27/10/08

Faccia a faccia con l'oracolo

di Lobanowski 2

Domenica 26 ottobre, Marcianise-Foggia 1-0 (sul neutro di Caserta)

Il pullman. Un’esperienza che mi mancava da Andria. Da quando, con precisione? Mah, qualche tempo fa, un attimo che cerco nella cassettiera, dovrei avere anche il tagliando d’ingresso. Persi un accendino nero, molto prezioso, ad Andria. Prendemmo due reti sul muso. Poco tempo fa. Ecco. Novantasei, Novantasette, Novantotto, tutt’al più. Il ragazzo che siede sull’altra fila si sfila gli occhiali da sole. Si sporge in avanti, verso il centro della moquette che ci divide: “Com’è sta storia? C’era un torneo anglo-italiano? Ma per caso è quello che le squadre italiane vincevano sempre finché non abbiamo partecipato noi?”. No, quello è la Mitropa. L’Anglo-italiano è altra storia. Otto squadre della nostra cadetteria contro otto equivalenti d’Oltremanica. Due gironi, o quattro, da cinque o sei squadre cad. A Foggia, nello spicchio di tribuna, calarono i tifosi dello Stoke City e quelli dell’Ipswich. In venticinque, con tanto di pezze britanniche. La finale sempre a “Wembley”. Ci sono stati i genoani, i bresciani, i ridicoli cremonesi. Il ragazzo mi guarda: “Ma quando succedeva tutto questo?”. Mah, qualche tempo fa, che sarà stato… Il Novantacinque, Novantasei tutt’al più. Un frangiflutti di silenzio. La consapevolezza che cavalca l’onda. Dodici anni fa. Cazzo. Devo smetterla di parlare come il giovane che non sono più. Lello fa un rapido calcolo, affonda nei pensieri matematici e riemerge con una sconcertante certezza: alcuni di questi ragazzi non hanno mai visto nient’altro che la Serie C. Me lo confida con raggelante sicumera. Uno sguardo avanti e indietro: come se stessi guardando deportati destinati alla pena dell’inedia perpetua. Il nucleo è tutto nella percezione degli eventi: quando ero ragazzino io il Foggia languiva in C1 da un po’, ma al sesto anno di terza serie, la gente non ne poteva più. Oggi siamo già alla decima stagione – tra C1 e C2 – e, nei monologhi dell’epica, sembra sempre ieri che battevamo la Triestina e riempivamo via Parisi di striscioni per la storica promozione in A. Il tempo è un gran dissimulatore.

Mattia aveva occupato il posto vuoto lasciato da Giuseppe, improvvisamente influenzato. Non si è presentato all’appuntamento. Un mantra di maledizioni e bestemmie ha accompagnato la sua assenza. Nessuno da chiamare per procedere all’improvvisa, seconda sostituzione. Nessuno da svegliare. Ci piace pensare che abbia sbagliato pullman. Che ne abbia preso al volo uno di pellegrini diretto a Pietrelcina o a San Giovanni Rotondo. Lo immaginiamo che scandisce cori nella chiesa dei cappuccini: Batte solo per te!
Si parte. Il caldo è opprimente e toglie ossigeno. Siamo quasi a novembre e non vuole saperne di raffreddare. Le volute del fumo ingombrano un ambiente già saturo. Il viaggio è breve, si può sopportare. Alle 11 siamo all’Ipercoop. Via Ascoli. L’autostrada a Candela. Viene servito del whiskey da discount, che sembra tequila o mescal. A Lacedonia in molti già cantano. Si passa al vodka-lemon, senz’altro meglio. Gira Fan’s magazine. Volano scarpe. Ci accostiamo ad una piazzola per venire incontro ai primi prostatici provati. In 36 minuti netti siamo a Bisaccia. L’autista è un decisionista. Daniele si unisce alla festa. Mi rilasso e m’accorgo che, forse, sarebbe stato meglio anche per me scendere alla piazzola. Al centro si poga. Il Foggia è tutto per me, il Foggia è tutto per me. Il pullman ondeggia. Avellino Est. Chiedo quanto manca con sempre maggiore ansia. Adesso ho sul serio da pisciare, e mi maledico come un eretico. Lello matematico profetizza 40km ancora. Mi alzo, mi siedo, provo a distrarmi. Fisso la strada davanti. Una pattuglia di polizia ci sorpassa e prende in consegna il pullman. La scorta. Il risultato è un brusco rallentamento nel contachilometri: si cala a 40 all’ora. Il mio viaggio incontinente diventa un penoso rallenty. Uno, evidentemente nelle mie stesse condizioni, prova a perorare la causa: “Ci accostiamo?”. Una voce gli risponde dalla testa del mezzo: “Si, a Caserta”. Ridono tutti. Rido anch’io, ma sotto sotto spero che la polizia ci speroni ed ordini una perquisizione. Avrei tutto il tempo per liberarmi. Al casello di Caserta Nord sono speranzoso. Poco prima del telepass, ci fanno accostare. Scendiamo tutti, ad attendere il resto della carovana rossonera. Il sole è alto e bollente, sacchetti d’immondizia oltre il reticolato, l’asfalto scotta, i rami degli alberelli sono rinsecchiti e pungenti. Non sono né un ladro, né una spia. È una giornata meravigliosa.

L’avevo contemplato tra gli incubi possibili nella disperata notte adriatica del dopo-Cremona, quando si passavano in rassegna le potenziali avversarie di questa nuova stagione di C1. Annoverato unitamente al Mezzocorona, al Pergocrema. Alle 13 in punto, l’incubo Marcianise si è palesato: fabbriconi vetrati a specchio, cemento ad avvolgere piloni armati, terra arsa e chiazze di erba desertica, ai fianchi. Colline, in lontananza, l’incombere di Napoli e del suo vulcano. Il filare di imprese di trasformazione, il brullo e assetato contorno di una strada extraurbana. Tutti al finestrino, qualcuno invita a tenere sempre gli occhi aperti. Da vent’anni non giochiamo a Caserta, ma i rapporti non sono mai stati buoni. Può essere che qualcuno se ne ricordi. Invece no, qui è sul serio un deserto. Il canto riunisce il mezzo: Canterò, per sempre canterò, Rossoneri alé, Sempre insieme a te, Fino a quando fiato non avrò, Rossoneri sosterrò. Siamo a Caserta città. Un parcheggio per gli ospiti, vediamo macchine. In tanti sono arrivati così, sfidando le macumbe di un passato ignorato. Noi tiriamo dritti, fino alla caserma e, oltre ancora, alla porticina d’ingresso al “Pinto”. Biglietti alla mano, continua a ripetere la polizia. Noi dobbiamo aspettare Guido. Una telefonata al cellulare. Sono in centro. In centro a Caserta. Le mie preoccupazioni militari sono vecchie come i miei ricordi? Arrivano. Entriamo. Welcome to Eighteen.

