28/06/08

Coming out

di MrSTRAmy

Sono ETERO. E lo dico con rammararico. Non vorrei esserlo. Vorrei essere BI… , insomma quella parola li, avete capito no? Diciamo DOPPIO GUSTO. Oggi è di moda. O forse lo è sempre stato,non lo so. Vorrei fare come fanno in molti. Ormai in tanti neanche si nascondo più. Io in verità non lo farei. Non avrei il coraggio, la faccia di uscire e gridarlo. Quantomeno mi nasconderei e vivrei la cosa nel mio intimo, nel mio privato. Cosa penserebbe chi mi conosce e sa come l’ho sempre pensata a tal riguardo? Le persone con le quali ho condiviso tanto, quelle che mi vogliono bene. E la mia ragazza? Lei cosa dovrebbe pensare? Suo padre? No, non voglio neanche immaginarlo! Vivrei la cosa chiuso in me se stesso, senza troppi manifesti. Sinceramente non so come fanno quelli che lo rivelano! Io sono “monogusto e monosport”!

Sono ETEROSQUADRA. E lo dico con rammarico. Non vorrei esserlo. Vorrei essere BITIFOSO, insomma, questa è la parola! Diciamo DOPPIA SQUADRA. Oggi è di moda. O forse lo è sempre stato, non lo so. Vorrei fare come fanno in molti. “Sei tifoso del?” – E ti rispondo Milan, Juve, Inter o Roma come succede da qualche anno. E poi ti chiedono: “E TU?” Ed io fiero fiero rispondo “FOGGIA”. E loro ancora: ”AH VA BEH, ANCHE IO TIFO PER IL FOGGIA CHE C’ENTRA. QUANDO ERAVAMO IN A ANDAVO ANCHE ALLO STADIO!” Ed io nella mia mente “MA VAI A FARE IN CULO COGLIONE!”. Ormai in tanti neanche si nascondo più. Tranquillamente ascoltano le partite di A nelle cuffie in curva o continuano a chiedere in continuazione al vicino i vari risultati. Altri portano la sciarpetta allo stadio. Altri ancora preferiscono il satellite anche se il Foggia gioca in casa. E poi ci sono quelli che se il giro per la città con le sciarpe ed i clacson sono anni che non si può fare (PORCA PUTTANA n.d.S – nota di Stramy) loro comunque lo fanno almeno un anno si e l’altro no. Ma con che coraggio dico io? Io in verità non lo farei. Non avrei il coraggio, la faccia di uscire e gridarlo. Quantomeno mi nasconderei e vivrei la cosa nel mio intimo, nel mio privato. Nel senso che leggerei tutte le varie notizie solo soletto davanti al mio Pc, parteciperei a vari forum, allo stadio cercherei di cogliere i risultati fra le varie voci che si rincorrono. Ma tutto in silenzio, senza far capire nulla a nessuno. Cosa penserebbe chi mi conosce e sa come l’ho sempre pensata a tal riguardo? Le persone con le quali ho condiviso tante partite, tanti commenti, tante opinioni. Quanto ho sfottuto i gobbi. Ed oggi, così all’improvviso divento tifoso della Juve. La mia ragazza? Invitai una mia amica e la sua amica “bona” per la trasferta a Benevento nella gestione Giannini. Lei mi ha conosciuto come tifoso del Foggia. Cosa dovrebbe pensare ora? Suo padre? Dopo Cremona le ha chiesto come stessi immaginando il mio cazzo di stato d’animo. C’è una stima pallonara che non mi va di deludere, ma che comunque so per certo che mai verrà delusa! No, non voglio neanche immaginarlo! Vivrei la cosa chiuso in me se stesso, senza troppi manifesti. Sinceramente non so come fanno quelli che lo rivelano! Io, sono “monogusto e monosport”!

Certo però che se fossi stato BITIFOSO…1 gennaio 2005 – Parigi – Tour Eiffel – Ultimo piano – Grata delle promesse d’amore. Da poche ore passata la sbornia dell’ultimo dell’anno, mi imbatto in un gruppo di bianchi caucasici – età 25 -30 anni -altezza media. Sembrano italiani. Procedo all’avvicinamento. Affermativo, sono italiani. Uno di loro indossa scarpetta giallo-blu. Continuo ad avvicinarmi, voglio capire l’appartenenza. Sarà Verona, Parma. Prosieguo l’avvicinamento. 3 metri, 2 metri, 1 metro… in mente ”FE-R-MA…” ad alta voce “FERMANA?” Il caucasico mi sente, indietreggia qualche passo e mi chiede “SI PERCHè, E TU?” Bravo, ed io li ti volevo povero il mio pollo. Ora lo sfraghino ho pensato, “u meng accid” fortuna che la grata eviterà il suicidio, beh, infondo non è colpa sua se è nato a Fermo, comunque voglio dargli la botta lo stesso, anche se io sono superiore e potrei anche non rispondergli, ormai siam qui su, e me l’ha chiesto. Hai sbagliato piccolo, non dovevi farlo. Siamo a 314 m di altezza, in una botta sola e senza prendere l’ascensore o toccare un sol gradino ti farò sprofondare fino a -314 metri. 628 metri in un nano secondo. Avrei voluto chiedergli se fosse pronto alla risposta. Vuoi far finta di niente e continuare ad ammirare il paesaggio? Vuoi chiedermi pietà? Ho atteso qualche secondo e poi l’ho trafitto. “FOGGIA”. Lui, acrobaticamente schiva la mia sciabola, riguadagna i passi, caccia un’arma che non avevo mai visto, come qualcosa di spaziale, a laser se non ricordo male e con l’agilità di una tigre mi ribatte “Ah si? Foggia Fermana 0 a 1 Mengoni”

Avevo dimenticato che due mesi prima, a fine ottobre la Fermana era scesa allo Zaccheria in notturna. Avevo rimosso. Ma la Fermana aveva vinto.

Siete mai stati a Fermo? Prendete la statale e nel giro di 100, massimo 150 metri troverete entrambi i cartelli BENVENUTI A FERMO ed ARRIVEDERCI DA FERMO. E tu a me dovevi dire così? E meh..

Avete mai fatto 628 metri di caduta in un nanosecondo?

Siete mai stati all’ultimo piano della Torre Eiffel? Tranquilli, c’è la grata.

Ultimamente parlavamo di punti bassi giusto?

La prossima volta quando esiterò sarà solo per pensare se dovrò rispondere Juve, Milan o Inter.
E comunque W gli Eterosquadra... che alla fine anche se non sono BI… se lo prendono in quel posto lo stesso!

