28/09/08

Il dramma della bandiera

di Lobanowski 2
Domenica 28 settembre, Foggia-Juve Stabia 1-0
È riesplosa la guerra di mala. Le sirene delle volanti sono acuti su via Onorato. Direzione Porta Manfredonia. Le teste dei passanti come pinguini, a seguire le scie luminose. Sei colpi, di cui quattro a segno su un anziano fermo al chiosco della frutta. Il trillo del cellulare. Antonio. In città gira una voce… Pare ci sia Zeman al Bar Cocozza a piazza Padre Pio. La vita è fatta di priorità. Il mito galoppa. C’è gente da ogni angolo della città che converge sulla zona sensibile. L’altra è transennata. Ma, in tutta onestà, interessa meno. C’è il Boemo, garantisce vox populi. Starà sorseggiando un caffè. Chissà se lo prende amaro? La vita con lui non è stata una stecca di liquirizia, c’è da ammetterlo. Lampeggianti. L’edizione del tg di Telenorba. Obiettivo dell’agguato, un noto pregiudicato di 21 anni. Noto. A ventuno anni. E c’è da scommettere che anche i sicari non fossero più anziani di lui. Novelli si gioca il posto. Non ci vuole la sibilla per capirlo. Un passo falso interno e la tagliola scatterà implacabile attorno alle sue caviglie sottili. È morto Paul Newman. L’Everton si è piegato allo strapotere del Liverpool. Nella tribuna del “Goodison Park” le due tifoserie sono mescolate. L’immagine di una bimba bionda con la maglia dei reds, sulle spalle del papà festante. Antonio mi fa: ti piacerebbe? Non lo so. Sono dell’idea che i bambini debbano frequentare gli stadi, ambientarsi il prima possibile. Con la stessa precocità che è valsa per me. Ma sono cresciuto con l’idea del settore ospiti, delle staccionate, dei reticolati invalicabili, delle trasferte calde da affrontare come una guerra di nervi. Sono combattuto. A sera si spara ancora. Stavolta viene abbattuto un boss. Il Barcelona espugna l’Olimpico e si aggiudica il derby con l’Espanyol. Teleblu fa lo speciale: mostra l’auto elettrica del presunto pezzo grosso crivellata di colpi. E poi Raitre, Raiuno nel tg della notte.
Stamattina siamo su tutti i giornali. Canale 5 parla dell’omicidio, avvenuto nei pressi di un chiosco di bibite. Le immagini vanno da un neon all’altro. Raidue, alle 13, fa altrettanto e si spinge oltre, fino al tentato omicidio di martedì sera, allorquando due ragazzine sono rimaste ferite di striscio dai colpi sparati da un killer. A Parco San Felice. Un paio da proiettili vaganti. Nei pressi di un chiosco, garantisce il corrispondente. Un chiosco, due, tre. Chi osserva Foggia dallo spiraglio che i media hanno aperto sulla nuova guerra di mala, avrà la motivata tentazione di credere che qui ci siano solo chioschi. Che ce ne siano a bizzeffe, che facciano da fulcro della vita sociale. Mi tornano alla mente le chiacchiere di qualche settimana fa: Ultras, gente di chiosco. Ad ogni modo Ceska, nel percorso da casa allo “Zaccheria”, appare restia a fermarsi da Salvatore. Impressione, suggestione. C’è vento e minaccia pioggia. Ma l’estate appena seppellita ha lasciato uno strano strascico di nostalgia, di incertezza. Ci si veste a dovere, ma si teme il caldo. Un tepore rivierasco che potrebbe spuntare, come l’araba fenice, dalle rovine dell’apparente autunno. Come Zeman ricompare a fasi alterne alle ceneri della città sotto assedio. In curva ci sono ampi spazi vuoti. Mattia ha bucato l’appuntamento delle 12:30 (e pure quello delle 13:40) ed è in cerca del biglietto. Jordan ha portato solo la bandiera dell’Angola. Scatta il dramma. Sono in alto e non ho nulla da sventolare.
La Juve Stabia, in maglia bianca e senza tifosi al seguito, scende in campo con lo stesso atteggiamento della Cavese. Con ogni probabilità, lo zero a zero l’accontenterebbe. Io sono sulla stessa lunghezza d’onda, più o meno. Se non puoi batterli, almeno evita di prenderle. In porta c’è Brunner, l’ex di oltre quattordici anni fa. Quando ci viene sotto ci scambiamo uno sguardo complice: Ancora qui? Ancora qui. In centro ci sono voci, stendardi e bandiere. Ai margini sembra di essere ospiti ad un inatteso talk-show. La fanzine della curva incita a sostenere la squadra, a gettare il cuore oltre l’ostacolo, a partecipare allo svolgersi dell’azione come se si fosse in campo. Che non è la stessa cosa di vedere la partita. Chiede di innalzare sciarpe e bandiere. Io guardo il centro del settore, in alto, per controllare il vessillo angolano. Jordan mi comunica a gesti che l’asta si è autolesionata. Il Foggia preme disordinatamente, sotto la Sud. Conclude in porta un paio di volte, pericolosamente. Ceska, sopra di me, sembra un alpino di guardia alla polveriera. E dall’alto guarda giù, verso le schiere di adolescenti intenti a scavalcare i cancelli. Mi basta allargare lo sguardo per capire che non è la sola. Sono in tanti quelli che, già alla mezz’ora, hanno smesso di fissare l’appesantito manto verde, e si concedono distrazioni da Real Tv. La tensione cresce, fino al climax. Poi il ragazzino atterra all’interno, senza essersi fatto un graffio. E si torna a guardare il campo. Strane popolazioni abitano queste lande estreme – nordiche – della curva. In mezzo ci mettono il cuore e i polmoni. Il primo tempo scivola via.
La serie C1 – o Lega Pro – che sto vedendo quest’anno, mi ricorda molto da vicino le vecchie maniere che tanto danno da borbottare ai vecchi. Le bolge del girone meridionale, i campi da cui esci col carattere e coi nervi, più che coi piedi buoni e la tecnica. Nell’intervallo raggiungo Mattia, chiedo che ne è stato della bandiera, che l’ho vista poco o niente, che almeno se l’avessi avrei qualcosa per sentirmi utile alla causa. Mi risponde, da burocrate del basso impero, che il titolare è assente causa impellente birra e che nondimeno s’informerà. Che mi farà sapere, insomma. Il Foggia scende in campo più determinato, ma è una fiammata. Jordan mi guarda e sventola. Le speranze di ottenere l’agognato oggetto del desiderio s’allontanano. A destra le popolazioni nordiche rumoreggiano. Le critiche montano, diventano gratuite e moleste. La fronda si compone come niente. Qualcuno chiede la testa di Novelli – anche il fedelissimo Lello, che aveva giurato incondizionata fedeltà al mister al Porto Viejo di Barcellona – altri fischiano pesantemente Salgado, svogliato ed inutile come non mai. Se ci fosse il ds Di Bari direbbe che i foggiani – per via di ciò che sappiamo – sono un pubblico di bocca buona. E non vanno contraddetti. Intanto sono più quelli che in curva ci vanno per criticare che non quelli che, bontà loro, continuano a sostenere. Così non va.
Poi il miracolo: Mattia squarcia la quasi notte dello “Zaccheria”. Proviene da ovest. Porta seco la bandiera. Il vento e l’asta spezzata la gonfiano in maniera irregolare. Un vicino di posto si muove troppo rapidamente e rischia di prendere bastonate. Bisogna fare forza, ma alla fine ce la si fa. Con i drappi, con la vita, con la Juve Stabia. Il principio è lo stesso. Tocco di mani in area. L’arbitro ci pensa. Il pubblico rumoreggia. L’arbitro ci ripensa. L’azione prosegue per inerzia. Il pubblico urla che è uno scandalo. L’arbitro fischia. Rigore per noi. C’era, era netto. Portiere da una parte, palla dall’altra. Uno a zero. Volevano fare la Cavese, e la Cavese hanno fatto.

PLAY: It's all here where I keep it, It's all in the submarine, It's all a lot less frightening, Than you would have had it be, Rem, Sing for the submarine

