29/12/08

Exit strategy

di Lobanowski 1

La sensazione, forte, che monta in questi giorni, è che siamo vicini al capolinea dell’attuale gestione dell’U.S. Foggia 1920. Partiti in dieci, i soci che salvarono i satanelli dalle sabbie mobili del fallimento hanno perso pezzi lungo il cammino. Chi è informato delle voci di dentro parla di quattro o cinque imprenditori rimasti a tirar fuori i soldi, e tra questi c’è più d’uno che s’è stancato. A meno che non ti chiami Chinaglia, a meno che una società calcistica non ti serva come enorme lavanderia di denaro di dubbia provenienza, a meno che non sei un piccolo truffaldino alla Russo, la gestione di squadre di Prima Divisione è onerosa, non garantisce ritorni. Gli incassi sono quelli che sono, i contributi della Lega minimi, marginali l’apporto degli sponsor e dei diritti televisivi. Ci si rimette e basta. A meno che non ti riesca il gran salto nella serie superiore, dove è tutt’altra musica. Tutt’altri bilanci, anche se assieme agli introiti crescono le spese.

Capobianco e soci ci hanno provato a salire in B, spendendo tanto in giocatori e stipendi. Per due volte siamo andati vicini al sogno, a pochi e maledetti secondi dal sogno. Da queste parti, lo scrissi a luglio sostenendo la svolta gestionale – valorizzazione dei giovani, attenzione al bilancio e soprattutto alla vita della società – di Moratti o facoltosi mecenati del calcio non se ne intravedono. Se pensi a chi c’ha i soldi – volgarmente – a Foggia, pensi ai palazzinari. Uno come don Michele Perrone, il grande vecchio della Confindustria dauna, ci provò a prenderlo il Foggia, anni fa, all’asta fallimentare del Tribunale di Napoli. Arrivò ad offrire oltre 7 miliardi di lire. A quell’asta si presentarono due che al confronto di Perrone potevano essere etichettati come pezzenti, tal Villani (piccolo costruttore) e Mercuri (un avvocato). Offrirono di più, non si sa con quali garanzie. Il Foggia fu assegnato a loro. Ma non mantennero gli impegni presi, e il Foggia tornò nelle mani di curatele e profittatori. Azioni di disturbo commissionate. Apparve evidente la cosa. Fosse andato a Perrone, la storia dell’U.S. Foggia negli anni forse sarebbe stata differente.

Pensi a chi tiene i soldi e pensi a loro, ai palazzinari: a Perrone, o a Zanasi, che siede a capo di Confindustria e Camera di Commercio, e ai suoi sodali in associazione, ai Trisciuoglio, ai Zammarano, a Di Carlo, Caccavo. Poi ci sono i facoltosi proprietari terrieri, le grandi famiglie latifondiste alla Lepri. Gente ce n’è, con la pila, anche gente che allo stadio da sempre fa passerella. Per carità, mica lo comanda il dottore che se hai dei soldi devi “buttarli” in una società calcistica. Però quei dieci, o meglio quei cinque o sei, almeno ci hanno provato a fare squadra. In una terra da sempre allergica alla cooperazione e incline alla guerra per bande, dalla politica all’economia, hanno messo insieme le forze per un progetto che parlava alla città in maniera diretta. Imprenditori foggiani disposti a farsi carico dei costi di un elemento – il più popolare nel senso più vasto del termine – della comunità cittadina.

Alla comunità imprenditoriale l’appello di Capobianco e soci non è mai mancato in quest’ultimo periodo. Quasi un grido d’allarme. Aiutateci, sosteneteci, entrate in società, o finanche prendetevelo voi il Foggia, se siete in grado e avete i mezzi per fare meglio. Hanno sbagliato, come è facile che sbagli chi opera, Capobianco e soci. Soprattutto per dei novizi del settore. Ma chi se la sente di rimproverare qualcosa a queste persone, che da tifosi (un po’ più facoltosi di noi altri) coltivavano lo stesso identico sogno di tutti gli altri tifosi? Giocatori di grido e con ingaggi da serie B non hanno garantito la svolta, la necessaria – ai fini anche economici – promozione in B. Hanno sbagliato, è vero, anche nell’impostare la stagione in corso, annunciando di voler puntare su giovani di valore e finendo con raccogliere seconde file nemmeno tanto giovani, o imberbi giocatori provenienti da qualche primavera. Città campanilista, Foggia, che ha dato la croce addosso a Di Bari, il direttore sportivo oggi primo con la Pro Patria nel girone A (con Correa, Toledo e gente di categoria), colpevole di parlare con accento barese, e nulla e nessuno pare voglia imputare a Fusco, l’avvocato gagà napoletano, un mercato estivo disastroso. Ed oggi chi tiene in piedi la barca è gente come Coletti e D’Amico, quei giocatori che Di Bari aveva voluto a Foggia (per non parlare di quelli che stanno giocando bene altrove).