Forlì, fine estate

di Lobanowski 2
Dalila Di Lazzaro, aggressività esplicita, colore sbrigativo. Oh, Serafina!, film del 1976. La tragicomica vicenda di un industriale lombardo che trova l’amore in manicomio. L’industriale lo fa Pozzetto. L’amore la Di Lazzaro, che in effetti piace, piace molto. Allusioni erotiche e nudi plastici. Rete 4, cinque meno un quarto di un mattino d’agosto. Poco caldo, il sole deve ancora cominciare a bruciare, a scottare. I tg devono ancora orientare i barometri per stilare le classifiche delle città-fornaci: Foggia ci sarà, c’è sempre, con Alghero. C’è da scommetterci. Il cielo è grigiastro. Il nove posti ancora non arriva. Il televisore all’interno del club di via della Repubblica continua a mostrare le grazie di Dalila. Non so perché ho scelto di esserci, in questa inutilissima prima trasferta di Coppa. Forse per amore, forse per smania. Con qualche propensione in più per la seconda. È la smania di ricominciare, di suonare il requiem alla stagione estiva, che mi ha spinto ad accettare l’invito di zio Franco. Lui, a Forlì, vuole esserci. È in ferie, ci sono tutti i suoi amici, ha trovato i posti sul furgone. Per lui tagliare l’Italia a/r, stavolta, è un po’ come spaparanzarsi al sole sulla riviera: un’appendice del meritato riposo. Io sono curioso di viverla questa anomalia. La formula della Coppa Italia, quest’anno, prevede lo scontro singolo, mortale, all’ultimo sangue. Non più la tranquillizzante doppia gara, ma una sfida senza replica. In casa della peggio classificata. Tabellone d’agosto con le grandi e le semigrandi dispensate. Noi siamo appena scesi dalla serie A. Stiamo per addentrarci in quello che riteniamo essere un anno di transizione. Abbiamo una squadra di tutto rispetto, possiamo puntare alla risalita. Sedicesimi di finale: la Reggiana va a Trapani, il Genoa a Gualdo Tadino, il Brescia a Fiorenzuola, il Palermo ad Acireale. L’arrivo del furgone è fragoroso. Prime polemiche sul ritardo. Breve conteggio dei presenti. Troppi, siamo troppi. L’alba è già più di una possibilità e poi ormai sono sveglio. C’è bisogno di qualcuno che metta a giro la macchina, che solo col nove posti è impossibile, anche stringendosi. Breve sondaggio e la macchina vien fuori. È di uno che in curva aveva fama di fare gli striscioni. Altra attesa. Salgo sul furgone. Si parte. Sul mezzo imperversano i Pooh: Chi fermerà la musica? A Pescara faccio cambio: vado in macchina. Siamo in quattro, c’è anche un ragazzino. Si parla – si straparla – di politica. Di fortuna che ha vinto quello che se vinceva quell’altro già mi ero preparato a trovarmi i carri armati sovietici per le strade, come in Ungheria. Avanspettacolo puro: Ohi, giovani, ma l’altro chi sarebbe Occhetto? Ma sapete che l’Urss non esiste più da qualche anno, si? Non si fidano, rimangono scettici. Da un momento all’altro l’Unione si ricompatterà e, su ammiccante invito dei Progressisti al 34,3%, invierà i suoi mezzi anfibi ad oltrepassare la Venezia-Giulia. Sorrido, ma non sono il solo. Guardo fuori dal finestrino. È un attimo. Il tempo di intuire. Un botto soffuso, soffocato, come l’esplosione di una camera d’aria. E la macchina impazzisce. Siamo a 110-120 kmh e vedo il mezzo puntare col muso prima destra, poi a sinistra, metafora perfetta del trasformismo. Il pilota è bravo, asseconda l’impeto del motore al galoppo senza frenare, senza provocare scossoni. Eppure, per centinaia di metri, l’auto è uno strumento nella mani del destino. Ho il tempo di riflettere, di quelle riflessioni condizionate ed incontrollabili: potrei morire, qui ed ora. All’altezza di qualche paesello delle felici Marche, al seguito del Foggia calcio e della sua prima esperienza ufficiale nella stagione ‘95/96. Morire alla volta di Forlì. Assurdo, inconcepibile. Vedo il furgone che ci precede rallentare, improvvisamente cosciente di quel che è successo. O sta per succedere. Piano piano l’auto rallenta, si ferma. Siamo ancora vivi. Il furgone si inchioda. Si aprono i portelloni. Emilio torna in galera scende, nel bel mezzo di una corsia d’autostrada. E ci viene incontro. Quello degli striscioni, al volante, s’accascia sfinito per lo sforzo psico-fisico. È andata bene. Potremo raccontarlo.
Al casello di Cesena dilagano leggende. Pare che i tifosi del Forlì siano caldi e turbolenti. Si narra che possano vantare oltre duecento diffidati, tutti raggranellati nel derby. Proprio col Cesena.
Il gruppo si divide. Una parte della comitiva ci lascia, ci raggiungerà a sera. I reduci sfidano a petto largo l’afa di una città terrificante e vuota. Un bar in centro, una Polar. Un gruppo di giovanotti passa e dice qualcosa. Ne scaturisce un accenno di parapiglia. Ma sono solo militari che attendono lo scaglione successivo, nonni che ci hanno scambiato per matricole. A guardarci non si direbbe, ma di facce nuove a Forlì devono girarne poche. Una arzilla signorina di cinquantacinque-sessant’anni cerca di adescare i giovanotti seduti fuori. Un vago senso di nausea mi si attorciglia alla bocca dello stomaco. Preferisco andare a fare due passi. Come me, diversi altri esponenti del gruppo.
La stazione, i palazzi, le piazze quadrate. Non sarebbe neanche male, razionalista com’è. Ma è estate, è spopolata, è noiosa. Meglio limitare al minimo il turismo. Dinanzi allo stadio è quasi sera. Ci sono altri foggiani. Il biglietto è giallo e verde, ricorda l’etichetta di una bottiglia di vino. Il mio è il numero 3.013. Ho forti dubbi che la cifra sia stata resettata molti anni prima. Incontro Fiorenzo. Non sapevo gli interessasse il calcio. Difatti. Lui e quattro suoi amici hanno pensato bene di allungare da Rimini, dove sono in vacanza. Il settore è uno spicchio di tribuna. Il Foggia, agli ordini di Delio Rossi, sta facendo riscaldamento proprio sotto di noi. Un elemento dei nostri si stacca dal plotone per avvicinarsi il più possibile alla squadra. E gridare: “Delio! Lui non deve toccare palla!”. E col dito accusatore indica Cappellini, che alza lo sguardo e allarga le braccia, sconsolato, con un’espressione del volto eloquente. Come a dire: Ma questi non si scordano mai di niente... Pensava di farla franca, Cappellini, l’esecutore materiale di innumerevoli strafalcioni offensivi, l’anno prima. Invece c’è un coro di: “No!” che dalla tribunetta accompagna il torello della squadra. “Delio, se quello tocca palla scendo”. Il resto della rosa ride e prosegue. Ma nessuno passa la palla a Cappellini. Le minacce restano minacce.
“Ma questo non è un campo di calcio – si fa serio qualcuno – questo serve per le bici”. Ed indica la pista inclinata, modello velodromo: come a Pesaro, a L’Aquila, a Lanciano. I novanta minuti diranno uno a zero per loro, con gol di un certo Orlandi. Al ritorno non esplode nessun pneumatico. Ma, in compenso, passiamo qualche ora in commissariato, all’altezza di San Benedetto. Cercano dei razziatori di autogrill. Con affetto e ammirazione ricorderò sempre quel carabiniere che, alla ricerca di un salamino, svitò il radiatore. Emilio lo guardò stupefatto, poi chiese: “Dici che l’abbiamo messo a bagnomaria?”.