24/09/08

Il rimpianto del tugurio

di Lobanowski 2

C’è tutta una teoria sui boati. Sulla potenza, sui decibel sprigionati da ogni singolo coro di una curva. Ma anche sulla personalità, sulla profondità, sullo stile. Non è solo una questione di originalità, di complessità del canto. Quelli si, sono parametri che contano. Ma il timbro vocale è altra cosa. Da ragazzini, quando frequentavamo le medie, con Marco ci scambiavamo giudizi e pareri. E avidamente, nelle rispettive classi, nelle rispettive scuole, ne domandavamo ai ripetenti cronici, quelli che le trasferte se le facevano sul serio. Ne veniva fuori una graduatoria. I migliori risultavano essere i veronesi: potenti e cavernosi, con una frequenza da corda di basso che riusciva a risalire dal manto alle coperture in ferro, fino a planare sulle teste dei presenti. Come un volatile pesante e aggraziato. I peggiori erano i leccesi, con una ritmica acuta e irritante, alta come una trombetta da parata dei bersaglieri. In mezzo tutti gli altri: i romanisti, possenti ma scostanti, i napoletani, corali ma svogliati, i genoani, i doriani. A ripensarci oggi, c’era l’intero ventaglio di opzioni che passano tra il mestiere e il folklore. Tra l’impegno e la spensieratezza. Tra Yesterday degli Skoidats e Cheope dei Vallanzaska. Per intenderci. Con l’allegria a fungere da pianterreno di uno stabile dove la disciplina era il piano nobile.
La vita ci cambia, ma neppure tanto. Ci sono dei quadri esposti nei musei che, a primo impatto, e per un dettaglio secondario, quasi subliminale, rimandano per forza oscura a tutta una concatenazione nascosta di significati. Il profilo di quel tale col naso segato riporta alla mente i pomeriggi di settembre delle classi elementari. L’ufo che sorvola quella madonna rinascimentale lascia riaffiorare una quantità di partite al Subbuteo che la metà basterebbe. Colpa dei sussidiari, certo. Eppure il folklore della curva B del “San Paolo” continua, oggi come ieri, a richiamarmi il pianterreno. Mentre la sud del “Bentegodi” mi trascina verso lidi di insperata, inattesa ammirazione. Nonostante tutto.
Non pensavo a questo (non pensavo neppure di avere un pensiero al riguardo, a dire il vero) quando il Foligno ha realizzato la rete della vittoria contro di noi. Rewind. Rallenty. Il cross dalla sinistra, il colpo di testa dell’attaccante, la traiettoria sbilenca, alta e arcuata, il nostro portiere che da fermo richiama i reni con una frustata disperata, facendosi risucchiare dalla rete senza riuscire a togliere la palla dal sette. Ne ho visti di boati. Gli avellinesi in curva Nord che esplodono al gol di Luiso, il frastuono dell’ “Arechi”, il tutt’uno stereofonico dell’ “Olimpico”, capace di rimpicciolirti come e peggio di un raggio alieno, quando sembri l’unico tifoso ospite presente e t’accorgi che il gol l’hai preso tu. Proprio tu. Solo tu. E vieni irriso da 50mila persone, ad andar bene. Ne ho visti di boati. Ma a Foligno è accaduta una cosa strana. È accaduto che l’intera tribunetta di fronte s’è alzata di scatto, all’unisono. Ed è partita un’esultanza che m’ha lasciato interdetto. Ed ora coglie i suoi frutti nella riflessione ponderata: era fanciullesca. Un grido fanciullesco, spensierato, che sapeva di diporto e dopolavoro, che – dall’alfa all’omega delle vibrazioni presenti – sapeva di hobby, di passatempo, di sport. Come se il calcio fosse cosa di cui ridere e sorridere, come se questo gioco fosse un gioco, al pari di ogni altro gioco per cui si scambiano opinioni e poi si va a casa a riposare. Non me lo meritavo. Se solo avessi ancora i capelli lunghi (se solo avessi ancora i capelli…), avvertirei papale papale la sensazione d’essere acciuffato e trascinato con la faccia ad un millimetro dal mio presente: tifoso di una squadra che gioca sui campetti dei semiprofessionisti. Come quando andavamo a vedere le partitelle a San Ciro con zio Giuseppe. Dio mio. Ma non per la struttura in sé, non fraintendetemi. Il “Blasone” di Foligno è un campo di tutto rispetto, inaugurato di recente (dall’Anderlecht, mi pare), con dei bagni da categoria superiore. Nel campionato degli autogrill. Ma per l’urlo. È stato quell’urlo, giocondo, che mi ha fatto capire in che serie giochiamo. Ho immaginato le singole vite dei miei singoli dirimpettai. Le loro abitudini, il loro tenore di vita, i loro film preferiti, i loro vini della domenica. Ho immaginato il signore che al primo figlio maschio dice: “Abbiamo fatto gol, batti le mani, a papà”. Cose che mi commuovono in astratto. Ma che in concreto mi straziano. Certo, la conclusione è sempre nelle lacrime e nel lacrimare; forse è che sono sbagliato io, che ho sbagliato tutto, l’approccio con la scuola, con le donne, con gli amici, con la politica, col mercato del lavoro, con la religione. Forse, forse hanno ragione loro. Ho pensato che ognuno di quei papà, ognuno di quei giovanotti, ognuno di quegli anziani diportisti avesse una seconda squadra. Che poi era la prima. Ed era, immancabilmente, l’Inter, o la Juve, o il Milan, o la Roma. O quella che vince lo scudetto, di volta in volta. Ma che neppure quell’altra passione sarebbe riuscita a strappare più d’un suadente sorriso o una mesta alzata di spalle, o una parolaccia, al ritorno a casa. Di fronte al Televideo. “La Juve ha perso?”, “No, ha pareggiato”. Niente di più di un inaspettato dessert. Il guaio di quelli come me è che ritengono il calcio, il gioco e il giocare, specchio e spia d’una persona. Dimmi che tifi, dimmi come tifi, e ti dirò chi sei. È una regola infallibile, tutt’ora a prova di bomba. Negli ultimi anni persino i compagni degni di considerazione politica venivano selezionati in base a questo paramero.
Quando i ragazzi del collettivo di Aversa ci hanno rivelato la loro passione per la Normanna, abbiamo capito che erano nostri compagni. Legati a noi dal doppio filo del sentire, più che dal sottile ponte del pensare. Quando quel ragazzo coi capelli lunghi, tifoso del Napoli, m’ha confessato che il suo anno perfetto è stato quello in cui ha potuto festeggiare, contemporaneamente, la promozione dei partenopei e la doppia retrocessione di Hellas e Chievo, ho sorvolato sul suo trotzkismo e siamo andati a bere assieme. Ben diverso da quelli che fanno smorfie quando rimandi un’assemblea perché c’è Spagna-Turchia in tv. Ma sto divagando. Risento l’urlo. Rivedo i nostri che, nonostante la mazzata, alzano le braccia e fanno ripartire il cantico: Noi non molleremo mai. Percepisco asetticamente la dimensione del fenomeno calcio in piazze che non ci appartengono più di quanto non possa appartenerci il baseball. Come un secchio d’acqua gelata in pieno volto. Nel boato di Foligno ho capito che qualcosa non va. I leccesi erano pessimi, erano gli ultimi. Ma di un altro pianeta. Un pianeta dal cui siamo, al momento, esiliati. E, oggi come oggi, darei via la mia collezione di sottobicchieri per tornare al “Via del Mare”. Per non vivere, come diceva Frankie Hi-nrg, nel rimpianto del tugurio.

23/09/08

Pilastri di sabbia

di Lobanowski 3
"And I discovered that my castles stand upon pillars of salt and pillars of scent", dice Chris Martin dei Coldplay nel mio Ipod. Ha scoperto che i suoi castelli erano costruiti su pilastri di sabbia. Lui. Da poco passate le 7.45, la macchinetta del casello sputa il biglietto. Casello di Foggia, si ritornerà a sera. Si va per raccontare la seconda trasferta che sa molto di prima. L'esordio fuori dalle mura amiche è stato a Vasto. Chiamala trasferta, quella. L'arrosto della sera prima, clou di una cena finita troppo tardi si fa sentire. I finestrini sono chiusi, ci sono i giubbini. La cosa mi piace, perchè l'estate è finita. Perchè torno a rimpiangere di non poter vedere Chelsea-Manchester United che si giocherà in contemporanea a Foligno-Foggia. Perchè mi preoccupa, anche se lo sapevo, la seconda sconfitta del Parma a Grosseto, e perchè il Liverpool è stato fermato in casa dallo Stoke city. Insomma, siamo al lavoro di nuovo. L'estate, il mare, Vieste, la Coppa Italia agostana sono alle spalle.
Più si "sale", più fa freddo. Sosta dopo Pescara. Cornetto con caffè. San Benedetto, Grottammare ed ecco Civitanova. Il limes per chi soffre di mal di macchina e sta puntando il cuore dell'Umbria. La Colfiorito è l'Hic sunt leones e mi ha già punito un paio di volte; ad Assisi in vacanza con i miei da bimbo, e anche a Terni l'anno scorso.
Non dò di stomaco, resisto e non soffro neppure tanto. Grigiore, nuvole e vento timido. E' mezzogiorno e sono già nel clima partita. Controllo più volte che il telefono sia ok, sistemiamo i dettagli con chiamate incrociate da RadioNova. Antipasto casereccio, ottimo. Il primo è uno spreco; nel senso che è sicuramente ottimo, invitante, ma c'è il formaggio a mettermi in off-side. Troppa grazia a Sant'Antonio.
Lo stadio Blasone è piccolo, il Foggia ci ha giocato già l'anno scorso. Io però qua ho visto il Parma dal vivo. Ero nell'unica tribuna pesente, nell'estate del 2000. 1-0, gol di Amoroso. Entro e la tribuna stampa è affollatissima. E' un lungo corridioio chiuso da vetrate che danno sul campo. Tanti colleghi, e la condanna. Resto in piedi, non ho appoggio per gli appunti e tantomeno per il telefono. Un dramma.
Sposto il capo verso destra, voglio beccare nel settorino Loba1 e Loba2. L'apocalisse: il muro. Ho una parete che mi ostruisce la vista, non vedo uan metà campo. Sono cotretto a spostarmi e limito i danni. Non vedo una banderina del calcio d'angolo e la fascia sinistra. Dovrò immaginare e raccontare quello che accade sul campo.
Dilettanti. Audio disturbato dopo il 5', devo togliere l'auricolare. Che nel frattempo s'impiglia nel cronometro. E la partita va, e io non devo smettere di parlare. Me la cavo, in quella cabina sovraffollata cala il silenzio a tratti. E io parlo mentre tutti mi guardano. Imbarazzante, anche perchè dico "sombrero" una volta. Il collega di una radio locale dinanzi a me, seduto, si gira e mi guarda con fare interrogativo. E' anziano e il sombrero non lo hai mai sentito.
Quando Turchi punisce un Foggia inguardabile nel secondo tempo, immagino chi mi ascolta e non sta vedendo la partita in tv. Immagino la mia voce mischiata al brusio che ha seguito il boato di quella cabina. Penso che sto regalando loro un dispiacere, ma sono curioso di risentire quel momento.
Finisce, è andata. Il Foggia ha perso, e io me lo aspettavo. Non sono affatto sorpreso.
C'è il buio fuori dalla macchina di Donato, ma Civitanova per chi è malato di stomaco e sta fuoriuscendo dal cuore dell'Umbria, è il posto più bello del mondo.
Oggi, nel day-after, ho risentito l'attimo del gol alla radio. Era esattamente come lo avevo immaginato. Ho regalato un dispiacere forse, ma mi sa che in tanti se lo aspettavano. E non avevano eretto castelli su pilastri di sabbia, come Chris Martin.

