silenzio per tutti i 90 minuti – c’è scritto in maiuscolo grassetto, con sottolineatura nera – soprattutto per ciò che è successo in settimana. Ecco, ci siamo. Il volantino non specifica, non scende nei dettagli, non approfondisce e non commenta. Chi sa, sa. Noi sappiamo, in tanti sanno. E basta questo. Ma in tanti, tantissimi, non sanno: ignorano, chiedono al vicino, s’affidano a quelli che la sanno lunga. E quelli, da ultimi interrogati, spalle al muro, inventano. È un festival. Questo silenzio vuole essere una ulteriore conferma della nostra indipendenza. Minacce di lasciare la società non condizioneranno mai il nostro modo di essere in curva e il modo di amare l’Us Foggia 1920. Non eccepisco, non discuto. Si voleva la risposta corale, e risposta corale sia. Ma tacere, fissare gli omini in campo, ascoltare i commenti e, talvolta, anche i risultati delle partite di A, non è proprio il nostro modo di essere in curva. Più che altro, è una sofferenza immane, una noia da sbadigli. Giuseppe inorridisce e domanda, spaventato: Ma mo ci tocca guardare la partita? Non ci condizioneranno? Un paio di palle. Siamo condizionati, condizionatissimi. Quasi repressi. Altroché.

Io credo che il sacrosanto dovere di sostenere quella maglia vada aldilà di qualsiasi contingenza. Per ogni altra evenienza, ci sono gli ambiti adatti. Ma tacere in risposta all’atteggiamento di undici sconosciuti – che per quanto bene possano volere al rossonero, torneranno sconosciuti quanto prima – è una forma tribale di auto-evirazione. Che finisce per concedere troppa importanza alla squadra, agli undici che scendono in campo, a quelli che vanno in panchina, a quelli che vanno in tribuna, al mister e a tutto il resto del circo. Avremmo dovuto cantare, e cantare, e cantare ancora. Per dimostrare che non sosteniamo loro, per quanto bravi o scarsi possano essere. Eseguiamo un rito collettivo. Ed è altra cosa. Riguarda noi.

Come che sia, entrano i ternani. Otto, nove al massimo. Felici, festanti, a braccia larghe. Poi arriva Beppe Signori. Sotto la curva, a passi veloci, quasi una corsetta. Arriva, quel laziale. E non posso che mostrargli scapole, schiena e spina dorsale. Non voglio sentire ragioni, non c’è nostalgia che tenga. C’ero all’ “Olimpico”, quando urlavamo È rossonero, Signori è rossonero, per cauterizzare una ferita ancora lancinante. Un amore tradito. E Beppe ci punì, segnando il gol del quattro, forse del 5-1. E fece quello che mai mi sarei aspettato da lui: corse sotto la Nord, sotto quella muraglia di fascisti, ad esultare come se avesse realizzato il gol della vita. È un professionista, certo, ma ricordo che pensai: Quest’uomo con me ha chiuso. E adesso è inutile rivangare. La Sud lo applaude, tenta di abbozzare un coro autogestito, ma non si ricorda come fa il ritornello. Io me lo ricordo, ma ho buttato via la chiave d’accesso. Va, laziale, va. Torna a casa tua. Ed evita di farti rivedere in giro.

Il primo tempo è noioso da irritare. Probabilmente è simile a tante altre partite, ma il fatto di non partecipare all’evento, di non coordinarsi nel sostegno, rende questo sforzo di sfondare dei rossoneri, particolarmente indecente. Segniamo su rigore, che l’arbitro biondino fa ripetere con straordinario zelo. Attorno, assistiamo ad un commovente spettacolo di volubilità umana. Se quello che sta al centro del centrocampo sbaglia un appoggio sulla destra, sono insulti, boati, fischi, sproloqui. Quelli che non cantano mai, quando c’è da cantare, oggi provano a intonare coretti stonati, stornelli sanremesi. Poi uno della Ternana falcia un nostro in fuga, e si scatena il putiferio. Il gol, e sembra fioccare la pace come neve a Francoforte. Sbuffo. A fine tempo ci tratteniamo giù più del dovuto. C’è fermento, fibrillazione. Il dibattito sulla contestazione è animato, anche se sono troppo fuori fuoco per interpretare le posizioni. Ma non mi sembra, tuttavia, che ci siano due blocchi contrapposti. La ripresa è in corso. Noi, ancora alle prese coi nostri cicchetti, ci affacciamo al primo anello. Che qua non si è mai chiamato così, ma fa niente. Osserviamo la Nord che ha ripreso a cantare, che ha rotto il silenzio con un coro contro un panchinaro. Ancora quella storia accaduta in settimana. Strascichi. Quando ritorniamo in posizione, la Ternana pareggia. E ricominciano i sermoni, risalgono in cattedra i disfattisti. Una specie di tagadà umorale che stressa più che divertire. Anzi, non diverte affatto. La psicologia del tifoso è un rebus: è millantato amore per la sofferenza che si esprime nell’incapacità di soffrire; e nell’impossibilità di fare altro, di sfuggire alla propria sorte. Ma questo l’hanno già detto. Di nuovo, c’è il gol di Salgado che chiude la partita. E il coro con cui anche la Sud saluta il panchinaro.

Alla fine la Nord saluta romanamente i ternani che smontano. Mentre la Sud viene risucchiata da un vortice e scompare, come se non fosse mai pervenuta. Scendo i gradini, pensoso. A Francoforte non avrei potuto cantare. Non ci sono andato, e non ho cantato ugualmente. Un paio di giovanotti corrono verso il campo. Il loro grido, nella curva vuota, riecheggia, rimbomba: Avanti o popolo, alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa. Ci giriamo di scatto, ma non vediamo più nessuno. Bandiera rossa in Sud, a margine di una partita con la Ternana. Che confusione, sarà perché ti amo…

08/12/08

Le due curve

di Lobanowski 2

Domenica 7 dicembre, Lanciano-Foggia 5-2

Mi vesto appena più pesante del solito. Le gambe, si, sembrano reggere. Il mal di testa è svanito, così come pure i crampi allo stomaco. Gli anticorpi hanno fatto un buon lavoro, non sembro un caso di malasanità. La bandiera nella destra, stacco un bel passo da maratona. O da boy-scout. Ci avviamo con un anticipo olimpionico. Sarà una volata, e la macchina a metano conterrà le spese. In tempi di crisi e social card, conta. La strada è la solita, Adriatico e mare sulla destra. L’entusiasmo non si è smorzato ai primi freddi. Per confermarlo, mostro l’ennesimo 2 fisso sulla bolletta della Snai. È il sesto su sette trasferte. Avevo evitato di pronosticarmi vincitore solo a Pescara, perché senza il benestare dell’Osservatorio c’erano poche speranze di farla franca; perché, lo sanno anche i bambini, solo Se lo sosteniamo noi l’Us Foggia fa gol. Autostrada fino a Val di Sangro, poi ci inerpichiamo su un’altura, un paio di svincoli e ci troviamo in faccia a Fossacesia. Non so per quale motivo metafisico abbiamo scelto questo posto per il consueto aperitivo, ma oramai ci siamo e parcheggiamo in salita. Un corso deserto che sembra Alberona, una chiesa e una fontana. L’odore dei camini, che fa sempre il suo effetto. Prima del bar, l’emozione indefinibile di vedere il pullman del Foggia che fa manovra e sbuca da un angolo. Guido si illumina come un miracolato, accenna qualche passo in direzione di quella visione, tenta una corsetta monca, poi, accertata l’impossibilità di raggiungerlo, si limita a fare ciao ciao con la manina. Lo guardiamo stupefatti. Quello ricambia: “Ma, uagliù – dice, sopraffatto dall’incredulità – il pullman del Foggia”. Con lo stesso tono con cui avrebbe salutato l’apparizione di una navicella spaziale. Sconvolto dal vedere a due passi un mezzo di trasporto che, solitamente, è parcheggiato a due passi da casa sua. Ma, si sa, è il contesto spazio-temporale a fare di un oggetto un evento. E a noi tutti, mentre ordiniamo quattro caffè e un cappuccino, improvvisamente appare chiaro il perché di Fossacesia. Come la Samarcanda di Vecchioni.

Lanciano è una trasferta infida. Ci sono stati screzi, in passato: solite storie, con qualche vetro infranto di più. È consigliata prudenza. E noi, per non farci mancare nulla, ci fidiamo della memoria di Nicola, che si inoltra in paese con straordinaria approssimazione. Non ci sono segnali ad indicare il campo sportivo, tendiamo solo a lambire il centro, finché non ci perdiamo in uno slargo periferico dal senso di marcia obbligato. Una discesa sulla destra per rimetterci in carreggiata ed eccoci faccia a faccia con una decina di giovanotti bardati di rossonero. Che sono anche i colori sociali degli abruzzesi. Cazzo, pensiamo. Un rapido calcolo delle probabilità, mentre quelli già ci scrutano da sotto i cappelli con la visiera; e noi scrutiamo loro, con lo stesso sguardo di chi non intendere cedere. Poi un cappello favella: Ma dove cazzo è lo stadio? L’accento è inconfondibile. Boh, rispondiamo, negando gli uni agli altri quel che ognuno stava realmente pensando: vi abbiamo presi per lancianesi, uagliù. Ci incolonniamo e in cinque minuti siamo in un viottolo di ghiaia sul limitare di un discreto strapiombo boschivo. In lontananza, la tribunetta. Settore ospiti. Gli altri ci chiamano che sono appena fuori porta: c’è stato un rapido sfiorarsi coi pescaresi, in un autogrill. Roba da niente, il tempo di comprare le sigarette e saranno qui. Assistiamo all’arrivo della carovana. Entriamo. La scena è sconfortante: lo spiazzo sarà largo qualche passo nei quattro sensi di marcia, la polizia tasta svogliatamente i giubbotti, la rampa è unica e ci vanno a stento due persone affiancate. Lo spettacolo di uno stadio a norma, la pantomima della sicurezza. Niente di male, per carità, questo impianto ha la stessa dignità di ogni altro. E come ogni altro, costa. Ma non si può proprio dire che ci sia gente qui che si impegna febbrilmente a farlo sembrare uno stadio. Siamo dentro, e va bene anche così. Saremo quattrocento, forse qualcuno in più. Al centro, come al solito, le pezze della Sud e della Nord. Di lato, i tifosi svincolati, gli occasionali, quelli che vivono la partita su un’altra frequenza.

Le squadre sbucano dallo spogliatoio sotto la curva lancianese. Non sembrano imponenti, i locali, ma ci sono, con diversi striscioni e finanche una bandiera croata, che mal si concilia con tutto. Si alza il primo coro. Stavolta dire che non vedo niente non è un eufemismo, un modo come un altro per sancire distacco dall’evento calcistico in sé. Non bastasse la prospettiva dadaista della curva dove siamo assiepati, non bastasse l’assurda cancellata modello Manfredonia a circondare il settore, c’è quello che fa partire i cori proprio di fronte a me. Ma è la vita che ho scelto, penso. E mi concentro sui canti e sulla bandiera che fluttua nell’aria tesa e assolata. È troppo forte questo amore che provo per te, Foggia tu sei per me, sei l’unica passion, ti porterò per sempre nel mio cuor. Bastano poche schermaglie per capire che dai lati verranno solo noie, quando non rogne. Da destra e da sinistra giungono fischi e boati solo in concomitanza con le azioni, con lo svilupparsi logico della partita. Lello mi garantisce che c’è un problema di fasce anche in campo. Prendiamo un gol, e l’incitamento degli occasionali. Meglio quando siamo in pochi, dicono dalla balaustra. Concordo, ma il fiato sul collo di questa gente mi spazientisce. Certo, in centro bastiamo e avanziamo. Ma questi che si sono messi in marcia per fare la scampagnata, che magari sono appena usciti dal ristorantino caratteristico, che hanno le mogli che girano per i negozietti del centro, preferisco perderli che trovarli. Sono il simbolo di una Foggia arcaica, che non esiste più. E, come ogni tradizione, devono affondare. Il prima possibile. Prendiamo il secondo. E la mazzata si avverte nei muscoli. Le corde vocali non smettono di articolare suoni, ma il timbro è rauco. È assurdo. Alla fine del primo tempo la discesa verso il bibitaro è vorticosa, possente, desiderata. La delusione, cocentissima. Non c’è nessun bar. Niente birra analcolica, niente acqua a prezzo da lounge bar, niente Borghetti. Nessun bar. Neppure difeso da un’inferriata come a Perugia, neppure incassato in un muro da Montecristi come a Caserta. È il panico. Vado in bagno per disperazione: Forza Pisa, Livorno stramerda, c’è scritto sul muro. E quando sono stati qui i pisani?