Siamo in gradinata. Alla nostra destra la curva, a tuttotondo, dei tifosi di casa. Che non ci sono. Qualcuno dice “gli ultras del Caserta”. Scommetto che in pochi saprebbero dirmi dei Fedayn Bronx, della cupa meraviglia che mi ha sempre ispirato quel settore. Lode alla Casertana e alle battaglie di un tempo. Il Caserta? Non so cosa sia. In tribuna ci sono i pochi spettatori non foggiani. In un angolo, sotto il sole che mi ferisce la cornea, due striscioni di ultras locali. Ma quanti colori ha il Marcianise? Effettivamente c’è del verde, del giallo, del rosso, del blu. Srotolo la bandiera e ci conto. M’informo. Ci contano in tanti. La Snai ha quotato 2,70 la vittoria corsara del Foggia. L’hanno giocato tutti. Mi guardo attorno. Saremo trecento, qualcosa in più. La bandiera dell’Angola è stata bloccata all’ingresso. L’uomo della digos è venuto deciso, determinato. Non si possono portare simboli politici. Rispondiamo che non ce ne sono, che è una bandiera di uno stato africano, occasionalmente rossonera. Quello scuote la testa: Non prendiamoci per culo, dice, la prossima volta vi diffidiamo. Sarebbe interessante. Potremmo chiedere a Mattia di portare la bandiera, domenica prossima. Otterremmo la sua diffida e la possibilità di aprire un caso mediatico. Due piccioni con una fava. L’urlo è possente. Noi-Vogliamo-Questa-Vittoria. Il rimbombo s’annida sotto la tettoia della tribuna. Come a Manfredonia. Battimano convulso. Noi vogliamo questa vittoria. Invece è il Marcianise a segnare. Vedo poco, pochissimo, e quel poco lo individuo ad altezza d’uomo. Mancano aria e spazio. Ma quando sento il boato di disapprovazione, capisco che sta succedendo qualcosa. E uno in maglia gialla appoggia a porta vuota. Gossip: pare abbia sbagliato un tale Lisuzzo. Lo apprendo in fila al chioschetto, un varco nel muro del “Pinto”, modello botteghino. Due bottiglie d’acqua e due Borghetti. 5 euro. Fattibile.

Nella ripresa incitiamo, a tratti i decibel sono notevolissimi, ben oltre questa categoria che non meritiamo. Ma questo è scontato. Il Foggia gioca una partita pessima, non giunge mai ad impensierire la difesa avversaria. Perde, meritatamente, senza mai darci un’emozione, senza mai coinvolgerci in un sussulto. Personalmente, mi sembra sia durata venti minuti in tutto, questa gara. In bagno c’è chi gioca a nascondino con un carabiniere. L’effetto eco amplifica gli sfottò e moltiplica i possibili colpevoli. Il carabiniere viene allontanato da un collega, prima che si metta ad urlare. Si strappano quintali di bollette. Qualcuno si informa sulla serie A. Il Napoli che sbanca l’ “Olimpico”, il Genoa che regge a “San Siro”, la Roma che frana al “Friuli”. Dagli zainetti spuntano panini salame e melanzane sott’olio. L’autista accende le luci ruffiane e lancia una compilation dance anni Settanta e Ottanta. La comitiva di soli uomini si concede una festa da ballo. Due ore di autostrada davanti. Un solo autogrill in mezzo. La coabitazione forzata con una comitiva di pellegrini salentini. A chi ci chiede del Foggia, rispondiamo che ha vinto uno a zero e che questa è l’annata buona. Quelli ci credono e per poco non litigano tra loro. Quattro ragazzi con sciarpe biancoazzurre ci vengono incontro in pace: Siamo materani. Il coro a seguire è ovvio: Noi non siamo napoletani

Pocket Coffee, Ceres, Coca e Sprite. Il buio del pullman, il nuovo silenzio dello stereo. Le telefonate di amici e compari: Dove siete? Boh, mi pare dopo Benevento. Un’oretta all’arrivo. Autista, accelera, che la trasferta è bella quando dura poco. All’Ipercoop c’è la folla delle grandi occasioni. Il traffico è intasato. Decidiamo: torneremo a casa sventolando, per raccogliere il disfattismo della popolazione. All’altezza del mercato Rosati una comitiva di adulti: Che ha fatto il Foggia? A loro non mentiamo: Ha perso, uno a zero. Quello, che alle 19 e passa ignorava bellamente il risultato, scuote la testa preoccupato e consapevole: Facciamo schifo. Già, facciamo.

20/10/08

Il pensiero compulsivo

di Lobanowski 2

Domenica 19 ottobre, Foggia-Sorrento 3-1

Ci sono partite non chiuse che bruciano come ferite di guerra. A distanza di anni. Al variare delle stagioni. La radio era il nostro unico appiglio. Ci incontravamo dopo pranzo, lavoravamo di manopole, ci accampavamo intorno ai transistor come pellerossa attorno al fuoco. Il Foggia giocava a Cremona, nell’anno della promozione in B. Con Zeman in panca. Il chiosco delle bibite osservava il turno di chiusura settimanale. Sul retro, l’orinatoio a cielo aperto. Effluvi pestilenziali a scaglioni. Restavamo in ascolto dell’onda vincente. Come surfisti. Di tanto in tanto un pensionato chiedeva. Uno si accomodò tra noi. Il cronista disse che in campo c’era solo il Foggia e da un momento all’altro avremmo colpito. Lo 0-0 stava stretto. Fu quello l’attimo esatto in cui m’accorsi di possedere la dote di poter vivere esperienze extracorporee. Mi vidi dall’esterno, staccandomi dal corpo come resina da una sequoia. Vibrai a mezz’aria e fissai il mio pensiero, come si fissano i dirimpettai in treno. La comunicazione fu teologica e ben presto si concretizzò in una muta preghiera ascendente: Fa che tutto resti com’è, fa che tutto resti com’è, fa che tutto resti com’è. Un mantra, una litania, un rosario greco. La certezza di possedere una speranza che si faceva carne lasciava spazio, in controluce, al terrore di vedere il castello dei sogni disfarsi. Perdemmo due a zero. Da allora porto nel doppio fondo del cuore questo fardello, questa dote segreta: cristallizzo l’attimo in cui non possiamo perdere, in cui tutto è perfetto. Che coincide, immancabilmente, col voltafaccia del fato. Da quel giorno non voglio sentire che è fatta, che tutto è nelle nostre mani, che il destino dipende da noi. Né voglio pensarlo di mio. Frasi tipo Stiamo giocando troppo bene o Ci manca solo il gol, mi fanno scuotere la testa nel tentativo di scacciare l’impulso intruso. Ma, di solito, è tardi. Quando Cassano fallì il 2-0 con la Svezia all’Europeo pensai: la qualificazione è a portata di mano; quando mancavano 5’ alla fine dei play-off di Avellino, mi ritrovai a pensare che, cazzo, mancavano cinque minuti. E, manco a dirlo, a Cremona, tatuaggio che non smette di sanguinare. Mi limitai a passare in rassegna – volto per volto – l’intera fetta di settore raggiungibile dallo sguardo, e dire tra me e me: è troppo bello. Stamattina mia madre mi ha chiesto: Ma quando ti sei laureato, di preciso? Ho risposto: Non mi ricordo, di sicuro il 25 maggio ero a Cremona.