22/09/08

Quel che deve accadere, accade

di Lobanowski 2
Domenica 21 settembre, Foligno-Foggia 1-0

Il bip incessante della sveglia ovale giunge come previsto. Alle 7:20. Devo issarmi dal letto. Devo controllare alcuni dettagli. Primo fra tutti: il grado d’affidabilità della dicitura Doc. Più volte gli intenditori hanno garantito: se il vino che bevi è buono, non avrai mal di testa il mattino dopo. Ne va della credibilità del Made in Italy, dell’intera produzione vitivinicola, dell’immenso indotto. La notte è stata generosa: Aglianico, Primitivo di Manduria, persino un Montalcino. Sapevo della levataccia domenicale, certo, ma era un compleanno: non un passo indietro. Questione di cavalleria medievale. Oh-issa. Bene, tutto bene. Un lieve cerchio, passabile. Una garbata manata sulla sveglia. Mente locale. Va fatta una sola telefonata, regolato l’ultimo appuntamento. L’acqua scorre fredda, il caffè mi riporta in vita. All’appuntamento sono puntuale. Gli altri, più o meno, pure.Decidiamo di non segare l’asta della bandiera. In macchina ci sta, sebbene occupi due posti e risulti fastidiosa, a lungo andare. Ma sempre meglio d’inscenare questo assurdo sacrificio primitivo. Non siamo mica bestie. Le bandiere hanno vita. E le aste non sono da meno. Al bar i propositi sono ancora incoscientemente tecnici. Mi sembra naturale, adatto alla fase di lallazione della giornata. Si almanaccano gli assenti, si nutrono dubbi sul centrocampo, si dibatte dell’attacco, si finisce il cornetto. E i più coraggiosi si lanciano in pronostici. Inutili e dannosi, i pronostici. Ma significativi degli umori e delle aspirazioni, come e meglio di radiografie al torace. Si vince, è poco ma sicuro. È solo questione del quanto a quanto. Il più ottimista è Lello, che spara un 4-1 per noi. Io mi astengo. Voglio un punto, possibilmente uno zero a zero. Mi guardano svogliati, è sempre la stessa storia. Ma a me piacciono sul serio gli zero a zero. Certo, vincere è altra cosa. Ma infiliamo i piedi nell’asfalto e stringiamo i denti e gli occhi: il radioso avvenire va scartavetrato. Zolla dopo zolla.
La tradizione è un’invenzione. Lo diceva Hobsbawm, lo dicono i sociologi, lo diciamo noi. Ha un solo precedente storicamente riscontrabile, al momento: Cremona, in quel devastante coast-to-coast di maggio. Arrivare con largo anticipo in città che non sono Castellammare di Stabia, Cava dei Tirreni o Salerno, è un classico del flusso pasquettistico. Ma giungere imbandierati, insciarpati, militarmente disordinati, e mettersi a fare i gradassi e i gagà in centro, è volgare, oltre che palesemente irrispettoso. Roba che succedeva a Castel di Sangro, a metà Novanta e che, fortunatamente, tende a non perpetrarsi nel nuovo millennio. Benedetta Mentalità. Per la semifinale play-off, spinti dall’adrenalina, ci mettemmo in viaggio nelle prime ore di buio totale, e superammo Piacenza che mancavano ancora sei ore al fischio d’inizio. E piuttosto che mostrare i pettorali saturi d’orgoglio dauno sotto il Torrazzo, decidemmo di allungare fino a Pizzighettone. Stavolta abbiamo due ore di margine netto. E fedeli alla regola, approfittiamo dell’ultima uscita della superstrada per entrare a Tolentino. Che da lontano sembra un presepe. Che se ne sta, arroccato e nobile, su di un colle alla nostra destra. Varchiamo una porta, passiamo un ponte, costeggiamo le mura. Parcheggiamo a due passi dal centro. Ci possiamo sgranchire le gambe. Possiamo fare due passi. E l’opulenza di quelle case decorate, di quelle strade ordinate, ci si spalma sulla pelle come fuliggine. Ci guardiamo costernati. Qui la gente non urla. Qui la gente non suona i clacson. Una bambina per chiamare la mamma, distante diverse decine di metri, usa gli stessi decibel che a noi sarebbero stati appena sufficienti per chiedere di passare il pane a tavola. Qui la gente non passeggia. Qui si godono lo spettacolo. Un oste sistema i bicchieri. Il cozzare del vetro si sente fino alla fine del vicolo. Nella piazza principale ci sono le bancarelle. Cazzo, come a Pizzighettone. Ceska mi ha appena chiamato: “Sei a Tolentino? Mi compri i Marshmellows?”. Non comprendo l’assioma, ma avanzo verso il viale, la zona pedonale, la gioielleria, il negozio equo e solidale. Una seconda piazza con la cattedrale e l’onnipresente iconografia di San Giorgio. Il bar. Consumiamo in piedi, guardando la tv. Ohlmert s’è dimesso. Dall’esterno non giunge un fiato. E quando usciamo ci sorprende il fatto che ci sia un’intera comitiva di tedeschi, adattatasi in fretta al tono di voce della ricca provincia italiana. Un cortile annuncia cappelloni giotteschi. Entriamo uno dopo l’altro nel chiostro. Il soffio del vento è appena percettibile. Qui la gente è educata a non schiamazzare. Qui le cose scorrono con metodo e calma. Qui si produce operosamente e si rispetta l’ambiente. Guardo i brutti affreschi. E la noia mi assale: “Uagliù, o ce ne andiamo di qua entro cinque minuti, o impazzisco”. Gli altri annuiscono. E sui gradini della chiesa torniamo ad utilizzare il nostro tono di voce consueto. I tedeschi ci guardano con attenzione. E, dall’inizio alla fine, ascoltano il racconto epico di quando Marazzina ad Andria sparò alto sulla traversa. E quel tizio si mise a urlare che non ci sava neanche padre Tardiff. Non ridono. Non conoscono padre Tardiff, probabilmente. Ma penso sappiano chi era Marazzina. Fuggiamo da Tolentino, non senza prima aver appreso che in città esistono gli Sconvolts e – addirittura – una Brigata Tafferugli. Giordano si chiede: “Ma perché noi siamo stati così sadici da inventare un coro che faceva Non ti preoccupar che tanto dopo segna Colacone?”. Ci guardiamo perplessi. Giordano fissa i negozi. Attorno è silenzo. “Dopo quando?”.
Seguiamo l’indicazione: Parcheggio ospiti. Ci ricongiungiamo al gruppo romano. I biglietti comprati a Foggia sono diversi da quelli del botteghino. Noi abbiamo i tagliandi da mercoledì. Quelli comprati a Foligno sono più belli. C’è finanche il falchetto. Manco a dirlo. I poliziotti chiedono di mostrarlo. Poi fanno problemi per la bandiera: troppo grande, fuori dimensione. Ci mettiamo a discutere. Pare ci siano delle misure standard. Un poliziotto convoca il suo superiore, questi giunge, guarda il vessillo e, ad occhio, esprime il suo consenso. Abbiamo perso cinque minuti di vita e, a momenti, ci tocca pure dirgli grazie. Paradossi. Quello che mi perquisisce trova fuori luogo la fibbia della cintura. Troppo grossa, sostiene. Segue nuova tribuna politica. Stavolta la spunta l’uomo in divisa. I jeans vanno giù di qualche centimentro ed io continuo a domandarmi chi mai avrei potuto colpire, se me l’avessero lasciata: gli altri foggiani? I folignati? E perché? Il campo sportivo è un impianto discreto, adatto, capiente. Sembra anche ben tenuto, il che non mi sorprende affatto. I gradoni sono metallici. Gli scarponi fanno rumore. Giordano mi passa la sua bandiera, Guido sventola quella fuori misura. Quelli dietro non vedono e cominciano a rumoreggiare. Alla fine del primo tempo deciderà di emigrare sul cucuzzolo del settore. Non siamo tanti, ma siamo sufficienti a far sentire la nostra voce. Procediamo all’ostensione della bandiera catalana. Omaggio a Bremec. Omaggio alla Catalogna. La prospettiva del campo è radente, la partita si intuisce. Si lotta a centrocampo, il Foggia tiene la difesa alta, ma non riesce a verticalizzare. Io sventolo. Il Foligno non impensierisce, ma neppure subisce l’iniziativa. Lo zero a zero mi sta bene. Sventolo.

Dietro di noi c’è Fiorucci. Più sopra, circondato da tra ragazze bionde, c’è Colomba. Due allenatori nel settore. I perfidi insinuano che la panchina di Novelli già scotti. Il Perugia gioca a Pescara. Rischia anche Galderisi, oggi. Il Foggia della ripresa è una squadra trasformata. In peggio. Nel primo tempo s’è limitato a non offendere, adesso tiene con difficoltà gli argini. Il Foligno dell’ex-De Paula si fa più intraprendente. Guido, in cima al settore, è una statua che regge il vessillo. Il vento fa il resto. Dietro si è fatto il vuoto. Sventolo. Quelli in maglia blu portano avanti il baricentro, Del Core lotta vanamente, Salgado è pigro ai limiti dell’indisponenza. Prendiamo gol di testa. Quel che deve accadere, accade. Mi accorgo, dal piccolo boato, che nello stadio c’era altra gente oltre noi. Andiamo sotto. Proviamo ancora a cantare, a sostenere la squadra. Manca poco. I nostri non costruiscono e, come se niente fosse, elaboriamo la seconda sconfitta su due trasferte. Una sconfitta senza gioco, senza attenuanti.

Sui muri ci sono scritte altisonanti: Foligno padrone dell’Umbria. Perdiamo un’ora tra bagni pubblici, metano e grappe varie. Un pullman ci si piazza davanti. Cinquanta chilometri di curve, poi il presepe di Tolentino a sinistra, Macerata, Civitanova. Ci risiamo. Di nuovo la A14, compagna di mille viaggi della speranza. Finiti, quasi sempre, come oggi.

A Gelagna Bassa, con un umore pessimo

di Lobanowski 1

La disperazione, si sa, può portare a gesti inconsulti. Va archiviata in questa voce la proposta di un tifoso del Perugia che, stanco dell’ennesima prova incolore (con annessa sconfitta) dei grifoni contro il Pescara, ha mandato un sms alla radio che segue la squadra umbra chiedendo di cacciare Pagliari e chiamare sulla panchina uno tra Galeone e Zeman. Eravamo di ritorno da Foligno, e tra Gelagna Bassa (frazione di Serravalle di Chienti) e Muccia (verso Macerata), sulla poco simpatica strada statale 77, la radio di beccare una frequenza nazionale proprio non ne voleva sapere. Così ci siamo ridotti ad ascoltare i commenti di chi sta peggio di noi.

Riflettevo su un fatto, dopo aver assistito alla brutta prova dei rossoneri a Foligno, mentre allibito scoprivo che c’è gente in ogni dove dello Stivale che ancora rincorre i sogni del gioco spettacolare di integralisti della zona e del fuorigioco: in una parola, suicidi. Dicevo: da quando seguo il calcio e il Foggia, e sono 30 anni, non ricordo di aver visto il Taranto o la Salernitana, due squadre non a caso, scendere in campo con atteggiamenti da fighetti. Capite il senso, vero? Non so se è l’aria, se la presenza del porto industriale, se la rudezza delle rispettive tifoserie. Fatto sta che non mi viene in mente una volta nella quale quelle due squadre siano scese in campo per fare spettacolo (per quello, come si sa, c’è il teatro o il circo). Sempre degli undici rognosi, coriacei, tignosi, compatti, concreti. In una parola (non se ne adontino le femministe): l’impressione di avere di fronte una squadra e un mister con due palle così.

Ecco, l’impressione più sconfortante che mi sono portato dietro dalla trasferta umbra, risultato a parte, è proprio quella di aver preso coscienza che la nostra squadra difetta alla grande di carattere. Dopo il Taranto, credo che diverse altre squadre violeranno il “Blasone” (quanto mi sono rotto il cazzo a girovagare per stadietti d’Eccellenza): il Foligno era ben messo in campo, guardingo, pressing sui portatori di palla, ripartenze giocate sulla fisicità delle due punte, De Paula e Turchi. Ma in fondo poca roba. Nel primo tempo, passati i dieci minuti iniziali di assestamento, abbiamo tenuto palla quasi sempre noi. Portando un solo pericolo serio alla porta avversaria. Meglio il Foggia di Vasto, per assurdo. Troianello è uno generoso, che corre tanto, ma si è capito che la tecnica non è sopraffina. Sull’asse di destra si è sviluppato gran parte del gioco, il treno quello composto da Colombaretti-Mancino-Troianello. A sinistra non ne parliamo: Del Core, fuori ruolo, finisce con l’accentrarsi e ingolfare la zona di Salgado (e tra i due quello che sa giocare meglio spalle alla porta è il primo. Solo Novelli si è intestardito). Pezzella è di una timidezza pari al Robertino di Ricomincio da Tre, ieri non una volta ha superato il centrocampo. E anche in fase difensiva solleva più d’un dubbio. Per pietà evitiamo di commentare i cambi di Novelli: il Burzigotti mandato in campo per la seconda volta come centravanti, manco fosse un Galderisi fuori di senno in quel di Cremona, fa sorridere. Il Piccolo visto fin qui è uno evanescente, Mattioli un rebus di difficile soluzione.

Alla fine ho chiesto a Francesco, che di fianco a me continuava a sventolare la sua bandiera, una sorta di tic nervoso magari utile a non vedere lo scempio che si consumava sul manto erboso, se un onesto lavoratore d’area come Turchi, forza fisica ed efficace boa dell’attacco del Foligno, non poteva tornare utile anche a noi. Quello m’avrà sentito, si sarà montato la testa, e su un cross da sinistra ha inventato una parabola di testa (perché su di lui c’era Pezzella? Dov’erano finiti Lisuzzo e Zanetti? Mi devo rivedere le immagini) che ha beffato Bremec. Che fino ad allora si era dimostrato sicuro. Sul gol qualcosa poteva fare: la palombella era lenta, un passo alla sua destra e un tuffo e magari l’avrebbe presa. Un dettaglio, alla fine, considerata la prova complessiva, brutta, della squadra.

Senza palle. Lo ripeto. Non so se si vede la “mano” del tecnico, in questo senso. Avevo chiesto d’aspettare, prima di dare giudizi, di vedere giocare qualche partita. Novelli insiste sempre sullo stesso undici, forse penalizzando gente che qualcosa in più potrebbe dare. Di Burzigotti alla Toni abbiamo già detto (ma che cazzo l’abbiamo preso a fare uno come Germinale?). Salgado, svogliatissimo nel suo ruolo (e forse non solo in quello) meriterebbe un turno di riposo, perché così rischia –il mister- di rompere il feeling tra giocatore e tifosi. E poi il tecnico salernitano non può dire in sala stampa che il cileno è fuori condizione e non ha fatto la preparazione. A maggior ragione si dovrebbe accomodare in panca: perché costringerlo ai fischi della tribunetta ospiti del “Blasone”?. E poi siamo alla quarta di campionato, e nove undicesimi dei titolari erano tutti in ritiro: dovrebbero aver appreso i dettami tattici di Novelli, o no? O sono dei pierini ripetenti? Ma il mio pensiero corre sempre là, alla mancanza di grinta, di gente con gli attributi.

