30/11/08

Bloody sunday

di Lobanowski 2

Domenica 30 novembre, Foggia-Paganese 1-1

Il doppio prefiltraggio è disabitato. Nella No man’s land un poliziotto dagli occhi celesti ci guarda, come chi sta per parlare. Della bella giornata, della crisi dei mutui, della social card. Qualsiasi cosa, pur di uscire dal tedio del nulla. Giro la testa dall’altra parte e tiro dritto, verso l’ingresso vero e proprio. Non c’è coda, non c’è ressa, non c’è nessuno. È ancora garbatamente presto, manca più di un’ora all’inizio della partita, e non è previsto il pienone. Noi abbiamo lo stendardo da piazzare in alto, e vogliamo farlo con la massima calma. Entro. Dietro di me, entra Lello. Poi Nicola. Giuseppe, col suo abbonamento omaggio di Tribuna Est, quello regalato a Ceska ad inizio campionato e tramutatosi poi nel Biglietto del Popolo, è bloccato da uno steward. Sono già nella piazzola, e mentre con la testa all’indietro cerco di carpire frammenti della discussione, sento la voce di un poliziotto. Puoi aprire la bandiera? Oddio, penso, non me l’aspettavo. Poliziotti nella Sud? Mi toccherà spiegare del leone anche a Foggia? Srotolo, timoroso. E fulmineo, pronosticato, mi giunge l’ormai classico: Che cos’è? Vorrei dire che non è niente, che non lo so, che è la bandiera che Jordan ha fatto per sé e mi ha mollato a Foligno, che mi ci sono affezionato come a un orfano e che, da allora, me la porto appresso col solo gusto marcio di rispondere a gente come lui che non è niente, che non lo so. Mi limito: è un leone, dico. Quello – lo vedo! Lo intuisco! – sta per chiedermi quale significato abbia, ma all’ultimo momento sterza sul silenzio e muove la manina come a dire: vai, va. Ma io non vado, c’è l’affaire Giuseppe da risolvere. Gli altri mi dicono che non ce l’ha fatta, come di solito si annuncia che un parente non si è risvegliato dall’anestesia totale. Occazzo! Adesso bisogna aspettare Daniele, che per l’occasione ha deciso di pranzare dalla nonna. Un domenicale pranzo foggiano. Abbiamo di che disperarci.

All’improvviso un addetto alle porte annuncia che “è offline!”. Parla del tester, del marchingegno mefistofelico per leggere il codice a barre degli abbonamenti. Via libera. È lo stesso steward ad annunciarlo al povero Giuseppe, che fuori a braccia conserte sembra una parodia di Incompreso. Appena dentro, una divisa blu lo blocca. Sotto braccio porta lo stendardo. In due si prodigano per aprirlo. L’omino lo legge. Pronuncia Naffing per Nothing. I nostri pregiudizi sulle forze dell’ordine sono sempre più logori. Prova a tradurre, quasi ci riesce. Lo capiranno?, ci chiede. Chi se ne frega, rispondiamo. In buona sostanza. Scorta di quattro Borghetti da nascondere e, se possibile, da non lanciare in campo. Lo stendardo, accompagnato dal vento, si innalza al cielo. Rafforzato col nastro isolante, si gonfia come una vela. Tanto che le lettere sembrano dritte. Di fronte a noi si compone il settore ospiti. I paganesi, dice la fanzine della Sud, non sono molto numerosi e ce l’hanno coi nocerini. Sottigliezze filosofiche incomprensibili ad un foggiano: per noi sono tutti napoletani. Tutt’al più, salernitani. Ma la geografia delle rivalità incrociate nell’hinterland partenopeo, è materiale per veri esperti. Alla fine sono almeno duecento, con molti stendardi e diverse pezze appese. Mi piacciono, non posso dire di no. Alle 14:20 mi guardo attorno e, con sommo stupore, m’accorgo che neppure la Sud è piena. È in questi momenti che si pesano i dieci anni di C, come chicchi ad un mercato di granaglie. Ripenso al padre di famiglia con le paste. Non ho l’estremismo dei vent’anni, quando se non eri come me eri un mio nemico. Dieci (e passa) anni dopo posso dire che comprendo, che capisco. Non che condivida, quello poi no. Ma ognuno corre dietro ai suoi sogni di serenità. E se il mio passa dallo “Zaccheria”, e non ci posso far niente, non posso biasimare tutti gli altri. Che non saranno mica sordi, se non sentono la chiamata.

Squadre in campo, mani in alto. Le bandiere del Regime sono sparpagliate, stavolta. Approvo la strategia: bisogna coinvolgere gli angoli morti della curva, che sono tanti. Bisogna dare una lezione di stile a quelli che continuano a chiedere d’abbassare le bandiere per godersi lo spettacolo della Lega Pro. I risultati sono confortanti. I cori sono buoni, un paio molto alti, coadiuvati dal Foggia che preme, che spinge, che costringe gli avversari a rifugiarsi in corner per tre o quattro volte. La Paganese, in maglia blu che sembra il Como, subisce senza reagire. Ma la linea difensiva sembra possente e, soprattutto, temprata alla lotta. Gli interventi sui nostri risultano decisi, ripetuti. Salgado e Del Core sono braccati come animali di grossa taglia. Lello esalta D’Amico, Angelo condivide. Giuseppe sparisce. Epistassi. Nel cuore della curva Sud. Una gran rottura di coglioni, lo si diceva a monte della diagnosi. Il Foggia preme, ma su un rovesciamento di fronte rischia di cadere: un attaccante in blu sforbicia su cross lungo dalla sinistra. Palo pieno, spavento e incredulità. Un ragazzo ci raggiunge dalle profondità della balaustra. Mi si avvicina. E, a freddo, mi pone la domanda che non m’aspettavo. Non ora, non qui: Che significa la bandiera? No, santo cielo! Ancora! Jordan è in alto, al margine della ringhiera. Lo guardo implorante. Continuo a dare spiegazioni sulla creatività altrui. È il leone che sta sui dischi di Bob Marley, rispondo. Quello annuisce, come dinanzi ad una conferma ai suoi sospetti: Ah, comunista? Ecco: questa è inedita. Bob Marley no, io si, rispondo. Sarò stato chiaro? Palo, respinta, gol. Il Foggia ha segnato, il ragazzo esulta, noi tutti esultiamo. Poi mi saluta: Siamo sempre i più forti, dice. E torna verso la balaustra.