Fermenti lattici per sistemare lo stomaco. Dieta ferrea per mantenerlo sotto la soglia di galleggiamento. Il mio pensiero compulsivo è giunto quando il pallone, scalciato lontano da un nostro difensore, si è infranto sulla vetrata della gradinata. Bum. Da un po’ non riusciamo a far entrare in azione il centrocampo, da un po’ non sfruttiamo ordinatamente il disordine offensivo del Sorrento. Uno dei loro, palla al piede, ha cercato di incunearsi. Uno dei nostri lo ha stoppato e mandato fuori. Bum. Il pallone è fuori. Penso, e non lo faccio di proposito: Certe partite si chiudono. È un segnale, un dannato campanello d’allarme. Guardo gli altri attorno. Come per scrutare le loro espressioni. Come se il mio personalissimo presentimento camuffato fosse stato irradiato dai megafoni. E debba accertarmi delle reazioni. Niente, penso, non è niente. Vinceremo ugualmente. Stiamo vincendo, difatti. 1-0. Ha segnato Salgado alla mezz’ora del primo tempo, ed abbiamo avuto anche la palla del raddoppio. Poi, certo, loro hanno spinto. A dire il vero, hanno anche fallito un rigore. Parato, più che altro, ma non conta. Il Sorrento gioca alto, come non si dovrebbe. I nostri dispongono di praterie su certe ripartenze, specie a sinistra. Dio, perché non raddoppiamo? Salgado, ad un certo punto, è falciato dall’ultimo difensore. Ma era in fuorigioco. Proviamo il tiro dagli spigoli dell’area in parità o in superiorità numerica. Bum. La palla è sulla vetrata ed io comincio la mia traversata sui carboni ardenti. Bisogna sfatare anche questo pregiudizio, questa dannata premonizione, questo superpotere infame. Canto, ma anche la curva è più blanda che sullo 0-0. Al rigore parato l’urlo è stato paralizzante, il coro successivo da lacrime agli occhi. Una di quelle cose che ti inorgoglisce, come se fosse merito tuo. Canto: Ora, tutta quanta la, curva, canterà per te, Foggia, devi vincere, Foggia, devi vincere, Ora… Di fronte ci sono 50 tifosi avversari. Hanno tre o quattro pezze, diversi tricolore. Erano gemellati coi cosentini, si, ma anche coi massesi. Il che non depone a loro favore. Li guardo, poi guardo il campo, poi loro, poi il campo. S’apre una voragine, chiamiamo un fallo che non c’è, uno in maglia bianca lancia un compagno, la palla passa sotto le gambe di uno dei nostri, uno dei loro – non so come – si trova davanti al nostro portiere, botta di destro, guardo loro, esultano. Cazzo. Vorrei sprofondare. Mi si legge in faccia che è tutta colpa mia. Vorrei spiegare a questa gente che non c’entro, che il pensiero compulsivo è scollegato dalla volontà. Che proprio per quello è compulsivo. È una sindrome, maledizione. Ho un problema, non è bello infierire. Non è terapeutico.

Però pure sta squadra. Lo sapevamo tutti che sarebbe andata a finire così. È inutile che fate no con la testa. Gianni, vestito ancora da pasticciere, alla prima uscita stagionale, maledice la sua presenza. La superstizione è pianta rigogliosa, nel sonno della ragione. Abbiamo preso il primo gol in casa e mancano 25 minuti. Il pensiero compulsivo della perfezione ha colpito ancora. Eravamo lanciati verso il secondo posto, porco di un Giuda. Il Gallipoli perdeva in casa con l’Arezzo, alla bolletta Snai mancava solo l’uno del Potenza. Ed ora eccoci qua, a rifiatare per ricominciare la scalata. Di nuovo. La Sud è un polmone in difficoltà, il canto parte e si smorza, non supera la prima strofa, non diviene refrain. Dobbiamo rialzarci. La partita non si guarda, la partita si pedina, come un cane da caccia. Bisogna sostenere i ragazzi, che sono si beni fungibili, ma hanno anche una loro sensibilità attuale. Si dice. Con calma e con pazienza si rianima il malato. Sostegno ci vuole, sostegno. In campo i nostri sembrano scuotersi. Il pareggio non sta bene neppure a loro. Costruiscono. Una parte della mia psiche comincia a sperare: vuoi vedere che riusciamo a scacciare i demoni… E vuoi vedere che per scacciarli bisognava andarseli a cercare in qualche girone infernale? Facciamo il nostro dovere, alziamo le mani e incitiamo all’unisono. La Sud è ancora un posto meraviglioso dove vivere. A dieci dalla fine un cross dalla sinistra finisce con l’arbitro che indica il dischetto. Non ho visto niente. Mi dicono che un sorrentino ha deciso di smanacciare, senza pericoli incombenti. È un segno. Batte Salgado (questo lo scoprirò dopo). Il portiere intuisce ma non respinge. È il 2-1 che attendevo, è un peso che svanisce, una responsabilità in meno in questa vita dalla Moleskine fitta di appunti a penna. Levatevi di qui, levatevi davanti.