Mi manca, oggi, dopo aver visto la partita di ieri, un Biancone. Uno pure rozzo ma che in campo lottava, dava l’anima. Forse, oggi (faccio ammenda, Mr. Stramy) mi manca anche uno come Mounard, che per quanto talento inespresso, eterno messia del calcio da attendere, era capace di saltare l’uomo, durante la partita. Cambiare ritmo, dava velocità e profondità alla manovra. E lottare, metterci il cuore. Ieri, invece, tutti ligi a svolgere uno svogliato compitino. Con tanti, troppi, inutili e frustranti passaggi alle punte per vie centrali. Che per riuscire dovevano sperare nell’improvviso svenimento dei centrali del Foligno.

Ecco, il retrogusto amaro che lasciano gli oltre 800 chilometri macinati ieri è quello -dopo una sconfitta tutto sommato anche immeritata- di avere una quadra da metà classifica. L’idea di, bene che vada, sobbarcarci altri due anni di terza serie. E sarebbero, tra C1 e C2, dodici senza (almeno) la serie B. Ieri poi mi hanno ricordato (avevo cancellato il precedente) che nel viaggio all’inferno del tifoso foggiano, abbiamo incontrato anche il Gladiator. Stando così le cose, di che segno volete che sia, il mio umore, oggi?

19/09/08

Scatti di scarto

di Lobanowski 2
Le casse – di certo un modello salvadoregno politicamente conforme e certificato – hanno cominciato a gracchiare Bandiera Rossa. Nella versione classica, quella semi-orchestrale, imponente e nazionalpopolare degli anni ‘50. Tant’è che un vecchietto ha fatto gli occhi sognanti ed ha confessato all’amico: “Mi ricorda quando ero piccolo così”. Che, da un rapido raffronto tra la profondità delle rughe e il segno con la mano, doveva essere prima che dimettessero Togliatti. Il coro similrusso ha riempito i buchi neri della zona pedonale: Avanti popolo, alla riscossa. Gli alti troppo acuti, i bassi inesistenti, l’arrancante pressione sulle valvole del mangianastri (!), il livello di consunzione del nastro, l’amplificazione da socialismo tascabile, come direbbero gli Offlaga. Inquinamento acustico allo stato puro. Sul banchetto di plastica, il programma pieghevole. Stasera grande dibattito su un tema inedito: sviluppo, legalità e governo del Mezzogiorno. Ospiti d’eccezione, forbiti e competenti. Il sindaco di Gela, il vicesindaco di Foggia, un dirigente scolastico, un paio di politici e il direttore di un quotidiano scandalistico da 50 centesimi a prestazione. La voce di Luzzi in my mind: Consiglio, Crocetta, Salatto, Leccese, Mongiello, Napoletano, Paciello. Allenatore: Zdenek Zeman. Manco a dirlo. Avanti popolo, tuona il cannone, Rivoluzione, rivoluzione.
All’imbocco dell’area dibattiti hanno piazzato uno stand. La musica s’infila sotto il tettuccio metallico come polvere in una piccionaia. Dai campi al mare alle miniere, Rosse bandiere, Rosse bandiere. Una mostra. La più ovvia delle mostre ruffiane. Il Foggia ai tempi di Zemanlandia. Davanti a me ci sono sguardi estatici, luccicori fuori dall’ordinario, stupori e commenti emozionati. Me ne accorgo da come inarcano le schiene quelli della prima fila. Bandiera rossa finisce. E, cosa ancor più rimarchevole e tutt’altro che scontata per il contesto, non riattacca. In sua vece incalza un raggelante Venditti. Un signore grassottello con la faccia rude si volta e fa per andarsene. Mi dedica uno sguardo che è tutto un programma. Il rimpianto per i tempi andati gli si disegna in volto come un tatuaggio tribale. È il mio turno. Avanzo. Una quindicina di foto per ciascuna serie e cinque serie in tutto. Scatti di scarto, senza dubbio alcuno. Fotografie che nessuno ha comprato, seconde e terze scelte rimaste a fare spessore nel fondo di qualche stipetto. Zeman che fissa il campo, Zeman che fuma, Zeman che urla ai suoi di suicidarsi. E qui e lì alghe riaffioranti: il diavolo rossonero che saluta Eranio (che fa per andarsene), Maldini coi capelli corti e la faccia da bambino, l’Italia di Walter Zenga che affronta Cipro allo “Zaccheria”. Qui e lì i cartellini indicano partite e risultati. C’è il 5-2 dell’ “Olimpico” con la Lazio, il 4-1 di Torino con la Juve, il 3-3 interno con la Fiorentina, il 2-8 col Milan. Che divertimento! Quanti bei ricordi! Nell’autunno del 1991, una fredda mattina di ottobre, per andare a scuola presi una circolare che non era l’MD. Mi ritrovai a Rione Diaz. E dì lì in aperta campagna. Arrivai in classe all’inizio della quarta ora. Mio padre mi smontò l’Amiga 500. Che tempi. Dovrei organizzare una mostra sullo scambismo nei trasporti pubblici a Zemanlandia. Col presidente dell’Ataf e qualche autista al seguito, a inaugurare.
“Mai come nel periodo di Zemanlandia la storia di una squadra diventa anche storia della città. Nella fenomenale apparizione del Foggia in A con il «ceko» lo spirito rossonero torna ad essere desiderio di confrontarsi, voglia di socialità, eccezionale spirito competitivo per ridisegnare non solo le gerarchie sportive ma quelle urbane”. Filippo Santigliano è un giornalista preparato, uno concreto, che non si lascia abbagliare dai miti, uno che bada al sodo. Resto basito: perché ha deciso di scrivere una simile madornale falsità? Nel 1991 le sere erano buie come negli Ottanta. C’erano due locali e andavamo a comprarci i panzerotti o gli scagliozzi all’angolo di via Manzoni. Ai giardini c’erano i ragazzi più grandi di noi. L’ora di educazione fisica la facevamo al “Giannone”, ed ogni volta ci sobbarcavamo un chilometro a piedi per raggiungere la palestra. Foggia era lo specchio della depressione. Una città triste e nera, completamente obnubilata dal miracolo calcistico. Una specie di Medjugorie del pallone: realtà di provincia in crisi di pre-panico salvata dall’apparizione provvidenziale. E da questa schermata, come un tossico in estasi. Sarà la mia adolescenza che riaffiora, ma la voglia di socialità e il desiderio di confrontarsi, io, proprio non me li ricordo. Mi ricordo invece la Foggia luminosa e in mutamento del 1994, le comitive in giro, i locali che spuntavano come funghi, i ragazzi e le ragazze sulle scale del Classico il sabato mattina, il centro sociale. La Foggia ottimista del ’95, del ’96. La movida, certo, ma anche la partecipazione, l’associazionismo, i gruppi che rifiorivano, le band che scavalcavano l’oblio per un attimo di gloria. Se devo pensare ad un periodo in cui le gerarchie consolidate potevano mutare sotto la spinta dell’effervescente e sopravvalutato mondo giovanile, penso alla pancia dei Novanta. Non certo ai suoi inizi. Attribuendo meriti ai Cesari, in questo strano gioco al parallelismo, dovrei pensare a Catuzzi, a Rossi, a Burgnich. In realtà non ci penso affatto. Penso al Circolo Gramsci, e poi alla sede di Ya Basta! con la stella rossa sul mercato, al circolo di Rifondazione con i ragazzi seduti fuori, alle sfide a pallone con i polpottisti del Filorosso. Penso all’Università, alla nuova sinistra che nasceva nelle aule dell’ex-tribunale riconvertito: Samarcanda, l’Udu. Penso alla nuova generazione che s’affacciava ai palazzi. Al mutamento prossimo venturo che non s’è avverato, poi, quando quei ragazzi nei palazzi ci sono entrati per davvero. Penso a quello, alla bellezza di quei giorni, alle radiose possibilità, e mi sale la bile. Ma non la ricollego ad un allenatore. Non è colpa di zio Tarcisio se oggi Piemontese è il segretario del Pd. Così come non era merito suo il fermento. Per Zeman vale lo stesso discorso. Zeman è stato l’allenatore della nostra squadra. Nulla di più, nulla di meno. Un bene fungibile, intercambiabile, ininfluente (come tutti i mister, come tutti i dirigenti, come tutti i calciatori) ai fini del nostro amore per una maglia, che viene sopra tutto e tutti e che tutto e tutti trascende. La maglia. Quell’alchimia da brivido, causa di gioie infinite, alibi per catastrofi esistenziali, spunto per lacrime amarissime. La maglia del Foggia. Del Foggia. Perché io tifo Foggia. Zemanlandia non esiste. Non è mai esistita.
Nel Museo Rossonero di un sito foggiano un tale ha provato a relativizzare il Tributo a Zeman che altri avevano imbastito. Un utente è intervenuto ed ha sancito: Quando Zeman allenava il Foggia tu avevi il ciucciotto in bocca. Filippo Santigliano, invece, nella sua presentazione alla Mostra della zona pedonale, scrive di un momento davvero felice, quando i foggiani facevano a gara per dire «sono di Foggia, la nostra squadra è il Foggia». Le due affermazioni si sono toccate. L’una con l’altra, in un attimo cerebrale. Una fiammata, improvvisa. Il treno speciale che ferma al binario, dopo quattro ore di odissea sulla linea adriatica. Con l’Udinese, la domenica prima, c’erano meno di 7mila paganti. Ad Ancona abbiamo appena perso 3-0. Ha segnato Zarate, quell’oggetto curioso. Una doppietta. L’unica della sua carriera, in Italia. Il “Dorico” è alle spalle. Foggia si spalanca davanti. Voglia di tornare a casa e spegnere tutto. Basta scendere dalla carrozza e, zaino in spalla, percorrere il viale. La sera è caduta a sprazzi sulla città. I negozi sono chiusi. Siamo oltre seicento ed usciamo in blocco. Poi ci separiamo: ognuno per sé. All’altezza della chiesa della Madonna della Croce, un vecchio si stacca dalla comitiva con una gomitata confidenziale all’amico. Mi si para davanti. Allunga le sue dita ossute verso la mia gola. Tocca la sciarpa che ho al collo. E, sghignazzando, dice: “Ancora appresso al Foggia vai?”. Lo scanso con una manata irrispettosa. Lui torna a ridere col compare, a ripetere per chissà quante volte ancora la stessa scenetta con tutti i reduci dalle Marche che incappavano nel suo presidio disfattista. Questa è Foggia, pensavo. Aveva ragione la Sud quando cantava: Siete sempre un pubblico di merda. La consapevolezza è un attimo conseguenziale: la sciarpa che ho in gola, è quello il mio segno distintivo, la mia cifra di scarto rispetto ad una realtà penosa. Io c’ero mentre il Foggia veniva infilato. Ci sono stato fino alla fine. E domenica ci sarò ancora. E così sempre. Perché non mi interessa la recita, mi interessa la compagnia stabile. E non c’è sconfitta o categoria che possa farmi cambiare idea, raffreddarmi come una pietra sputata da un cratere. Non è così per molti, troppi miei concittadini. Seguo il legame del pensiero: ecco perché per loro è così importante Zeman. Perché loro vanno a vedere lo spettacolo e s’affezionano ai ruoli, agli interpreti. Io no.