Città dove i giornalisti sono troppo tifosi, troppo vicini ai voleri della società, incapaci o negligenti anche nell’informare sul fatto che i giocatori sono fermi agli stipendi di settembre. E intanto Fusco sta lì e continua a dettare legge. Via Novelli, che di ricominciare con una squadra dilaniata dal mercato di gennaio evidentemente non ne aveva voglia (se sono vere le voci sulle partenze di Coletti, Salgado, e altri sei o sette giocatori). Sembrerebbe una exit strategy, come la chiamano gli strateghi della guerra. Un recuperare risorse in maniera quasi disperata per dare un futuro alla società, e magari a fine anno mollare a qualcun altro, qualcuno con entusiasmo nuovo e soldi freschi.

E in una città dalla storia sgranata, abituata a vivere ripiegata su stessa, con lo sguardo perennemente rivolto al passato, senza chissà quali fasti ma sul quale almeno è possibile abbandonarsi in amarcord e costruire leggende; una città dalla scarsa mobilità sociale dove il cognome conta più d’ogni cosa, dove Zanasi è Zanasi da 30 anni, la città dei circoli chiusi, massonica, facile che per molti alla parola futuro non possa che essere affiancato il nome di Casillo. E magari di Zeman. Un dio di qualunque religione ce ne salvi. Non so se sarei in grado di sostenerlo questo ritorno al passato. Ma il problema resta: se mollano questi, chi se lo prende l’U.S. Foggia 1920?

22/12/08

Che c'è?

di Lobanowski 2

Domenica 21 dicembre, Crotone-Foggia 1-0

Che canto malinconico, che canto malinconico
Cogl'ogni cuore tenero cogl'ogni cuore tenero


Lodi alla pasta al forno, certo. Lodi alla parmigiana. Ci sono anche i primi rientrati, i fuori sede cronici. Il vino rosso è buono e la partita inizia, ma sul primo bicchiere già s’addensano crucci.
Ti domandi: che c'è? E la risposta non si fa attendere.

C’è che se vai in curva, il campo lo vedi e non lo vedi, seguendo il crinale delle intermittenze. Emozionali. C’è che sali i gradoni e, una volta in posizione, ti occupi del contesto, che poi è il palcoscenico principale. E fissi l’omino sulla transenna e ti concentri per non sfalsare il coro che s’alza, torrenziale. E alzi le braccia, e quelli davanti a te fanno lo stesso. E batti le mani, e senti il battimani attorno. Ritmato, cadenzato. E poi passa quello che grida Borghetti e dai l’avviso a quelli che hai attorno. E ti frughi nelle tasche e molli i venti centesimi nel palmo di quello davanti che si è girato e fa colletta, e poi tratta col tizio burbero che, alla fine, non cede. Tre flaconi di Caffè Sport, 4 euro e 50. E gridi, e ridi, e commenti un fatto che ti è venuto in mente, e ridi di nuovo mentre l’omino dice che stiamo facendo cagare, e che se siamo in tanti è perché dobbiamo crederci, e cantare, e cantare ancora. Che vedere la partita è roba datribuna ovest. E tu, che di partita hai visto dieci minuti assemblati, ma hai l’argento vivo addosso, di nuovo ti scuoti, ti concentri, chiedi quanto manca alla fine del primo tempo, ti fermi a guardare i tifosi avversari. E li giudichi, peggio di un magistrato di Tangentopoli. Poi cerchi tra i gradoni o chiedi agli altri dov’è finita la bandiera. E te la fai passare, e sventoli, e la guardi sventolare, e mentre che sei attento come un pitbull, uno da sopra ti chiede di abbassarla e scatta il parapiglia. E quando l’arbitro fischia, cacci con lo sguardo lo sguardo di quello che sta per scendere a comprare la birra. E resti in piedi, a guardare cosa fanno gli altri gruppi, che dicono i volti di quelli che conosci, mentre tutto attorno è un continuo informarsi su cosa fanno le altre.Per farla breve, se vai in curva neppure te ne accorgi.