Nell’intervallo scacciamo le riserve della Paganese che hanno l’ardire di giocherellare sotto la curva. Quelli s’incazzano. Uno striscione dice che siamo tutti orgogliosi di Vladimir Luxuria. Onestamente, non so. Bisognerebbe evitare che questa logica da strapaese prevalga: Luxuria, a Foggia e per i foggiani, era un semplice ricchione, quando non era nessuno. L’applauso convulso ed emozionato per le sue imprese sull’Isola, oggi, mi sembra tanto – troppo – la replica del servilismo già provato quando era deputata. Sarebbe bello chiarire che l’orgoglio per i concittadini che ce la fanno non va confuso con l’ossequio per il potente di turno. Etero, gay o transgender che sia. Ma il tema è troppo vasto da sviluppare in dieci minuti. In campo le squadre hanno ripreso a darsele. O, meglio, sono i difensori della Paganese a darle. E noi a prendere appunti. Falliamo diversi contropiede propizi. Non tiriamo mai in porta, risultiamo tentennanti e leziosi. In Sud, cantare ha lo stesso effetto di defibrillare un moribondo. L’entusiasmo si spegne, l’assopimento prende il sopravvento. C’è sempre chi fa andare le ugole, ma in pochi, sempre troppo pochi. La Paganese prende metri. Guadagna un angolo, che il laterale batte arretrato, per la botta al volo da fuori. A lato. Angelo ricorda Brehme e Matthaus e versa una lacrima per il calcio d’un tempo.
Ne parlavamo in settimana, a margine di un incontro sulla scuola tenutosi alla Casa della Sinistra. Piero Bernocchi, il leader nazionale dei Cobas, non senza nostalgia, stava relazionando sul Sessantotto, sulla carica intimamente rivoluzionaria di quel movimento. Quei giovani non chiedevano di prendere il potere al posto delle vecchie cariatidi, spiegava, ma andavano oltre, mettendo in discussione l’origine stessa dei poteri costituiti. A questo punto, nell’oratoria del cattivo maestro, è apparso Paolo Sollier, il calciatore operaio del Perugia d’un tempo, fautore di un movimento di calciatori che chiedeva di estromettere l’allenatore, di farne a meno, non riconoscendone più il ruolo. Erano i tempi dei mister che non venivano dai campi di gioco, che il calcio l’avevano studiato solo sugli impolverati manuali. Sollier e i suoi volevano esautorarne la figura e l’essenza, fare della squadra un collettivo autogestito. I compagni e le compagne poco avvezzi alle cose di stadio, annuivano. In parte divertiti dall’aneddoto, in parte celando il consueto snobismo che s’appalesa quando si parla di certe cose. Dietro di me, la voce di Gianni. Mormorata appena, nella serietà del momento. “Io non sono d’accordo”. Lapidaria, d’impeto. A mezza bocca. Lello, che mi stava seduto accanto, e Mattia, dall’angolo, hanno condiviso l’analisi. “Neanche io”. Ecco, ci siamo detti. Il calcio non è altro che lenta e sublime ricapitolazione di sé stesso. E così dev’essere: ogni singola innovazione è un danno (gli shot-out, puah!). Figuriamoci la rivoluzione…

Una botta da fuori a quindici minuti dal termine ha spento i nostri entusiasmi. I paganesi sono rimasti dentro, a cantare Noi siamo gli ultras di Pagani, mentre i riflettori si spegnevano e la curva si svuotava. Una ferita sulla mano destra, che non so come mi sia procurato. Epistassi, ho pensato. Ma era un falso allarme.

24/11/08

Il tempo di Taranto...

di Lobanowski 3

Uno dei miei incubi più ricorrenti è il tempo che passa. Non ho paura di invecchiare, è più forte quella di perdere i capelli. L'orologio che cammina mentre tu sei bloccato e vedi l'evento sfuggirti di mano è una cosa spaventosa. Da claustrofobia. Capita di essere ad un tavolo di amici che mangiano e bevono. E tu pure. Mentre l'orologio fa le due e lo stadio è lontano. Mi sembravo catapultato in un'altra dimensione alle 2.20, mentre cercavamo parcheggio, un miracolato, quando con l'affanno accendo il telefono della radiocronaca e vedo sbucare le squadre dagli spoglatoi. Taranto è brutta, mi mette tristezza. Tanti palazzi enormi, rovine del mercato del lunedì, fumo in cielo, pioggerellina. E' lo sfondo ad uno stadio vuoto, ci sono solo una cinquantina di "invitati" che rumoreggiano e ti guardano in cagnesco. Molto in cagnesco. Ho la voce bassa per l'affanno e perchè se no sentono fuori. Al primo tiro alto di Salgado, uno si gira e mi guarda storto. Il Foggia gira, riconosco volti noti in tribuna. I nostri. Una macchina corre lungo il viale e calamita la mia attenzione tra la gradinata e il settore ospiti. Segna Dionigi, si girano e mostrano il pugno. Io so che il Foggia non perderà perchè sta giocando bene. Molto bene. Nell'intervallo uno si avvicina, mi parla di come sono messi a Taranto. Mi accenna alla loro situazione, poi mi dice che si ricorda del Foggia di Zeman. Tronco di netto, con una stretta di mano e un "ci vediamo dopo". Eccheccazzo, penso, mentre riazzero il cronometro. Piove, la voce è al volume solito. Ho rotto il ghiaccio, non ho paura. E infatti urlo al gol di Germinale. E' incredibile. In tribuna ci sono foggiani (dirigenti, amici giornalisti e accreditati vari) che esplodono bebccando le ingiurie dei tarantini. Uno, il solito, un grande, si gira verso un supporter locale (ma non era a porte chiuse?) e fa a muso duro incazzato: "Che cosa vuoi?..che non posso esultare". Quello tace. Ha ragione Loba2. Cresciamo, non siamo chiachelli, la mentalità cresce. Zanetti becca il rosso, penso che possiamo vincere. Poi il boato al gol di Dionigi. Un bimbo impalla la telecamera dicendo "Forza Taranto". Quando mio padre ha rivisto la partita la sera, è venuto nella mia stanza e mi ha dato indicazioni precise su come fare in questi casi. Dico solo che l'epilogo della sua strategia coincide con una violenta pedata nei reni. Non ci credo più. Poi Colombaretti batte lungo una rimessa, uno spizza, un altro va di testa. Sensazione unica, capire che andrà dentro. Perchè il portiere non si muove. Annuncio il gol con una frazione d'anticipo. E' un attimo. Pensi alla gioia che stai regalando a chi ti ascolta. E poi capisci che devi dire pure chi ha segnato. E' una parola. Lo azzecco, mentre ci sono mani nei capelli ovunque. E qualcuno se ne va. Sentaiolismo diffuso in sala stampa. E come è bello sorridere ed essere felici mentre tutti rosicano. A Taranto, poi. Bello pure il viaggio corto, tifosi che ti contattano su facebook e ti "commentano il commento". Bello pure il pari di Rosina, il cuore Toro. Bello esserci stato.