Il terzo gol, ancora di Salgado e ancora su rigore, è un semplice sigillo su un atto già vidimato. L’applauso è ritmato, liberatorio. Una voce radiomunita garantisce che Gallipoli ed Arezzo si sono accontentate del pari. Siamo terzi da soli a 16 punti. Il Potenza ha battuto 2-0 la Pistoiese, garantendo altri 113 euro alle mie finanze precarie. Anche a Ceska sta scemando il mal di testa. E posso gestirmi una mezza torta pronta della Cameo. It's a beautiful day, Sky falls, you feel like, It's a beautiful day, Don't let it get away.

14/10/08

Addio Stimpfl

di Lobanowski 1

Quando l’arbitro ieri, prima di Foggia-Gallipoli, con i giocatori immobili in campo come pedine di una scacchiera, ha fischiato il minuto di raccoglimento in memoria di Andrea Stimpfl, la prima cosa che mi è passata per la testa è stato l’aneddoto raccontatomi da un cugino, anch’egli tifoso appassionato dei satanelli. Di ritorno da un concorso nel Nord Est, agli inizi degli anni ’90, con il Foggia in quel periodo a dominare la B e viaggiare spedito verso la promozione nella massima serie, in treno ebbe l’impressione di riconoscere come compagno di viaggio proprio l’ex terzino e stopper dei rossoneri. Sedeva di fronte nello stesso compartimento, e proprio non riuscì a resistere, volle togliersi il dubbio.

Era lui, certo. Stimpfl si mostrò maravigliato e assieme contento che un tifoso del Foggia si fosse ricordato di lui, addirittura riconoscendolo a distanza di anni. La sua presenza in terra dauna poi non fu felicissima: una salvezza in scioltezza nel campionato di B 80-81, che lo vide in campo da titolare solo per una decina di partite. Quindi una salvezza all’ultima giornata e poi la retrocessione in C1 nelle due successive stagioni. Durante le quali diventò titolare inamovibile, pilastro della difesa rossonera. Mio cugino confessò che si era fatto aiutare da un indizio che lo rendeva riconoscibile a distanza di anni: la folta chioma riccia. E poi, vabbé, Stimpfl si sarebbe stupito molto di meno se fosse stato al corrente della passione maniacale per il Foggia di chi gli sedeva di fronte. Confessò di seguire sempre, anche se a distanza, le sorti dei satanelli, ed era contento della grande stagione che vedeva protagonista in B l’undici guidato da Zeman. Mio cugino sarebbo sceso a Foggia, Stimpfl proseguì per non so dove: quel che è certo è che scendeva da Bolzano, sua città natale.

Domenica 5 ottobre, mentre i miei compagni di curva erano in viaggio verso Pistoia, ed io confinato a casa, avevo avvertito via sms della notizia della morte di Andrea Stimpfl. A 49 anni, stroncato da una leucemia. Malattia che colpisce con una certa pervicacia molti ex calciatori. Come la SLA. Il terzino arrivò a Foggia nell’estate del 1980, prelevato dal Pergocrema assieme al mediano Frigerio. La stagione appena conclusa aveva visto i rossoneri risalire in B dopo un solo anno di C1. Durante l’estate furono buttate giù le due curve dello “Zaccheria” in tubolari Innocenti, e furono alzati i due piani in cemento armato. Per omaggiare la nuova veste dello stadio fu giocata un’amichevole contro il Flamengo. Sempre in vena di festeggiamenti, per la prima in casa contro il Varese in via del tutto eccezionale la partita venne trasmessa in diretta da Telefoggia. Rimasi a casa a vedere che effetto faceva lo “Zaccheria” in tv. Vincemmo 4 a 1. Per Tele+ c’era ancora da attendere un po’.

Io avevo cominciato già da qualche anno a frequentare con puntualità la Sud di via Dorso, assieme a Tonio e Pasquale, mie cugini più grandi. Nel 1980 avevo 9 anni: la strage di Bologna segnò l’estate, il terremoto in Irpinia l’autunno. Una bella squadra quella guidata da Puricelli, che presentava in attacco anche il piccolo e terribile Costante Tivelli. E poi Benevelli, Fasoli, Sciannimanico, Conca, Petruzzelli, Piraccini. Altri ricordi indelebili sono la maglia con lo sponsor “Pasta Tamma”, la vittoria a Genova contro la Sampdoria, grazie all’eurogol (un tempo si diceva così) di Bozzi in rovesciata, stile Piola sulla bustina delle figurine Panini. Raccolta di figurine che per noi ragazzi era una vera ossessione.

Stimpfl era un classico terzino di marcatura, che difficilmente vedevi superare il centrocampo, sempre attaccato alla maglia dell’ala sinistra avversaria. Spesso fu schierato stopper. Ma per quel che ricordo non era uno rozzo, aveva buona prestanza fisica e una certa eleganza nello stare in campo. Ma forse un po’ tutti ci facevamo fregare dalla quella folta chioma riccia che ondeggiava col suo incedere deciso. La seconda stagione di Stimpfl a Foggia la ricordo soprattutto per quella partita all’ultima di campionato contro la Sampdoria, già promossa in A, che significò salvezza. Fu una vittoria scontata ma non per questo meno sofferta, arrivata nella parte finale della ripresa, con gol di Bordon. Quella è una delle esultanze che ricordo con più emozione, nonostante ne siano passati di anni. Poi, di lì a poco, ci furono le urla estive per gli azzurri Campioni del Mondo.

L’anno successivo, stagione 82-83, retrocedemmo, in maniera inaspettata e dopo un girone d’andata che non lasciava temere il peggio. L’episodio chiave il 22 maggio, girone di ritorno. A Foggia è di scena il Varese di Fascetti. Mancano ancora cinque partite alla fine del campionato, il calendario ci dà una mano, la salvezza non sembra obiettivo irraggiungibile. Quel giorno successe di tutto: un gol annullato ai satanelli, un gol in fuorigioco del lucerino Pietro Maiellaro convalidato da Lo Bello senior. In campo scese un tifoso che provò ad assestare un cazzotto all’uomo in giacchetta nera. Piovvero accendini, monete, scarpe. Fuori fu guerriglia, auto rovesciate, incendiate, la celere costretta a sparare i lacrimogeni. Che sperimentai, senza gustare, ovviamente. Squalifica del campo e ambiente dissestato. Finì male, scendemmo in C1. Sull’Almanacco Panini, in quegli anni, si assegnava la Coppa Disciplina. Nelle tre stagioni di B il Foggia risultò sempre “non classificato”. Strano che a distanza di anni viva questa cosa con un certo orgoglio e vanto. Vuoi mettere una tifoseria vera, calda, come quella dello “Zaccheria”?