Al fischio d’inizio del secondo tempo siamo tutti un gradino più giù. Guardo le fasi di gioco dagli scacchi della prigione. E va bene che tutta questa scomodità, a ben pensarci, ci piace da morire… ma se qui ci si volesse soffermare sul rapporto qualità/prezzo, staremmo freschi a fare l’alba a forza di rimostranze. Ma non siamo gente che si lamenta. Segnamo l’1-2 su una punizione dal limite che il portiere non trattiene. E torniamo a crederci. Gli osservatori casuali che giocano sulle fasce la loro partita silente, si riconquistano all’incitamento. Poi tornano a spegnersi, a rumoreggiare finanche, quando il Lanciano fa il 3-1 e sembra chiudere la partita. È avvincente questo limbo, questo livello multiplo, questo susseguirsi di membrane: sul tavolo da gioco ci sono almeno tre differenti puntate: c’è quella propriamente detta, quella del match, della gara valevole per il campionato di Prima Divisione; c’è quella degli spettatori umorali, che s’arrovellano e si inacidiscono, s’esaltano e si deprimono in diretta conseguenza di quanto avviene sul rettangolo verde; e poi ci siamo noi, c’è la nostra puntata, che quasi sempre è vincente: non è casuale questo coro altissimo con un parziale devastante. È una conseguenza dell’approccio. Noi continuiamo a cantare, dal centro della gradinata un gruppo di ragazzini ci indica e ci saluta con l’ombrello. Si va avanti, e quando Salgado mette dentro un diagonale che vedo finanche partire, cominciamo pure a crederci. Ed è bellissimo, un’attesa degna dell’Avvento, una vigilia lunga che sa di boato in avvicinamento, che prepara alla grande felicità della rincorsa conclusa. Nessuno è più fermo al suo posto, ognuno si sente in diritto di camminare – da parte a parte del settore – con un’agitazione degna di un neo-padre fuori dalla sala parto. Argento vivo, impazienza. Si salta, si canta, si danza. Si inganna l’attesa dell’inevitabile. Che pare palesarsi quando Del Core giunge a tu per tu col portiere avversario. Uno sguardo al pallone, uno all’estremo difensore, uno al pallone, uno all’angolino. Al centro, Salgado tutto solo attende l’assist per il pareggio facile facile. Sono pronto a saltare. Ma Del Core zappa sotto la sfera un cucchiaio che non vuol saperne di alzarsi. Sembra ci sia ancora un’eternità da giocare, e la onoreremo. Ma non riusciamo a capire perché, se ti chiami Del Core e giochi in terza serie, trovi così sconveniente la botta ignorante all’angolo opposto. Perché te ne senti sminuito. Dopo l’occasionissima, i nostri ne fabbricano altre due. Ma la difesa alta per necessità mette i brividi. Se il pallone si infila tra le linee, e non si alza la bandierina, c’è l’uomo solo davanti a Bremec. Succede, e il catalano è costretto al fallo di mani fuori area. Espulso. Entra un tale Milan, che esordisce con un’uscita raggelante quanto inutile. E poi prende il quarto al 90’.

Ed avviene quel che doveva avvenire; quel che, sottotraccia, è avvenuto per novanta minuti. La scissione delle due curve: quella che ci crede a prescindere, che lotta e che fa il suo dovere, e quella che incrocia per impalpabile tangente. Una, due volte all’anno. I fianchi escono, esasperati dal gioco di una squadra che sarà la terza volta che vedono all’opera: fischi, borbottii, esplosioni di rabbia. Tutti in fila verso l’unica uscita, pronti a far morire sulle labbra l’ennesimo Mai più. E si che da Lanciano, per tornare a casa, ci vuole quasi un’ora e mezza. Dal centro li guardiamo divertiti, con lo sguardo appena appena appesantito di pena. Sono spaventapasseri della foggianità, gente incapace di partecipare, di soffrire, di perdere con stile e dignità. Caramanno, il Mister, diceva che il tifoso si guadagna il diritto a contestare la squadra sostenendola fino al 95’. E qui mancano ancora i 5 di recupero. Stavolta il coro è tutto per loro: dal centro ai lati: Il Foggia siamo noi, chi cazzo siete voi. Legittimo, doveroso, giunto a puntino. Alleggerita la zavorra, ci concentriamo sul rettangolo verde, dove i nostri non lottano più. A Foggia non ci tornate, suona vagamente minacciosa; Senza la maglia, giocate senza la maglia, invece, risulta forzato. Ma ci sta, filosoficamente parlando. Milan, il mio nuovo idolo, prende il quinto in maniera ridicola. Non c’è più tempo per alzare inni di gioia e ringraziamento. Sentiamo gli altri esultare.

02/12/08

Cosa cazzo mi fischi?

di Lobanowki 1

Da quando sei in C non ti seguono più,
ma chi ti ama davvero è sempre con te
Forza Foggia alé, non ci posso far niente,
il mio cuore lo sai, batte solo per te

(coro della Sud)

Chiariamoci, la differenza che corre tra una vittoria e un pareggio nell’umoralità innata del tifoso si misura in chilometri, lo so bene. Però, cazzo, un minimo di equilibrio nei giudizi uno lo pretende. Del Core ieri l’avrebbero impallinato in tanti, nella Sud. Perché mai, non lo so. Per colpa delle voci che girano, che dicono che a Foggia ci sta contro voglia? Eppure è uno che lotta, si danna. Poi una cosa può riuscire bene o male, ma il giudizio dovrebbe essere tecnico, su come si muove in campo la domenica, non sul gossip feriale. Poi capita che Pecchia fa un lancio al cielo, una palla che chiunque ha già battezzato come inutile, e ti ritrovi Del Core che fa a sportellate con un difensore in area, che ci crede, che fa un aggancio mica facile, che salta l’uomo, tira ma prende il palo, e da lì nasce il gol del vantaggio del Foggia. E tutti a dire: che bravo Del Core. Eppure qualche decina di minuti prima era svettato in aria colpendo bene di testa, che solo con l’istinto c’è arrivato il portiere della Paganese. Mica se l’era guardata la partita.

Abbiamo giocato maluccio ma abbiamo vinto. Qualcuna rubacchiata con rigori un po’ così. Questa è stata la trama delle partite allo “Zaccheria” del Foggia, Arezzo esclusa, dove la prova d’orgoglio ha sopperito ad una certa improvvisazione tattica. Lì tutti ad applaudire a fine gara. Anche se non mancavano i mugugni: si gioca male, si tira poco in porta, dicevano i più. Ieri il Foggia ha giocato la sua migliore partita, creando tante palle gol nitide quante ne ha avute in tutte le partite fino ad oggi giocate. La palla viaggiava veloce, nel primo tempo, in linea verticale e orizzontale. La difesa era sicura. Certo, ogni tanto partiva il solito lancio lungo dalle retrovie in cerca di fortuna, ma contro un undici che si chiudeva in dieci dietro il centrocampo ci può stare. Nella ripresa abbiamo lasciato un po’ troppo campo, ma pericoli non ne sono arrivati. Se Tisci non s’inventava un gran gol, sarebbe morta lì la partita, con il Foggia a ripartire veloce in contropiede e quelli a sbattere contro il muro eretto da Lisuzzo e Rinaldi. E se Salgado si mangia un gol incredibile davanti al portiere allo scadere, non resta che inveire al cielo.

Ma poi ascolti qualche trasmissione in tv, ti ritrovi qualche crocchio di esperti davanti all’edicola il lunedì, e scopri che la colpa è di Novelli. Ok, ci sto: io uno come Del Core in campo l’avrei lasciato, perché è bravo a difendere palla, a far salire la squadra. Ma io me li ricordo quegli stessi tifosi invocare Germinale titolare dopo Taranto, a danno di Del Core. Magari sono sempre loro che ieri hanno fischiato l’attaccante barese all’uscita dal campo. Ed ora rigirano la frittata. E che diamine, un minimo di coerenza. Ma poi, com’era quella storia che ai foggiani piace il bel calcio, che dopo Zeman nulla è stato più come prima, che va bene vincere ma vogliamo divertirci? E cosa cazzo mi fischi la squadra dopo una partita così, dove Pantanelli ha fatto miracoli sulla linea di porta e Salgado ha litigato col pallone?. La Sud per tutta risposta (parte della Sud), ha fatto partire un coro d’incitamento. Alla squadra, alla maglia. Che prescinde da tecnici, giocatori, eurogol domenicali. E dagli stipendi pagati. A quanto pare fermi ad agosto. Hai voglia noi a farci la bocca sulle sfortune del Pescara.

30/11/08

Bloody sunday

di Lobanowski 2

Domenica 30 novembre, Foggia-Paganese 1-1

Il doppio prefiltraggio è disabitato. Nella No man’s land un poliziotto dagli occhi celesti ci guarda, come chi sta per parlare. Della bella giornata, della crisi dei mutui, della social card. Qualsiasi cosa, pur di uscire dal tedio del nulla. Giro la testa dall’altra parte e tiro dritto, verso l’ingresso vero e proprio. Non c’è coda, non c’è ressa, non c’è nessuno. È ancora garbatamente presto, manca più di un’ora all’inizio della partita, e non è previsto il pienone. Noi abbiamo lo stendardo da piazzare in alto, e vogliamo farlo con la massima calma. Entro. Dietro di me, entra Lello. Poi Nicola. Giuseppe, col suo abbonamento omaggio di Tribuna Est, quello regalato a Ceska ad inizio campionato e tramutatosi poi nel Biglietto del Popolo, è bloccato da uno steward. Sono già nella piazzola, e mentre con la testa all’indietro cerco di carpire frammenti della discussione, sento la voce di un poliziotto. Puoi aprire la bandiera? Oddio, penso, non me l’aspettavo. Poliziotti nella Sud? Mi toccherà spiegare del leone anche a Foggia? Srotolo, timoroso. E fulmineo, pronosticato, mi giunge l’ormai classico: Che cos’è? Vorrei dire che non è niente, che non lo so, che è la bandiera che Jordan ha fatto per sé e mi ha mollato a Foligno, che mi ci sono affezionato come a un orfano e che, da allora, me la porto appresso col solo gusto marcio di rispondere a gente come lui che non è niente, che non lo so. Mi limito: è un leone, dico. Quello – lo vedo! Lo intuisco! – sta per chiedermi quale significato abbia, ma all’ultimo momento sterza sul silenzio e muove la manina come a dire: vai, va. Ma io non vado, c’è l’affaire Giuseppe da risolvere. Gli altri mi dicono che non ce l’ha fatta, come di solito si annuncia che un parente non si è risvegliato dall’anestesia totale. Occazzo! Adesso bisogna aspettare Daniele, che per l’occasione ha deciso di pranzare dalla nonna. Un domenicale pranzo foggiano. Abbiamo di che disperarci.