17/09/08

Punk is not dead

di Lobanowski 2

Domenica 14 settembre, Foggia-Cavese 1-0

Un tizio vestito d’arancione, come un tifoso della Pistoiese. Tre poliziotti al suo fianco. Il varco che s’apre. Una trentina dentro. Il varco che si richiude. Il vociare della plebe in scomposta fila. Due minuti due. Il varco che si riapre. Dentro. Un secondo varco. E l’esperimento-sicurezza si ripete, uguale a sé stesso. Prefiltraggio.Non c’è bisogno di leggere quel che scriveva il mai troppo compianto Valerio Marchi. Né di accelerare corsi in sociologia delle folle. Siamo vittime di un autoinganno, cavie nel laboratorio dell’approssimazione, testimonial d’eccezione di un rito di suggestione collettiva. In tanti la prendono a ridere. La danza che stiamo inscenando non ha alcun senso. Né utilità pratica. Fossimo tutti violenti con precedenti penali, staremmo semplicemente procedendo a scaglioni. I tornelli non ci sono, ma vengono evocati di continuo. Come le mura del Palazzo di Federico II. Un ragazzino chiede di essere trascinato dentro, per via della giovane età. Viene respinto: “Dalla prossima in casa ve li scordate sti mezzucci”, commenta uno steward. Dalla prossima. Perché neppure oggi c’è il controllo. Neanche l’abbonamento viene passato al tester, come le solite voci di corridoio garantivano. A me sta bene così, non fraintendetemi. Ma non posso fare a meno di fantasticare sull’idiozia dell’intero caravanserraglio. Non vengo perquisito. Me ne compiaccio. Salgo i gradoni. La curva sembra più vuota della gara col Potenza. Ma è la gradinata, densamente spopolata, a farmi impressione. I cavesi non ci sono. Senza di loro, non è la stessa cosa.

Il Foggia indossa la nuova divisa ufficiale. Piacciono le bande nere sulle maniche. Ha righe strette, come l’anno passato. Io continuo a ritenere che le fasce debbano essere tre o quattro, al massimo. Come quando avevamo Banca Popolare di Pescopagano a farci da sponsor. Il terreno di gioco è appesantito ed appare debilitato. Non piove. I cori sono fiacchi e coinvolgono poco le ali. In campo non sembrano esserci disegni sufficienti a far parlare di moduli o di gioco. La Cavese si difende. Non pensa neppure lontanamente ad avanzare il baricentro. Angelo Q. è contro il calcio moderno. Canta, con gli altri: Perché non resto a casa. Però in mano ha un cellulare di ultima generazione, che ha bypassato alla velocità della luce la candida radiolina d’antan. Ed una connessione che gli permette di studiarsi Livescore in tempo reale. Come va considerato il fenomeno?
Alla fine dei primi quarantacinque, si è sullo zero a zero.
Il sito di Repubblica. Lello mi gira la notizia. Hanno ammazzato un ragazzo, un ragazzo del Burkina Faso, un nero, per non fare come quelli che sottolineano il di colore manco fosse un’appartenenza. O, sul serio, un colore. Ucciso a bastonate in testa. Nausea. Il razzismo, il machismo, il disagio. Tutto in regola, certo. E la deresponsabilizzazione. L’idea che si possa porre fine ad una vita, così. Che si possa tutto, perché il diverso è meno protetto, meno tutelato, meno garantito. Una teoria fine, appuntita come una freccia avvelenata. Una colpevolezza, un concorso nel proprio omicidio, pronti a venire a galla: “Era un ladro, stava rubando”, diranno i giustificazionisti. Coi parametri delle misure sfalsati come il contachilometri di una vecchia Cinquecento. Fuori dallo stadio ci sono dei mega-manifesti del “super-tifoso” Emilio Cavelli, che invitano a sostenere Vladimir Luxuria – “tifosa del Foggia” – nella sua scalata all’Isola dei Famosi. Dietro di noi commentano animatamente. È un dato: il diverso, se ancora non è un nemico utile a sfogare frustrazioni, è sempre un buon selvaggio. Se non suscita immediata ripulsa, può e deve generare sollazzo. E dal grado di sollazzo, a volte, dipende la ripulsa. Luxuria è un trans, Vendola un frocio, il ragazzo di Milano un negro. La prima parla dialetto e dice cose schiette e sboccate. E fa ridere. È la più simpatica del terzetto. Ma conosco anche neri che recitano frasi in crocese, per divertire l’uditorio. O gay che si prendono in giro per risultare simili al cliché di chi, coi gay, vuole parametrare la propria eterosessualità. Diciamoci le cose come stanno: se il “deviato” non suscita l’ilare complicità del “normale”, è come se avesse fallito la sua funzione sociale. E questa è la stessa mentalità che i colonialisti inglesi portarono nelle Samoa.

I'm not singing for the future
I'm not dreaming of the past
I'm not talking of the fist time
I never think about the last

Il secondo tempo comincia col Foggia più arrembante, ma scoordinato e confuso. AV mi fa notare che, di lato, qualcuno timidamente sta rumoreggiando. È un paradosso – si scalda – ogni anno sono tutti d’accordo che la squadra fa schifo, ma poi pretendono che vinca dieci a zero ogni partita. Ha ragione da vendere. È una contraddizione tipica della condizione del tifoso foggiano (e di chissà quanti altri). Di quello più tiepido, più occasionale (e si può essere occasionali anche frequentando la curva domenicalmente da dieci anni). Le ali della Sud sono zona di raccolta di simili personaggi. Un tempo lo era la Nord. “Io, se abbiamo chiarito che la squadra non può fare altro che salvarsi, allora dico che uno zero a zero interno con la Cavese non mi va bene, mi va strabene”. La teoria non viene compresa, ma le critiche, che avevano cominciato a fare capolino anche qualche gradino più su, si smorzano. Merito del tono. E sull’onda lunga della tensione strisciante, e della vittoria tattica sui vicini, pensiamo sia bene affondare il coltello fino all’elsa. “Adesso con Zeman non saremmo stati zero a zero. Saremmo stati 4-1 per loro… e ci saremmo divertiti tantissimo”. Ironia che giunge al cuore del problema. Qualcuno, che si sente particolarmente chiamato in causa, borbotta con il vicino. Poi segna Salgado. Marruocco, l’ex, va in tensione: protesta contro l’assegnazione di un corner. È umorale, il nostro ex-portiere. Di sicuro sta ancora pensando all’arbitro quando smanaccia l’aria, toglie il tempo al difensore e permette al cileno di insaccare di testa il più semplice degli 1-0. Ci siamo. La Cavese dovrà uscire dalla roccaforte. Ha dieci minuti di tempo. Non ce la farà mai, pensiamo. E non ce la fa. Festeggiamo. Ma, al contempo, facciamo sapere come la pensiamo. A voce alta, messaggio nella bottiglia per quelli che vanno allo stadio come a teatro: “Ci sarebbe andato bene anche il pari”. Gli occhi attorno ci fissano. Recepiscono. “In fondo ci dobbiamo salvare...”. Qualcuno scende i gradini e fa per allontanarsi. La squadra si decide tardi a venire a salutarci. Ma una volta sotto, il coro è coinvolgente. Solo il gruppo sopra di noi va controcorrente: Merde siete e merde resterete. Dice. Rivolto all’undici che riempie le sacre divise, occasionalmente Legea e a righe strette. Ci voltiamo e scoppiamo a ridere. Punk is not dead.

Now the song is nearly over
We may never find out what it means
Still there's a light I hold before me
You're the measure of my dreams
The measure of my dreams

Io e il mio doppio, faccia a faccia allo Zaccheria

di Lobanowski 1

Lo sapevo, prima o poi sarei stato messo di fronte alle mie responsabilità. La città in fondo è piccola. Qualcuno, non ricordo chi, mi aveva riferito che alle orecchie di Pino, amico d’infanzia, era giunta la voce che io utilizzassi il suo nome e cognome per le trasferte. Prima, molto prima, di schedature, tornelli, osservatori e stronzate simili. Fine anni ’80 inizi ’90. Pleistocene, per il calcio.
Chi ha letto il libro “Juve o Milan? Meglio il Foggia” già sa: a via Saseo, dove c’era la sede del Regime Rosso Nero, non erano per nulla rigidi quando prenotavi il pacchetto trasferta, pullman più biglietto dello stadio. Bastava un nome, uno qualsiasi. E poi c’erano amici a fare da garanti. Così, per evitare denuncie o richieste di risarcimento danni, un giorno mi venne di dare il primo nome che mi passava per la testa. Mi uscì Pino Ferrazzano. L’intenzione, ovvio, non era di mettere qualcun altro nei guai, anche perché non era richiesto indirizzo o recapito telefonico. Il nome serviva giusto per urlare la lista dei prenotati al parcheggio della Maddalena, prima della partenza. Ancora oggi se provate a navigare nel sito Paginebianche, inserendo Ferrazzano nel motore di ricerca saltano fuori 61 voci. Un cognome molto diffuso, a Foggia. Lo feci mio. Continuai ad usarlo, svariate volte per svariate trasferte. Mi ci affezionai a tal punto che firmai con quel nome alcuni articoli per un settimanale: ricordo che una volta serviva il contributo di un festeopatico a completare uno speciale sul Natale: Pino Ferrazzano fu pronto a dire la sua. Avevo costruito nel tempo un mio doppio.

Pino Ferrazzano, l’originale, ieri sedeva dietro di me, due gradoni più in alto. Era nelle cose che prima o poi l’avrei incrociato, ma che l’incontro avvenisse proprio nella Sud dello Zaccheria… Jung diceva che l’uomo incontra sulla sua strada dei segni, che sono come cartelli indicatori per la propria vita. Il vis-à-vis con Pino allo stadio cosa vorrà dire? Che il Foggia tornerà sulla luna, sempre per citare il libro? che il destino ci riserverà nuovamente trasferte all’Olimpico e San Siro? Chissà. Forse la risposta è nelle mani dell’Osservatorio. Che a furia di citarlo, i giornalisti, come entità immateriale che tutto dispone nella vita dei tifosi, sembra parlino del Castello di Kafka.

Insomma, ieri vado per voltarmi e salutare, e nel mucchio di facce note c’è Pino. Che subito allunga un braccio a indicarmi come per dire “t’ho beccato!”. Qualcuno prova ad aizzare la folla contro il giornalista, categoria che notoriamente (e giustamente, aggiungerei) riscuote lo stesso consenso di dentisti, notai e poliziotti. Uno addirittura scende, mi viene di fianco, scherza e mi riferisce che Pino ha messo un avvocato, che vuole citarmi in giudizio. Pretende dei diritti. Poi si fa serio e dice: “io l’ho letto, dalle cose che hai scritto è come se c’eri davvero, come se stavi con noi, in trasferta”. Che cazzo, questo pensa abbia tirato a indovinare? Io lui me lo ricordo. Lui evidentemente non si ricorda di me. Quasi venti chili e 15 anni in più si fanno sentire. Porca miseria.