Per un ragazzetto all’epoca i giocatori rappresentavano figure quasi mitologiche: li aspettavamo uscire dalla porticina del recinto in mattoni della vecchia tribuna, durante le nostre partite a pallone nel piazzale antistante, giusto per vederli da vicino. Eravamo quasi timorosi nel rivolgere loro la parola. Niente autografi, figuriamoci. Il calcio giocato e visto (in tv e allo stadio) era per noi totalizzante, le nostre giornate in special modo estive ci vedevano sempre a giocare in strada con addosso una maglia rossonera. Ecco, in un pezzo importante dei mie, dei nostri ricordi d’infanzia, c’è anche Andrea Stimpfl.

Ieri, in curva, al fischio dell’arbitro, il nostro gruppo ha sperato calasse sullo stadio un silenzio assoluto, come quello degli stadi inglesi nei minuti di raccoglimento, un silenzio da brividi. E’ durato poco, poi è partito l’applauso. Fa niente. Addio Stimpfl, che la terra ti sia lieve.

13/10/08

Manovra di decollo

di Lobanowski 2

Domenica 12 ottobre, Foggia-Gallipoli 1-0

Molti dicono che la Sud sia morta, che non sia altro che un ricordo dei gloriosi e mitizzati tempi andati. Molti dicono che la frattura tra le due curve non sia tollerabile, per una città da 160mila abitanti e per una tifoseria che milita – pur senza meritarlo – in Prima Divisione. Molti dicono sia tutta colpa della politica. Altri parlano di mentalità ultrà. Altri ancora lumeggiano, senza mai approfondire, biechi interessi corporativi. Io non so come stiano le cose. Di sicuro una mia idea ce l’ho, me la sono fatta. In Sud l’età media si è abbassata notevolmente, ed è un bene e un male al contempo. Facce di ragazzini un po’ ovunque, facce simili a quella che dovevo avere io a sedici anni, quando si esordiva con il Cagliari allo “Zaccheria” rinnovato. Non c’è niente di male ad essere ragazzini, anche se i grandi guardano sempre con sospetto agli scugnizzi, simbolo e sintomo di decadenza. Ai lati c’è gente che teme lo sventolio delle bandiere come un’improvvisa recrudescenza del virus ebola. E anche verso il centro le cose non migliorano. In Curva Nord ci sono bandiere ovunque e tre bandieroni. Si canta per novanta minuti. Il resto, la politica, gli interessi, la mentalità, non sono affar mio. Ma il dato resta. Eppure la Sud resta il luogo della formazione, la mia prima casa indipendente dell’adolescenza. Comunque stiano le cose, non la si può abbandonare come niente fosse. E quando canta… Quando canta ha ancora lo straordinario potere di sciogliere il sangue, come San Gennaro nell’ampolla in Duomo. La sensazione che provi quando alla tua destra e alla tua sinistra, sotto e sopra, martella l’incedere di un canto, è assolutamente assolutoria: di qualunque male soffra il malato, faremo tutto il possibile per salvarlo.

Il Foggia, con la capolista, decide di partire a testa bassa. Pressa e insiste, morde le caviglie dei portatori giallorossi, gli impedisce di riflettere. Ma quando si tratta di costruire, s’affida a traversoni insensati, che sfilano da parte a parte, innocui come coriandoli a Carnevale. Dalla destra non offrono profondità. Non si trova un solo soggetto in rossonero disposto a tentare un dribbling. Partono i soliti sproloqui individuali. Il luogo comune che Novelli debba andarsene dilaga come una macchia sulla tovaglia buona. Avevo un pregiudizio, non c’è bisogno di ripeterlo. Ma quel che ho visto sino ad oggi mi va più che bene. Guardo scettico i contestatori. Cerco di capire se sia questione di metodo, di schemi, di aspettative, di risultati. La Sud alterna attimi di imbarazzante silenzio a momenti di puro coinvolgimento. La squadra spinge, colpisce una traversa, guadagna angoli. La curva spinge nella stessa direzione, anche se non ha la costanza di rimanere all’erta nei momenti di bassa tensione. Intervallo. Buona prova per entrambe. Anche se c’è ancora da crescere. Undici, undici, undici Peroni, Noi vogliamo undici Peroni.

La Spal, come previsto, si sta imponendo in quel di Lumezzane. Quota: 3,30. Annuisco convinto e spavaldo, come un nobile interrogato su questioni fondiarie. Oggi sono intoccabile. Ho appena riscosso 197,96 euro al bottegone della Snai di via Piave. Undici partite di Qualificazione ai Mondiali, un bel sabato sera col botto. E la mano della dea bendata, che per un errore di codice ha inserito l’under 21 italiana – che non è andata oltre lo 0-0 interno con Israele – in corrispondenza dell’X2 della Francia in Romania. Un ragazzetto mi chiede del Livorno. 4-0, grida Angelo dal cucuzzolo del monte. Non ci crede nessuno, ma è la verità. I tifosi del Frosinone presenti all’ “Ardenza” hanno salutato romanamente. Ormai è sport nazionale, dilaga come lo yo-yo ai tempi. Come l’hula-hoop. È il modo più innocuo per sentire l’ebbrezza di un tabù che si infrange. Il metodo più economico per autorappresentarsi come ribelli. Come Ozzy Osburne che mangiava pipistrelli di plastica e vagava nel luna park dell’orrore, l’importante è non perdere il contatto con la realtà. Altrimenti si rischia d’apparire patetici, prima ancora che massicci. I legionari di Sofia erano quasi tutti del Nord-Est. Tra le tifoserie più compiutamente schierate a destra si annoverano, oltre a quella del Frosinone, quelle del Latina e del Catanzaro.
Sinapsi: le cascine della dolce campagna toscana, i colli marchigiani, l’Emilia, l’Umbria verde.
Il raffronto. Avete presente Rovigo? E Abano Terme? Case anonime dove il monumento principale è il vento d’autunno. Avete presente Frosinone? Quelle amene, brulle colate di cemento, quelle case una sull’altra senza nessuno stile, senza nessun rigore. Come ad Agrigento, dove pure la tifoseria è apertamente fascista. Come a Catanzaro, che non ha nulla a che vedere con Cosenza, che è un gran bel posto ed ha una fantastica curva schierata a sinistra. Dovremmo spederci di più su questo versante dell’analisi: il fascismo è sublimazione della bruttezza. L’ostentazione della romanità è frustrazione della distanza: più ci si allontana dall’ideale d’equilibrio del mondo classico, più si rivendica un ruolo che non sia quello del figlio della serva. Burini in orbace e fez. Austroungarici padani in stile boneheads. La sublimazione del brutto.