Il nostro Erasmo

di Lobanowski 2

Antefatto: Taranto, sabato 22 novembre

La notte disegna i piani alti della periferia urbana.
Una periferia implicita, compresa nel prezzo, programmata per combaciare con l’idea che noi abbiamo plasmato sul luogo comune, che non sapremmo dire così, su due piedi, quando è cominciata. O perché. Quel che conosciamo sul serio di questo luogo – che sa di cemento e asfalto – è tutto fuori dal finestrino: un susseguirsi ossequioso di rettilinei e vasti incroci, di segnaletica fitta e rondò da costeggiare. Fino a perdersi. Fino all’inversione di marcia. La nostra guida locale si muove con disinvoltura, lo sterzo ondeggia senza scossoni dell’ultimora, senza vibrazioni di ripiego, da strada sbagliata. Dietro, le due auto dei nostri non sembrano arrancare. Poca gente in giro a quest’ora. Si fila via lisci tra blocchi di caseggiati anonimi, alti dieci e più piani, coi balconi stretti come alveari e le parabole che spuntano tra i fili dei panni ad asciugare. Si svolta a sinistra, lasciando l’offuscata luna dall’altra parte dell’abitacolo. Il freddo secco accompagna l’attrito dei pneumatici sulla carreggiata. Ancora alveari, dritto per dritto. Nessun albero particolarmente vivace. Una svolta a destra, una a sinistra. Un clacson fende l’aria col suo suono acuto. Non mi volto nemmeno, so che è Giuseppe. È così che ci comunica che siamo arrivati. Che ci siamo. Ore 00:50. La voce inudibile di un invisibile cicerone: Signore e signori, sulla vostra destra potete ammirare lo stadio “Erasmo Jacovone” di Taranto. Altro colpo di clacson. Alto, sembra anche più dello “Zaccheria”, incapsulato in una specie di guscio, di chiglia da crostaceo, da animale dei fondali. O, piuttosto, da mezzo anfibio dell’arsenale militare. Un torpediniere incagliato nel cuore del gelo suburbano. E cuore a sua volta, pulsante. Vediamo per prima la Sud, il settore ospiti lassù in alto. Sfiliamo in carovana sotto la tribuna, che non è rigidamente separata dal resto del molosso, come di solito avviene negli stadi non circolari. Qui a Taranto è la gradinata a vivere questo sospeso privilegio dell’isolamento simulato. Un pensiero fugace: basterebbe un attimo, un minimo di attenzione e di sangue freddo per lasciare una scritta sul muro. Nera su bianco: 23 novembre 2008: Assenti presenti. E già. Perché oggi c’è il derby, ma lo “Jacovone” è chiuso, proibito, vietato. Non è a norma, dicono. Di sicuro, noi non ci saremmo entrati lo stesso: Taranto non è Foligno, qui il divieto di trasferta sarebbe scattato senza nemmeno darci il tempo di fiatare proteste. Ma sapere che neppure i tarantini potranno valicare le soglie della recinzione in costruzione, crea un certo pathos estraniante. L’idea della scritta è sciocca e vola via senza darci pena. Solo, vorremmo comunicare, eternare/esternare questo momento. Dire ai cugini che ci siamo – oggi e qui – e che sarebbe stato bello poter esserci con tutti i crismi. Le macchine svoltano a destra, passiamo sotto la Nord con le inferriate rossoblu. “Quella è la statua del nostro Erasmo”, dice la guida. Io non ho visto niente, mi giro di scatto. Lello fa lo stesso. Vedo una sagoma nero-bronzea. Un basamento. Poco di più. Lo sguardo inquadra una cittadella in lontananza. La curiosità si fa domanda. Cos’è? Niente, fa quello, altre case della Salinella. Case, a grappoli, alte come castelli medioevali, fitte come reti da pesca. Di finestre, finestrelle, squarci. Come brecce. E scarse luci. Una sola, forse, ad illuminare di giallo l’effetto d’insieme – che sa di fortezza – come certi monumenti. Imponente e tetro. Case-caserme, come ce ne sono in ogni periferia, costruite senza la minima concezione di vivibilità. Senza il cruccio di renderle abitabili. Degne, degnissime case di quel proletariato che qui è operaio più che altrove. Più che a Genova. Una rampa, la bocciofila, nessun chiosco. L’idea del plusvalore. La notte e l’asfalto, lo stadio dietro al torcicollo, in dissolvenza. Viale Magna Grecia, la Con-cattedrale di Giò Ponti. Un veliero, dovrebbe essere. Ma le intenzioni non vanno quasi mai d’accordo con le applicazioni. I saluti e gli arrivederci, le strade che tornano a dividersi. Dobbiamo seguire le indicazioni per Bari che troveremo di lì a poco, ci dice l’amico. E in men che non si dica siamo fuori da Taranto. Più che altro, è Taranto a finire fuori dai finestrini. Ad evaporare, quasi. Senza darsi la pena di avvisare.