All’improvviso un addetto alle porte annuncia che “è offline!”. Parla del tester, del marchingegno mefistofelico per leggere il codice a barre degli abbonamenti. Via libera. È lo stesso steward ad annunciarlo al povero Giuseppe, che fuori a braccia conserte sembra una parodia di Incompreso. Appena dentro, una divisa blu lo blocca. Sotto braccio porta lo stendardo. In due si prodigano per aprirlo. L’omino lo legge. Pronuncia Naffing per Nothing. I nostri pregiudizi sulle forze dell’ordine sono sempre più logori. Prova a tradurre, quasi ci riesce. Lo capiranno?, ci chiede. Chi se ne frega, rispondiamo. In buona sostanza. Scorta di quattro Borghetti da nascondere e, se possibile, da non lanciare in campo. Lo stendardo, accompagnato dal vento, si innalza al cielo. Rafforzato col nastro isolante, si gonfia come una vela. Tanto che le lettere sembrano dritte. Di fronte a noi si compone il settore ospiti. I paganesi, dice la fanzine della Sud, non sono molto numerosi e ce l’hanno coi nocerini. Sottigliezze filosofiche incomprensibili ad un foggiano: per noi sono tutti napoletani. Tutt’al più, salernitani. Ma la geografia delle rivalità incrociate nell’hinterland partenopeo, è materiale per veri esperti. Alla fine sono almeno duecento, con molti stendardi e diverse pezze appese. Mi piacciono, non posso dire di no. Alle 14:20 mi guardo attorno e, con sommo stupore, m’accorgo che neppure la Sud è piena. È in questi momenti che si pesano i dieci anni di C, come chicchi ad un mercato di granaglie. Ripenso al padre di famiglia con le paste. Non ho l’estremismo dei vent’anni, quando se non eri come me eri un mio nemico. Dieci (e passa) anni dopo posso dire che comprendo, che capisco. Non che condivida, quello poi no. Ma ognuno corre dietro ai suoi sogni di serenità. E se il mio passa dallo “Zaccheria”, e non ci posso far niente, non posso biasimare tutti gli altri. Che non saranno mica sordi, se non sentono la chiamata.

Squadre in campo, mani in alto. Le bandiere del Regime sono sparpagliate, stavolta. Approvo la strategia: bisogna coinvolgere gli angoli morti della curva, che sono tanti. Bisogna dare una lezione di stile a quelli che continuano a chiedere d’abbassare le bandiere per godersi lo spettacolo della Lega Pro. I risultati sono confortanti. I cori sono buoni, un paio molto alti, coadiuvati dal Foggia che preme, che spinge, che costringe gli avversari a rifugiarsi in corner per tre o quattro volte. La Paganese, in maglia blu che sembra il Como, subisce senza reagire. Ma la linea difensiva sembra possente e, soprattutto, temprata alla lotta. Gli interventi sui nostri risultano decisi, ripetuti. Salgado e Del Core sono braccati come animali di grossa taglia. Lello esalta D’Amico, Angelo condivide. Giuseppe sparisce. Epistassi. Nel cuore della curva Sud. Una gran rottura di coglioni, lo si diceva a monte della diagnosi. Il Foggia preme, ma su un rovesciamento di fronte rischia di cadere: un attaccante in blu sforbicia su cross lungo dalla sinistra. Palo pieno, spavento e incredulità. Un ragazzo ci raggiunge dalle profondità della balaustra. Mi si avvicina. E, a freddo, mi pone la domanda che non m’aspettavo. Non ora, non qui: Che significa la bandiera? No, santo cielo! Ancora! Jordan è in alto, al margine della ringhiera. Lo guardo implorante. Continuo a dare spiegazioni sulla creatività altrui. È il leone che sta sui dischi di Bob Marley, rispondo. Quello annuisce, come dinanzi ad una conferma ai suoi sospetti: Ah, comunista? Ecco: questa è inedita. Bob Marley no, io si, rispondo. Sarò stato chiaro? Palo, respinta, gol. Il Foggia ha segnato, il ragazzo esulta, noi tutti esultiamo. Poi mi saluta: Siamo sempre i più forti, dice. E torna verso la balaustra.

Nell’intervallo scacciamo le riserve della Paganese che hanno l’ardire di giocherellare sotto la curva. Quelli s’incazzano. Uno striscione dice che siamo tutti orgogliosi di Vladimir Luxuria. Onestamente, non so. Bisognerebbe evitare che questa logica da strapaese prevalga: Luxuria, a Foggia e per i foggiani, era un semplice ricchione, quando non era nessuno. L’applauso convulso ed emozionato per le sue imprese sull’Isola, oggi, mi sembra tanto – troppo – la replica del servilismo già provato quando era deputata. Sarebbe bello chiarire che l’orgoglio per i concittadini che ce la fanno non va confuso con l’ossequio per il potente di turno. Etero, gay o transgender che sia. Ma il tema è troppo vasto da sviluppare in dieci minuti. In campo le squadre hanno ripreso a darsele. O, meglio, sono i difensori della Paganese a darle. E noi a prendere appunti. Falliamo diversi contropiede propizi. Non tiriamo mai in porta, risultiamo tentennanti e leziosi. In Sud, cantare ha lo stesso effetto di defibrillare un moribondo. L’entusiasmo si spegne, l’assopimento prende il sopravvento. C’è sempre chi fa andare le ugole, ma in pochi, sempre troppo pochi. La Paganese prende metri. Guadagna un angolo, che il laterale batte arretrato, per la botta al volo da fuori. A lato. Angelo ricorda Brehme e Matthaus e versa una lacrima per il calcio d’un tempo.
Ne parlavamo in settimana, a margine di un incontro sulla scuola tenutosi alla Casa della Sinistra. Piero Bernocchi, il leader nazionale dei Cobas, non senza nostalgia, stava relazionando sul Sessantotto, sulla carica intimamente rivoluzionaria di quel movimento. Quei giovani non chiedevano di prendere il potere al posto delle vecchie cariatidi, spiegava, ma andavano oltre, mettendo in discussione l’origine stessa dei poteri costituiti. A questo punto, nell’oratoria del cattivo maestro, è apparso Paolo Sollier, il calciatore operaio del Perugia d’un tempo, fautore di un movimento di calciatori che chiedeva di estromettere l’allenatore, di farne a meno, non riconoscendone più il ruolo. Erano i tempi dei mister che non venivano dai campi di gioco, che il calcio l’avevano studiato solo sugli impolverati manuali. Sollier e i suoi volevano esautorarne la figura e l’essenza, fare della squadra un collettivo autogestito. I compagni e le compagne poco avvezzi alle cose di stadio, annuivano. In parte divertiti dall’aneddoto, in parte celando il consueto snobismo che s’appalesa quando si parla di certe cose. Dietro di me, la voce di Gianni. Mormorata appena, nella serietà del momento. “Io non sono d’accordo”. Lapidaria, d’impeto. A mezza bocca. Lello, che mi stava seduto accanto, e Mattia, dall’angolo, hanno condiviso l’analisi. “Neanche io”. Ecco, ci siamo detti. Il calcio non è altro che lenta e sublime ricapitolazione di sé stesso. E così dev’essere: ogni singola innovazione è un danno (gli shot-out, puah!). Figuriamoci la rivoluzione…

Una botta da fuori a quindici minuti dal termine ha spento i nostri entusiasmi. I paganesi sono rimasti dentro, a cantare Noi siamo gli ultras di Pagani, mentre i riflettori si spegnevano e la curva si svuotava. Una ferita sulla mano destra, che non so come mi sia procurato. Epistassi, ho pensato. Ma era un falso allarme.

24/11/08

Il tempo di Taranto...

di Lobanowski 3

Uno dei miei incubi più ricorrenti è il tempo che passa. Non ho paura di invecchiare, è più forte quella di perdere i capelli. L'orologio che cammina mentre tu sei bloccato e vedi l'evento sfuggirti di mano è una cosa spaventosa. Da claustrofobia. Capita di essere ad un tavolo di amici che mangiano e bevono. E tu pure. Mentre l'orologio fa le due e lo stadio è lontano. Mi sembravo catapultato in un'altra dimensione alle 2.20, mentre cercavamo parcheggio, un miracolato, quando con l'affanno accendo il telefono della radiocronaca e vedo sbucare le squadre dagli spoglatoi. Taranto è brutta, mi mette tristezza. Tanti palazzi enormi, rovine del mercato del lunedì, fumo in cielo, pioggerellina. E' lo sfondo ad uno stadio vuoto, ci sono solo una cinquantina di "invitati" che rumoreggiano e ti guardano in cagnesco. Molto in cagnesco. Ho la voce bassa per l'affanno e perchè se no sentono fuori. Al primo tiro alto di Salgado, uno si gira e mi guarda storto. Il Foggia gira, riconosco volti noti in tribuna. I nostri. Una macchina corre lungo il viale e calamita la mia attenzione tra la gradinata e il settore ospiti. Segna Dionigi, si girano e mostrano il pugno. Io so che il Foggia non perderà perchè sta giocando bene. Molto bene. Nell'intervallo uno si avvicina, mi parla di come sono messi a Taranto. Mi accenna alla loro situazione, poi mi dice che si ricorda del Foggia di Zeman. Tronco di netto, con una stretta di mano e un "ci vediamo dopo". Eccheccazzo, penso, mentre riazzero il cronometro. Piove, la voce è al volume solito. Ho rotto il ghiaccio, non ho paura. E infatti urlo al gol di Germinale. E' incredibile. In tribuna ci sono foggiani (dirigenti, amici giornalisti e accreditati vari) che esplodono bebccando le ingiurie dei tarantini. Uno, il solito, un grande, si gira verso un supporter locale (ma non era a porte chiuse?) e fa a muso duro incazzato: "Che cosa vuoi?..che non posso esultare". Quello tace. Ha ragione Loba2. Cresciamo, non siamo chiachelli, la mentalità cresce. Zanetti becca il rosso, penso che possiamo vincere. Poi il boato al gol di Dionigi. Un bimbo impalla la telecamera dicendo "Forza Taranto". Quando mio padre ha rivisto la partita la sera, è venuto nella mia stanza e mi ha dato indicazioni precise su come fare in questi casi. Dico solo che l'epilogo della sua strategia coincide con una violenta pedata nei reni. Non ci credo più. Poi Colombaretti batte lungo una rimessa, uno spizza, un altro va di testa. Sensazione unica, capire che andrà dentro. Perchè il portiere non si muove. Annuncio il gol con una frazione d'anticipo. E' un attimo. Pensi alla gioia che stai regalando a chi ti ascolta. E poi capisci che devi dire pure chi ha segnato. E' una parola. Lo azzecco, mentre ci sono mani nei capelli ovunque. E qualcuno se ne va. Sentaiolismo diffuso in sala stampa. E come è bello sorridere ed essere felici mentre tutti rosicano. A Taranto, poi. Bello pure il viaggio corto, tifosi che ti contattano su facebook e ti "commentano il commento". Bello pure il pari di Rosina, il cuore Toro. Bello esserci stato.