Il Foggia torna in campo deciso a giocare palla a terra. Ed è un bene. Al 3’ guadagnamo un calcio di rigore che Del Core sbaglia. Col passare dei minuti il Gallipoli si schiaccia, si assottiglia, finisce per rendersi visibile solo in altezza. Ma il nostro rigorista è perennemente in fuorigioco e non abbiamo altre soluzioni offensive se non il taglio improvviso. La Sud riprende slancio. Ora vanno gli Old Man River, plagiati dalla pubblicità Wind del 2007. Ed è una litania affascinante. Rossoneri alé, Rossoneri alé-e-o, Lalalalalalala, Lalalalalala. Ipnotica. Troianello fallisce a tu per tu col portiere avversario. Gli ultimi venti minuti sembrano alla portata del Gallipoli, che chiude ogni spazio ed occupa il campo con ordine. Invece è il Foggia a passare. Minuto 27 nella ripresa. Ancora Del Core. Adesso bisogna riflettere. A fine partita caliamo sull’amato parapetto. È una sorta di rito in anteprima, di prova generale. Domenica c’è il Sorrento, ancora in casa. Questa vittoria ci lancia al terzo posto solitario, con una difesa solidissima ed un attacco da un gol a partita. Quasi sempre decisivo. Domenica molti assenti faranno la loro comparsa stagionale in Sud. Se vogliamo tentare l’assalto al cielo, dovremo essere qui con un’oretta d’anticipo. Ma il pensiero corre già a Marcianise. Dovessimo battere anche il Sorrento, dovessero darci l’ok per seguire la squadra, saremo tantissimi. Il pesante tacchino s’alzerà da terra come un boeing della Ryan Air. Bye, Bye AirOne. E noialtri dovremo essere all’altezza dell’appuntamento. Il futuro non è scritto. E comincia adesso.

07/10/08

Zemanlandia non esiste

di Lobanowski 2

Più degli schemi difensivi. Più della teorizzazione del pressing invasato. Più della difesa della divinità. Quel che non sopporto degli Zemaniani è l’arroganza. La presunzione di chi può permettersi, anche tacendo, di invitare a tacere. Capita sempre nella commedia dell’arte. Se, per fato, in una comitiva c’è un anti-Zemaniano, gli altri fanno quadrato. E dinanzi alle precisazioni, ai dati, agli appunti, si comportano come i fedeli di Padre Pio alle prese con gli storici. Un misto di ostentato menefreghismo vuoto, senza contenuti. Una volta mi capitò di ascoltare un ragazzotto biondo mentre spiegava ai convenuti ad un matrimonio che “Il Foggia con Zeman ha battuto tutti: l’Inter, il Milan, la Juventus”. Mi intromisi per suggerire la più verificabile delle opinioni: che non era vero. Che con le grandi, anzi, aveva sempre perso. Straperso. Che il fagotto delle vittorie era magro: un 2-1 contro la Juve di Ravanelli. E stop. In tre stagioni. Quello si sorprese, spalancò la bocca e s’atteggiò a rapper del New Jersey: Chessò? (Short form in auge nel Tavoliere per designare uno stato d’animo stupito e al contempo radicalmente scettico). La piccola folla s’agitò: come osa, pensava. In un battito di ciglia tutti, uomini e donne, esperti e neofiti, seguaci e distaccati, fedeli e frigidi, avevano scelto da che parte stare, esprimendo simpatia per l’opinione del Rapper. Come se ritenere reale quella finzione fosse un atto di patriottismo. E mentre quello continuava ad agitarsi, ad indicarmi con sorpresa agli amici, ribadendo la sfilza di risultati gloriosi conquistati dal suo Foggia onirico allenato – manco a dirlo – dal Boemo, un esponente della commissione tecnica mi bollò dal pubblico, come per cogliermi in fallo: “E il 2-0 con la Juve?”. Eh! Ecco la prova che cercavano. Avevo torto, e la conoscenza degli almanacchi del signore mi aveva sbugiardato. Attesi che il vento di commenti si placasse. E parlai: “Quello era Catuzzi”.
Povero Catuzzi. Una persona seria, capitata in queste lande nel periodo peggiore della storia. Quando l’ubriacatura era uno spasimo e l’ubriaco non aveva ancora capito che la festa era finita, e diventava molesto. Catuzzi era un signore. Il destino – lo stesso che l’ha strappato ai suoi affetti troppo presto – ci ha impedito di chiedergli, a distanza di anni e a mente rasserenata, cosa diavolo sia successo in quel drammatico girone di ritorno del 1994/95. Un solo punto in trasferta dopo un girone d’andata da Uefa. Un tracollo difficilmente razionalizzabile, che resta avvolto nel mistero e genera dicerie come la guerra tra i ratti genera la peste.