26/06/08

Il punto più basso, quinto contributo

di Sandro - Benfoggianius

Il “mio” punto più basso del Foggia non coincide con una sconfitta. Quando si giocano i play off o i play out, quando ci si gioca il campionato all’ultima partita significa che la squadra è viva, che c’è passione e voglia di andare avanti. Il problema sono quelle partite di fine-autunno, quando si è equidistanti dalla zone calde per la promozione la retrocessione in modo che gli ottimisti possano pensare che “con tre o quattro vittorie” e i pessimisti che “con tre o quattro sconfitte” si possa finire in paradiso o all’inferno.
Quando in curva sud ci sono larghi spazi vuoti, quando qualcuno grida “seduti” perchè vorrebbe vedersi la partita come se fosse a casa davanti alla tv. E sistematicamente la gente si siede salvo poi rialzarsi quando la palla entra in area di rigore, che manco a messa ci si siede e rialza così spesso.
Quando il modulo di gioco del Foggia prevede lunghi lanci sull’attaccante che tutto solo lì davanti non può far altro che perdere la palla e ricevere parolacce dai tifosi, che rimpiangono Mastronunzio, che a sua volta faceva rimpiangere Cantoro, che faceva rimpiangere Cellini, e così via fino a Baiano o a Nocera, passando per Cappellini, Meluso e Barbuti (che almeno aveva la moglie bona).
Quando i ragazzini intorno a te parlano dei risultati della serie A e chiedono a quello che ha la radio chi è stato ammonito tra i calciatori dell’Atalanta “che ce l’ho a fantacalcio”.
Quando dietro di te c’è il vecchietto che inizia le paranoie sul fatto che nel Foggia dovrebbero giocare sono i foggiani come ai tempi di Faleo e Rinaldi, e quell’altro aggiunge che i calciatori sono tutti mercenari pronti a cambiare squadra per un piccolo aumento,e lì via con i luoghi comuni, che da un momento all’altro hai paura che arrivi il solito coglione a dire che lui non è razzista ma pensa che i negri se ne dovrebbero stare a casa loro.
Quando gente che non ha mai pagato un biglietto e si è sempre fatta le trasferte a spese della società pretende di dirti che devi gridare di più, che “senò che siete venuti a fare allo stadio? A vedervi la partita”. No, veramente speravo di giocare. Mi ero portato anche il borsone.
Quando capiti vicino a un cretino che dice che l’unico modo per tornare grandi è il Foggia se lo ricompra Casillo, “che quello anche se era camorrista almeno i soldi li metteva”, certo, a sto punto megiio se la squdra se la compra direttamente Raffaele Cutolo. E perché non sperare in Osama Bin Laden o George Bush?
Quando uno che ha l’abbonamento a Sky, le tessere di Mediaset e La7, la maglia col nome del calciatore e l’orologio del Foggia srotola uno striscione “NO AL CALCIO MODERNO”.
Quando esci dallo stadio tutto incazzato per un pareggio subito all’ultimo minuto e un fesso ti dice “vabbè, ma che ce la prendiamo a fare, in fondo il calcio è solo un gioco, mica se vinciamo ci viene qualcosa in tasca”.
Beh, quello è il punto più basso del Foggia.
Il nemico del calcio non è la sconfitta, è la noia. E’ come in un matrimonio, finchè si litiga c’è ancora qualcosa, quando ci si annoia è la fine.

23/06/08

Il punto più basso: quarto contributo

di Mr STRAmy
Durante l’inverno, nella maggior parte dei casi si aspetta l’estate. Tutti la vogliono. Tutti vogliono staccare la spina. Tutti non si aspetta altro che mettersi dietro file chilometriche per poter raggiungere Vieste, Peschici, Campomarino o semplicemente Mattinata. Caldo, afa. Si soffre, ma è bello. Sulle spiagge Il Corriere dello Sport o la Gazzetta. Io leggo il primo, e quando lo leggo non voglio esser rotto la minchia, immagino come la maggior parte degli Uomini, si con la U maiuscola. Il calcio ti fa Uomo. Solo se tifi Juve, Milano o Inter non sei Uomo. Per tutte le altre squadre sei veramente un Uomo. Ed io tifo Foggia. Fortunatamente! E sono li sotto l’ombrellone a sognare, nelle ultime pagine, di trovar qualche trafiletto che annunci il colpo del mercato, il botto. Sono anni che cerco una cosa del genere. Mi stanno ancora facendo aspettare, evidentemente tutti vogliono che il botto sia ancora più forte! E così, dopo 30 secondi di lettura sul Foggia, devi per forza di cose leggere i colpi miliardari delle grandi. E sogni come sarebbe stato se la tua squadra del cuore fosse stata un’altra.
Dopo un po’ l’estate stufa. Vuoi che torni tutto come prima. E vuoi il campionato. Ogni anno io e Capacchione facciamo il conto alla rovescia: -89, -88, -87, -86,…. -7, -6. La botta di culo, un po’ d’ossigeno, te lo danno le competizioni internazionali come l’Europeo o il Mondiale e quindi il conto alla rovescia parte da circa 60.
E poi ti attacchi a tutto. Il battito del cuore è lento, si rischia. L’attesa è tremenda. Durante l’estate non si aspetta altro che poter vedere un po’ di verde con un pallone. In quei due mesi ci si attacca a tutto, al Moretti, al Berlusconi, alle varie amichevoli che danno anche in differita su Italia Uno.

Si riparte, siamo retrocessi, siamo in C1, e lo siamo solo di passaggio. Noi siamo il Foggia, questa categoria non ci appartiene. Siamo superiori a tutti e tutto. Non caghiamo niente e nessuno. Ripeto, noi siamo il Foggia, ed i foggiani.
Il tifo scrisse che se Foggia fosse grande quanto Milano allora per i foggiani in trasferta ci vorrebbe un settore ospiti grande quanto “San Siro”.
Le luci dello “Zaccheria” si riaccedono.
C’è da scoprire come ogni fine agosto i volti nuovi. In tenuta gialla il Chievo. Coppa Italia (per i giovanotti la Tim Cup), 1-0 e si va avanti. Non ho una gran memoria per date, allenatori, giocatori e bla bla…ma se non sbaglio doveva essere la stagione ‘98/99. E forse in panchina Mancano. Forse.
Sono pieno di amici Gobbi, che puntualmente ad ogni sconfitta mi fanno la telefonata dal profondo Nord. Uno dei miei migliori amici è interista ed è uno di quelli che si fa sentire sempre. Immaginate per una retrocessione in C. In terza media, la mattina alle 8 ritagliò un articolo della Rosa e me lo portò a scuola: “Shalimov all’Inter” Litigammo. Di brutto.
Il Foggia parte bene. Grande, veloce. 4-3-3. Diciamo che all’epoca ci poteva stare. Oggi no. Oggi voglio un 5 (possibilmente 6)-3-2.
Ricordo tal Volturno, forse uno di quei giocatori del nostro vivaio. Bel giocatore, farà strada. Mancino, partiva da destra, si accentrava e tirava di sinistro. Aveva la botta.
Credò finì 1-1 e passò il Chievo. Ma sugli spalti si era contenti, avevamo giocato bene e poi i veneti erano squadra di categoria superiore.

A fine partita inviai un sms al mio amico interista: “CON UN FOGGIA COSI’ SI TORNA SUBITO IN B!!!”

Volete ancora il mio punto più basso?