Il nostro Erasmo

di Lobanowski 2

Antefatto: Taranto, sabato 22 novembre

La notte disegna i piani alti della periferia urbana.
Una periferia implicita, compresa nel prezzo, programmata per combaciare con l’idea che noi abbiamo plasmato sul luogo comune, che non sapremmo dire così, su due piedi, quando è cominciata. O perché. Quel che conosciamo sul serio di questo luogo – che sa di cemento e asfalto – è tutto fuori dal finestrino: un susseguirsi ossequioso di rettilinei e vasti incroci, di segnaletica fitta e rondò da costeggiare. Fino a perdersi. Fino all’inversione di marcia. La nostra guida locale si muove con disinvoltura, lo sterzo ondeggia senza scossoni dell’ultimora, senza vibrazioni di ripiego, da strada sbagliata. Dietro, le due auto dei nostri non sembrano arrancare. Poca gente in giro a quest’ora. Si fila via lisci tra blocchi di caseggiati anonimi, alti dieci e più piani, coi balconi stretti come alveari e le parabole che spuntano tra i fili dei panni ad asciugare. Si svolta a sinistra, lasciando l’offuscata luna dall’altra parte dell’abitacolo. Il freddo secco accompagna l’attrito dei pneumatici sulla carreggiata. Ancora alveari, dritto per dritto. Nessun albero particolarmente vivace. Una svolta a destra, una a sinistra. Un clacson fende l’aria col suo suono acuto. Non mi volto nemmeno, so che è Giuseppe. È così che ci comunica che siamo arrivati. Che ci siamo. Ore 00:50. La voce inudibile di un invisibile cicerone: Signore e signori, sulla vostra destra potete ammirare lo stadio “Erasmo Jacovone” di Taranto. Altro colpo di clacson. Alto, sembra anche più dello “Zaccheria”, incapsulato in una specie di guscio, di chiglia da crostaceo, da animale dei fondali. O, piuttosto, da mezzo anfibio dell’arsenale militare. Un torpediniere incagliato nel cuore del gelo suburbano. E cuore a sua volta, pulsante. Vediamo per prima la Sud, il settore ospiti lassù in alto. Sfiliamo in carovana sotto la tribuna, che non è rigidamente separata dal resto del molosso, come di solito avviene negli stadi non circolari. Qui a Taranto è la gradinata a vivere questo sospeso privilegio dell’isolamento simulato. Un pensiero fugace: basterebbe un attimo, un minimo di attenzione e di sangue freddo per lasciare una scritta sul muro. Nera su bianco: 23 novembre 2008: Assenti presenti. E già. Perché oggi c’è il derby, ma lo “Jacovone” è chiuso, proibito, vietato. Non è a norma, dicono. Di sicuro, noi non ci saremmo entrati lo stesso: Taranto non è Foligno, qui il divieto di trasferta sarebbe scattato senza nemmeno darci il tempo di fiatare proteste. Ma sapere che neppure i tarantini potranno valicare le soglie della recinzione in costruzione, crea un certo pathos estraniante. L’idea della scritta è sciocca e vola via senza darci pena. Solo, vorremmo comunicare, eternare/esternare questo momento. Dire ai cugini che ci siamo – oggi e qui – e che sarebbe stato bello poter esserci con tutti i crismi. Le macchine svoltano a destra, passiamo sotto la Nord con le inferriate rossoblu. “Quella è la statua del nostro Erasmo”, dice la guida. Io non ho visto niente, mi giro di scatto. Lello fa lo stesso. Vedo una sagoma nero-bronzea. Un basamento. Poco di più. Lo sguardo inquadra una cittadella in lontananza. La curiosità si fa domanda. Cos’è? Niente, fa quello, altre case della Salinella. Case, a grappoli, alte come castelli medioevali, fitte come reti da pesca. Di finestre, finestrelle, squarci. Come brecce. E scarse luci. Una sola, forse, ad illuminare di giallo l’effetto d’insieme – che sa di fortezza – come certi monumenti. Imponente e tetro. Case-caserme, come ce ne sono in ogni periferia, costruite senza la minima concezione di vivibilità. Senza il cruccio di renderle abitabili. Degne, degnissime case di quel proletariato che qui è operaio più che altrove. Più che a Genova. Una rampa, la bocciofila, nessun chiosco. L’idea del plusvalore. La notte e l’asfalto, lo stadio dietro al torcicollo, in dissolvenza. Viale Magna Grecia, la Con-cattedrale di Giò Ponti. Un veliero, dovrebbe essere. Ma le intenzioni non vanno quasi mai d’accordo con le applicazioni. I saluti e gli arrivederci, le strade che tornano a dividersi. Dobbiamo seguire le indicazioni per Bari che troveremo di lì a poco, ci dice l’amico. E in men che non si dica siamo fuori da Taranto. Più che altro, è Taranto a finire fuori dai finestrini. Ad evaporare, quasi. Senza darsi la pena di avvisare.

Domenica 23 novembre, Taranto-Foggia 2-2

La frase Ognuno porti qualcosa applicata al campo mistico del pranzo nasconde sempre delle insidie. È una specie di ascia bipenne. Può risultare vincente, o trasformarsi in un clamoroso fallimento. Dipende dal grado di organizzazione che la sottende. E dalla pressione sociale che accompagna il grado di organizzazione. All’ora di pranzo lo stomaco è quello di un cavallo al galoppo sulla steppa. Ho tre appuntamenti da rispettare. Potrebbe essere un buon segno. Francesco Il filosofo è sotto casa alle 13. Ha una vistosa busta in mano, una busta che senz’altro nasconde una pirofila. Bene. Da Ceska non c’è sorpresa: contavamo sulla parmigiana, e parmigiana è stata. A casa di Gianni, invece, nel cuore di Borgo Croci, ritiriamo Tonino. E una teglia di pasta al forno. Non rimarremo a digiuno, nonostante il numero. Sentiamo molto la partita. Lo dimostrano il numero di cuochi. E la quantità dei piatti. Sulla serranda di destra, quella più larga, lasciata lì dai tempi del comodato d’uso e perennemente inutilizzata, si appende lo stendardo. Nothing else matters. Dentro c’è il pubblico delle grandi occasioni. Il tavolo rosso è aperto sulla parete di fondo, a mo’ di buffet. Giocolieri smistano piatti di plastica come neanche Pecchia a centrocampo. Il filosofo si occupa del vino. Pizza di patate, doppia pasta al forno, salsicce. E i peperoni ripieni di Isabella. Sentiamo molto la partita. ContoTv ha cominciato la diretta dallo “Jacovone” già da un’ora. Flora Baldi, che sta molto meglio senza quei quintali di trucco da tg delle 20:30, intervista l’allenatore del Taranto. Noi cominciamo a mangiare. Altri amici ci raggiungono, quelli che hanno pranzato. La strada, a parte noi, è silenziosa. Domenicale. Scarpetta nel sugo delle melanzane. Prima Diana della giornata, accesa con una certa malcelata paura. Ieri sera, a Taranto, abbiamo respirato la stessa aria che per i neonati corrisponde a 90 sigarette. Un pensiero ai sicari legali, autorizzati, assistiti e osannati per lo spirito d’intrapresa. Uno sguardo all’orologio, uno alla tv. Ancora interviste del prepartita: ma che cazzo ci sarà da dire? Di sicuro qualcuno che affermi che i derby sono partite a parte lo si trova. Lo stadio vuoto mette tristezza. Il calcio non è attività scindibile dal contorno. Anzi, è il contorno che fa l’attività. La macchinetta del caffè è ferma per austerity da un po’ di mesi. Si passa al Borghetti per stagflazione. E così, col bicchierino in mano, le squadre entrano in campo. Gianni arriva con addosso ancora gli abiti della fatica: sembra quello della pubblicità della Nutella, quello che fa da mangiare agli azzurri, ai campioni del mondo. La fiducia è illimitata. I talecronisti sono pessimi: spenti, senza voglia di fare, senza capacità di coinvolgere. Proviamo a sostituirli con la voce di Di Donna dalla radio, ma arriva con qualche secondo d’anticipo rispetto alle immagini, che rimbalzano sui satelliti lunari. Ed allora niente. Ci teniamo questi due. In campo sembra la giornata buona, anche se continuiamo ad usare una sola fascia. Giungiamo al tiro più spesso. S’alzano cori etilici. In tribuna ci sono gli accreditati. Da noi, i diffidati si alzano per andare a firmare. Troianello ubriaca in dribbling l’ultimo difensore, ma il portiere alza il suo tiro sul primo palo. Sembra la giornata buona per la tanto attesa vittoria esterna. Ma un cross basso, al minuto 45, rompe l’incantesimo. Il Taranto passa. Giuseppe, da portiere, si scaglia sull’amato Bremec: in area piccola è buona creanza uscire. Ma tant’è. Perdiamo 1-0. Altro giro al bar, altre sigarette apprensive. Nella ripresa il Taranto rischia seriamente di chiudere la partita, ma non ce la fa. Ma continuiamo a crederci. Angelo pronostica un 3-1 per noi, mentre il resto della stanza macarena E se Mattia sta zitto, E se Mattia sta zitto, il Foggia pareggia. Entra Germinale. Mattia pronostica che non si capirà più un cazzo. Germinale segna. È il pareggio tanto atteso. Adesso bisogna infrangere il tabù. I diffidati vanno a firmare di nuovo. Vitaccia. Qualcuno ci spieghi come avrebbero potuto raggiungere Taranto in meno di un’ora. Misteri della burocrazia. Rimaniamo in dieci per un fallo inesistente. Non ci voleva. Piotrek distribuisce caffè e paste del Cocozza. Al minuto 84 il Taranto passa. Un cross senza pretese, un uomo solo sul vertice destro dell’area piccola. Sembra finita. Gli accreditati sugli spalti accompagnano con gli Olé i passaggi dei tarantini. In dieci contro undici e sotto di un gol. Con il solo recupero da giocare. Cinque minuti. Che diventano in fretta un mesto conto alla rovescia: 4,3,2,1. Non succede niente, se non che guadagnamo rimesse laterali sempre più profonde. Come nel rugby. Era una partita da vincere e la stiamo perdendo. La rimessa al minuto 95 è lunga, va dritta in area. Qualcuno in maglia bianca spizza all’indietro, Germinale colpisce di testa e la palla s’alza in una parabola carica di speranze. Investita da una strana forza inversa, man mano che la palla s’abbassa, la stanza si alza, con le mani in alto in attesa del segno del destino. Che arriva. Ed il boato che ne consegue diventa secondo. Secondo solo a quello seguito al gol di Grosso ai crucchi. È il pari, è una goduria. Vissuta mediaticamente, ma comunque vissuta. Al meglio. Certo, esserci sarebbe stata un’altra cosa. Ma dobbiamo accontentarci. Per problemi strutturali.

Appendice: il barista

Il barista del Cocozza giunge poco dopo: Peccato per la sconfitta, esordisce. Quale sconfitta?, facciamo noi. Il Foggia, ribatte secco, abbiamo perso 2-1, no? No, abbiamo pareggiato. Il barista è foggiano e il foggiano è sospettoso, di natura. Non si abbandona alla gioia, non la esterna, per paura che altri foggiani siano lì pronti a ridere di lui. Della sua ingenuità, della sua scoordinata felicità d’occasione. Al barista viene da sorridere, ma vuole conferma, sospetta il complotto ai suoi danni. Una specie di crudele contrappasso alla nostra delusione, un gioco cinico. Chiede fuori, s’affaccia e chiede dentro, interpella dalle quindici alle venti persone. Ma si ostina a non abbandonarsi al tripudio. Allora Vincenzo taglia la testa al toro: “Facciamo così – gli fa – se il Foggia ha pareggiato, ci offri un pasticcino a testa”. Quello si guarda attorno, mentalmente ci conta. Poi si volta. E fugge via. Felice. Vincenzo non può che commentare: “Mi è scappato sul pasticcino”.

17/11/08

Il rigore e la grata

di Lobanowski 2

Domenica 16 novembre, Foggia-Benevento 1-1

La voce di Antonio Di Donna a Domenica Sport: “C’è uno striscione nuovo in Curva Sud, che magari può anche racchiudere il senso dello sport di qualcuno: Nothing else matters. Significa: Non importa nient’altro”. Lino Zingarelli, dallo studio, incalza: “Se possiamo inquadrarlo, Antonio”. E la telecamera punta in direzione della Sud, e stringe progressivamente verso lo stendardo. Dove l’avete messo?, chiedono Antonio e Giuseppe, rispettivamente da Bologna e da Firenze (dove non si prende Teleradioerre). Sulla grata in alto, rispondo. E al primo, che è un po’ che manca dallo “Zaccheria”, devo anche spiegare di cosa si tratta. Un’innovazione tecnica, una specie di cancellata alta sue metri e mezzo frutto della Sicurezza-mania degli ultimi mesi, installata lungo il quindicesimo gradone della parte superiore della curva (che, di conseguenza, risulta più stretta e sottile). A cosa serva è fittissimo mistero. Siamo al delirio, è il commento su Messenger. Certo che si. Quel che conta sul serio è che faccia freddo, finalmente. Non se ne poteva più di vivere in un luogo comune meridionale. Novembre fa il suo dovere, per la prima volta nella stagione. Freddo penetrante e terreno bagnato, pesante, verde cupo. Di fronte ci sono cinque-seicento beneventani. Un tempo c’era gemellaggio, ora il rapporto è declassato a semplice amicizia occasionale. Le squadre hanno finito la rifinitura e sono negli spogliatoi. Lo spicchio di Nord dove campeggiano i tre striscioni campani si muove in un ritmato battimano: Noi siamo Beneventani. La Sud, in silenzio fino a quel momento, si anima. Anche qui le mani vanno verso l’alto. Noi non siamo Napoletani. E battono all’unisono. A stabilire certe distanze che, sottovalutate, possono generare pericolosi equivoci.