Ma, si diceva, l’arroganza. Taci tu, che quegli anni non li hai vissuti! Taci, che non hai il diritto di parlare male del miglior Foggia della storia! Taci, infedele, che non sei stato a Napoli o a Torino e non sei degno di infangare Zemanlandia!
E in tanti tacciono sul serio, avvinti dalla leggenda e dalla casta sacerdotale – senz’altri meriti che la presenza in vita all’epoca dei fatti – che, unica tra tutti, può esprimersi su quegli anni. Io quegli anni li ho vissuti e mi sono espresso. Pur tuttavia ritengo che l’attenzione debba concentrarsi sul termine, sul nomignolo affettuoso che i fedeli usano per indicare gli anni che vanno dal Novanta al Novantaquattro. Zemanlandia, per l’appunto.Quando si è innamorati, il nome non è un accessorio. Il nome dell’amata, o dell’amato, non è una moneta da 20 centesimi, uguale a tutte le altre monete da 20. Il nome non è un bene fungibile.Credo di averne già parlato. Ribadisco il concetto con un paio di esempi. La squadra di Zagabria di chiama Dinamo. Dal 1945. I tifosi tifano Dinamo. I loro rivali sono i serbi e quelli dell’Hajduk Spalato. Ma soprattutto i serbi, contro i quali combattono diverse guerre sanguinose. Nel 1992 la Croazia ottiene l’indipendenza da Belgrado. Tutto cambia. I nomi delle città, delle strade e delle piazze. Scompaiono le dediche ai partigiani liberatori, ai combattenti contro il nazifascismo, ai filosofi e ai pensatori marxisti; scompaiono le vie contrassegnate da date e ricorrenze significative per il passato governo comunista. Il nazionalismo torna a soffiare forte per le vie di Zagabria. Tanto che, nel 1993, la Dinamo stessa scompare. Scompare nel nome, troppo evocativo, troppo socialista. Scompare come Tito dalle lapidi. Si trasforma in Croatia, per sottolineare la nuova natura del nuovo stato indipendente. Nazionalismo puro. E i tifosi di Zagabria sono nazionalisti fino al fanatismo: hanno combattuto e combatteranno contro i serbi sui veri campi di battaglia del macello balcanico. Eppure quel nome, Croatia, non gli va giù. Non lo accettano. Protestano. Si scontrano persino con la nuova polizia secessionista. Al “Maksimir” appare uno striscione che fa più o meno così: Noi continueremo sempre a sostenere il sacro nome di Dinamo.
Sacro.
Il nome, l’importanza del nome.
Altra location, stessa storia. Nel 1993 fallisce il Catania 1946, la città etnea rimane senza calcio. Un ex-dirigente, Franco Proto, che da qualche anno aveva rilevato il “marchio” dell’Atletico Leonzio, squadra di Lentini, e trasformato il sodalizio in Atletico Catania, si trasferisce armi e bagagli al “Cibali”. Certo dell’affetto per la sua nuova compagine, che nel frattempo godeva di piena salute in serie C1 sfidando quadre del calibro di Reggina, Salernitana, Perugia, Avellino e Barletta.Fa di più, il dirigente: fonda il Catania 1993 e lo iscrive al campionato di serie D.Ma un innamorato resta un innamorato. Nella cattiva sorte più che nella buona. E non c’è uomo degno di maggiore disistima di colui che tradisce il proprio amore di una vita per un’avventura con una sciacquetta qualsiasi in un momento di difficoltà. Il Catania 1946 era in Eccellenza. Ma i catanesi non hanno ceduto al richiamo delle sirene. Perché la categoria non conta. Conta il nome. E quello che rappresenta.Nessuno, da Zagabria a Catania, è mai stato sfiorato dall’idea della fungibilità.
Per un tifoso non esistono giocatori, dirigenti, allenatori, capaci di esaltare o incrinare il proprio rapporto intimo per la maglia, per i colori. Nessun genoano si sognerebbe di chiamare mai Scogliolandia o Bagnolilandia il Genoa Cricket and Football Club. Eppure Scoglio è stato un maestro appassionato, Bagnoli ha espugnato “Anfield”. Nessun napoletano parlerebbe di Maradonalandia. Nessun udinese (!) di Zico o Spallettilandia.Nessuno di loro accetterebbe di buon grado che altri – i giornalisti, i terzi – lo facciano per conto loro. Mi chiedo cosa ci sia che non quadri qui da noi. Zemanlandia. In tutta onestà – e svelo questo mio lato tradizionalista – io ho avuto molte difficoltà persino ad accettare il cambio di denominazione da Unione Sportiva a Foggia Calcio dell’era Casillo. Ancora oggi i due satanelli dello stemma mi risultano indigesti. Ma sono un tipo malleabile, alla fin fine. Ed accetto l’affronto. Finché questo è, in qualche misura, accettabile.Ma la gente – foggiani e foggiane – che parla impunemente di Zemanlandia, questo poi no. Non lo concepisco. Lo ritengo un’offesa personale, sanguinosa, alla mia passione.