20/06/08

Il punto più basso? Ancona, 6 giugno 1999

di Lobanowski 1

Il punto più basso? Così, di getto, mi viene in mente la massima di Freak Antoni, “una volta che cadi non puoi che rialzarti. Anche se a qualcuno capita di cominciare a scavare”. Quante volte, seguendo i colori rossoneri del Foggia, ci siamo fermati a pensare che sì, quello era davvero il punto più basso mai raggiunto, concedendoci ad un immotivato ottimismo per il futuro?

Mi capitò di pensarlo spesso nei sei anni di C1 vissuti nel cuore degli Ottanta. Anche dopo una vittoria, se quella significava un’affannosa salvezza all’ultima giornata. La stagione in cui avremmo dovuto far macerie del girone B, sulla panca Gb Fabbri, in campo Mastalli, Marocchi, Messina, Torregiani, Mosti, Pidone e via discorrendo. Metto a fuoco nella camera oscura della memoria un campo in terra battuta, quello di Agrigento, un gol del nostro inguardabile libero, Cerantola, a pochi minuti dalla fine. L’attesa spasmodica della scritta in sovrimpressione a Telefoggia che ci informava del risultato, quando non c’erano trasmissioni su tv private o dirette radio (non dalla Sicilia, allora lontana come l’arcipelago delle Fiji). L’esultanza a casa di Rosario. E subito dopo il senso di frustrazione. Come nella corsa dei topi, dove se arrivi primo sempre topo rimani (per la cronaca, la salvezza matematica la raggiungemmo la partita successiva, ultima di campionato, dopo un grigio 1 a 1 in casa contro il Campania).

Da mandarti al tappeto anche le sconfitte per 3 a 1 vissute dal vivo sull’Isola Verde di Ischia (dove mi aggregai, mio malgrado, ad una gita del dopolavoro Enel mascherata da escursione ecologica) e Martina Franca, dove poco simpatici lontani parenti offendevano il prestigio e il blasone del satanello, faticosamente costruito in quegli anni ‘70 che mi avevano forgiato all’amore per il Foggia. Rischiai la rissa con uno che mi fu presentato come “cugino” (mai più visto da allora) dopo un goffo autogol del nostro stopper (allora si chiamava così) Abate.

Altri punti bassi, le illusioni affogate a due passi dalla riva, altre stazioni infernali della mia vita di tifoso. Ricordate il lungo striscione steso per anni sotto la Sud, dietro la porta, “meglio soffrire per poi gioire, che illudersi e poi morire”. Se non sbaglio fu distrutto durante un’incursione notturna attribuita ai barlettani. Fu rifatto, più bello. Illudersi e morire: stagione 87-88, l’anno della corazzata di Marchioro. Campobasso, la partita dell’autorete di Accardi. Entrammo in coma, non proprio defunti.

Scorrendo l’album di ricordi ahinoi indelebili, riemergono il 2 a 2 contro il Ravenna in casa, stagione 97/98 di B, l’anno della retrocessione, la partita del suicidio tattico di Mimmo Caso, di otto difensori schierati a difesa del 2 a 0, del fuorigioco in linea preteso a centrocampo (e come fanno a coordinare i tempi d’uscita otto giocatori, caro Mimmo? Ce lo spieghi a dieci anni di distanza?), dell’inutile doppietta di Dayo Oshadogan, promessa mancata. Ancora, la stagione 2000-2001 in C2, le sconfitte contro squadre che qualche anno prima sarebbe servito l'ancora lontano da venire Google maps per scoprire chi fossero e dove giocassero. Contro Sora (addirittura promosso in C1, quell’anno), Turris, Juve Terranova, Castrovillari, Tricase, Sant’Anastasia. Capocannoniere del Foggia in quella stagione fu Ricchetti, con 6 gol. E questo la dice tutta di che campionato fu.

Ma se proprio mi chiedete l’impresa di isolarne una di partita, simbolo dello spleen rossonero, l’orologio scorre all’indietro fino al 6 giugno 1999. Stadio del Conero di Ancona. Finale di ritorno dei play out di C1, girone B. All’andata, allo “Zaccheria”, in curva con Lob2, fresca conoscenza fatta in un collettivo universitario (pensate che si laurea solo quest’anno, anzi tra una settimana. Io ho mollato subito, lui se l’è presa comoda, giustamente. Avete presente il testo di Salario Garantito dei 99 Posse? Ecco, così… In ogni caso auguri, Doc…). Al ritorno mi aggrego ai pullman dei tifosi organizzati. La doppia discesa dalla B alla C2 proprio non sarebbe digeribile. E poi, la C2 da queste parti non la ricordano manco gli over 50. No, non può essere, non può accadere. Questi i pensieri che accompagnano il viaggio verso le Marche. La partita una vera sofferenza. Dobbiamo difendere l’1 a 0 segnato da Pilleddu. La sconfitta, con qualsiasi risultato, significherebbe retrocessione. Quando la speranza di aver sfangato un’annata balorda prende piede (ricorderete l’arresto di Casillo qualche anno prima, la società in mano ai tribunali, i giocatori senza stipendio, un allenatore come Mancano mandato allo sbaraglio) ecco la pugnalata al cuore, al minuto 84. Un cross dalla destra, Lagrotteria che stacca in aria e ci resta per secondi manco fosse Micheal Jordan. La palla colpita di testa che entra in rete. Il boato degli anconetani. La crisi di nervi nostra, e dei giocatori in campo. E poi il fischio finale e l’incapacità di accettare il verdetto. Ricordo che per uscire dallo stadio ci dovette quasi caricare, la polizia. Senza forze, saremmo rimasti nella Sud del Conero per giorni, forse mesi, feriti a morte, davvero, questa volta. “La C2, non ci posso credere”, ripetevo tra me e me, forse a voce alta. Ma era un coro, più che un pensiero intimo. “No, adesso vedrai che ci ripescano”, mi ripetevo. “Qualcosa accadrà, sicuro, qualcosa accadrà”. Non accadde nulla. E per quattro anni mangiammo il fango della C2.

p.s. Ora che ci penso, le sconfitte più spezzagambe mai subite sono sempre arrivate nei minuti finali. Un accanimento della Dea della Malasorte. Direi che sarebbe il caso di farla finita, brutta stronza. Ridacci quel che ci spetta, ridacci la Luna.

Dove siamo rimasti...




Povera Stella

di Lobanowski 2
Nicola è tornato da Lubiana con una busta carica di regali. Una cartolina della Zastava 750, una biografia di Josif Broz in sloveno, un berretto del IX Korpus, una spilla. E due tazze. “Non ho capito bene per quale delle due tifate, così le ho prese entrambe”. Sul tavolo in bella mostra il bianconero e il biancorosso. Il Partizan e la Stella Rossa, fianco a fianco. L’evidenza di una contraddizione, il crescente peso dell’indecisione: è vero, come avrebbe potuto capire? Non siamo mai stati chiari al riguardo, non emettiamo comunicati stampa ufficiali da tempo, in merito. Stella Rossa e Partizan. I poli inconciliabili. È tempo di prendere una decisione.