All’ingresso delle formazioni sul terreno di gioco, il tifo è alto e possente. I campani rispondono, ma non c’è partita. È questione di numeri, più che altro. Dopo meno di 2 minuti, i giallorossi passano. C’è un cross, uno svarione della difesa, una mancata uscita di Bremec e un paio di giocatori avversari si dedicano a stabilire chi tra loro debba insaccare. Ho tutto il tempo, prima che la palla gonfi la rete, di staccare lo sguardo dal campo e fissare il settore ospiti. Saprò dal loro boato, che ritengo inevitabile, se i due gemelli Derrik hanno messo dentro la palla dell’uno a zero. Faccio sempre così. È una delle mie deformazioni da curva. Il silenzio ottuso sibila e annuncia l’esplosione di una parte. Hanno segnato. Un pensiero orrendo prende forma dentro di me. Mi giro istintivamente a controllare la pezza in alto. Immaginavo uno sfogo iconoclasta che, fortunatamente, non c’è stato. Non ancora. Ma la pezza non può esordire in casa – dopo sei vittorie consecutive – con la prima sconfitta stagionale. Sarebbe una sciagura. Siamo pur sempre nel balordo Sud della superstizione e dei riti magico-pagani ammantati di cristianesimo cattolico. Alziamo le mani. Ricominciamo a sostenere la squadra. Il Benevento si chiude, che neanche la nostra Dinamo a calcetto. Ad un certo punto sono in dieci dietro la linea della palla. Non riusciamo ad impensierirli. La tensione cresce. I cori non scendono d’intensità, mentre – per assurdo – sono i beneventani a farsi sentire di meno. Il gol non li ha caricati, li ha svuotati con una scarica d’adrenalina. Capita. Pecchia distribuisce palle in orizzontale, ma nessuno sfonda sulle fasce e non si fa movimento. Salgado è boa e quando riceve palla se ne sbarazza alla precaria ricerca di una velocizzazione impossibile. Sbattiamo contro un muro. E non c’è verso di bucarli su calci piazzati e azioni morte. Il primo tempo risulta lungo e tetro. Finisce con un sospiro prolungato e tanto nervosismo. Un anno fa finiva la breve vita di Gabriele Sandri. In uno squallido autogrill. Per mano di chi sappiamo. Abbiamo detto tutto quanto c’era da dire. Ci siamo svuotati di fluidi vitali per sezionare la verità ed imporla ai venditori di fumo. In questi giorni abbiamo ingoiato l’assoluzione dei vertici della polizia per l’ignobile, vigliacco agguato squadrista alla scuola Diaz di Genova, nei giorni del G8. L’ennesima prova della fragilità della nostra democrazia, dell’incapacità di percepirla. L’ennesimo frangente di storia italiana in cui le forze dell’ordine finiscono vezzeggiate e rabbonite. Come se non fossero strumento. Come se dalla loro predisposizione golpista dipendesse il futuro delle deboli istituzioni repubblicane. La Sud ricorda Gabbo e la lungaggine sospetta della “giustizia” italica. I beneventani applaudono. È tanto quello che il movimento è riuscito a fare fino ad oggi. Portare agli occhi dell’opinione pubblica una ricostruzione efficace degli eventi. Paradossale quanto vero. In questo Paese per ottenere un barlume di giustizia c’è quasi sempre bisogno di imbastire possenti campagne militari; di richiedere riparazioni di guerra. E non è detto che basti.

Nella ripresa assistiamo ad una riproposizione del già visto. La curva cede, di schianto. Brutto segnale. Cantano i soliti, si sgolano quelli che li seguono. Ma la marea dell’inizio è già un ricordo da consegnare alla storia. Neppure i corner conquistati defibrillano il settore, mentre i beneventani aumentano progressivamente il loro supporto. Sono una bella curva, senz’altro, anche se io resto indeciso se premiare loro o i potentini visti all’esordio. Poi giunge il rigore. Inesistente, ce ne accorgiamo in presa diretta. Eppure fa brodo. Dal dischetto va Salgado. Spero spiazzi il portiere. Guardo avanti, poi dietro, poi in alto. Alla fine m’apro un varco e vedo la palla finire a destra mentre il loro estremo vola a sinistra. Uno a uno. La curva torna a livelli d’assoluta importanza, ma ormai non conta più. Era prima che doveva cantare. Adesso che un cross dalla destra in attesa della deviazione vincente per poco non la fa venir giù, adesso è troppo tardi. Finisce uno a uno. Lo striscione è salvo.

13/11/08

La magia del trasfertista

di Lobanowski 2

Domenica 9 novembre, Perugia-Foggia 1-1

Lo zaino sulla spalla destra. Contenuto: 1 rotolo di nastro isolante, una busta gialla, la pezza. Nothing else matters. I due pacchetti di wafer li ho lasciati in macchina, appena in tempo sull’incipit delle formazioni gracchiate dall’altoparlante. Guido mi chiede se voglio l’ultimo sorso di vino. Rispondo di no e prendo il biglietto dalla tasca posteriore del jeans. Non li vediamo mai, non li vediamo mai, i primi dieci minuti, i primi dieci minuti, non li vediamo mai. La bandiera etiope nella sinistra. Un equilibrista. Ce la farò, penso avviandomi verso lo schieramento di 12 poliziotti che blocca il primo ingresso al settore. Guardo le facce, mi dirigo verso uno dalle guance pienotte. “Vediamo”, mi fa, indicandomi la bandiera. “Non entra”, aggiunge, mezzo secondo dopo. Avrebbe detto lo stesso di una scatola di cioccolatini o dei cuscini ricamati di mia madre. Sbuffo, pronto ad ingaggiare l’ennesima schermaglia verbale su regole che entrambi sappiamo di ignorare. Riprendo la bandiera e mostro l’asta, esile, incapace di ferire anima viva. La controlla di persona, la gira ad un collega, poi al comandante, perso dietro i copricapi dei suoi sottoposti. “E lì dentro che c’è?”. Mi porto avanti lo zaino senza perdere di vista la bandiera. Quello, il capo, l’ha srotolata e già si macera nei dubbi. So che sta per chiedermi cosa rappresenta il leone. Intanto estraggo la pezza. “Non entra”, fa il poliziotto, che ha tutta l’aria di uno che non ha detto altro da stamattina. Secondo sbuffo d’impazienza, una voce mi lambisce il timpano destro: “Che significa questo leone?”. Ecco. Un leone è un leone, faccio per dire. Giuseppe agguanta la pezza e, con l’aiuto di qualcuno, la apre. Un poliziotto nuovo interviene: “Che significa?”. Entrare in uno stadio, al giorno d’oggi, richiede una conoscenza ed una consapevolezza che, in altri tempi, in tempi d’oscurantismo, non era neppure ipotizzata. Oggi non entri se non sai esattamente il significato di tutto. E pure se lo sai, non è detto che entri. È un sintomo della crescita culturale del paese. One step beyond. Verso l’uomo in divisa con la bandiera tra le mani: “Insomma, mi vuoi dire che significa?”. Niente, gli faccio, è un simbolo. “Si, ma simbolo di cosa?”. Di niente, replico. “È il leone dell’Agip”, dice una voce dietro le guardie. E solo allora mi accorgo di un tipo conciato come uno che annualmente va a Predappio a commemorare la Marcia salutando romanamente ogni stipite di porta. Scuoto la testa. “E se non ha significato, scusa, ma che l’hai fatto a fare?”. La risata del fascista alla battuta del novello Bramieri in alta uniforme è fragorosa e solitaria, il suo atteggiamento è servile da far venire i crampi alla bocca dello stomaco. Riprendo l’esile asta della mia bandiera e mi sento afferrare dal gomito. Il poliziotto di prima mi spintona verso l’esterno: “Ti ho detto che non può entrare, forza, vai fuori”. Sono costretto a spiegare a costui che i suoi metodi sono inurbani quanto improduttivi. Ma proprio nel bel mezzo di questo interessante dibattito, è ancora il nostalgico ad intervenire: “Oh! Oh!”, fa preoccupato, “Queste cose no. Non diamo problemi, ci stanno trattando fin troppo bene”. Il servilismo è allo zenit. E poi, quel concetto: Fin troppo bene? Che vuol dire che ci stanno trattando fin troppo bene? Guardo Giuseppe che torna verso il bagagliaio della macchina e lascia cadere dentro il nostro striscione. Di lì a poco è seguito da Antonio, del plotone bolognese, che molla il suo galeone. Anche quello, per via del decreto Maroni, non ha ottenuto il benestare. Il poliziotto mi dice che già è tanto se posso entrare il mio leone. Dovrei dirgli pure grazie, magari leccargli il culo come il fascista in mimetica, farmelo amico per la prossima volta in Umbria. Attitudine alla sudditanza d’un popolo che non concepisce altra forma di governo se non il paternalismo. Tiro avanti senza rispondere, incrocio Jordan. Lo hanno spedito indietro a mollare lo zaino. E quando è tornato, senza zaino, non l’hanno riconosciuto. E gli hanno ripetuto tutti gli esami daccapo. Persino il metal-detector. Sembrava Massimo Troisi con quello del fiorino. Uno steward basso e giallo mi ferma prima della spianata interna: “Biglietto, documento, tutto”, dice. Sto per mandarlo a fanculo quando torna in sé: “Dai, puoi andare”. Anche lui convinto che gli debba dei ringraziamenti? Probabile. Vediamo l’ossatura metallica del settore. Sentiamo i primi cori alzarsi al cielo. Ma di salire non se ne parla. Ci sono i tornelli, prima. Giuseppe mi chiede di fotografarlo nell’atto di obliterare il tagliando Ticket-One. Clic. Conserverà il prezioso cimelio con la cura che merita. Ne sono certo.