Domenica 23 novembre, Taranto-Foggia 2-2

La frase Ognuno porti qualcosa applicata al campo mistico del pranzo nasconde sempre delle insidie. È una specie di ascia bipenne. Può risultare vincente, o trasformarsi in un clamoroso fallimento. Dipende dal grado di organizzazione che la sottende. E dalla pressione sociale che accompagna il grado di organizzazione. All’ora di pranzo lo stomaco è quello di un cavallo al galoppo sulla steppa. Ho tre appuntamenti da rispettare. Potrebbe essere un buon segno. Francesco Il filosofo è sotto casa alle 13. Ha una vistosa busta in mano, una busta che senz’altro nasconde una pirofila. Bene. Da Ceska non c’è sorpresa: contavamo sulla parmigiana, e parmigiana è stata. A casa di Gianni, invece, nel cuore di Borgo Croci, ritiriamo Tonino. E una teglia di pasta al forno. Non rimarremo a digiuno, nonostante il numero. Sentiamo molto la partita. Lo dimostrano il numero di cuochi. E la quantità dei piatti. Sulla serranda di destra, quella più larga, lasciata lì dai tempi del comodato d’uso e perennemente inutilizzata, si appende lo stendardo. Nothing else matters. Dentro c’è il pubblico delle grandi occasioni. Il tavolo rosso è aperto sulla parete di fondo, a mo’ di buffet. Giocolieri smistano piatti di plastica come neanche Pecchia a centrocampo. Il filosofo si occupa del vino. Pizza di patate, doppia pasta al forno, salsicce. E i peperoni ripieni di Isabella. Sentiamo molto la partita. ContoTv ha cominciato la diretta dallo “Jacovone” già da un’ora. Flora Baldi, che sta molto meglio senza quei quintali di trucco da tg delle 20:30, intervista l’allenatore del Taranto. Noi cominciamo a mangiare. Altri amici ci raggiungono, quelli che hanno pranzato. La strada, a parte noi, è silenziosa. Domenicale. Scarpetta nel sugo delle melanzane. Prima Diana della giornata, accesa con una certa malcelata paura. Ieri sera, a Taranto, abbiamo respirato la stessa aria che per i neonati corrisponde a 90 sigarette. Un pensiero ai sicari legali, autorizzati, assistiti e osannati per lo spirito d’intrapresa. Uno sguardo all’orologio, uno alla tv. Ancora interviste del prepartita: ma che cazzo ci sarà da dire? Di sicuro qualcuno che affermi che i derby sono partite a parte lo si trova. Lo stadio vuoto mette tristezza. Il calcio non è attività scindibile dal contorno. Anzi, è il contorno che fa l’attività. La macchinetta del caffè è ferma per austerity da un po’ di mesi. Si passa al Borghetti per stagflazione. E così, col bicchierino in mano, le squadre entrano in campo. Gianni arriva con addosso ancora gli abiti della fatica: sembra quello della pubblicità della Nutella, quello che fa da mangiare agli azzurri, ai campioni del mondo. La fiducia è illimitata. I talecronisti sono pessimi: spenti, senza voglia di fare, senza capacità di coinvolgere. Proviamo a sostituirli con la voce di Di Donna dalla radio, ma arriva con qualche secondo d’anticipo rispetto alle immagini, che rimbalzano sui satelliti lunari. Ed allora niente. Ci teniamo questi due. In campo sembra la giornata buona, anche se continuiamo ad usare una sola fascia. Giungiamo al tiro più spesso. S’alzano cori etilici. In tribuna ci sono gli accreditati. Da noi, i diffidati si alzano per andare a firmare. Troianello ubriaca in dribbling l’ultimo difensore, ma il portiere alza il suo tiro sul primo palo. Sembra la giornata buona per la tanto attesa vittoria esterna. Ma un cross basso, al minuto 45, rompe l’incantesimo. Il Taranto passa. Giuseppe, da portiere, si scaglia sull’amato Bremec: in area piccola è buona creanza uscire. Ma tant’è. Perdiamo 1-0. Altro giro al bar, altre sigarette apprensive. Nella ripresa il Taranto rischia seriamente di chiudere la partita, ma non ce la fa. Ma continuiamo a crederci. Angelo pronostica un 3-1 per noi, mentre il resto della stanza macarena E se Mattia sta zitto, E se Mattia sta zitto, il Foggia pareggia. Entra Germinale. Mattia pronostica che non si capirà più un cazzo. Germinale segna. È il pareggio tanto atteso. Adesso bisogna infrangere il tabù. I diffidati vanno a firmare di nuovo. Vitaccia. Qualcuno ci spieghi come avrebbero potuto raggiungere Taranto in meno di un’ora. Misteri della burocrazia. Rimaniamo in dieci per un fallo inesistente. Non ci voleva. Piotrek distribuisce caffè e paste del Cocozza. Al minuto 84 il Taranto passa. Un cross senza pretese, un uomo solo sul vertice destro dell’area piccola. Sembra finita. Gli accreditati sugli spalti accompagnano con gli Olé i passaggi dei tarantini. In dieci contro undici e sotto di un gol. Con il solo recupero da giocare. Cinque minuti. Che diventano in fretta un mesto conto alla rovescia: 4,3,2,1. Non succede niente, se non che guadagnamo rimesse laterali sempre più profonde. Come nel rugby. Era una partita da vincere e la stiamo perdendo. La rimessa al minuto 95 è lunga, va dritta in area. Qualcuno in maglia bianca spizza all’indietro, Germinale colpisce di testa e la palla s’alza in una parabola carica di speranze. Investita da una strana forza inversa, man mano che la palla s’abbassa, la stanza si alza, con le mani in alto in attesa del segno del destino. Che arriva. Ed il boato che ne consegue diventa secondo. Secondo solo a quello seguito al gol di Grosso ai crucchi. È il pari, è una goduria. Vissuta mediaticamente, ma comunque vissuta. Al meglio. Certo, esserci sarebbe stata un’altra cosa. Ma dobbiamo accontentarci. Per problemi strutturali.

Appendice: il barista

Il barista del Cocozza giunge poco dopo: Peccato per la sconfitta, esordisce. Quale sconfitta?, facciamo noi. Il Foggia, ribatte secco, abbiamo perso 2-1, no? No, abbiamo pareggiato. Il barista è foggiano e il foggiano è sospettoso, di natura. Non si abbandona alla gioia, non la esterna, per paura che altri foggiani siano lì pronti a ridere di lui. Della sua ingenuità, della sua scoordinata felicità d’occasione. Al barista viene da sorridere, ma vuole conferma, sospetta il complotto ai suoi danni. Una specie di crudele contrappasso alla nostra delusione, un gioco cinico. Chiede fuori, s’affaccia e chiede dentro, interpella dalle quindici alle venti persone. Ma si ostina a non abbandonarsi al tripudio. Allora Vincenzo taglia la testa al toro: “Facciamo così – gli fa – se il Foggia ha pareggiato, ci offri un pasticcino a testa”. Quello si guarda attorno, mentalmente ci conta. Poi si volta. E fugge via. Felice. Vincenzo non può che commentare: “Mi è scappato sul pasticcino”.

17/11/08

Il rigore e la grata

di Lobanowski 2

Domenica 16 novembre, Foggia-Benevento 1-1

La voce di Antonio Di Donna a Domenica Sport: “C’è uno striscione nuovo in Curva Sud, che magari può anche racchiudere il senso dello sport di qualcuno: Nothing else matters. Significa: Non importa nient’altro”. Lino Zingarelli, dallo studio, incalza: “Se possiamo inquadrarlo, Antonio”. E la telecamera punta in direzione della Sud, e stringe progressivamente verso lo stendardo. Dove l’avete messo?, chiedono Antonio e Giuseppe, rispettivamente da Bologna e da Firenze (dove non si prende Teleradioerre). Sulla grata in alto, rispondo. E al primo, che è un po’ che manca dallo “Zaccheria”, devo anche spiegare di cosa si tratta. Un’innovazione tecnica, una specie di cancellata alta sue metri e mezzo frutto della Sicurezza-mania degli ultimi mesi, installata lungo il quindicesimo gradone della parte superiore della curva (che, di conseguenza, risulta più stretta e sottile). A cosa serva è fittissimo mistero. Siamo al delirio, è il commento su Messenger. Certo che si. Quel che conta sul serio è che faccia freddo, finalmente. Non se ne poteva più di vivere in un luogo comune meridionale. Novembre fa il suo dovere, per la prima volta nella stagione. Freddo penetrante e terreno bagnato, pesante, verde cupo. Di fronte ci sono cinque-seicento beneventani. Un tempo c’era gemellaggio, ora il rapporto è declassato a semplice amicizia occasionale. Le squadre hanno finito la rifinitura e sono negli spogliatoi. Lo spicchio di Nord dove campeggiano i tre striscioni campani si muove in un ritmato battimano: Noi siamo Beneventani. La Sud, in silenzio fino a quel momento, si anima. Anche qui le mani vanno verso l’alto. Noi non siamo Napoletani. E battono all’unisono. A stabilire certe distanze che, sottovalutate, possono generare pericolosi equivoci.