Ma come si fa? Io non sono nato a Belgrado. Fossi nato lì ci sarebbero stati i tortuosi percorsi dell’insondabile a decidere per me. Sarei stato dell’una o dell’altra senza un motivo reale. Lo sarei stato e basta. Per quel processo carsico e alchemico che plasma il tifoso. Ogni tifoso. La mia squadra di calcio a sette si chiama Partizan, mio collettivo politico ha come simbolo il simbolo del Partizan. Eppure io mi sento propendere per l’altra Belgrado, quella (ahimè) biancorossa. Dagli ultimi Ottanta del furto-Milan, con la Red Star in vantaggio di un gol, i berlusconiani virtualmente eliminati, e la partita sospesa per nebbia; alla squadra che lottò e perse con la Samp della Champions. Per la squadra di Belodedici, Jugovic, Mihajlovic, Prosinecki, Savicevic, Lukic, Pancev che a Bari si laureò Campione d’Europa. Per la bolgia del “Marakana”. Per il Crvena Zvezda.

Il primo a dirmelo è stato Angelo. Un colpo basso: “Sai chi sarà il prossimo allenatore della Stella Rossa?”. So per esperienza che quando uno mi fa una domanda con quel tono, la risposta è invariabilmente o Casillo o Zeman. E siccome Casillo non allena (non ancora) ho sentito il bisogno di sedermi e di correggermi una Peroni con un cicchetto di gin. E non certo per festeggiare. Ma come, santo iddio, non l’avevamo lasciato che voleva “fare calcio” alla Cisco Roma?, chiedo rabbioso al terzo Lobanowski. Annuisce sconsolato, ma neanche lui sa darmi una risposta. Il tempo di immaginare un altro Fenerbahce, un altro Napoli, un’altra linea difensiva che scatta all’unisono verso il centrocampo come l’Armée napoleonica, mentre gli inglesi, i russi e i prussiani aggirano con sistematicità il fuorigioco.

Una scarica di tensione acquea. Poi Loba3 se la canta: c’è un’intervista al boemo sulla Gazzetta. “Vai a leggerla”. Tremo al sol pensiero. Scovo, leggo. E, parola dopo parola, concetto dopo concetto, l’intera filosofia zemaniana finisce stesa sull’erba, come una tovaglia da pic-nic: il “ribelle” contro le plusvalenze e le farmacie sostiene che il sistema gli ha impedito di vincere, rubandogli dieci anni della sua vita. Ne parla con la stessa insistenza vacua di certi maoisti di ferro, di quelli che credono che nulla accada per caso e che se un terremoto devasta la Cina a pochi mesi dalle Olimpiadi la colpa è da ricercare nel frullo d’ali della Cia in Paraguay. Il sistema. Inarrivabile e senza perimetro, altrove d’ogni condizione fisica. L’alibi di chi non ha più un presente e trova comodo giocare con il ruolo dell’eroe sacrificato sugli altari del profitto (altrui).Ma c’è di più, c’è di peggio. C’è che quando chiedono allo stoico quale è stata la sua squadra più forte mai allenata, risponde: il Licata, “che giocava a occhi chiusi”, la Lazio e la Roma, che hanno fatto divertire. Strabuzzo gli occhi, investito da una scarica di adrenalina. Positive vibration. Sorrido. E il sorriso che mi si stampa in faccia è quello di uno stronzo: Zemàn, l’osannato Zemàn, il venerato Zemàn, nume tutelare della foggianità, sogno ed emblema di un’epoca che portò alla giornalistica trasformazione finanche del nome dell’antica Arpi, semidio del Rosati e del Ginnetto, patrono di San Guglielmo e Pellegrino, della Piana delle Fosse, di Candelaro e Borgo Croci, re taumaturgo del Cep, di Segezia, del Martucci e del Diaz, sovrano paterno e indiscusso dei corsi Giannone, Matteotti e Roma... per Foggia... per la sua Foggia... non spende neppure una parola! Licata e Roma. Oh, Deo gratias!

Chi è l’ingrato? Perenne dibattito aperto: il pubblico che ha assistito, ha pagato e pregato, o l’asso che tutto ha pigliato e tutto ha dimenticato? È Zeman un professionista cinico e disincantato o un semplice senza cuore frettoloso di staccarsi dalla pelle il trasferibile della sua impresa più leggendaria: Zemanlandia, per l’appunto? E soprattutto: perché Renzo Arbone, che pure dice d’essere foggiano ad ogni occasione buona, è trattato da traditore della patria mentre quest’uomo possiede più edicole votive in città di quante ne possa vantare la Madonna dei sette veli?
Che questi fedeli in perpetua processione possano aprire gli occhi. Così come quelli della Stella Rossa, ahiloro, faranno presto.

Il punto più basso, secondo contributo ad un dibattito aperto

di Lobanowski 3
Arrivammo a Massa in piena mattinata. Dopo essere partiti all’alba e dopo aver provato sulla propria pelle e sulle nostre maglie a polo quanto fosse lontano il confine tra la Liguria e la Toscana. E come fosse lunga ed interminabile l’autostrada.
La vittoria col Chieti, praticamente retrocesso dal turno dell’Epifania, aveva spianato al Foggia un’altra autostrada; quella che portava al casello della salvezza diretta. Unica condizione, non perdere a Massa, altra arrancante compagine praticamente rassegnata ai play-out.
La pendraiv con l’unica cuffia che funziona rimanda le note di Gwen Stefani e di Heartland degli U2. Decido di pensare a programmare le vacanze, visto che siamo alla penultima di campionato. Ma la pianificazione estiva naufraga, sopraffatta dal pensiero di Germania-Costa Rica il 9 giugno. I mondiali, il futuro, il prossimo obiettivo dopo la salvezza del Foggia.
Credo di aver pensato tanto, ma è solo finita Heartland e il cartello verde dell’autostrada dice impietoso Grottaminarda. Zarriello ha il portatile ma non la connessione ad internet... O meglio ce l’ha, ma per ora non si può usare. Servirà per trasmettere i pezzi del dopo partita. Firenze pare irraggiungibile e quando ci arrivi pensi di essere a Capo Nord. E’ la voglia che manca, alla fine stai andando a prendere solo la più anonima certezza d’esserti salvato.
C’è lo svincolo per La Spezia, poi si esce a Massa. Non c’è Carrara, non è come alle elementari quando ti facevano ripetere in maniera pappagallesca Firenze, Arezzo, Grosseto, Pisa, Pistoia, Lucca, Massacarrara. Eppure io la Carrarese sull’album Panini me la ricordo. E mi piaceva pure lo stemma. Città sonnecchiante di domenica mattina. Pioviggina, poi piove con maggiore decisione.
E trovare un ristorante nel centro di Massa risulta davvero difficile. Ne troviamo uno lussuoso, spocchioso e con certi vini scritti su una carta che sembra pergamena. Sarà contento l’editore di questa mazzata sul budget. Continua a piovere, mentre si raggiunge l’auto. Fa caldo, caldo umido.
Uno sbirro mi perquisisce all’entrata; devo aprire la borsa col mio portatile, mentre il fotografo che è accanto a me guarda ironico quel controllo, mentre ha tra le mani un trepiedi di ferro. Uno di quelli che ha fatto male, male davvero a Berlusconi in Piazza Navona la sera di Capodanno. Lo stadio di Massa ha due anelli. Uno inferiore, chiuso, col gabbiotto. Mi sistemo là, al piano di sopra si è praticamente in tribuna. Dove, sempre praticamente, non c’è quasi nessuno.
Le curve sono un paio di gradoni che abbracciano la pista di atletica. Ci sono tantissimi tifosi del Foggia. In netta minoranza i supporters bianconeri.
Ecco. Per me Massese-Foggia è il punto più basso. Non so neppure spiegare bene il perché. Immagino che sconfitte come quella di Nola, di Sant’Anastasia o Castrovillari siano state peggiori. Ma una partita così brutta come a Massa, io non l’ho mai vista. Si prende gol dopo neanche un minuto. E non si tira in porta mai. Ma proprio mai. E il bello è che non lo fa neppure la Massese. C’è gente che dà le spalle al campo, mentre la partita è solo una sequenza ininterrotta di rimesse laterali. Finisce con i tifosi del Foggia che rincorrono i giocatori. Si infilano nel sottopassaggio, sfuggendo al contatto fisico. Non volevano le maglie, volevano semplicemente sapere perché tutta quella strada in cambio di un simile scempio.