I seggiolini grondano pioggia stagnante, il freddo penetra nelle scarpe. Ci siamo tutti. Siamo tanti, almeno seicento. Ci sentiamo chiamare: Daniele, Francesca e Antonio S. sono in alto. Hanno passato un paio di giorni in agriturismo, attratti dalla colazione abbondante che è quasi un pranzo. Siamo venti persone. Facciamo blocco. Scaldiamo la voce. Il Foggia è in maglia bianca, il Perugia ha una strana divisa da fine Settanta. Sulla nostra destra, una bandiera spagnola col toro. Inguardabile. Qualcuno si chiede: E quella? Perché è entrata? Ma non vogliamo far nostra la linea vittimista. È entrata, buon per loro. Anche se fa schifo solo a guardarla. La Nord è in silenzio. C’è un lutto, a quanto pare. Due striscioni ricordano un ragazzo che se n’è andato. La polizia ha fatto uno “strappo alla regola” permettendo l’esposizione del ricordo di stoffa. Grazie. Noi, Noi… Vogliamo… Questa… Vittoria. Dietro di noi un simpaticone dice Littoria. Ci voltiamo. È il classico caso di emigrante rimasto fermo al Me ne frego del Novantacinque, al cliché della curva di sinistra vs curva di destra. Un coretto: Comunista pezzo di merda intonato da due soggetti in alto è applaudito ironicamente. Quelli smettono. Quel filone non ottiene più il successo dei bei tempi. Dei bei tempi in cui si inneggiava ai Bei Tempi. Questa curva non è ipotecata. È di chi ha fiato e voce per sostenere, dall’inizio alla fine. In macchina, sulla via del ritorno, rifletteremo: ha più stile oggi, dopo dieci anni di C, che quando era in A. Condivido. Fatto sta che cantiamo. All’inizio di gran lena, sfruttando le scariche adrenaliniche dei nordisti al seguito. Poi, quando loro calano, il tifo si fa più moderato. Il Foggia attacca sotto la nostra porta. Salgado è ancora lento e senza grandi idee, ma sulle fasce si crea movimento. Il centrocampo regge bene e rilancia. Il Perugia, specie a sinistra, è in difficoltà. Ci annullano un gol che ci lascia gioire per una frazione di secondo. Le prime file cantano, il Perugia attacca. Sfiora tre volte il vantaggio: due lisci sotto porta e una parata di Bremec, su calcio d’angolo. Alla fine del primo tempo siamo giù, dall’uomo (nero) del Borghetti. Sono tutti concordi: è la migliore prestazione fuori casa dall’inizio della stagione. Per la prima volta penso al colpaccio. Cosa significa ritornare coi tre punti in tasca, l’ho dimenticato. Tornati a galla, riusciamo a seguire l’azione che ci porta sotto. Un sombrero al limite dell’area, una palla regalata, la respinta del portiere, il colpo a porta vuota. Seguono dieci minuti di confusione. In campo sembriamo spenti, sul punto di cedere. Nel settore i cori sono flebili e si sovrappongono, vanno fuori sincro. Il tempo di riorganizzare il tutto. L’eurogol in mezza rovesciata di Del Core. Si gioisce, cazzo. Ma l’opera è incompiuta. Andiamo, andiamo, andiamo a vincere. Rieccoci. Rieccomi, faccia a faccia con questo coro. Alto, altissimo, che non puoi non unirti. Solenne, sacerdotale, come allo “Zini”. Solo che lì durò quindici minuti d’intervallo. E segnò il mio destino. Salgado spara alto a porta vuota. Non vinciamo, ma ci crediamo fino alla fine. Triplice fischio. Soddisfatti. Ingabbiati fino alle 17. Tu non sai cosa ho fatto quel giorno quando io la incontrai…

Fuori è ingorgo. La polizia, abile a setacciare, a scartare, a proibire, si dimostra incapace di gestire il mare di macchine, furgoncini, pullman che s’incolonnano – nel frastuono – al cancello principale. Un mezzo blocca, per metà, la via d’uscita. Incrociamo la macchina del gruppo Bologna. Volevamo consumare, con la calma dei giusti, il nostro pasto domenicale nel parcheggio. Bucolicamente. Ma non è possibile. Allora ripieghiamo. “Ci vediamo a Gualdo”, urliamo. Quelli annuiscono. Gualdo, dopo la sosta dell’andata, è casa nostra, ormai. Ci sentiamo protetti dalla sua dimensione. I commenti di Tutto il calcio minuto per minuto lungo i tornanti, a tramonto inoltrato. Perugia sul cucuzzolo, bella e accogliente come ai tempi delle Olimpiadi d’Atene, quando con Ceska vi trascorremmo giorni affascinanti. Dal buio la rocca di Gualdo. La strada la conosciamo. In piazza si può parcheggiare. Solito bar. Il freddo è pungente, novembrino (finalmente) e consiglia il giubbino. C’è un arco, proprio di fronte il municipio. Lo attraversiamo. Dall’altra parte una scalinata e una piazzetta. Dei ragazzi, fuori da una pizzeria, ci guardano stupiti. Un signore chiede se, per caso, il Milan ha giocato nelle vicinanze. Forse a Bastia, in Uefa, rispondiamo. La pasta al forno è spettacolare, da applausi a scena aperta. La birra scioglie i commenti. È magnifico non avere scadenze, fretta, urgenza. Il passaggio di qualche Venere locale, un Borghetti a salutare la serata. Alle 19:20 tutti abbracciano tutti. La magia del trasfertista. Alla prossima, ci si dice. Che può essere Lanciano, che può essere Terni o Bratislava. Chi può dirlo. Nell’abitacolo abitato parte il Gioco Stolto dedicato a Fiorello La Guardia, svago per senza meta senza alternativa: da questo momento controlleremo il contachilometri ogni mezz’ora e stabiliremo una tratta vincente. A San Benedetto salutiamo il sesto. Lecce-Milan su Radiouno, la serata sulle colline ai lati dell’autostrada. A Termoli tocchiamo i 63 chilometri percorsi in 30 minuti netti. Celebriamo il vincitore con un sentito applauso. Al casello rasentiamo la mezzanotte. Il tempo di mollare i bagagli e benedirci l’un l’altro. Alla prossima. Ed assistere al prodigio del counter che si resetta sotto i nostri occhi: 000km. Ergo: altri mille chilometri a fondo cassa. Che, stavolta, sono valsi un punto.

03/11/08

La domenica a metà

di Lobanowski 3

Ci sono storie che ti colpiscono e non sai neppure perché. Ci sono persone che non conosci, ma che senti vicine. Spirito di appartenenza, forse pure superficiale, età, sicuramente. Non conoscevo Massimo o Massimiliano. Quello striscione però mi faceva male e non so perchè. Se la palla andava là, lo sguardo ci finiva sopra e quasi finivo per disinteressarmi dell'azione. Alla fine della telecronaca l'ho pure ricordato, forse in modo banale o scontato, ma ho sentito il dovere di farlo.
Nulla di programmato, ma ho sentito di farlo.
Forse non era neppure tifoso del Foggia, ma la telefonata di Loba2 alle 12 del sabato mattina m'ha fatto male.
"E' morto un ragazzo, allo Jacob lo conoscevano in molti". Eccolo, il senso di appartenenza.
Massimo, nel fine settimana, è quel pensiero che vuoi mettere da parte, ma che finisce per zavorrare la tua quotidianità. Segui le partite al sabato, le aspetti come se fossi un rito. Ma quel pensiero è sempre là, a ricordarti che esiste. La macchina, la ragazza ferita...pensi. Mentre il Liverpool perde, mentre vai nel fumo di Orsara, mentre salti Juve-Roma e mentre maledici la Salerntiana che t'ha fatto perdere la scommessa.
So che i ragazzi hanno lasciato la curva Sud alla fine del primo tempo, alla domenica. E' il segno tangibile che Foggia-Arezzo è bella, bellissima... ma che forse verrà ricordata più per quello striscione. D'altronde, per me, Foggia-Rimini è solo la gente che piange nel minuto di raccoglimento per Via delle Frasche e Fasano-Foggia è Molino che non esulta il 14 Novembre 1999.
Suvvia, Foggia-Arezzo, è semplicemente quello striscione. E' rabbia, sdegno e forse pure un poco di paura. Ora è storia. Oggi la Dinamo deve vincere.

Uno striscione nell'angolo: Ciao Massimo

di Lobanowski 2

Sabato 1 novembre

Facebook. L’ho scoperto che già i giornali parlavano di boom. Di mania. Di solito, quando succede, i fenomeni sono pronti a snaturarsi, a cambiare pelle, ad assecondare il trend. O l’hanno già fatto. Io avevo un nome collettivo da presentare e un bel po’ di foto da condividere. Ho aperto una finestra, ho completato l’iscrizione. Una trentina di richieste d’amicizia in tre giorni. Niente di eccezionale. Qualche rifiuto, qualche scambio d’opinioni, qualche test dal risultato scontato e la possibilità di immaginare Billy Bragg – il menestrello della working class – intento ad osservare il nostro murales. Soddisfazioni da poco, in fin dei conti.
Non pensavo che Facebook potesse avere altre modalità d’uso.
Invece.
Ho saputo dell’incidente da Daniele. Lo avevo chiamato per una cazzata, per sapere come conteggiare i Senza Voto di Roma-Sampdoria. Fantacalcio, roba così. “Ma non sai niente?”, mi fa. No. Poche ore dopo la notizia era in coda a tutti i tg. Un’auto pirata, un criminale potenziale, un distratto cronico al volante. Su una strada secondaria, buia e intasata di macchine ferme ai due lati della carreggiata. C’era una festa, la notte di Halloween. Una festa per autoconvocati, un locale affittato in aperta campagna, le luci della città in dissolvenza. Qui non siamo a Brescia o a Piacenza. Non siamo nella piana lombarda, e neppure nell’opulento Nord-Est. Qui le feste di fanno così. I ragazzi si ritrovano, montano l’impianto, spargono la voce. L’illegal da queste parti è regola da prima che facesse tendenza. Regola di sopravvivenza. Se vuoi sfuggire alla noia, prefissarti una meta, ti auto-organizzi. Perché, stai pur certo, nessuno lo farà per te.
Ne ha parlato Rai Uno. Ne ha parlato il Tg Cinque. Nella lunga sfilza di poveri nomi stroncati da alcolizzati e drogati, come ripetono spesso i cronisti ingordi di fetish. Tra le immagini in movimento statico di carcasse e chiazze di sangue sull’asfalto. Ventisei anni, Massimo. Stava tornando alla macchina, parcheggiata in fondo al buio, con un’amica. Il pirata ha lasciato un fanale a terra. L’urto dev’essere stato violentissimo, la velocità alta, altissima, in un punto dove già a 40kmh si può uccidere.
Un refrain: “Lo conoscevi, lo conoscevi senz’altro, l’hai visto di sicuro”.
Gli amici me lo descrivono. Loro si che lo conoscevano bene. Qualcuno benissimo, fino ad avergli affibbiato quel soprannome che aveva annullato il cognome: Kravatta. Con la K. Un ragazzo d’oro, dicono. Un lavoratore, uno che non ha mai rinunciato a spezzarsi la schiena. Uno col senso dell’umorismo, uno di quelli che la sera speri di incontrare al Cicchettaro, per farti due risate.
Così è andata anche l’altra notte, mi riferiscono. Ed io non visualizzo la sua faccia.
Sento, con gli altri in silenzio, il tg di Sky. Poi quello di Telefoggia, che riporta ed amplifica l’invito della polizia all’investitore: costituisciti, che è meglio. Si parla di un paio di telecamere che avrebbero inquadrato la macchina in fuga. Ma di notte, con un paio di fotogrammi, c’è poco da sperare. Probabilmente lo fanno per far cedere la coscienza alla paura.
Carnagione scura, pizzetto lungo, occhiali. Non riesco a ricordarlo.
Poi arriva una richiesta, qualcuno che lascia messaggi di cordoglio sul web. Facebook. Pensavo servisse solo a farsi amici che vedi sempre, o amici che non vedrai mai. Tra i personaggi storici sono Napoleone, tra le birre la Du Demon, tra i Simpson non so. Non pensavo che Facebook potesse avere altre modalità d’uso. Invece.
Invece adesso sta caricando il VaffanKlub di Kravatta. La sua pagina, la sua bacheca.
Le sue foto. Ecco. Un clic. La spersonalizzazione del dolore. Incredibile, penso mentre le barrette verdi completano il download della pagina. Sto per scoprire le fattezze di un ragazzo di ventisei anni che non c’è più. Potrei scoprire d’aver bevuto con lui, d’averci parlato ad un presidio o, di sera, alla Mezzaluna o alla Pizzeria Europa. E non tremo. Il mio pensiero non vacilla, la mia volontà non si tradisce scomposta. Internet ha reso usuale la scoperta del macabro, del doloroso? Non lo so. So che non mi sento emozionato come dovrei essere, terrorizzato fino alle lacrime o alla pelle d’oca. Perché ho sempre frapposto una membrana tra il mondo reale e quello virtuale. Non ho mai preso sul serio queste schermate, questi pixel. Tutto quello che accade qui, su questo monitor, non può essere vero. Più vero del vero. Ancora un clic. Ancora un frame dal mondo parallelo, contenuto nella scatola. Con sospetta leggerezza ho scoperto il suo volto. Sorridente, strafottente, irriverente. Un ragazzone pieno di vita, come quasi tutti a quell’età. E non solo. Una galleria fotografica, sei o sette scatti. No, non lo conoscevo così bene. E, anche per questo, sento crescermi addosso un senso di vergogna che non riesco a spiegare lucidamente.