Ma quando, per via di eventi inevitabili o imprevedibili, quando l’Osservatorio proibisce la trasferta o l’influenza ti inchioda a letto, la partita ti tocca vederla, dal primo all’ultimo minuto di recupero. E allora non puoi fare a meno di notarle, certe cose. Quanto questa squadra giochi male, ad esempio. Che con questa è finito il girone d’andata, e non siamo in grado di fare tre passaggi di fila; che si gioca su una sola fascia, come un pugile azzoppato, contando sull’esterno che corre come un’attrazione da circo, come Roberto Carlos alla playstation. Allo stadio, mentre quello s’imbizzarrisce, commenti il nuovo vizio di fare Brum, Brum, Brum che sale dai lati. Qui, no. Qui lo noti che la difesa non è alta, non è bassa, non è accorta. Te ne accorgi che la difesa non è niente; niente di ben definito, quanto meno. E ti viene un fremito a pensare che quello era il punto debole che temevi in Novelli. E quando la palla rimbalza tra portiere e difensore, el’avvoltoio avversario è appostato e la butta dentro, che neppure se l’aspettava, non puoi non rimpiangere la curva. Quel luogo dove tutto è possibile ed hai mille attrattive capaci di distrarti dal sopraggiungere della coscienza. Dal grillo parlante. In curva prendi il gol, ti ricomponi, e lanci il grido della riscossa. Qui, non sai quale piastrella del pavimento rimirare. Ma niente sceneggiate, niente tecnicismi inutili. Siamo tifosi, votati ad un ideale di sofferenza e ascetismo. Lo schermo è in alto, penzolante da un muro. Disposti in file, con la gente in piedi davanti alla porta a vetri. Renato mi aveva avvisato, quando ha letto l’invito in Facebook: non spargere la voce, che già siamo tanti. Vero, mea culpa. Quaranta minuti al termine e la certezza che saremo stati fortunati a vedere un tiro in porta. Il pari non è contemplato tra le ipotesi. Dovrei dire Chi se ne frega. Ma non sono in curva, e neppure nel settore. E non è la stessa cosa.

15/12/08

La qualità del silenzio

di Lobanowski 2

Domenica 14 dicembre, Foggia-Ternana 2-1

Francoforte. Dovevo essere a Francoforte, oggi. Tutt’al più a Mainz, che poi sarebbe Magonza. Due biglietti nel trolley. FSV Frankfurt-Sankt Pauli. Serie B tedesca, l’occasione imperdibile di vedere il Sankt Pauli, di imparare un paio di cori da tramandare ai posteri, di conoscere i suoi tifosi in trasferta. Invece.

Invece all’una e venti sono oltre la prima linea di filtraggio, e sto srotolando lo stendando. Vai, vai, mi fa il poliziotto. E vado. Daniele ci ha raccontato di un incontro fortuito: Oggi vengono i compagni vostri, gli ha ironicamente detto un tale. Penso all’alberghetto delle fiabe che avevo prenotato. Sbuffo. Uno steward, alla terza porta, ci dirotta: Quelli dei club alla prima. Nessuno di noi ha fiatato. Si vede così tanto che siamo un gruppo? Entriamo che non ci sono ancora le guardie. Nel piazzale, nessun volantinatore del Regime. Aria strana, sospesa. Saliamo la prima rampa, la seconda, siamo dentro. Lo sguardo da destra a sinistra, da sinistra a destra. 13 individui. Nell’intera curva, a parte noi, ci sono 8 persone, sparpagliate con maestria. È presto, ma la Sud vuota mette i brividi. Dispiegare la stoffa, rattoppare il fissaggio, lanciare la corda oltre la grata, tirare verso sé, annodare, una, due volte. Un nodo alto, altissimo. Un passo indietro, rimirare. Oggi la pezza è superba, mai attaccata così bene. Il tocco di classe: due lievi giri di nastro da imballaggio agli angoli bassi. E voilà. Relax. In campo non c’è nessuno, neppure le squadre. Sono le due meno dieci, e siamo quasi soli. Che sia successo qualcosa di grave, modello undici settembre, e non ne sappiamo niente? L’istinto di mettersi al telefono, due volute con la bandiera, per prendere il ritmo, una proposta di bar. Mancano anche gli striscioni. Aria strana, lo dicevo. E il pensiero corre ai contrafforti in stile teutonico. Ri-sbuffo. Finché un ragazzo giunge dal basso, ci guarda, ci parla e mi stacca dal torpore: Uagliù, ma non lo sapete che oggi non si espongono striscioni? Silenzio. No che non lo sappiamo, abbiamo avuto una settimana piuttosto impegnata. La contestazione, eccola qua. Le prime domande si affacciano, inevitabili. Meglio metterle a tacere, meglio staccare subito lo stendardo, di fretta, senza neppure guardarlo. Che oggi basterebbe uno sguardo per ripensarci. Riunione, giù alle porte.