Contro i cloni di Baldassarre, io difendo le scelte della società

di Lobanowski 1

Io certi tifosi proprio non li sopporto. Parlo dei vittimisti, quelli che a giugno sono pronti a fasciarsi la testa prima ancora di giocarsela, che godono nel poter dire “l’avevo detto io!” se va male una stagione. E che direbbero la stessa frase anche in caso di risultati positivi, puntando sull’indulto per gli scettici cronici che scatta in caso di successo. Quelli che cinque minuti dopo aver pianto davanti al maxischermo piazzato a ridosso della tribuna dello Zaccheria il 17 giugno del 2007, erano pronti a gridarti “ancora appresso al Foggia andate!” o “chiudete quelle bandiere!”. Per stare dalla parte dei vincitori, dalla parte di chi ha sempre ragione.

Mi rivolgo a voi, se vi siete riconosciuti in questo quadretto, per dirvi che siete dei tifosi di merda. Che faremmo benissimo a meno di voi. Che il Foggia, perdonate l’arroganza e la presunzione, farebbe benissimo a meno di voi. Che a gridare e soffrire ad una finale play off sono bravi tutti. Beninteso, prima che la frase di rito ci venga sparata in pieno petto da qualche benpensante: qui nessuno vuole limitare il diritto di critica. Il calcio è materia popolare anche per questo: tutti dicono la loro. Ma leggere sui forum che ruotano attorno all’US Foggia quel che si è scatenato prima e dopo l’annuncio di Novelli, irrita. Sembra di stare di fronte a decine e decine di cloni di Peppino Baldassarre. E sappiate che non è un complimento.

La società ha detto una cosa semplice, di una logica stringente: Signori, dopo due anni di fior di quattrini spesi per pagare stipendi da serie B a gente come Dall’Acqua, Campilongo, Plasmati, Del Core e compagnia bella, la serie B non è arrivata. E siccome di Moratti a Foggia non ce ne sono, occorre riprogrammare, aggiustare il tiro, puntare prima di tutto alla tenuta societaria. Io non li dimentico gli anni di merda dei faccendieri e dei Sensi, delle curatele fallimentari e dei mister Pascucci dalla Gran Bretagna. Della Finanza a casa di Casillo e di Marco Russo. Delle tribolazioni, ogni estate, in attesa del via libera della Covisoc, della sempre sofferta iscrizione.

Io non dimentico e dico grazie a chi sta gestendo il Foggia, non credo arricchendosi. Perché siamo in serie C. Perché coi soldi degli incassi magari paghi metà della gestione di un anno. Ma se poi finisce che ti mettono nel girone A, con trasferte lunghe e spalti vuoti, c’è ancor più da piangere e pedalare. Di fronte a questo scenario, siccome nessuno ci può dare la garanzia che spendendo milioni e milioni di euro si vinca il campionato (provatelo a chiedere ai tifosi di Cremonese, Perugia, Taranto, Padova, Novara), io preferisco la lunga vita dell’US Foggia ad una rincorsa affannosa della B che magari porta alla morte per asfissia economica.

Quelli come Baldassarre, uno che evidentemente fa scuola, dicono che Novelli non va bene perché viene da Salerno. Peccato che anche Galderisi è salernitano. Credete abbia contato? Di più: dicono che Novelli viene da due esoneri. Nanu sul groppone mi sa che ne contava quattro consecutivi. Però fino a ieri tutti piangevano la sua fuga verso Pescara. E così tocca essere arcibanali e dire che una stagione è diversa dall’altra. Che conta la squadra, l’ambiente, la fortuna. E anche gli acquisti, certo. Però, voi tifosi da bar sport esperti dell’inferno della C1, chi conoscevate del Sassuolo direttamente promosso in B? Quanto vi sareste giocati alla Snai, a giugno 2007, sul campionato vinto dai modenesi? Ed escluso Coralli, in quanti conoscevano De Gasperi o almeno sei nomi della rosa del Cittadella?

Dopo, tutti bravi a dire che Foscarini è un ottimo tecnico, che il Cittadella “gioca a memoria”. Le stesse cose che dicevano della Cavese. Cosa che fece “digerire” Campilongo, uno la cui spocchia l’anticipava di una buona mezz’ora quando si presentava in sala stampa. Tutti bravi (dopo) a dire che Meggiorini è un attaccante di valore. Ma scommetto che se a giugno dello scorso anno quel nome fosse stato accostato al Foggia, il tifoso di cui sopra avrebbe annunciato il mancato rinnovo dell’abbonamento. Così come fa oggi quando legge di Vianello o Lazzari, di Piccolo o Mattioli.

Va bene la critica, ma per lo meno che sia sostenuta da argomenti. E siccome il calcio è materia che sfugge alquanto alla logica, preferisco sognare un futuro da Udinese: vivaio, strutture sportive, valorizzazione di giovani con i quali fare cassa, che vincere il campionato a giugno sulle pagine dei giornali, prima che lo stesso inizi. Non ci credo più a certe favole, ed è strano che altri ci caschino: io la verginità l’ho persa ai tempi di Nino Lioce, dello squadrone di GB Fabbri, dei Torresani, Mosti, Mastalli, Messina, quando sugli spalti durante l’amichevole di prestigio contro il Napoli di Careca, che celebrava l’inaugurazione dell’impianto d’illuminazione dello Zaccheria, tutti giuravano che l’avremmo ammazzato quel campionato di C. Ero un’adolescente che s’abbeverava di simili leggende. E che della salvezza strappata coi denti alla penultima giornata ha fatto insegnamento di vita. E di tifo. Ci volle il rude Caramanno, che schierava Fabbiano alla Chicco Evani e Costa, Ferrante, Orati, per rivedere la B. Perché questa è la serie C, facciamocene una ragione.

18/06/08

Il punto più basso, primo contributo ad un dibattito aperto

di Lobanowski 2

Il capitolo di Gianluca Morozzi si intitola Toccare il fondo (e poi scavare). Evocativamente, direi. Lo avevo letto durante il mio primo volo aereo, sorvolando l’Isola di smeraldo. Straziato da una febbre palpitante in incubazione e dall’ansia accumulata, mi aveva fatto riflettere. Uno sguardo all’oblò. Il punto più basso. Quello che riconosci mentre lo vivi. E quello che raramente riconosci a posteriori. Morozzi è bolognese. Il suo punto più basso ha una data ed un luogo: Leffe, 1993. “Tiriamo dritto, entriamo finalmente allo stadio.
E ci si gela il sangue”. Ci siamo, lo percepisco: lo spirito inquieto, la premonizione, il passato che incombe. Leffe-Bologna 2-0. Il punto più basso, sempre più basso.