Domenica 2 novembre, Foggia-Arezzo 2-1

Lo striscione è ben visibile, anche dalla prospettiva alta della Sud. Nell’angolo in basso a destra, subito dietro la bandierina. Ciao Massimo. Come dire: buon viaggio, tu che ora sai quel che si prova. Un saluto banale, perché in una curva si sta in migliaia, pigiati e sconosciuti fino al gol, dove magari t’abbracci o ti spintoni. Ma gli amici restano quelli, restano gli stessi. Eppure l’esorcismo collettivo, lo sputo in faccia alla morte, è affare di gruppo. Tutti salutano, anche quelli che non conoscono il nome. Anche quelli che non sanno cosa sia successo, su quella stradina senza lampioni. È la curva intera a sentire l’obbligo collettivo di mandare un messaggio, di farsi carico della piccola banalità che spaventa. Perché i nomi sono tanti, di coloro che ci lasciano, che intraprendono il viaggio per l’ignoto. E a furia di ripeterli, sembrano perdere il valore dell’unicità. Proprio mentre lo acquisiscono. Agli occhi di una massa di estranei. Non lo nascondo, quando un giocatore dell’Arezzo ha battuto un angolo da quello spigolo, e gli occhi di tutti sono caduti su quel nome, su quel saluto, non ho potuto fare a meno di pensare agli incroci che la vita presenta. Ai suoi strani disegni pericolosi, ai suoi conti lasciati insoluti. E vi ho aggiunto un surplus sdolcinato: Meno male che esistono le curve. Ciao Massimo. Come a dire: lacio drom.
Poi il Foggia ha segnato con Del Core, che poteva andarsene all’uno contro uno. Il tempo di dirlo a Lello, che mi sta accanto, e di vedere Angelo che sta per mettere le mani addosso ad uno che sarà la seconda volta che mette piede in curva.
E lascio il settore. Non mi era mai capitato. Passare dinanzi agli steward, chiedere di uscire dallo stadio, piuttosto che di entrarvi. Supero i ragazzini che s’accalcano alle porte chiuse come i senza-terra ai finestroni dei monasteri, sguscio tra i passamano di ferro e, al rumore della porta che si richiude, m’assale un fischio alle orecchie. Il frastuono del vociare è alle spalle. Il catino, pure. L’effetto è inusuale, totalmente inedito. Fuori, nel silenzio. Dal caos al nulla domenicale in pochi secondi netti. Calo di pressione, bisogno di abituarsi. Costeggio il perimetro dello stadio. Il tempo di realizzare che non ho sigarette. Man mano che mi allontano dallo “Zaccheria”, la città sonnolenta mi avvolge. Tappeti ai balconi, bassi aperti, sole, oltre venti gradi in novembre. Piazza Ugo Foscolo. Le badanti a piazza Giordano. Una radio al Bar Esagono. La serie A è cominciata alle 15. Il viale della stazione. Un applauso in lontananza. Ci sono. Vedo la bara che sale a scatti le scale della chiesa. Rallento. Non mi va di inoltrarmi adesso nella ressa. C’è tanta gente, tanta. Sul marciapiede, su quello di fronte, lungo le pareti laterali della costruzione. Decine di facce conosciute. Decine di ragazzi che potevano essere al posto di Massimo, e lo sanno. Ci sono le colombe bianche nelle casse di legno. Voleranno al segnale. Nel frattempo si attende, si ricorda, si piange. Tanti occhiali neri a specchiare le lacrime. Tanta rabbia smozzicata in frasi casuali, dettate dall’istinto, dalla non accettazione di un’ingiustizia palese. È imbarazzante. È la prima volta che sono al funerale di un ragazzo che ricordo appena. Eppure mi sembrava importante esserci. Non so bene perché. I poliziotti, colleghi del papà di Massimo, si mischiano ai dreadlocks, ai pantaloni larghi dei writers. L’accostamento stride, ma la vita fa dei giri assurdi. Fanno il saluto militare, quando passa la bara. Gli amici si fanno coraggio l’un l’altro, i parenti sostengono la mamma. E poi la sorella più piccola, le cento sigarette del padre. Stasera in tanti ricorderanno episodi in cui Massimo figurava da protagonista. Rideranno e piangeranno al contempo, tanto che ogni risata sarà l’abbrivio d’un pianto irrefrenabile, irrazionalmente conseguenziale. Lo abbiamo già provato. L’elaborazione del lutto segue percorsi tortuosi.

Il Foggia ha vinto 2-1 in dieci. Lo scopro a casa. Ma, in realtà, lo sapevo.

27/10/08

Faccia a faccia con l'oracolo

di Lobanowski 2

Domenica 26 ottobre, Marcianise-Foggia 1-0 (sul neutro di Caserta)

Il pullman. Un’esperienza che mi mancava da Andria. Da quando, con precisione? Mah, qualche tempo fa, un attimo che cerco nella cassettiera, dovrei avere anche il tagliando d’ingresso. Persi un accendino nero, molto prezioso, ad Andria. Prendemmo due reti sul muso. Poco tempo fa. Ecco. Novantasei, Novantasette, Novantotto, tutt’al più. Il ragazzo che siede sull’altra fila si sfila gli occhiali da sole. Si sporge in avanti, verso il centro della moquette che ci divide: “Com’è sta storia? C’era un torneo anglo-italiano? Ma per caso è quello che le squadre italiane vincevano sempre finché non abbiamo partecipato noi?”. No, quello è la Mitropa. L’Anglo-italiano è altra storia. Otto squadre della nostra cadetteria contro otto equivalenti d’Oltremanica. Due gironi, o quattro, da cinque o sei squadre cad. A Foggia, nello spicchio di tribuna, calarono i tifosi dello Stoke City e quelli dell’Ipswich. In venticinque, con tanto di pezze britanniche. La finale sempre a “Wembley”. Ci sono stati i genoani, i bresciani, i ridicoli cremonesi. Il ragazzo mi guarda: “Ma quando succedeva tutto questo?”. Mah, qualche tempo fa, che sarà stato… Il Novantacinque, Novantasei tutt’al più. Un frangiflutti di silenzio. La consapevolezza che cavalca l’onda. Dodici anni fa. Cazzo. Devo smetterla di parlare come il giovane che non sono più. Lello fa un rapido calcolo, affonda nei pensieri matematici e riemerge con una sconcertante certezza: alcuni di questi ragazzi non hanno mai visto nient’altro che la Serie C. Me lo confida con raggelante sicumera. Uno sguardo avanti e indietro: come se stessi guardando deportati destinati alla pena dell’inedia perpetua. Il nucleo è tutto nella percezione degli eventi: quando ero ragazzino io il Foggia languiva in C1 da un po’, ma al sesto anno di terza serie, la gente non ne poteva più. Oggi siamo già alla decima stagione – tra C1 e C2 – e, nei monologhi dell’epica, sembra sempre ieri che battevamo la Triestina e riempivamo via Parisi di striscioni per la storica promozione in A. Il tempo è un gran dissimulatore.

Mattia aveva occupato il posto vuoto lasciato da Giuseppe, improvvisamente influenzato. Non si è presentato all’appuntamento. Un mantra di maledizioni e bestemmie ha accompagnato la sua assenza. Nessuno da chiamare per procedere all’improvvisa, seconda sostituzione. Nessuno da svegliare. Ci piace pensare che abbia sbagliato pullman. Che ne abbia preso al volo uno di pellegrini diretto a Pietrelcina o a San Giovanni Rotondo. Lo immaginiamo che scandisce cori nella chiesa dei cappuccini: Batte solo per te!
Si parte. Il caldo è opprimente e toglie ossigeno. Siamo quasi a novembre e non vuole saperne di raffreddare. Le volute del fumo ingombrano un ambiente già saturo. Il viaggio è breve, si può sopportare. Alle 11 siamo all’Ipercoop. Via Ascoli. L’autostrada a Candela. Viene servito del whiskey da discount, che sembra tequila o mescal. A Lacedonia in molti già cantano. Si passa al vodka-lemon, senz’altro meglio. Gira Fan’s magazine. Volano scarpe. Ci accostiamo ad una piazzola per venire incontro ai primi prostatici provati. In 36 minuti netti siamo a Bisaccia. L’autista è un decisionista. Daniele si unisce alla festa. Mi rilasso e m’accorgo che, forse, sarebbe stato meglio anche per me scendere alla piazzola. Al centro si poga. Il Foggia è tutto per me, il Foggia è tutto per me. Il pullman ondeggia. Avellino Est. Chiedo quanto manca con sempre maggiore ansia. Adesso ho sul serio da pisciare, e mi maledico come un eretico. Lello matematico profetizza 40km ancora. Mi alzo, mi siedo, provo a distrarmi. Fisso la strada davanti. Una pattuglia di polizia ci sorpassa e prende in consegna il pullman. La scorta. Il risultato è un brusco rallentamento nel contachilometri: si cala a 40 all’ora. Il mio viaggio incontinente diventa un penoso rallenty. Uno, evidentemente nelle mie stesse condizioni, prova a perorare la causa: “Ci accostiamo?”. Una voce gli risponde dalla testa del mezzo: “Si, a Caserta”. Ridono tutti. Rido anch’io, ma sotto sotto spero che la polizia ci speroni ed ordini una perquisizione. Avrei tutto il tempo per liberarmi. Al casello di Caserta Nord sono speranzoso. Poco prima del telepass, ci fanno accostare. Scendiamo tutti, ad attendere il resto della carovana rossonera. Il sole è alto e bollente, sacchetti d’immondizia oltre il reticolato, l’asfalto scotta, i rami degli alberelli sono rinsecchiti e pungenti. Non sono né un ladro, né una spia. È una giornata meravigliosa.

L’avevo contemplato tra gli incubi possibili nella disperata notte adriatica del dopo-Cremona, quando si passavano in rassegna le potenziali avversarie di questa nuova stagione di C1. Annoverato unitamente al Mezzocorona, al Pergocrema. Alle 13 in punto, l’incubo Marcianise si è palesato: fabbriconi vetrati a specchio, cemento ad avvolgere piloni armati, terra arsa e chiazze di erba desertica, ai fianchi. Colline, in lontananza, l’incombere di Napoli e del suo vulcano. Il filare di imprese di trasformazione, il brullo e assetato contorno di una strada extraurbana. Tutti al finestrino, qualcuno invita a tenere sempre gli occhi aperti. Da vent’anni non giochiamo a Caserta, ma i rapporti non sono mai stati buoni. Può essere che qualcuno se ne ricordi. Invece no, qui è sul serio un deserto. Il canto riunisce il mezzo: Canterò, per sempre canterò, Rossoneri alé, Sempre insieme a te, Fino a quando fiato non avrò, Rossoneri sosterrò. Siamo a Caserta città. Un parcheggio per gli ospiti, vediamo macchine. In tanti sono arrivati così, sfidando le macumbe di un passato ignorato. Noi tiriamo dritti, fino alla caserma e, oltre ancora, alla porticina d’ingresso al “Pinto”. Biglietti alla mano, continua a ripetere la polizia. Noi dobbiamo aspettare Guido. Una telefonata al cellulare. Sono in centro. In centro a Caserta. Le mie preoccupazioni militari sono vecchie come i miei ricordi? Arrivano. Entriamo. Welcome to Eighteen.