Non ho dato tanta corda all’emissario di Pino (che a fine partita m’ha salutato senza sorridere. Mi sa che se l’è presa davvero). La partita era già cominciata. Quello voleva discutere mentre sul campo il Foggia aveva preso a schiacciare la Cavese nella sua metà campo. All’appuntamento pensavo di essere arrivato in ritardo, al chiosco non ho visto nessuno è ho tirato diritto. Sono entrato che la curva era desolatamente vuota. Nessuno della combriccola che si va formando. Un Borghetti saltato per nulla. Il tizio alle porte che m’ha bucato l’abbonamento (dopo un primo passaggio al lettore ottico) con faccia triste annuncia urbi et orbi che la “pacchia” è finita. Messaggio agli scrocconi. “Dalla prossima in casa ci sono i tornelli”. Come dire i nazisti alle porte di Stalingrado. Novelli, durante il riscaldamento, si ferma a parlare con i quattro della difesa che giocheranno titolari. Non so cosa avrà mai detto, ma stavolta di svarioni non se ne sono visti. Il terreno di gioco è passato dall’essere adatto per una gara di beach soccer a deposito di fango. Lo spazio riservato agli ospiti è desolatamente vuoto. E’ così da qualche anno, con la Cavese. E non è la stessa cosa, senza la tifoseria avversaria.

Matteo, mio cugino, ha saltato la gara col Potenza. Vive e lavora a Campobasso. Però gli sono venuti i sensi di colpa, e così dopo la gara di Vasto è corso a fare l’abbonamento. Ci salutiamo che mancano 20 minuti all’inizio della gara. Quelli dell’età di Matteo a stento la ricordano la serie A. Se la meriterebbero: lui è uno dei tanti che ha girovagato più anni tra C1 e C2 appresso ai rossoneri, che in categorie superiori. Inizia la partita e il Foggia lascia ben sperare: c’è più intensità, la squadra è corta, corre, pressa a tutto campo la Cavese. Salgado e Del Core si cercano, Troianello a destra corre come un forsennato sulla parte di campo che il Foggia privilegia per attaccare. Rare volte i terzini accompagnano, si sovrappongono. Fuochi d’artificio a salve, comunque. Tre tiri in porta, uno solo nello specchio. Nella seconda metà del primo tempo (che dieci minuti dopo il fischio d’inizio registra il forfait di capitan Pecchia, guai muscolari) il rimo cala. Gli aquilotti saltano la loro metà campo e giocano con lanci lunghi a servire le punte, che non sono in giornata. Solo Tarantino prova una serpentina, ma in area il tiro gli parte fiacco. E meno male che Camplone, il mister che siede sulla panchina campana, è un altro annunciato come “scuola Zeman”, calcio totale, pressing, fuori gioco. Sarebbe ora di finirla con certe scemenze: non esiste nessuna scuola, Zeman è figlio unico, grazie a dio. Chi sbaglia e chi vince, lo fa di suo. Perché siamo certi che il boemo farebbe la corsa a riconoscere come sui discepoli quelli vincenti, addebitando ad altri i perdenti. Quello è fatto così.

Nel primo tempo c’ho messo dieci minuti a capire il perché di tanto accanirsi del pubblico contro l’estremo cavese. Dopo mi sono ricordato che in porta sotto la Nord c’era Marruocco, un ex poco gradito. Ha raggiunto una finale play off, col Foggia, due anni fa. Ma nella memoria di tutti sono rimaste le sue cazzate. Certo, sempre meno di quelle viste a Ravenna. Il personaggio è guascone, non brilla in simpatia. Quando nella ripresa viene sotto la Sud quelli del Regime lo applaudono, lui ricambia. Ma la gran parte della curva lo accoglie a suon di fischi. Francesco si preoccupa dello stato di confusione che simile atteggiamento potrà provocare nell’uomo Marruocco. E ci prende meglio di un Crepet: il Foggia pressa e prova a costruire gioco anche nella ripresa, con una Cavese non pervenuta. Colpisce un palo solo su punizione. A 15 minuti dalla fine una mano ce la dà proprio il nostro ex portiere. Calcio d’angolo dalla destra, sulla palla Mancino. Cross teso a scavalcare la difesa. Il portiere esce e col pugno prova ad allontanare la sfera. Va a vuoto. Così la palla termina sulla testa di Salgado, che sull’altro palo ha il compito facile di appoggiare nella porta sguarnita. L’ultimo gol in maglia rossonera el Pescador l’aveva segnato allo stesso modo, ma di piede: finale di andata contro l’Avellino, passaggio smarcante di Mastronunzio, lui che appoggia nella porta vuota. Dalla Sud parte il coro “Marruocco uno di noi”. Ancora Francesco preoccupato sulla percezione che avrà il portiere. “Capirà l’ironia?” è la domanda. Unanime la risposta: “Probabilmente no”.

Passa poco dall’esultanza e Novelli dimostra -qualora ce ne fosse bisogno- che è lontano anni luce dalle mentalità kamikaze di Zeman. Che il gioco del calcio ha una fase d’attacco e una fase di difesa, egualmente importanti. Con la seconda che diventa predominante se ti capita di essere in vantaggio. Così toglie una punta e inserisce un difensore. Tre centrali a respingere il prevedibile assalto a testa bassa della Cavese. Burzigotti, quello appena entrato, quello che a Vasto ha servito su un vassoio il gol a Bazzani, liscia di testa una palla: invece di respingerla la manda alle sue spalle, in calcio d’angolo. In curva ci si abbandona ai commenti più svariati sul ragazzone con un passato nell’Alto Adige. Referenze buone per un alpino. O per un mulo. Qui dovremmo giocare a pallone.

Il tempo che resta alla fine scorre senza pensieri. L’arbitro fischia tre volte e la Sud chiama sotto la curva la squadra. Che l’importante sia vincere –come, non importa- lo comprendono tutti. Questa è la terza serie. Lunedì mattina ho incrociato Franco, uno malato del Foggia: “Se qualcuno vuole vedere lo spettacolo che se ne vada a teatro”, mi dice. Ahi voglia uno come Di Bari a spiegare alla Gazzetta dello Sport che il pubblico foggiano è di bocca buona (sempre sto cazzo di fottuto e stupido retaggio zemaniano, come se il gioco del calcio l’avesse inventato lui). Novelli s’è lamentato dei fischi piovuti sulla squadra nel primo tempo. Io non li ho sentiti, mi sarò distratto. Comunque, caro Di Bari, noi siamo ridotti alla fame, altro che discorsi da gourmets del calcio. Mangeremmo pesce crudo pur di salire di una serie. Va bene così, anzi benissimo. Tanti 1 a 0 senza soffrire. Scuola Caramanno. Magari ci ripetessimo anche a Foligno.

08/09/08

Zeman e Burzigotti

di Lobanowski 2
Domenica 7 settembre, Pescara-Foggia 1-0

La notizia è piombata nell’agone come una palla di cannone a mezzodì. Da una sponda all’altra del mar Adriatico. È stato esonerato. Zeman è stato esonerato. I miei scrupoli di coscienza si sono, di botto, acquietati. Posso ricominciare a tifare per la Stella Rossa senza fare un indesiderato favore al tecnico boemo. Il mio nemico. Poi lo ammetto: non ce l’ho fatta. Ho intercettato la notizia su un forum foggiano. E, dinanzi ad un tale che si rammaricava (“Non sanno quello che si perdono”) mi sono lasciato accalappiare dalla verve polemica. Lo sanno, eccome se lo sanno. Anzi, direi che si sono salvati per un pelo. Che non è un peccato rinsavire. Avranno la classifica da scalare, certo, ma non è un’impresa impossibile. Ho espresso la mia teoria scarnificata, senza orpelli o aggiunte retoriche. L’ho scagliata sul monitor, nel bel mezzo della contesa. Ho scritto che ritengo il 4-3-3 uno schema superato, un puro atto di presunzione, una negazione dell’evoluzione: pretendere di applicare pedissequamente gli schemi che potevano anche bastare nel ‘91, è uno smisurato esercizio di arroganza. È come ritenere i galeoni l’arma non plus ultra nel campo delle battaglie navali. Ho scritto che Zeman è un allenatore senza presente, che ormai ha una dimensione altra e può solo aspirare a galleggiare nel vischioso limbo dei ricordi falsati. Ed ho scritto di più e di peggio: che a me il Foggia di Zeman mi stava lì. Ad altezza cintola. I servizi di Beppe Capano alla Ds, le interviste di colore ai signori di mezza età appostati ai tavolini dei bar, a quelli che inevitabilmente pronosticavano un 2-0 per noi con le immancabili reti di Signori e Baiano; le inquadrature sulla villa comunale, il giro panoramico sull’unico calesse in circolazione, il clima perpetuo da Mulino Bianco, l’ottimismo irragionevole della civiltà contadina inurbata; e poi i soggetti naif, in rapido scorrimento subliminale: quello che regala le caramelle al mister prima del fischio d’inizio, quello che batte i piatti, quello che sparge il sale nell’area piccola, le hostess rossonero vestite che distribuiscono mimose in tribuna vip, quello acconciato da diavolo con le corna stracolme di gel fissante. E la Sud che intona “Mi diverto solo se”. Un tempo il Foggia era una squadra ostica, brutta, da evitare. Sponsor: Pasta Tamma. Undici rognosi falegnami in campo con la stessa mentalità, da “San Siro” a Cava dei Tirreni. Il Foggia era antipatico, come l’Avellino, come il Taranto, come l’Atalanta. In quel periodo s’è trasformata in altro: nell’avamposto neo-positivista più felice d’Italia, rappresentato in giro da un manipolo di ragazzotti allegri e impertinenti. La squadra simpatia. Applaudita al “Meazza”, applaudita al “Franchi”, applaudita al “San Paolo”. Un mare di gelatinosa vergogna s’è abbattuto su di noi, fieri e sorpassati portabandiera d’un calcio fatto d’agonismo e rivalità, senza margini d’apprezzamento per il bel gioco, il divertimento o la sportività. Foggia non era più Foggia, all’epoca. Era diventata, non a caso, Zemanlandia. Io non ho mai abitato a Zemanlandia. Se ci fosse stato un muro tra Foggia e Zemanlandia, come a Berlino, non avrei mai tentato di scavalcarlo: meglio la triste austerità del catenaccio, il realismo architettonico razionalista d’uno zero a zero strappato immeritatamente, che le bollicine americaneggianti, consumiste e trendy dei 4-4 o dei 2-8 casalinghi. Questo ho detto, questo ho scritto. E, giacché a Foggia un antizemaniano è improbabile da scovare almeno quanto un israeliano antisionista (e questo è un limite, tanto dei primi, quanto dei secondi) m’aspettavo d’esser sommerso da ogni genere di contumelie. Perché Zeman è religione. E non si può impunemente entrare in una comunità di preghiera negando il dogma dell’immacolata concezione.Invece, sono stati tutti più o meno comprensivi. Certo, le critiche sono state tante. Ma composte: un dibattito filosofico in luogo della diatriba teologica che m’aspettavo. Fuori le Sacre Scritture dal tempio del calcio. È un segno dei tempi, un salutare moto di laicismo. Di più. Il sintomo che una breccia s’è aperta nella coscienza collettiva della comunità. Che l’evidenza del pluri-fallimento è abbastanza forte da far tralasciare – per un attimo di lucidità – qualsiasi retaggio pregiudiziale. Napoli, Salerno, Avellino, Istambul, Belgrado. C’era margine per fare calcio, aveva detto il boemo. C’era gran voglia di divertirsi, di ben figurare, in Serbia. E, soprattutto, non c’era la mafia che c’è in Italia. Quella cupola invidiosa e accaparratrice a guardia di un sistema corrotto che per anni gli ha sistematicamente impedito di vincere qualcosa. Già. Non aveva considerato che anche in Serbia qualcuno mugugna se l’Apoel di Nicosia ti sbatte fuori dalla Uefa ad agosto. Che, a dispetto delle latitudini, delle innocenze e delle malizie, del calcio minore e di quello maggiore, il tifo è esercizio altamente egualitario. Tutti i tifosi del mondo ragionano alla stessa maniera. E non si può modificare il dna di un tifoso impunemente, se non correndo il rischio di sostituirsi alla divinità; di fare come certi scienziati pazzi alla costante ricerca di nuovi Frankenstein. E il Vaticano? Il Vaticano sempre così attento alla vita e alla morale tradizionale – fino a mettere in discussione il concetto di “morte cerebrale” – come mai tace? Come mai non si leva alta la voce del Pontefice contro questi orripilanti esperimenti genetici? Il tifoso non vuole divertirsi. Il tifoso, al limite, non vuole neppure vedere la sua squadra giocar bene. Il tifoso è quello che alla fine risponde scarno come gli almanacchi: zero a zero, uno a uno, due a uno per noi. Altro che storie.