Ceska mi passa gli auricolari dell’emmepitre. Tra un po’ comincia la discesa. Nella tracklist, subito dopo Therew’s a reward dei Bluebeaters e Soon you’ll be gone dei Casino Royale c’è Pino Campagna. C’è solo il Foggia, si chiama la traccia. Paraparà-pararara. Ceska mi osserva, io ricambio il suo sorriso complice. L’Irlanda è molti piedi sotto di noi. Stona pensare al momento più basso a simili altitudini. Eppure.

Poi più nulla, per mesi. Fino alla domanda di Filippo Santigliano, piovuta tra gli scaffali di una libreria: “Ma secondo te qual è il punto più basso toccato dal Foggia in questi ultimi anni?”. Il retrogusto delle domande a bruciapelo, che sanno di portiere a destra e palla a sinistra. Rasoterra. Mente locale, rapida. Una scorsa ai sentimenti frustrati, alle umiliazioni propriamente dette. Di botto rispondo: “Marsala”. Marsala perché era il primo svincolo alla fine del paradiso a tempo determinato che abbiamo vissuto da Caramanno all’ “Arechi” di Salerno. La concretezza della fine, del dirottamento imprevisto della storia. Altri profili, altri orizzonti. Battipaglia, Castrovillari, Palma Campania.

L’uno a uno di Marsala. Buona risposta. Sapore di terriccio tra i denti. L’alone di foschia. Si può fare di meglio. Ne sono convinto. La folgorazione nel dopopranzo: Foggia-Gualdo 0-1. Santa madonna, è vero. Tra me e il Foggia c’era un’ostilità malcelata, all’epoca. Ero allo stadio. Ero fuori dallo stadio. Ero a pranzo di fronte alla Nord. Di tanto in tanto il richiamo della finestra. Il silenzio glaciale. La notizia da una tv locale. Non è possibile, pensai. Non riuscirò ad alzare più la testa dai centimetri quadri che circondano le mie scarpe. Come si fa a riprendersi da una cosa del genere?Eppure si fa. Ci si riesce.

Anzi, capita che un sabato sera, con un occhio lanciato a seguire il 2 della Russia sulla Grecia (quotato 3,10), si riproponga la domanda. E come luce riflessa in un prima, scaturiscano le risposte più impensabili. Quelle più riposte. Due scheletri dall’armadio. Uno 0-2 interno col Tricase. E, ancor di più, un 3-1 a Sant’Anastasia. Gol di Puleo. Uno sguardo al bancone, un fazzoletto per detergere il sudore che comincia a spuntare. Tre a uno a Sant’Anastasia. Questo li batte tutti. Freud avrebbe capito il perché della rimozione, ne sono certo.

La fatal Cremona

di Lobanowski 2

Dalle nozze a Pizzighettone

Mia sorella ha pronunciato il fatidico si in un sabato mattina assolato di promesse. La Lancia Lybra ha imboccato la A14 che gli invitati al suo giorno più bello avevano da poco liberato il giardino della sala ricevimenti. Il trenino aveva smesso di raccogliere i timidi ai tavoli. A-e-i-o-u-ipselon. Verso Nord. Con la speranza che non si confessa, con la carica che si maschera nelle macumbe dell’esorcismo collettivo. Finisce in pareggio, sicuro. E noi? Noi dobbiamo esserci, abbiamo il dovere di crederci. Ma anche di non illuderci: è dura, incredibilmente dura. La mezzeria bianca ipnotizza. Fantasmi che vagano nella notte adriatica. Geografia della percezione, la musica che cambia: Moby si presenta in punta di lancia. All’autogrill ci ricongiugiamo col resto del gruppo, ci guardiamo negli occhi. Mondonico ci accredita ancora del 50% di possibilità. Fa pretattica, la sa lunga. Allo “Zaccheria” ha serrato i ranghi, ha strappato un pari senza reti coi polmoni e i piedi buoni dei suoi centrocampisti in sostegno. Ora, quella porta inviolata è un filo che ci trasporta come ragni da una parte all’altra dell’Italia. In carovana. A Vasto spunta il sole. Un sole ancora notturno, ma il mare rischiarato concilia i pensieri. Se vinciamo siamo in finale, se perdiamo è il caos. Apro i finestrini, respiro a fondo, scaccio il nerofumo. A Rimini vediamo la via Emilia, in radio gli Arpioni battono in levare. Il sonno è definitamente riposto. Andiamo, andiamo, andiamo a vincere. Il cielo mostra il suo lato B: c’è nebbia, ma quella ce l’aspettavamo, un freddo umido trasuda nelle ossa, quasi piove. Tutt’intorno è più buio adesso, alle otto del mattino, che a Civitanova. Incontriamo i bolognesi che emigrano verso Mantova, a giocarsi la A. La tensione morde la bocca dello stomaco. Noi siamo il Foggia, abbiamo dei conti da saldare col passato. Rivaldo è un ectoplasma da ridurre al silenzio. Tanto più che oggi l’Avellino avrà la certezza della retrocessione, lo sappiamo. Sarebbe il massimo. Radiorai gracchia del tappone dolomitico del Giro. Noi viriamo a Fiorenzuola. Direzione Brescia. Il Po, Piacenza barrato. La campagna è una trapunta bagnata. La foschia è densa. Qualche campanile agli angoli del disegno. Cremona. Le bicliclette della sonnolenta provincia lombarda, i segnali stradali ad indicarci il settore ospiti. C’è già gente, siamo già più di loro. Loro, che a braccia conserte e in atteggiamento di sfida, attendono i foggiani del Nord ai botteghini della Sud, la loro curva ricoperta da murales. Sanno di giocare in trasferta, lo temono e fanno i duri. Tentano di allontanare le cattive suggestioni: dicono che non saliranno più di quattrocento foggiani, dalla Puglia. Ma ignorano un dato fondamentale: non siamo come loro. Tra noi e i grigiorossi c’è un approccio grande quanto un podere. Noi non meritiamo la C, loro si. In questa affermazione ingiusta e parziale brilla la verità oggettiva delle cose, inutile girarci attorno. Una coppia di cremonesi monta il chiosco dei panini. Un pezzo del gruppo è novanta chilometri indietro, alle prese con una gomma da ovalizzare. Andare in giro per Cremona sembra un atto di scortesia. Puntiamo a nord-ovest, verso Crema. Pizzighettone è in festa. Un caffè in luogo dell’aperitivo. L’ennesimo. Qualche telefonata. Poi è tempo di muoversi. Di provarci, di andare. A vincere.