All’ingresso delle formazioni sul terreno di gioco, il tifo è alto e possente. I campani rispondono, ma non c’è partita. È questione di numeri, più che altro. Dopo meno di 2 minuti, i giallorossi passano. C’è un cross, uno svarione della difesa, una mancata uscita di Bremec e un paio di giocatori avversari si dedicano a stabilire chi tra loro debba insaccare. Ho tutto il tempo, prima che la palla gonfi la rete, di staccare lo sguardo dal campo e fissare il settore ospiti. Saprò dal loro boato, che ritengo inevitabile, se i due gemelli Derrik hanno messo dentro la palla dell’uno a zero. Faccio sempre così. È una delle mie deformazioni da curva. Il silenzio ottuso sibila e annuncia l’esplosione di una parte. Hanno segnato. Un pensiero orrendo prende forma dentro di me. Mi giro istintivamente a controllare la pezza in alto. Immaginavo uno sfogo iconoclasta che, fortunatamente, non c’è stato. Non ancora. Ma la pezza non può esordire in casa – dopo sei vittorie consecutive – con la prima sconfitta stagionale. Sarebbe una sciagura. Siamo pur sempre nel balordo Sud della superstizione e dei riti magico-pagani ammantati di cristianesimo cattolico. Alziamo le mani. Ricominciamo a sostenere la squadra. Il Benevento si chiude, che neanche la nostra Dinamo a calcetto. Ad un certo punto sono in dieci dietro la linea della palla. Non riusciamo ad impensierirli. La tensione cresce. I cori non scendono d’intensità, mentre – per assurdo – sono i beneventani a farsi sentire di meno. Il gol non li ha caricati, li ha svuotati con una scarica d’adrenalina. Capita. Pecchia distribuisce palle in orizzontale, ma nessuno sfonda sulle fasce e non si fa movimento. Salgado è boa e quando riceve palla se ne sbarazza alla precaria ricerca di una velocizzazione impossibile. Sbattiamo contro un muro. E non c’è verso di bucarli su calci piazzati e azioni morte. Il primo tempo risulta lungo e tetro. Finisce con un sospiro prolungato e tanto nervosismo. Un anno fa finiva la breve vita di Gabriele Sandri. In uno squallido autogrill. Per mano di chi sappiamo. Abbiamo detto tutto quanto c’era da dire. Ci siamo svuotati di fluidi vitali per sezionare la verità ed imporla ai venditori di fumo. In questi giorni abbiamo ingoiato l’assoluzione dei vertici della polizia per l’ignobile, vigliacco agguato squadrista alla scuola Diaz di Genova, nei giorni del G8. L’ennesima prova della fragilità della nostra democrazia, dell’incapacità di percepirla. L’ennesimo frangente di storia italiana in cui le forze dell’ordine finiscono vezzeggiate e rabbonite. Come se non fossero strumento. Come se dalla loro predisposizione golpista dipendesse il futuro delle deboli istituzioni repubblicane. La Sud ricorda Gabbo e la lungaggine sospetta della “giustizia” italica. I beneventani applaudono. È tanto quello che il movimento è riuscito a fare fino ad oggi. Portare agli occhi dell’opinione pubblica una ricostruzione efficace degli eventi. Paradossale quanto vero. In questo Paese per ottenere un barlume di giustizia c’è quasi sempre bisogno di imbastire possenti campagne militari; di richiedere riparazioni di guerra. E non è detto che basti.

Nella ripresa assistiamo ad una riproposizione del già visto. La curva cede, di schianto. Brutto segnale. Cantano i soliti, si sgolano quelli che li seguono. Ma la marea dell’inizio è già un ricordo da consegnare alla storia. Neppure i corner conquistati defibrillano il settore, mentre i beneventani aumentano progressivamente il loro supporto. Sono una bella curva, senz’altro, anche se io resto indeciso se premiare loro o i potentini visti all’esordio. Poi giunge il rigore. Inesistente, ce ne accorgiamo in presa diretta. Eppure fa brodo. Dal dischetto va Salgado. Spero spiazzi il portiere. Guardo avanti, poi dietro, poi in alto. Alla fine m’apro un varco e vedo la palla finire a destra mentre il loro estremo vola a sinistra. Uno a uno. La curva torna a livelli d’assoluta importanza, ma ormai non conta più. Era prima che doveva cantare. Adesso che un cross dalla destra in attesa della deviazione vincente per poco non la fa venir giù, adesso è troppo tardi. Finisce uno a uno. Lo striscione è salvo.

13/11/08

La magia del trasfertista

di Lobanowski 2

Domenica 9 novembre, Perugia-Foggia 1-1

Lo zaino sulla spalla destra. Contenuto: 1 rotolo di nastro isolante, una busta gialla, la pezza. Nothing else matters. I due pacchetti di wafer li ho lasciati in macchina, appena in tempo sull’incipit delle formazioni gracchiate dall’altoparlante. Guido mi chiede se voglio l’ultimo sorso di vino. Rispondo di no e prendo il biglietto dalla tasca posteriore del jeans. Non li vediamo mai, non li vediamo mai, i primi dieci minuti, i primi dieci minuti, non li vediamo mai. La bandiera etiope nella sinistra. Un equilibrista. Ce la farò, penso avviandomi verso lo schieramento di 12 poliziotti che blocca il primo ingresso al settore. Guardo le facce, mi dirigo verso uno dalle guance pienotte. “Vediamo”, mi fa, indicandomi la bandiera. “Non entra”, aggiunge, mezzo secondo dopo. Avrebbe detto lo stesso di una scatola di cioccolatini o dei cuscini ricamati di mia madre. Sbuffo, pronto ad ingaggiare l’ennesima schermaglia verbale su regole che entrambi sappiamo di ignorare. Riprendo la bandiera e mostro l’asta, esile, incapace di ferire anima viva. La controlla di persona, la gira ad un collega, poi al comandante, perso dietro i copricapi dei suoi sottoposti. “E lì dentro che c’è?”. Mi porto avanti lo zaino senza perdere di vista la bandiera. Quello, il capo, l’ha srotolata e già si macera nei dubbi. So che sta per chiedermi cosa rappresenta il leone. Intanto estraggo la pezza. “Non entra”, fa il poliziotto, che ha tutta l’aria di uno che non ha detto altro da stamattina. Secondo sbuffo d’impazienza, una voce mi lambisce il timpano destro: “Che significa questo leone?”. Ecco. Un leone è un leone, faccio per dire. Giuseppe agguanta la pezza e, con l’aiuto di qualcuno, la apre. Un poliziotto nuovo interviene: “Che significa?”. Entrare in uno stadio, al giorno d’oggi, richiede una conoscenza ed una consapevolezza che, in altri tempi, in tempi d’oscurantismo, non era neppure ipotizzata. Oggi non entri se non sai esattamente il significato di tutto. E pure se lo sai, non è detto che entri. È un sintomo della crescita culturale del paese. One step beyond. Verso l’uomo in divisa con la bandiera tra le mani: “Insomma, mi vuoi dire che significa?”. Niente, gli faccio, è un simbolo. “Si, ma simbolo di cosa?”. Di niente, replico. “È il leone dell’Agip”, dice una voce dietro le guardie. E solo allora mi accorgo di un tipo conciato come uno che annualmente va a Predappio a commemorare la Marcia salutando romanamente ogni stipite di porta. Scuoto la testa. “E se non ha significato, scusa, ma che l’hai fatto a fare?”. La risata del fascista alla battuta del novello Bramieri in alta uniforme è fragorosa e solitaria, il suo atteggiamento è servile da far venire i crampi alla bocca dello stomaco. Riprendo l’esile asta della mia bandiera e mi sento afferrare dal gomito. Il poliziotto di prima mi spintona verso l’esterno: “Ti ho detto che non può entrare, forza, vai fuori”. Sono costretto a spiegare a costui che i suoi metodi sono inurbani quanto improduttivi. Ma proprio nel bel mezzo di questo interessante dibattito, è ancora il nostalgico ad intervenire: “Oh! Oh!”, fa preoccupato, “Queste cose no. Non diamo problemi, ci stanno trattando fin troppo bene”. Il servilismo è allo zenit. E poi, quel concetto: Fin troppo bene? Che vuol dire che ci stanno trattando fin troppo bene? Guardo Giuseppe che torna verso il bagagliaio della macchina e lascia cadere dentro il nostro striscione. Di lì a poco è seguito da Antonio, del plotone bolognese, che molla il suo galeone. Anche quello, per via del decreto Maroni, non ha ottenuto il benestare. Il poliziotto mi dice che già è tanto se posso entrare il mio leone. Dovrei dirgli pure grazie, magari leccargli il culo come il fascista in mimetica, farmelo amico per la prossima volta in Umbria. Attitudine alla sudditanza d’un popolo che non concepisce altra forma di governo se non il paternalismo. Tiro avanti senza rispondere, incrocio Jordan. Lo hanno spedito indietro a mollare lo zaino. E quando è tornato, senza zaino, non l’hanno riconosciuto. E gli hanno ripetuto tutti gli esami daccapo. Persino il metal-detector. Sembrava Massimo Troisi con quello del fiorino. Uno steward basso e giallo mi ferma prima della spianata interna: “Biglietto, documento, tutto”, dice. Sto per mandarlo a fanculo quando torna in sé: “Dai, puoi andare”. Anche lui convinto che gli debba dei ringraziamenti? Probabile. Vediamo l’ossatura metallica del settore. Sentiamo i primi cori alzarsi al cielo. Ma di salire non se ne parla. Ci sono i tornelli, prima. Giuseppe mi chiede di fotografarlo nell’atto di obliterare il tagliando Ticket-One. Clic. Conserverà il prezioso cimelio con la cura che merita. Ne sono certo.