Alla fine del primo tempo, fuori dal box, sotto il sole cocente, tra le macchine parcheggiate, è così che è andata. Qualcuno ha detto: “Io non mi lamento. Mi sembra un buon Foggia”. Zero a zero. È certamente un buon Foggia. Vaghi e stucchevoli i riferimenti al fatto che Pecchia è parso inesistente, che si è attaccato sfruttando solo i lanci e il fronte destro, che Salgado è un oggetto lento e svogliato, che Del Core da quella parte è inutile, che la difesa ha la stessa sommatoria tecnica di una squadra anni Trenta. Zero a zero. Vale quello. E possiamo concentrarci su altro: sulla scollatura della speaker a bordo campo, quella che intervista Peppino Baldassare e lo saluta dicendo: “Buon lavoro”, sul gol-e-gol di Frosinone-Bari, sullo splendore del manto sabbioso del campo sportivo di Vasto. Siamo una ventina, stipati su tre file. Ceska ha disertato all’ultimo momento. Pubblico esclusivamente maschile, se si eccettua Manuela. Vado in bagno e penso che va bene così.

Burzigotti. Somiglia a Materazzi, hanno detto in settimana. È dell’Alto Adige, sostiene Lello, e non si può sperare niente di buono da un tedesco. Burzigotti. S’era già fatto espellere Rinaldi, per un fallo ridicolo, mentre tutti c’aspettavamo il crollo nervoso di Cardinale, che invece è parso pulito come un Pirlo. Avevamo smesso di contrattaccare. Novelli, il mister, urlava. Brutto segno. Sintomo di scarsa personalità, di debolezza. In serie C gli organici fanno in fretta a scavalcare gli allenatori, a portare a termine dei putsch rischiosissimi per la tenuta mentale dell’intero organico. Burzigotti voleva appoggiare un pallone a Bremec, il portiere. Ma il colpo di testa non c’è stato. Ha spizzato, come si dice in gergo. Ha lisciato, come si dice al campetto. La palla è rimasta lì, a metà strada tra la tirolese silhouette del difensore e l’uscita scoordinata del portiere. S’è inserito Bazzani. Quello che tifa Fortitudo. Quello che giocava a Genova, sponda Samp. Quello sposato con la Merz, che stava pure in tribuna. Un tocco, esteticamente ripugnante, ma efficace. Palla nell’angolino destro. Sotto la curva dei pescaresi. Uno a zero per loro. Adesso possono partire le critiche, le disamine tecniche, le forsennate interpretazioni a medio e lungo termine. Se Burzigotti non l’avesse colpita così male; se l’arbitro non fosse stato così affrettato da estrarre il rosso a metà partita. Un peccato, soprattutto considerando il fatto che il pessimo terreno dell’ “Aragona” era un punto a nostro favore. Il maggiore spessore tecnico del Pescara, su un campo decente, sarebbe parso lampante. Invece c’eravamo quasi. Uno a zero per loro. E nel calcio conta quello. E nient’altro.

03/09/08

Allo stadio con l'infradito

di Mr.Stramy

L’ha già detto Lob2, domenica mattina gli ho inviato un sms in cui mi dichiaravo emozionato, ma al tempo stesso pronto alla contestazione. Lob 1 e 2 in casa con il Barletta non c’erano, beati loro. Perdere per me significherebbe la seconda sconfitta consecutiva. Provo a convicermi che in campionato è diverso, in fondo son passati 20 giorni e la squadra avrà sicuramente assimilato meglio gli schemi del mister. La domenica mattina è sempre stata bella, quando giochi in casa lo è ancor di più, alla prima poi non ne parliamo proprio. E’ come portar un bambino alle giostre e dirgli “Va a papà ci vediamo quando sei stanco”. Colazione, biglietti delle scommesse, Cocozza e pranzo veloce.

Fatal Cremona. E’ li che ci siamo lasciati. Al post di Lob1. Credo uno dei pezzi più belli che io abbia mai letto (si, leggo molto poco), che mette i brividi e se trattieni le lacrime lo fai solo per autoconvincerti che un altro anno di C1 alla fine non sia poi così catastrofico. Un articolo che è un’opera d’arte, potrebbero metterlo a Firenze agli Uffizi. Per rimanere in tema, quindi calcisticamente parlando, è una perla tipo il gol di Baggio nel Brescia al Delle Alpi contro i gobbi.. Sono stato anche a Paternò in finale, però non so, quella sconfitta bruciò di meno, forse perché durante la partita non si aveva mai avuto il presentimento di poterla vincere. Oggi si ricomincia ma onestamente, con che stato d’animo? Mi sembra che le squadre allo Zini debbano ancora rientrare dagli spogliatoi porca Juve.

“Ma che vai allo stadio con l’infradito? Se ti pestano i piedi dopo il gol?” Sono state le domande che mi ha fatto mio fratello mentre lui si sedeva a tavola ed io scendevo sciarpetta in vita. Ecco, si vede che mio fratello non va allo stadio da parecchio tempo. O meglio l’ultima non fa conto visto che è stata una negli ultimi 10 anni e non a caso quella dello scorso anno contro l’Avellino. Poveretto, se l’è rovinata pure. Tutti gli amici quando lo vedevano gli chiedevano o urlavano se avesse una cartina. “Oh hai una cartina?” “Oh vieni a fumare” “Oh, che mo sei diventato un bravo ragazzo?” Nessuno dei suoi presunti amici è riuscito a cogliere le smorfie di mio fratello. Lui avrebbe anche fumato, ma non davanti a papà…

Infradito quindi, stile scampagnata, stile “pasquetta”. Come quando mia madre mi chiede di andar giù a comprare il pane. In sfida alla squadra. Sento che devo esser conquistato. Mi è quasi dovuto. Io ho già dato, adesso tocca a voi. O forse è un’altra cavolata. Quei colori potrebbero chiedermi qualunque cosa….

Prima che gli Uffizi ci chiedono l’opera d’arte, se ancora non l’avete letta:

01/09/08

Mario c’è

di Lobanowski 1

E’ lunedì, sfoglio i tabellini delle partite sulla rosea. Lo faccio da sempre. Nel girone B della seconda divisione la media spettatori è di 400 unità, a voler essere buoni. Punte massime di 600 e minime di 150. Altra cosa il girone C, e poi a Cosenza 6mila spettatori. Vabbé, restano sempre una grande piazza, che ha fame di calcio dopo anni tra i dilettanti. Ma scopro che a Cesena, non proprio la Boca della Riviera, hanno fatto 4mila abbonati. E vengono da una retrocessione dalla B. Forse se abiti nella grassa e un tempo rossa Emilia Romagna, la vita ti da altro e vivi le disgrazie del calcio con spirito diverso. Non lo saprà mai, inutile arrovellarsi attorno al dilemma.

A Perugia, dove già avevano una buona squadra e ci hanno aggiunto dell’altro, gli abbonati sono oltre 2mila. E’ vero, partono a detta degli esperti per vincere il campionato, ma non è che loro lo scorso anno non abbiano fatto indigestione di rospi. Quasi grossi come i nostri. Vinci la semifinale play off 3 a 1 in casa, ti illudi, poi perdi 2 a 0 al ritorno. Ad Ancona. Addirittura nell’umida Venezia gli abbonati sono circa 1.700. Quanto i nostri. Pesano i dieci anni di delusioni che abbiamo alle spalle, però m’aspettavo qualche tessera in più. Per atto di fede e pertanto insindacabile. Così come m’aspettavo più gente ieri allo stadio.

Che faceva caldo l’hanno già detto. Che un motivo per divertirsi in curva ieri l’abbiamo trovato, anche. Perché non è che dal campo arrivassero chissà quali emozioni forti. Certo, rivedere Mario con la sua maglia rossonera numero 10 è stato un piacere. E vederlo dribblare tra una schiera di difensori, con una condizione ancora approssimativa, lascia ben sperare per il futuro. Anche perché l’ipotesi che al suo fianco si possa schierare Del Core prende corpo. Il calciomercato chiude e l’attaccante di Bari Vecchia pare non avere richieste.

Mr Stramy m’ha preso per il culo quando un affondo sulla destra di Troianello, nel primo tempo, ha fatto capolinea in una zolla di fango e sabbia dell’ex prato dello Zaccheria. “Com’è la storia che chi segna in serie D e in C2 segna anche in C1?”, m’ha chiesto. Lo scugnizzo delle interviste impossibili, che ho idealmente schierato nel personalissimo Fantacalcio di prima divisione, m’ha ripagato. E sono certo che anche Mr Stramy era contento. Di tiri come quello finito ieri nella rete ne abbiamo visti tanti, negli anni. Quasi tutti colpire il campanile di San Giuseppe Artigiano.

Un abbozzo, esagerando azzarderei un progetto di squadra, dico che ieri s’è visto. Mettendoci tutto e di più come alibi per una partitaccia: forma fisica da raggiungere, squadre nuove per molte unità, schemi da apprendere, caldo, terreno indecente, Potenza schierato come le truppe italiane sull’Adamello nella Grande Guerra. Lanci lunghi a parte, Salgado ha fatto vedere che di spalle alla porta si sa muovere. Che quando si prova a giocare sulle fasce abbiamo gente che sa sovrapporsi, saltare l’uomo. Che non puoi non avere fiducia in un centrocampo che schiera Pecchia, Mancino e Coletti. Per la gara col Barletta ero in altri lidi, ma m’hanno spaventato parlandomi di una squadra che giocava con la difesa altissima. Ebbene, ieri nemmeno un tentativo di fuorigioco, nonostante il Potenza lasciasse avanti un solo uomo.

Rinaldi per un po’ ha fatto il peggior Rinaldi (e Novelli l’ha messo fuori. Così si fa…). Zanetti di marcare uno grosso come Bazzani forse non ne aveva voglia, e s’è fatto espellere. Colombaretti si muoveva con l’agilità di una Duna diesel del 1990. A Mattioli sarebbe servito un pallone solo per lui. Ecco cosa non m’è piaciuto. Assieme ai fischi del primo tempo. Pregiudizio puro. I primi 45 minuti di Foggia-Legnano, all’esordio nel campionato scorso, furono ancora più scialbi, ma nessuno contestò. Nessuna aveva fretta, allora. Questione di stati d’animo.

Domenica c’è il Pescara. E le chiacchiere stanno a zero. Che si giochi male o bene ai tifosi importa poco. L’importante è non perdere. Contro Galderisi. Contro Cardinale (che se magari Coletti fa il furbo, basta niente per provocarlo e farlo espellere). Contro una tifoseria “nemica”. Trasferta a Vasto vietata, quasi certamente. E niente diretta tv, dice Lob3. E già penso a che sofferenza sarà.