Oggi non si canta, non si incita, non si esulta e non si fischia. Impassibili, come il vento durante un minuto di raccoglimento. Muraglia muta contro l’umiliazione. Che pare cosa facile a dirsi, ma i foggiani li conosciamo. E sappiamo che nessuna posizione prolungata può mai attrarre la loro attenzione per più di pochi istanti. Incostanti nei lavori di pazienza, umorali come il mese di marzo, scommettiamo che non durerà. Che ci sarà da innervosirsi, da succhiarsi il fegato. E il pensiero corre al volo che si è alzato su Roma senza di me. Arriva il volantino. I sospetti si tramutano in altrettante certezze. La pessima prestazione di Lanciano, i 5 gol al passivo, l’atteggiamento della squadra in trasferta. Certo. Ma oggi resteremo in silenzio per tutti i 90 minuti – c’è scritto in maiuscolo grassetto, con sottolineatura nera – soprattutto per ciò che è successo in settimana. Ecco, ci siamo. Il volantino non specifica, non scende nei dettagli, non approfondisce e non commenta. Chi sa, sa. Noi sappiamo, in tanti sanno. E basta questo. Ma in tanti, tantissimi, non sanno: ignorano, chiedono al vicino, s’affidano a quelli che la sanno lunga. E quelli, da ultimi interrogati, spalle al muro, inventano. È un festival. Questo silenzio vuole essere una ulteriore conferma della nostra indipendenza. Minacce di lasciare la società non condizioneranno mai il nostro modo di essere in curva e il modo di amare l’Us Foggia 1920. Non eccepisco, non discuto. Si voleva la risposta corale, e risposta corale sia. Ma tacere, fissare gli omini in campo, ascoltare i commenti e, talvolta, anche i risultati delle partite di A, non è proprio il nostro modo di essere in curva. Più che altro, è una sofferenza immane, una noia da sbadigli. Giuseppe inorridisce e domanda, spaventato: Ma mo ci tocca guardare la partita? Non ci condizioneranno? Un paio di palle. Siamo condizionati, condizionatissimi. Quasi repressi. Altroché.

Io credo che il sacrosanto dovere di sostenere quella maglia vada aldilà di qualsiasi contingenza. Per ogni altra evenienza, ci sono gli ambiti adatti. Ma tacere in risposta all’atteggiamento di undici sconosciuti – che per quanto bene possano volere al rossonero, torneranno sconosciuti quanto prima – è una forma tribale di auto-evirazione. Che finisce per concedere troppa importanza alla squadra, agli undici che scendono in campo, a quelli che vanno in panchina, a quelli che vanno in tribuna, al mister e a tutto il resto del circo. Avremmo dovuto cantare, e cantare, e cantare ancora. Per dimostrare che non sosteniamo loro, per quanto bravi o scarsi possano essere. Eseguiamo un rito collettivo. Ed è altra cosa. Riguarda noi.

Come che sia, entrano i ternani. Otto, nove al massimo. Felici, festanti, a braccia larghe. Poi arriva Beppe Signori. Sotto la curva, a passi veloci, quasi una corsetta. Arriva, quel laziale. E non posso che mostrargli scapole, schiena e spina dorsale. Non voglio sentire ragioni, non c’è nostalgia che tenga. C’ero all’ “Olimpico”, quando urlavamo È rossonero, Signori è rossonero, per cauterizzare una ferita ancora lancinante. Un amore tradito. E Beppe ci punì, segnando il gol del quattro, forse del 5-1. E fece quello che mai mi sarei aspettato da lui: corse sotto la Nord, sotto quella muraglia di fascisti, ad esultare come se avesse realizzato il gol della vita. È un professionista, certo, ma ricordo che pensai: Quest’uomo con me ha chiuso. E adesso è inutile rivangare. La Sud lo applaude, tenta di abbozzare un coro autogestito, ma non si ricorda come fa il ritornello. Io me lo ricordo, ma ho buttato via la chiave d’accesso. Va, laziale, va. Torna a casa tua. Ed evita di farti rivedere in giro.