I seggiolini grondano pioggia stagnante, il freddo penetra nelle scarpe. Ci siamo tutti. Siamo tanti, almeno seicento. Ci sentiamo chiamare: Daniele, Francesca e Antonio S. sono in alto. Hanno passato un paio di giorni in agriturismo, attratti dalla colazione abbondante che è quasi un pranzo. Siamo venti persone. Facciamo blocco. Scaldiamo la voce. Il Foggia è in maglia bianca, il Perugia ha una strana divisa da fine Settanta. Sulla nostra destra, una bandiera spagnola col toro. Inguardabile. Qualcuno si chiede: E quella? Perché è entrata? Ma non vogliamo far nostra la linea vittimista. È entrata, buon per loro. Anche se fa schifo solo a guardarla. La Nord è in silenzio. C’è un lutto, a quanto pare. Due striscioni ricordano un ragazzo che se n’è andato. La polizia ha fatto uno “strappo alla regola” permettendo l’esposizione del ricordo di stoffa. Grazie. Noi, Noi… Vogliamo… Questa… Vittoria. Dietro di noi un simpaticone dice Littoria. Ci voltiamo. È il classico caso di emigrante rimasto fermo al Me ne frego del Novantacinque, al cliché della curva di sinistra vs curva di destra. Un coretto: Comunista pezzo di merda intonato da due soggetti in alto è applaudito ironicamente. Quelli smettono. Quel filone non ottiene più il successo dei bei tempi. Dei bei tempi in cui si inneggiava ai Bei Tempi. Questa curva non è ipotecata. È di chi ha fiato e voce per sostenere, dall’inizio alla fine. In macchina, sulla via del ritorno, rifletteremo: ha più stile oggi, dopo dieci anni di C, che quando era in A. Condivido. Fatto sta che cantiamo. All’inizio di gran lena, sfruttando le scariche adrenaliniche dei nordisti al seguito. Poi, quando loro calano, il tifo si fa più moderato. Il Foggia attacca sotto la nostra porta. Salgado è ancora lento e senza grandi idee, ma sulle fasce si crea movimento. Il centrocampo regge bene e rilancia. Il Perugia, specie a sinistra, è in difficoltà. Ci annullano un gol che ci lascia gioire per una frazione di secondo. Le prime file cantano, il Perugia attacca. Sfiora tre volte il vantaggio: due lisci sotto porta e una parata di Bremec, su calcio d’angolo. Alla fine del primo tempo siamo giù, dall’uomo (nero) del Borghetti. Sono tutti concordi: è la migliore prestazione fuori casa dall’inizio della stagione. Per la prima volta penso al colpaccio. Cosa significa ritornare coi tre punti in tasca, l’ho dimenticato. Tornati a galla, riusciamo a seguire l’azione che ci porta sotto. Un sombrero al limite dell’area, una palla regalata, la respinta del portiere, il colpo a porta vuota. Seguono dieci minuti di confusione. In campo sembriamo spenti, sul punto di cedere. Nel settore i cori sono flebili e si sovrappongono, vanno fuori sincro. Il tempo di riorganizzare il tutto. L’eurogol in mezza rovesciata di Del Core. Si gioisce, cazzo. Ma l’opera è incompiuta. Andiamo, andiamo, andiamo a vincere. Rieccoci. Rieccomi, faccia a faccia con questo coro. Alto, altissimo, che non puoi non unirti. Solenne, sacerdotale, come allo “Zini”. Solo che lì durò quindici minuti d’intervallo. E segnò il mio destino. Salgado spara alto a porta vuota. Non vinciamo, ma ci crediamo fino alla fine. Triplice fischio. Soddisfatti. Ingabbiati fino alle 17. Tu non sai cosa ho fatto quel giorno quando io la incontrai…