06/10/08

Mi pare zero a zero

di Lobanowski 2

Domenica 5 ottobre, Pistoiese-Foggia 1-1

Sulla strada fermiamo un signore di mezza età: Scusi, per lo stadio? L’avevamo chiamato Campo sportivo fino a due minuti prima, ma ci sembrava irrispettoso. Ed allora abbiamo inventato quella pietosa bugia a fin di bene. Eh, fa quello sorridente, ci sto andando anch’io… Poi ci spiega il percorso. E mentre ringraziamo, aggiunge: Non ci fate troppo male oggi, mi raccomando. Non c’è ironia nel suo sguardo, né nel suo tono. Non c’è problema, pensiamo. Notiamo la distanza e, al semaforo, ci facciamo raggiungere per offrirgli un passaggio. Dà un’occhiata al mezzo e ai suoi occupanti e risponde, garbatamente, No, vado sempre a piedi. Al benzinaio alla rotatoria ripetiamo la domanda: Per lo stadio? Quello ci guarda stupito e chiede: Quello della Pistoiese? Ecco: o costui non sa che esiste uno stadio, o ce n’è più d’uno e la gente tifa per l’altra squadra. Questo spiegherebbe molte cose. Davanti al settore ospiti c’è ressa. L’annunciato parcheggio ospiti è in realtà un marciapiede ordinario. Al bar ci dividiamo tra i seguaci dell’amaro e i curatori dei vessilli. I primi entrano, i secondi restano fuori. Un gruppo di anziani esprime giudizi sul culo di una quarantenne di passaggio: Non è mica da buttar via. Uno sta parlando della Juve, un altro ci guarda con curiosità: A che posto è il Foggia? Quarto, rispondiamo. Ah, beh, allora non vi preoccupate dei nostri citrulli. Devono essere tutti così attaccati alla maglia, da queste parti. O tutti troppo realisti. Uno guarda i rimasugli del vino comprato ad Agliana e abilmente travasato in una bottiglia di plastica: Guarda quella bimba, ha del vino nero… Dev’essere delle loro parti… Uva napoletana. I famosi vitigni del Vesuvio narrati da Plinio il Vecchio.
Due ingressi transennati. E la pantomima dell’ordine pubblico si allarga come una leggenda metropolitana. Doppia fila: una per i possessori di biglietti, l’altra per quelli senza prevendita. Aveva strombazzato, l’A.C. Pistoiese, dei botteghini chiusi alla domenica. Per un’intera settimana aveva fatto da sponsor alla Ticket One, convinta di scoraggiare la gente a presentarsi alle porte senza biglietto. Invece qui ce ne saranno almeno cento, in fila. L’imprevisto – che era del tutto prevedibile, bastava fare un paio di telefonate in giro – ha mandato in tilt quella cosa che i più accaniti sostenitori del modello inglese chiamano organizzazione. Nel nome dell’organizzazione, Ceska viene rispedita indietro: non ha un documento che possa confermare la validità della prevendita nominale. Seguire una partita di calcio sta diventando un’impresa logorante. Una gara di nervi. A chi cede per primo. Per solidarietà cambio fila anch’io. Nella zona rossa uno steward sta rompendo l’anima a Daniele per l’asta della bandiera. Non conforme e non autorizzata, dice, mentre due ragazzi cercano di far capire ad un secondo addetto che quel filo di verde attorno allo stendardo rossonero va inteso come vezzo artistico e non come distorsione dei colori della squadra (gli unici ammessi all’interno). La mia fila è ferma. Da troppo tempo. Mi allungo dall’altra parte. Da dentro giunge la voce dello speaker. Le squadre stanno entrando in campo. Mi avvicino ad un tizio: Mi sa dire cosa stiamo aspettando? La risposta è sconcertante (per chi non conosce l’ottusità burocratica degli esecutori d’ordini): un notaio. Apprendo, noi tutti apprendiamo, non senza commozione, che dovrebbe a momenti giungere ai cancelli un mastro notaro che, col suo banchetto da primo della classe, procederà all’autocertificazione dei senza documento. Detto così, nel più schietto stile ottuso. Dall’interno partono i cori dei nostri, un mezzo boato. Si gioca, stavamo pure segnando. E il notaio a che punto sta?, chiedo con ironia guardando la fila statica di quel centinaio di sventurati. Quello non la coglie e risponde serio che stanno provando a contattarlo. In altri termini quest’uomo, così importante per il rispetto della legge Maroni, potrebbe aver staccato il cellulare ed aver optato per una domenica sui colli mentre noialtri qui aspettiamo che la partita finisca senza neppure una radiocronaca? Gli animi si scaldano. Quei dieci poliziotti in fila si mettono il casco e impugnano gli scudi. Ridicoli. Hanno emanato una disposizione e non hanno il coraggio, né la forza, di farla rispettare. Se sul serio sono convinti che basti annunciare la chiusura dei botteghini di uno stadio per non avere gente tra le palle, allora siano consequenziali: lancino quei dieci poliziotti all’arma bianca, a manganellare cento tifosi pacifici ma esausti. Otterranno gli scontri di cui parlare per giorni, la criminalizzazione di cui si alimentano, foriera di nuove diffide, nuovi divieti, nuove proibizioni e nuove assurde disposizioni. Oppure adibiscano a lager una zona della città, per gli indisciplinati. Oppure, ancora, evitino di ciarlare di leggi e disciplina quando sono palesemente non attrezzati all’abbisogna. È un campo sportivo, cazzo, e lì dentro c’è una partita. Nient’altro. Alla fine ci vuole il solito spingi-spingi. Come sempre bisogna urlare per farsi valere. Lo schieramento burocratico si allenta e cede. Mentre sfilo verso il settore penso a cosa dev’essere stato trattenere 2mila napoletani col biglietto in mano sulla banchina di una stazione per …quattro ore. Io ero in fila da mezz’ora e già mi pulsavano le tempie dall’impazienza.
Il settore è una tribunetta di metallo. Mi basta uno sguardo dell’impianto per capire il senso di certe avvertenze: ci saranno sì e no settecento persone, distribuite equamente tra tribuna e curva coperta. I loro ultras non arrivano alla ventina. Se escludiamo l’esordio col Potenza e la gara di Vasto coi pescaresi, è la quarta volta che giochiamo senza tifosi avversari. Tra di noi ci sono molti transfughi e diversi oriundi: gente che per necessità di lavoro o di studio, s’è dovuta adattare a vivere altrove: Perugia, Chianciano, Bologna, Montecatini. Ma anche Torino, Milano e il nord industriale e operoso in generale. Cantiamo: Il Foggia è tutto per me, Il Foggia è tutto per me, E io lo so, Perché non resto a casa. Dall’alto si vede ancora gente intenta a farsi setacciare dall’improvvisazione, all’ingresso. Sventoliamo le due bandiere che ce l’hanno fatta a superare il check-point: quella dell’Angola e quella bianco-rosso-nera col leone etiope. Quella rossonera obliqua giace inerte ed inutilizzata al suolo, orfana com’è dell’asta. Non sappiamo bene a che minuto siamo, ma sopra si canta poco – anche in considerazione del fatto che in molti non frequentano abitualmente la Sud – e scendiamo. Dai gradini i giocatori appaiono in scala 1:1. Alzo lo sguardo e m’accorgo che un tale in arancione la sta spingendo dentro. Dovrei correre a salvare sulla linea, a chiudere la falla aperta dalla difesa, come quel tifoso olandese che spopola su YouTube. Non ce la faccio. L’urlo di Foligno era stato fanciullesco e deprimente. Questo, praticamente, neppure arriva. Il nostro coro non si interrompe, anzi si alza, si fa refrain. E io lo so perché non resto a casa. Avviso Antonello e Ceska dell’avvenuto vantaggio pistoiese. Se ne sorprendono non poco. Ma continuano a cantare. L’intervallo giunge presto. Un primo, sommario bilancio dice che non ho visto praticamente niente.
Un Borghetti costa 2 euro. Nei bagni arriva la voce dello speaker. Il Pescara vince a Taranto. Il Foligno pareggia in casa. Alla fine, saremo tra i pochi ad aver perso al “Blasone”, ne sono convinto. Comincia il secondo tempo. Il Foggia sembra più grintoso. Oggi nessuno urla di togliere la bandiera dalla visuale del campo. Meglio così. Sosteniamo una squadra che finalmente preme, anche se non tira. Mai. Corriamo sulla sinistra, guadagnamo angoli, lottiamo. Pareggiamo sugli sviluppi di un corner. Dobbiamo vincerla, questa partita. E mancano dieci minuti. Dall’antistadio si vede la torre della cattedrale. Come a Cremona. Il loro portiere viene espulso, come a Cremona. E come a Cremona, non segnamo più. Poco prima del fischio finale, un contabile annuncia al vicino che siamo in dieci. Quello, scettico, si mette a contare le maglie bianche. E sparge la voce. Alla fine è uno a uno.
Nell’incolonnamento verso Prato, nel pieno centro di Pistoia, individuiamo la macchina con cui Giuseppe ha deciso di proseguire verso Firenze. Un saluto. Poi si abbassano i finestrini: Oh, s’alza l’urlo, ma insomma chi è stato espulso? Un secondo urlo giunge in risposta: Non lo sappiamo, ma loro erano in nove. In nove? Si, due espulsi dopo il gol e poi il portiere. Un attimo di silenzio. Poi un nuovo urlo: Ma chi ha segnato a noi? Nell’abitacolo si consultano in cinque. Risposta: Non lo sa nessuno. I pistoiesi ai lati, che già erano scettici sul nostro arrivo, diventano enigmatici. E ci guardano attoniti. Oh, che ha fatto il Foggia? Uno s’affaccia e strilla: Mi pare zero a zero.

Il Libro