Siamo in gradinata. Alla nostra destra la curva, a tuttotondo, dei tifosi di casa. Che non ci sono. Qualcuno dice “gli ultras del Caserta”. Scommetto che in pochi saprebbero dirmi dei Fedayn Bronx, della cupa meraviglia che mi ha sempre ispirato quel settore. Lode alla Casertana e alle battaglie di un tempo. Il Caserta? Non so cosa sia. In tribuna ci sono i pochi spettatori non foggiani. In un angolo, sotto il sole che mi ferisce la cornea, due striscioni di ultras locali. Ma quanti colori ha il Marcianise? Effettivamente c’è del verde, del giallo, del rosso, del blu. Srotolo la bandiera e ci conto. M’informo. Ci contano in tanti. La Snai ha quotato 2,70 la vittoria corsara del Foggia. L’hanno giocato tutti. Mi guardo attorno. Saremo trecento, qualcosa in più. La bandiera dell’Angola è stata bloccata all’ingresso. L’uomo della digos è venuto deciso, determinato. Non si possono portare simboli politici. Rispondiamo che non ce ne sono, che è una bandiera di uno stato africano, occasionalmente rossonera. Quello scuote la testa: Non prendiamoci per culo, dice, la prossima volta vi diffidiamo. Sarebbe interessante. Potremmo chiedere a Mattia di portare la bandiera, domenica prossima. Otterremmo la sua diffida e la possibilità di aprire un caso mediatico. Due piccioni con una fava. L’urlo è possente. Noi-Vogliamo-Questa-Vittoria. Il rimbombo s’annida sotto la tettoia della tribuna. Come a Manfredonia. Battimano convulso. Noi vogliamo questa vittoria. Invece è il Marcianise a segnare. Vedo poco, pochissimo, e quel poco lo individuo ad altezza d’uomo. Mancano aria e spazio. Ma quando sento il boato di disapprovazione, capisco che sta succedendo qualcosa. E uno in maglia gialla appoggia a porta vuota. Gossip: pare abbia sbagliato un tale Lisuzzo. Lo apprendo in fila al chioschetto, un varco nel muro del “Pinto”, modello botteghino. Due bottiglie d’acqua e due Borghetti. 5 euro. Fattibile.

Nella ripresa incitiamo, a tratti i decibel sono notevolissimi, ben oltre questa categoria che non meritiamo. Ma questo è scontato. Il Foggia gioca una partita pessima, non giunge mai ad impensierire la difesa avversaria. Perde, meritatamente, senza mai darci un’emozione, senza mai coinvolgerci in un sussulto. Personalmente, mi sembra sia durata venti minuti in tutto, questa gara. In bagno c’è chi gioca a nascondino con un carabiniere. L’effetto eco amplifica gli sfottò e moltiplica i possibili colpevoli. Il carabiniere viene allontanato da un collega, prima che si metta ad urlare. Si strappano quintali di bollette. Qualcuno si informa sulla serie A. Il Napoli che sbanca l’ “Olimpico”, il Genoa che regge a “San Siro”, la Roma che frana al “Friuli”. Dagli zainetti spuntano panini salame e melanzane sott’olio. L’autista accende le luci ruffiane e lancia una compilation dance anni Settanta e Ottanta. La comitiva di soli uomini si concede una festa da ballo. Due ore di autostrada davanti. Un solo autogrill in mezzo. La coabitazione forzata con una comitiva di pellegrini salentini. A chi ci chiede del Foggia, rispondiamo che ha vinto uno a zero e che questa è l’annata buona. Quelli ci credono e per poco non litigano tra loro. Quattro ragazzi con sciarpe biancoazzurre ci vengono incontro in pace: Siamo materani. Il coro a seguire è ovvio: Noi non siamo napoletani

Pocket Coffee, Ceres, Coca e Sprite. Il buio del pullman, il nuovo silenzio dello stereo. Le telefonate di amici e compari: Dove siete? Boh, mi pare dopo Benevento. Un’oretta all’arrivo. Autista, accelera, che la trasferta è bella quando dura poco. All’Ipercoop c’è la folla delle grandi occasioni. Il traffico è intasato. Decidiamo: torneremo a casa sventolando, per raccogliere il disfattismo della popolazione. All’altezza del mercato Rosati una comitiva di adulti: Che ha fatto il Foggia? A loro non mentiamo: Ha perso, uno a zero. Quello, che alle 19 e passa ignorava bellamente il risultato, scuote la testa preoccupato e consapevole: Facciamo schifo. Già, facciamo.

20/10/08

Il pensiero compulsivo

di Lobanowski 2

Domenica 19 ottobre, Foggia-Sorrento 3-1

Ci sono partite non chiuse che bruciano come ferite di guerra. A distanza di anni. Al variare delle stagioni. La radio era il nostro unico appiglio. Ci incontravamo dopo pranzo, lavoravamo di manopole, ci accampavamo intorno ai transistor come pellerossa attorno al fuoco. Il Foggia giocava a Cremona, nell’anno della promozione in B. Con Zeman in panca. Il chiosco delle bibite osservava il turno di chiusura settimanale. Sul retro, l’orinatoio a cielo aperto. Effluvi pestilenziali a scaglioni. Restavamo in ascolto dell’onda vincente. Come surfisti. Di tanto in tanto un pensionato chiedeva. Uno si accomodò tra noi. Il cronista disse che in campo c’era solo il Foggia e da un momento all’altro avremmo colpito. Lo 0-0 stava stretto. Fu quello l’attimo esatto in cui m’accorsi di possedere la dote di poter vivere esperienze extracorporee. Mi vidi dall’esterno, staccandomi dal corpo come resina da una sequoia. Vibrai a mezz’aria e fissai il mio pensiero, come si fissano i dirimpettai in treno. La comunicazione fu teologica e ben presto si concretizzò in una muta preghiera ascendente: Fa che tutto resti com’è, fa che tutto resti com’è, fa che tutto resti com’è. Un mantra, una litania, un rosario greco. La certezza di possedere una speranza che si faceva carne lasciava spazio, in controluce, al terrore di vedere il castello dei sogni disfarsi. Perdemmo due a zero. Da allora porto nel doppio fondo del cuore questo fardello, questa dote segreta: cristallizzo l’attimo in cui non possiamo perdere, in cui tutto è perfetto. Che coincide, immancabilmente, col voltafaccia del fato. Da quel giorno non voglio sentire che è fatta, che tutto è nelle nostre mani, che il destino dipende da noi. Né voglio pensarlo di mio. Frasi tipo Stiamo giocando troppo bene o Ci manca solo il gol, mi fanno scuotere la testa nel tentativo di scacciare l’impulso intruso. Ma, di solito, è tardi. Quando Cassano fallì il 2-0 con la Svezia all’Europeo pensai: la qualificazione è a portata di mano; quando mancavano 5’ alla fine dei play-off di Avellino, mi ritrovai a pensare che, cazzo, mancavano cinque minuti. E, manco a dirlo, a Cremona, tatuaggio che non smette di sanguinare. Mi limitai a passare in rassegna – volto per volto – l’intera fetta di settore raggiungibile dallo sguardo, e dire tra me e me: è troppo bello. Stamattina mia madre mi ha chiesto: Ma quando ti sei laureato, di preciso? Ho risposto: Non mi ricordo, di sicuro il 25 maggio ero a Cremona.

Fermenti lattici per sistemare lo stomaco. Dieta ferrea per mantenerlo sotto la soglia di galleggiamento. Il mio pensiero compulsivo è giunto quando il pallone, scalciato lontano da un nostro difensore, si è infranto sulla vetrata della gradinata. Bum. Da un po’ non riusciamo a far entrare in azione il centrocampo, da un po’ non sfruttiamo ordinatamente il disordine offensivo del Sorrento. Uno dei loro, palla al piede, ha cercato di incunearsi. Uno dei nostri lo ha stoppato e mandato fuori. Bum. Il pallone è fuori. Penso, e non lo faccio di proposito: Certe partite si chiudono. È un segnale, un dannato campanello d’allarme. Guardo gli altri attorno. Come per scrutare le loro espressioni. Come se il mio personalissimo presentimento camuffato fosse stato irradiato dai megafoni. E debba accertarmi delle reazioni. Niente, penso, non è niente. Vinceremo ugualmente. Stiamo vincendo, difatti. 1-0. Ha segnato Salgado alla mezz’ora del primo tempo, ed abbiamo avuto anche la palla del raddoppio. Poi, certo, loro hanno spinto. A dire il vero, hanno anche fallito un rigore. Parato, più che altro, ma non conta. Il Sorrento gioca alto, come non si dovrebbe. I nostri dispongono di praterie su certe ripartenze, specie a sinistra. Dio, perché non raddoppiamo? Salgado, ad un certo punto, è falciato dall’ultimo difensore. Ma era in fuorigioco. Proviamo il tiro dagli spigoli dell’area in parità o in superiorità numerica. Bum. La palla è sulla vetrata ed io comincio la mia traversata sui carboni ardenti. Bisogna sfatare anche questo pregiudizio, questa dannata premonizione, questo superpotere infame. Canto, ma anche la curva è più blanda che sullo 0-0. Al rigore parato l’urlo è stato paralizzante, il coro successivo da lacrime agli occhi. Una di quelle cose che ti inorgoglisce, come se fosse merito tuo. Canto: Ora, tutta quanta la, curva, canterà per te, Foggia, devi vincere, Foggia, devi vincere, Ora… Di fronte ci sono 50 tifosi avversari. Hanno tre o quattro pezze, diversi tricolore. Erano gemellati coi cosentini, si, ma anche coi massesi. Il che non depone a loro favore. Li guardo, poi guardo il campo, poi loro, poi il campo. S’apre una voragine, chiamiamo un fallo che non c’è, uno in maglia bianca lancia un compagno, la palla passa sotto le gambe di uno dei nostri, uno dei loro – non so come – si trova davanti al nostro portiere, botta di destro, guardo loro, esultano. Cazzo. Vorrei sprofondare. Mi si legge in faccia che è tutta colpa mia. Vorrei spiegare a questa gente che non c’entro, che il pensiero compulsivo è scollegato dalla volontà. Che proprio per quello è compulsivo. È una sindrome, maledizione. Ho un problema, non è bello infierire. Non è terapeutico.

Però pure sta squadra. Lo sapevamo tutti che sarebbe andata a finire così. È inutile che fate no con la testa. Gianni, vestito ancora da pasticciere, alla prima uscita stagionale, maledice la sua presenza. La superstizione è pianta rigogliosa, nel sonno della ragione. Abbiamo preso il primo gol in casa e mancano 25 minuti. Il pensiero compulsivo della perfezione ha colpito ancora. Eravamo lanciati verso il secondo posto, porco di un Giuda. Il Gallipoli perdeva in casa con l’Arezzo, alla bolletta Snai mancava solo l’uno del Potenza. Ed ora eccoci qua, a rifiatare per ricominciare la scalata. Di nuovo. La Sud è un polmone in difficoltà, il canto parte e si smorza, non supera la prima strofa, non diviene refrain. Dobbiamo rialzarci. La partita non si guarda, la partita si pedina, come un cane da caccia. Bisogna sostenere i ragazzi, che sono si beni fungibili, ma hanno anche una loro sensibilità attuale. Si dice. Con calma e con pazienza si rianima il malato. Sostegno ci vuole, sostegno. In campo i nostri sembrano scuotersi. Il pareggio non sta bene neppure a loro. Costruiscono. Una parte della mia psiche comincia a sperare: vuoi vedere che riusciamo a scacciare i demoni… E vuoi vedere che per scacciarli bisognava andarseli a cercare in qualche girone infernale? Facciamo il nostro dovere, alziamo le mani e incitiamo all’unisono. La Sud è ancora un posto meraviglioso dove vivere. A dieci dalla fine un cross dalla sinistra finisce con l’arbitro che indica il dischetto. Non ho visto niente. Mi dicono che un sorrentino ha deciso di smanacciare, senza pericoli incombenti. È un segno. Batte Salgado (questo lo scoprirò dopo). Il portiere intuisce ma non respinge. È il 2-1 che attendevo, è un peso che svanisce, una responsabilità in meno in questa vita dalla Moleskine fitta di appunti a penna. Levatevi di qui, levatevi davanti.

Il terzo gol, ancora di Salgado e ancora su rigore, è un semplice sigillo su un atto già vidimato. L’applauso è ritmato, liberatorio. Una voce radiomunita garantisce che Gallipoli ed Arezzo si sono accontentate del pari. Siamo terzi da soli a 16 punti. Il Potenza ha battuto 2-0 la Pistoiese, garantendo altri 113 euro alle mie finanze precarie. Anche a Ceska sta scemando il mal di testa. E posso gestirmi una mezza torta pronta della Cameo. It's a beautiful day, Sky falls, you feel like, It's a beautiful day, Don't let it get away.

Il Libro