Ci siamo

Tifosi ospiti? Nella voce del vigile urbano fa capolino la routine. Del resto, chi vuoi che passi di qui a quest’ora? Lo slargo della gradinata è vasto. Inaspettatamente aprono i botteghini. Cinquecento biglietti invenduti vanno via in dieci giri d’orologio. Incontriamo degli amici. Brindiamo col Borghetti e non possiamo fare a meno di mettere a paragone l’inconsistenza di una tifoseria che mette in vendita altri tagliandi con la follia di un’altra che porta cinquecento persone a macinare 700 chilometri senza la sicurezza di assistere all’evento. Ci narriamo di quella volta che si giocarono la A a Pescara, contro la Reggina, in cinquanta. Non nascondiamo il disappunto. Oggi pareggeremo, lo dicono tutti. Lo affermano con sicumera. Perché si dice ciò che si teme. E in tanti, qui fuori dallo “Zini”, crediamo sia meglio perdere 3-0 che uscire con un pari. Entriamo, con la forza d’animo dei condannati. Facce di Foggia, facce conosciute, ovunque. Altro che quattrocento. Dei 2mila e passa rossoneri in curva (e in tribuna) almeno sette su dieci hanno visto l’alba a Vasto. Il cuore si riempie d’emozione, pompa esaltazione. I nostri avversari distribuiscono t-shirt rosse. Ci facciamo due conti in tasca e pensiamo a quanto debba essere comodo fare l’ultrà coi soldi del patron. Un coro chiama il nome di Giovanni Arvedi. L’evidenza s’è fatta carne. La nostra curva li richiama alla realtà: Dove eravate, a Foggia dove eravate... Crudele ma necessario: non ci si inventa tifosi, purtroppo. La squadra entra a tastare il terreno: facce tirate, espressioni tetre. Pensiamo: oddio, ma urliamo. L’incitamento è alto, identico a sé stesso, ripetuto centinaia di volte in questa settimana di passione: Andiamo, andiamo, andiamo a vincere.

L’attimo eterno

Il Foggia è compatto, convinto, seriamente disposto a giocarsela. Sento la pressione diventare impazienza. So che non perderemo. Lo capisco da come andiamo a pressare, a tentare l’anticipo. L’afa penetra nella pelle come inchiostro, come agente chimico. Si sbuffa, si soffre, si fuma, si suda, si salta all’unisono. Foggiàlè, Foggialè, Foggialè. Quando De Paula salta Bianchi, e questi lo atterra e va fuori, la pressione diventa ansia. Uno stato di pre-panico che non vuole rassegnarsi all’idea che potremmo anche non segnare, nonostante la superiorità numerica. Si scacciano gli incubi, ci si guarda attorno. Facce spiritate, occhi che puntano la preda e seguono l’aria fino a fiutare l’odore dell’erba gonfia di pioggia mattutina. Nella loro porta va un ventenne, Sirigu. Siamo undici contro dieci e manca un’ora. Il sangue vibra, disegna ghirigori nelle orbite. Incitiamo la squadra. Mondonico dovrà aprire spazi. Possiamo farcela. Il calcio d’angolo di Di Roberto al 47’ sfila alto, a parabola. Il ventenne esce ma viene scavalcato. Dietro di lui c’è Del Core. Lo sappiamo, anche se è dall’altra parte del campo. Intuiamo come andrà a finire, ma non quello che sta per succedere. Perché quando capiamo che la rete s’è gonfiata, il boato è la cosa più bella a cui mi sia capitato di partecipare negli ultimi dodici anni di calcio. Dal gol di Di Michele al “San Nicola”. Duemila folli. Duemila pazzi di gioia che si abbracciano, che cadono, che saltano, che sbucano dagli assembramenti. Dagli sguardi increduli e perduti. Per molti è pianto isterico, io ho le lacrime che forzano per uscire e non escono solo perché gli occhi mi bruciano troppo e troppe sono le persone da scovare, da abbracciare. L’arbitro fischia che ancora esultiamo. Non badiamo più all’afa, al sudore, alle polveri sottili. Gridiamo, come invasati, la gioia dell’attimo. E cantiamo, col la potenza bellica dei momenti sublimati. Il coro è il solito. Ma ha perso i contorni dell’auspicio. Stavolta è una promessa, e gronda dal diaframma, dallo stomaco, più che dall’esofago. Urlata contro il centrocampo e la Sud in maglia rossa: Andiamo, andiamo, andiamo a vincere.

Andiamo avanti così, per dieci minuti. Dieci minuti rapidi ed eterni, indimenticabili. La voce si fa elio per evaporare, leggera. Il cuore è ostaggio d’una maschera di piombo. Adesso è tutto perfetto. Lo abbiamo sperato, lo abbiamo inseguito, lo abbiamo atteso. È giunto. Dieci contro undici all’intervallo, in vantaggio di un gol. Verranno avanti a testa bassa, poi perderanno la lucidità. E con essa la testa. Stiamo attenti ai troppi ammoniti a centrocampo, prepariamoci a reggere l’urto, la cavalcata disperata dei lombardi. Attenti alle distrazioni. Adesso è tutto in mano nostra. Dovremo essere concentrati e cinici. Poi taglieremo lo spazio come crema catalana. E sotto la Nord rossonera ci abbandoneremo al delirio del raddoppio. All’ottantottesimo, ne siamo certi. La pressione diventa terrore e la grazia ci tocca la fronte. Adesso si, è tutto perfetto.

...

About a boy

Lo diceva Morozzi. Lo diceva Nick Hornby. Di sicuro qualcuno prima di loro, con o senza libri all’attivo. La squadra del cuore non si sceglie. Non è un amico, non è un amante. È un’alchimia prenatale, o il frutto del contesto, delle nenie, delle saghe, delle leggende di quando – nella culla – ancora guardi la giostra con le api di plastica. Ed entri nel dormiveglia estatico al suono di un carillon, come oggi senti le pareti del cranio rimbombare della voce di duemila quasi sconosciuti impegnati in un coro. La squadra del cuore non si sceglie. Lo conferma l’incisione profonda nelle mie corde vocali. Le lacrime che s’affacciano, a sfidare la razionalità delle cose per cui si piange sul serio. Il vuoto pneumatico, il silenzio senza vie di fuga. Le immagini che si rincorrono nel cervello, come suggestioni tennistiche. Non ci siamo detti niente fino a Bologna. Chi non fissava il contachilometri puntava il vuoto. Di tanto in tanto uno scossone della testa. E capivi che ognuno cercava di cancellare i propri demoni.Ho provato a rendere questa squadra, quei colori, esterni a me stesso. Non fino all’estraneità, certo, ma in ogni caso ho provato – in questi ultimi anni – a trasformarla in un amico di banco, di quelli che finita la scuola continui a salutare senza frequentare più così da vicino. Avevo pensato di essere guarito, d’avercela fatta. Pensavo d’averla scomposta, razionalizzata, resa adulta quella passione da ragazzino. È bastato un attimo. Quell’attimo indicibile, incomprensibile, irriducibile in cui la ragione diventa ipotesi, in cui il coro si fa assioma, per rendermi conto di esserne ancora follemente innamorato.
Il mare all’altezza di Giulianova m’è parso scuro come la mezzanotte. E mentre qualcuno ipotizzava Celano, o Mezzocorona, o Portogruaro, l’abitacolo s’è gonfiato della voce di Michael Stipe. Everybody hurts. Tutti soffrono. Il silenzio s’è fatto invadente. Ho ripensato al trenino degli amici e dei parenti, al cantico della Nord all’intervallo. Al fatto che avrei voluto accostare le due immagini ed intitolare questo pezzo From disco to disco. Invece niente. L’incubo nuovo ha scacciato il vecchio. E m’è tornato in mente che avevo un’ora di sonno. La testa è caduta sul petto. Ho sognato luglio. I calendari. E la trasferta di Marcianise. E da dormiente ho mormorato: Andiamo, andiamo, andiamo a vincere.

Il Libro