"Hai un biglietto in più?"

di Lobanowski 3
"Porta l'auricolare del telefono. Non dimenticartene". Mi sveglia questo stringato sms; il furgone senza paraurti e che s'accende con un particolare spray è nel cortile dello "Zaccheria" già da due ore. Si stendono cavi, si usa l'ascensore per portar su le camere. Io, nella mia stanza, dove purtoppo fa ancora caldo (e la cosa non aiuta ad entrare nello spirito del campionato) accendo con pigrizia la tv. Scontri alla stazione di Napoli. Evito i commenti, dico solo che cacciare via i passeggeri del treno e distruggere il convoglio, è una roba da imperialisti. Spacconi, tendenti alla lazialità. I napoletani piagnoni. Doccia veloce, appena dentro il recinto, la zona rossa, s'avvicina uno. E' il solito. Chiede biglietti a destra e a manca. Poi li vende. Mi fa "Giovane..". Gli rispondo male, con un "che vuoi?" stizzito. Mi chiede il tagliando. "Non ne ho". Replica con un tono dimesso, vittimistico. "Tanto lo so che ce l'hai, devi darlo a qualcun'altro...Tanto vale che lo dai a me". Vai a cagare. Sorride, e chiede scusa. Chissà poi di che. Entro allo "Zaccheria". I vecchi amici, gli stewards delle porte. Tutti che mi chiedono se potranno assistere in tv a Pescara-Foggia. Uno fa lo scoop. Dice che il Foggia perderà la prime tre, perchè vogliono cacciare l'allenatore. Pannelli nuovi in sala interviste, poi Loba2 in lontananza con Ceska e fratello. Grido. Enio, è quasi una parola d'ordine. Non mi sente. Ricomincia il campionato pure per lui. Mi piace il coro "Dai Potenza, dai Potenza... eh eh...". "Montanari...", urla un distinto signore seduto al solito posto in tribuna ovest, verso la Nord. E' il solito. Sono tre le parole del suo stereotipato dizionario. Ci sono pure "pesciaioli" e "pecorari". Si adegua all'avversario come il più astuto degli strateghi. Manco fosse Mourinho. Il Foggia non mi piace, Mario sfiora il gol. Kontè, "il nero" per l'intero settore, regala i primi segni di sfiducia della piazza. Sento uno che fa in foggiano: "Se il nero la metteva dentro, tornavo a casa a vedere il Milan". E penso, anche se non dovrei forza Bologna. Sussulto della tribuna stampa quando comunico il vantaggio del Crotone col Pescara. Credo che Galderisi sia il male, adesso. Segna Troianiello. So che è il match point, perchè il Potenza non pareggerà mai. All'uscita ancora domande sulla diretta tv. Che quasi sicuramente non ci sarà. Non sono ancora in clima campionato. Fa troppo caldo. E ho urlato di più al gol di Gila.

Noi siamo Borghetti

di Lobanowski 2

Domenica 31 agosto, Foggia-Potenza 1-0

Il segnale acustico è inconfondibile. Il vecchio Nokia in preda alle convulsioni nella tasca del jeans, a testa in giù sullo schienale della sedia. Un sms. Angelo scrive: “Sono emozionato, ma pronto alla contestazione”.
Si ricomincia. È la prima. La lunga attesa è agli sgoccioli. Anzi, è già finita. Perché nel calcio, ultimo rito collettivo vivo sotto la cenere dell’individualismo straccione, quel che conta è prendere parte: ed un preparativo addobbato a dovere conta quanto – e a volte più – dell’evento in sé. L’avvento conta più del Natale. La quaresima più della Pasqua. L’attesa del Palio più del Palio. La prima serata di Sanremo più dell’ultima. L’Osservatorio è in fibrillazione. Le questure, i reparti celere, i prefetti, le società. Nella piramide tridimensionale dell’emergenza creata ad arte, tutti i gradi dell’organizzazione – giù, giù fino ai giornalisti di Rai e Mediaset – sono in spasmodica attesa che qualcosa possa accadere. In tanti (molti più di quanti ne possiate immaginare) lo sperano caldamente. Diversi ceri a diversi altari sospetti sono stati santificati prima della prima liturgica. Fatto sta che lo stesso super-ente alla Sicurezza nazionale in materia di stadi, ha chiuso lo “Iacovone” di Taranto e concesso ai napoletani di raggiungere Roma e ai gobbi di scendere a Firenze. Un esordio spinoso. Ieri sera si raccoglievano scommesse sui nuovi pianti greci a cui avremmo dovuto assistere dopo l’esodo degli azzurri nella capitale. A mezzogiorno è giunta la prima Ansa: “Tafferugli nella stazione di Napoli”. Lo spirito paternalista – che questo Paese mutua pari pari dal cattolicesimo più deteriore – s’è impossessato dei primi sguardi torvi. Come se qualcuno volesse dire, all’intero mondo degli ultras (e dei “semplici” tifosi, perché no): Avete visto? Vi lasciamo liberi di scorrazzare per mezz’ora, e questo è quello che succede.

Alle 14,10 il chiosco di Salvatore, a San Ciro, è già vivo e pulsante. Sembra una slot-machine di quelle da muro, coi sensori sensibili. Due Borghetti, 3 euro. Il carovita investe anche le oasi dell’Unesco. I ben informati consigliavano di recarsi alle porte con sufficiente anticipo. Del resto lo “Zaccheria” ha ottenuto l’agibilità in extremis e fino a ieri sera alcuni bar cittadini vendevano i tagliandi dietro ostensione di un documento di riconoscimento. Alcune prevendite si spingevano fino al numero di cellulare. Si garantiva la gestione elettronica dei posti numerati, precondizione d’obbligo per evitare l’esordio a “porte chiuse”. Pazze risate. La battuta più gettonata riguardava il numero di fila e di seggiolino. Delirante, per una curva che i seggiolini non li ha. Lo strano sovraffollamento alle transenne che fungono da primo prefiltraggio, altro delirante reperto del dopo-Raciti, ha di fatto accelerato il secondo giro di birra. Una fila disordinata e scoordinata, larga più che lunga. Poi l’intervento risolutore di un eroico supereroe, che con invidiabile nonchalance ha divelto una transenna e creato il varco. Come a Porta Pia. Per una frazione di secondo ho incrociato lo sguardo dello streward in arancione. Poi quello ha detto: “Ecco, è finito a schifo” e tutti hanno riso grassamente. E anch’io. Al secondo prefiltraggio un padre disperato ha allungato il figlio oltre la staccionata, donandolo alle forze dell’ordine. Famiglie disgregate. A cosa siamo giunti. Poi anche queste transenne sono volate via. E ci siamo ritrovati. Abbiamo deciso: i tornelli sono barriere architettoniche. Ci vorrebbe una pubblicità progresso. Tutti dietro la bandiera, munita d’asta leggera e snodabile. Un bijou. Il caldo è perpendicolare e umido. Più che sudare, si gronda. La mia testa lucida spicca. Mi bucano la tessera. Siamo dentro. A Barcellona in un bar di boliviani c’erano dei poster. Poster come quelli che di solito ci sono nei ristoranti italiani nel New Jersey o a Malibù. Soggetti tipici: la Torre di Pisa, il Colosseo, il Duomo di Milano. Nel bar boliviano di Barcellona c’era una bidonville. Ecco. Adoro questo stadio per la stessa ragione per cui quei boliviani adorano la loro nostalgica distesa di baracche con la fogna a cielo aperto. Lo adoro per quel che rappresenta. Per quel che rappresenta di me. Mio fratello, che si è sorbito lo scempio col Barletta in Coppa, mi aveva chiesto: “Torni allo Zaccheria dopo il Nou Camp… Non ti fa effetto?”. Guardo il cemento armato cadente, bisognoso quanto meno di una passata di calce e vernice, il chioschetto e i cessi pubblici, e sono finalmente in grado di rispondere. Certo che mi fa effetto. Quello è uno stadio, questo è il mio stadio.
Il settore è lo stesso. In alto lievemente sfalsati sulla destra, guardando la curva dalla curva stessa. Oggi poi siamo particolarmente montani: dietro di noi c’è un solo gradino. Manca Daniele, per procura eletto sbandieratore e alfiere del gruppo. Manca Gianni, frenato dal lavoro. Ma le facce conosciute ci sono tutte. Ostentiamo un boxer rossonero della Wanted. Partiamo col coro, sulle note di Bandiera gialla:
Quando vedrai / Sventolar questa mutanda / Tu saprai / Che qui si canta / E l’igiene tornerà.
Siamo consapevoli che il limite tra goliardia e disimpegno è labile. Maneggiamo la materia grigia del limbo. Ma nessuno di noi si sogna di infrangere l’abusato paragone tra il dogma religioso e la fede calcistica. Di fronte c’è un buon migliaio di potentini. Fanno sciarpata mentre le squadre entrano in campo. Sembra la Casertana, o l’Amburgo, il Potenza. Noi in rossonera, con le fasce strette. Aborro. Dopo trenta secondi battiamo una punizione alla tre-quarti. Con orrore m’accorgo che l’intero undici, tranne il portiere, è nell’area avversaria. Spargo la voce tra i distratti. Questo va mandato a casa, subito. Zeman ha perso ancora, laggiù a Belgrado. È a otto punti dal Partizan, alla terza di campionato. Non ho voglia di fare la stessa fine. AV ricambia il fremito. Ci vorrebbe lo stendardo: “X Fisso”. È nell’aria, gira l’idea di uno scialbo pari. Stefano erano anni che non veniva allo stadio. Si sconvolge per il livello infimo di calcio espresso. In effetti sarà il caldo, sarà che sono le prime sgambature, ma sul terreno sabbioso ci si azzuffa senza mai dare l’impressione di possedere un’idea di gioco. La Sud canta, ma i cori non sono possenti. Riabituarsi alla categoria dopo aver sognato il salto è un impegno che richiede disciplina e dedizione. La stessa che Mattia ci mette a sventolare il vessillo della Cnt riconvertito ad uso civile. I primi quarantacinque minuti mi servono a riempirmi alcune lacune sulla formazione. Angelo mi ragguaglia. La ripresa. Ci siamo. La curva è più decisa, la squadra giochicchia. Sarà stato lo spavento per il gol che si è divorato l’unico giocatore nero del Potenza. Gli sono stati risparmiati i “bu” d’ordinanza. Grande sensibilità della gente di Capitanata. Cantiamo per la squadra, cantiamo per la maglia, cantiamo per un amico che ci raggiunge nel settore. Lui non sembra gradire. Poi segniamo. Inspiegabilmente. Siamo in vantaggio e ci resteremo. Uno dietro di me rimpiange il 4-3-3 originale, quello “divertente”. Mi limito ad osservarlo, come si osserva la Venere di Cirene. “Se volete divertirvi, andate a vedere i pagliacci”. Resistiamo. Dal settore dei potentini s’alza il coro. È massiccio, anticipato dal corifeo, scandito a sillabe, come di solito sono i cori massicci.
Noi / Siamo / Lu-ca-ni.
È un attimo. Il lampo di una Polaroid. Ceska s’accende come una lampadina. Parlotta con AV. In mezzo minuto la risposta si dipana sulle teste di quelle venti teste di cazzo che siamo.
Noi / Siamo / Bor-ghet-ti.
La gente si gira per ridere. Ormai siamo in corsa. Manca poco, il Potenza attacca e rischiamo di prenderle. Ma noi andiamo dritto-per-dritto. Ancora a scandire: Salutate la capolista.
Continuiamo ad oltranza, senza accorgerci del triplice fischio, degli applausi alla squadra. Quando rientriamo in noi stessi la curva sta saltando all’unisono: Chi non salta è pescarese.
Presagi.

Il Libro