Fuori è ingorgo. La polizia, abile a setacciare, a scartare, a proibire, si dimostra incapace di gestire il mare di macchine, furgoncini, pullman che s’incolonnano – nel frastuono – al cancello principale. Un mezzo blocca, per metà, la via d’uscita. Incrociamo la macchina del gruppo Bologna. Volevamo consumare, con la calma dei giusti, il nostro pasto domenicale nel parcheggio. Bucolicamente. Ma non è possibile. Allora ripieghiamo. “Ci vediamo a Gualdo”, urliamo. Quelli annuiscono. Gualdo, dopo la sosta dell’andata, è casa nostra, ormai. Ci sentiamo protetti dalla sua dimensione. I commenti di Tutto il calcio minuto per minuto lungo i tornanti, a tramonto inoltrato. Perugia sul cucuzzolo, bella e accogliente come ai tempi delle Olimpiadi d’Atene, quando con Ceska vi trascorremmo giorni affascinanti. Dal buio la rocca di Gualdo. La strada la conosciamo. In piazza si può parcheggiare. Solito bar. Il freddo è pungente, novembrino (finalmente) e consiglia il giubbino. C’è un arco, proprio di fronte il municipio. Lo attraversiamo. Dall’altra parte una scalinata e una piazzetta. Dei ragazzi, fuori da una pizzeria, ci guardano stupiti. Un signore chiede se, per caso, il Milan ha giocato nelle vicinanze. Forse a Bastia, in Uefa, rispondiamo. La pasta al forno è spettacolare, da applausi a scena aperta. La birra scioglie i commenti. È magnifico non avere scadenze, fretta, urgenza. Il passaggio di qualche Venere locale, un Borghetti a salutare la serata. Alle 19:20 tutti abbracciano tutti. La magia del trasfertista. Alla prossima, ci si dice. Che può essere Lanciano, che può essere Terni o Bratislava. Chi può dirlo. Nell’abitacolo abitato parte il Gioco Stolto dedicato a Fiorello La Guardia, svago per senza meta senza alternativa: da questo momento controlleremo il contachilometri ogni mezz’ora e stabiliremo una tratta vincente. A San Benedetto salutiamo il sesto. Lecce-Milan su Radiouno, la serata sulle colline ai lati dell’autostrada. A Termoli tocchiamo i 63 chilometri percorsi in 30 minuti netti. Celebriamo il vincitore con un sentito applauso. Al casello rasentiamo la mezzanotte. Il tempo di mollare i bagagli e benedirci l’un l’altro. Alla prossima. Ed assistere al prodigio del counter che si resetta sotto i nostri occhi: 000km. Ergo: altri mille chilometri a fondo cassa. Che, stavolta, sono valsi un punto.

03/11/08

La domenica a metà

di Lobanowski 3

Ci sono storie che ti colpiscono e non sai neppure perché. Ci sono persone che non conosci, ma che senti vicine. Spirito di appartenenza, forse pure superficiale, età, sicuramente. Non conoscevo Massimo o Massimiliano. Quello striscione però mi faceva male e non so perchè. Se la palla andava là, lo sguardo ci finiva sopra e quasi finivo per disinteressarmi dell'azione. Alla fine della telecronaca l'ho pure ricordato, forse in modo banale o scontato, ma ho sentito il dovere di farlo.
Nulla di programmato, ma ho sentito di farlo.
Forse non era neppure tifoso del Foggia, ma la telefonata di Loba2 alle 12 del sabato mattina m'ha fatto male.
"E' morto un ragazzo, allo Jacob lo conoscevano in molti". Eccolo, il senso di appartenenza.
Massimo, nel fine settimana, è quel pensiero che vuoi mettere da parte, ma che finisce per zavorrare la tua quotidianità. Segui le partite al sabato, le aspetti come se fossi un rito. Ma quel pensiero è sempre là, a ricordarti che esiste. La macchina, la ragazza ferita...pensi. Mentre il Liverpool perde, mentre vai nel fumo di Orsara, mentre salti Juve-Roma e mentre maledici la Salerntiana che t'ha fatto perdere la scommessa.
So che i ragazzi hanno lasciato la curva Sud alla fine del primo tempo, alla domenica. E' il segno tangibile che Foggia-Arezzo è bella, bellissima... ma che forse verrà ricordata più per quello striscione. D'altronde, per me, Foggia-Rimini è solo la gente che piange nel minuto di raccoglimento per Via delle Frasche e Fasano-Foggia è Molino che non esulta il 14 Novembre 1999.
Suvvia, Foggia-Arezzo, è semplicemente quello striscione. E' rabbia, sdegno e forse pure un poco di paura. Ora è storia. Oggi la Dinamo deve vincere.

Uno striscione nell'angolo: Ciao Massimo

di Lobanowski 2

Sabato 1 novembre

Facebook. L’ho scoperto che già i giornali parlavano di boom. Di mania. Di solito, quando succede, i fenomeni sono pronti a snaturarsi, a cambiare pelle, ad assecondare il trend. O l’hanno già fatto. Io avevo un nome collettivo da presentare e un bel po’ di foto da condividere. Ho aperto una finestra, ho completato l’iscrizione. Una trentina di richieste d’amicizia in tre giorni. Niente di eccezionale. Qualche rifiuto, qualche scambio d’opinioni, qualche test dal risultato scontato e la possibilità di immaginare Billy Bragg – il menestrello della working class – intento ad osservare il nostro murales. Soddisfazioni da poco, in fin dei conti.
Non pensavo che Facebook potesse avere altre modalità d’uso.
Invece.
Ho saputo dell’incidente da Daniele. Lo avevo chiamato per una cazzata, per sapere come conteggiare i Senza Voto di Roma-Sampdoria. Fantacalcio, roba così. “Ma non sai niente?”, mi fa. No. Poche ore dopo la notizia era in coda a tutti i tg. Un’auto pirata, un criminale potenziale, un distratto cronico al volante. Su una strada secondaria, buia e intasata di macchine ferme ai due lati della carreggiata. C’era una festa, la notte di Halloween. Una festa per autoconvocati, un locale affittato in aperta campagna, le luci della città in dissolvenza. Qui non siamo a Brescia o a Piacenza. Non siamo nella piana lombarda, e neppure nell’opulento Nord-Est. Qui le feste di fanno così. I ragazzi si ritrovano, montano l’impianto, spargono la voce. L’illegal da queste parti è regola da prima che facesse tendenza. Regola di sopravvivenza. Se vuoi sfuggire alla noia, prefissarti una meta, ti auto-organizzi. Perché, stai pur certo, nessuno lo farà per te.
Ne ha parlato Rai Uno. Ne ha parlato il Tg Cinque. Nella lunga sfilza di poveri nomi stroncati da alcolizzati e drogati, come ripetono spesso i cronisti ingordi di fetish. Tra le immagini in movimento statico di carcasse e chiazze di sangue sull’asfalto. Ventisei anni, Massimo. Stava tornando alla macchina, parcheggiata in fondo al buio, con un’amica. Il pirata ha lasciato un fanale a terra. L’urto dev’essere stato violentissimo, la velocità alta, altissima, in un punto dove già a 40kmh si può uccidere.
Un refrain: “Lo conoscevi, lo conoscevi senz’altro, l’hai visto di sicuro”.
Gli amici me lo descrivono. Loro si che lo conoscevano bene. Qualcuno benissimo, fino ad avergli affibbiato quel soprannome che aveva annullato il cognome: Kravatta. Con la K. Un ragazzo d’oro, dicono. Un lavoratore, uno che non ha mai rinunciato a spezzarsi la schiena. Uno col senso dell’umorismo, uno di quelli che la sera speri di incontrare al Cicchettaro, per farti due risate.
Così è andata anche l’altra notte, mi riferiscono. Ed io non visualizzo la sua faccia.
Sento, con gli altri in silenzio, il tg di Sky. Poi quello di Telefoggia, che riporta ed amplifica l’invito della polizia all’investitore: costituisciti, che è meglio. Si parla di un paio di telecamere che avrebbero inquadrato la macchina in fuga. Ma di notte, con un paio di fotogrammi, c’è poco da sperare. Probabilmente lo fanno per far cedere la coscienza alla paura.
Carnagione scura, pizzetto lungo, occhiali. Non riesco a ricordarlo.
Poi arriva una richiesta, qualcuno che lascia messaggi di cordoglio sul web. Facebook. Pensavo servisse solo a farsi amici che vedi sempre, o amici che non vedrai mai. Tra i personaggi storici sono Napoleone, tra le birre la Du Demon, tra i Simpson non so. Non pensavo che Facebook potesse avere altre modalità d’uso. Invece.
Invece adesso sta caricando il VaffanKlub di Kravatta. La sua pagina, la sua bacheca.
Le sue foto. Ecco. Un clic. La spersonalizzazione del dolore. Incredibile, penso mentre le barrette verdi completano il download della pagina. Sto per scoprire le fattezze di un ragazzo di ventisei anni che non c’è più. Potrei scoprire d’aver bevuto con lui, d’averci parlato ad un presidio o, di sera, alla Mezzaluna o alla Pizzeria Europa. E non tremo. Il mio pensiero non vacilla, la mia volontà non si tradisce scomposta. Internet ha reso usuale la scoperta del macabro, del doloroso? Non lo so. So che non mi sento emozionato come dovrei essere, terrorizzato fino alle lacrime o alla pelle d’oca. Perché ho sempre frapposto una membrana tra il mondo reale e quello virtuale. Non ho mai preso sul serio queste schermate, questi pixel. Tutto quello che accade qui, su questo monitor, non può essere vero. Più vero del vero. Ancora un clic. Ancora un frame dal mondo parallelo, contenuto nella scatola. Con sospetta leggerezza ho scoperto il suo volto. Sorridente, strafottente, irriverente. Un ragazzone pieno di vita, come quasi tutti a quell’età. E non solo. Una galleria fotografica, sei o sette scatti. No, non lo conoscevo così bene. E, anche per questo, sento crescermi addosso un senso di vergogna che non riesco a spiegare lucidamente.

Domenica 2 novembre, Foggia-Arezzo 2-1

Lo striscione è ben visibile, anche dalla prospettiva alta della Sud. Nell’angolo in basso a destra, subito dietro la bandierina. Ciao Massimo. Come dire: buon viaggio, tu che ora sai quel che si prova. Un saluto banale, perché in una curva si sta in migliaia, pigiati e sconosciuti fino al gol, dove magari t’abbracci o ti spintoni. Ma gli amici restano quelli, restano gli stessi. Eppure l’esorcismo collettivo, lo sputo in faccia alla morte, è affare di gruppo. Tutti salutano, anche quelli che non conoscono il nome. Anche quelli che non sanno cosa sia successo, su quella stradina senza lampioni. È la curva intera a sentire l’obbligo collettivo di mandare un messaggio, di farsi carico della piccola banalità che spaventa. Perché i nomi sono tanti, di coloro che ci lasciano, che intraprendono il viaggio per l’ignoto. E a furia di ripeterli, sembrano perdere il valore dell’unicità. Proprio mentre lo acquisiscono. Agli occhi di una massa di estranei. Non lo nascondo, quando un giocatore dell’Arezzo ha battuto un angolo da quello spigolo, e gli occhi di tutti sono caduti su quel nome, su quel saluto, non ho potuto fare a meno di pensare agli incroci che la vita presenta. Ai suoi strani disegni pericolosi, ai suoi conti lasciati insoluti. E vi ho aggiunto un surplus sdolcinato: Meno male che esistono le curve. Ciao Massimo. Come a dire: lacio drom.
Poi il Foggia ha segnato con Del Core, che poteva andarsene all’uno contro uno. Il tempo di dirlo a Lello, che mi sta accanto, e di vedere Angelo che sta per mettere le mani addosso ad uno che sarà la seconda volta che mette piede in curva.
E lascio il settore. Non mi era mai capitato. Passare dinanzi agli steward, chiedere di uscire dallo stadio, piuttosto che di entrarvi. Supero i ragazzini che s’accalcano alle porte chiuse come i senza-terra ai finestroni dei monasteri, sguscio tra i passamano di ferro e, al rumore della porta che si richiude, m’assale un fischio alle orecchie. Il frastuono del vociare è alle spalle. Il catino, pure. L’effetto è inusuale, totalmente inedito. Fuori, nel silenzio. Dal caos al nulla domenicale in pochi secondi netti. Calo di pressione, bisogno di abituarsi. Costeggio il perimetro dello stadio. Il tempo di realizzare che non ho sigarette. Man mano che mi allontano dallo “Zaccheria”, la città sonnolenta mi avvolge. Tappeti ai balconi, bassi aperti, sole, oltre venti gradi in novembre. Piazza Ugo Foscolo. Le badanti a piazza Giordano. Una radio al Bar Esagono. La serie A è cominciata alle 15. Il viale della stazione. Un applauso in lontananza. Ci sono. Vedo la bara che sale a scatti le scale della chiesa. Rallento. Non mi va di inoltrarmi adesso nella ressa. C’è tanta gente, tanta. Sul marciapiede, su quello di fronte, lungo le pareti laterali della costruzione. Decine di facce conosciute. Decine di ragazzi che potevano essere al posto di Massimo, e lo sanno. Ci sono le colombe bianche nelle casse di legno. Voleranno al segnale. Nel frattempo si attende, si ricorda, si piange. Tanti occhiali neri a specchiare le lacrime. Tanta rabbia smozzicata in frasi casuali, dettate dall’istinto, dalla non accettazione di un’ingiustizia palese. È imbarazzante. È la prima volta che sono al funerale di un ragazzo che ricordo appena. Eppure mi sembrava importante esserci. Non so bene perché. I poliziotti, colleghi del papà di Massimo, si mischiano ai dreadlocks, ai pantaloni larghi dei writers. L’accostamento stride, ma la vita fa dei giri assurdi. Fanno il saluto militare, quando passa la bara. Gli amici si fanno coraggio l’un l’altro, i parenti sostengono la mamma. E poi la sorella più piccola, le cento sigarette del padre. Stasera in tanti ricorderanno episodi in cui Massimo figurava da protagonista. Rideranno e piangeranno al contempo, tanto che ogni risata sarà l’abbrivio d’un pianto irrefrenabile, irrazionalmente conseguenziale. Lo abbiamo già provato. L’elaborazione del lutto segue percorsi tortuosi.

Il Foggia ha vinto 2-1 in dieci. Lo scopro a casa. Ma, in realtà, lo sapevo.

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