Il primo tempo è noioso da irritare. Probabilmente è simile a tante altre partite, ma il fatto di non partecipare all’evento, di non coordinarsi nel sostegno, rende questo sforzo di sfondare dei rossoneri, particolarmente indecente. Segniamo su rigore, che l’arbitro biondino fa ripetere con straordinario zelo. Attorno, assistiamo ad un commovente spettacolo di volubilità umana. Se quello che sta al centro del centrocampo sbaglia un appoggio sulla destra, sono insulti, boati, fischi, sproloqui. Quelli che non cantano mai, quando c’è da cantare, oggi provano a intonare coretti stonati, stornelli sanremesi. Poi uno della Ternana falcia un nostro in fuga, e si scatena il putiferio. Il gol, e sembra fioccare la pace come neve a Francoforte. Sbuffo. A fine tempo ci tratteniamo giù più del dovuto. C’è fermento, fibrillazione. Il dibattito sulla contestazione è animato, anche se sono troppo fuori fuoco per interpretare le posizioni. Ma non mi sembra, tuttavia, che ci siano due blocchi contrapposti. La ripresa è in corso. Noi, ancora alle prese coi nostri cicchetti, ci affacciamo al primo anello. Che qua non si è mai chiamato così, ma fa niente. Osserviamo la Nord che ha ripreso a cantare, che ha rotto il silenzio con un coro contro un panchinaro. Ancora quella storia accaduta in settimana. Strascichi. Quando ritorniamo in posizione, la Ternana pareggia. E ricominciano i sermoni, risalgono in cattedra i disfattisti. Una specie di tagadà umorale che stressa più che divertire. Anzi, non diverte affatto. La psicologia del tifoso è un rebus: è millantato amore per la sofferenza che si esprime nell’incapacità di soffrire; e nell’impossibilità di fare altro, di sfuggire alla propria sorte. Ma questo l’hanno già detto. Di nuovo, c’è il gol di Salgado che chiude la partita. E il coro con cui anche la Sud saluta il panchinaro.

Alla fine la Nord saluta romanamente i ternani che smontano. Mentre la Sud viene risucchiata da un vortice e scompare, come se non fosse mai pervenuta. Scendo i gradini, pensoso. A Francoforte non avrei potuto cantare. Non ci sono andato, e non ho cantato ugualmente. Un paio di giovanotti corrono verso il campo. Il loro grido, nella curva vuota, riecheggia, rimbomba: Avanti o popolo, alla riscossa, bandiera rossa, bandiera rossa. Ci giriamo di scatto, ma non vediamo più nessuno. Bandiera rossa in Sud, a margine di una partita con la Ternana. Che confusione, sarà perché ti amo…

08/12/08

Le due curve

di Lobanowski 2

Domenica 7 dicembre, Lanciano-Foggia 5-2

Mi vesto appena più pesante del solito. Le gambe, si, sembrano reggere. Il mal di testa è svanito, così come pure i crampi allo stomaco. Gli anticorpi hanno fatto un buon lavoro, non sembro un caso di malasanità. La bandiera nella destra, stacco un bel passo da maratona. O da boy-scout. Ci avviamo con un anticipo olimpionico. Sarà una volata, e la macchina a metano conterrà le spese. In tempi di crisi e social card, conta. La strada è la solita, Adriatico e mare sulla destra. L’entusiasmo non si è smorzato ai primi freddi. Per confermarlo, mostro l’ennesimo 2 fisso sulla bolletta della Snai. È il sesto su sette trasferte. Avevo evitato di pronosticarmi vincitore solo a Pescara, perché senza il benestare dell’Osservatorio c’erano poche speranze di farla franca; perché, lo sanno anche i bambini, solo Se lo sosteniamo noi l’Us Foggia fa gol. Autostrada fino a Val di Sangro, poi ci inerpichiamo su un’altura, un paio di svincoli e ci troviamo in faccia a Fossacesia. Non so per quale motivo metafisico abbiamo scelto questo posto per il consueto aperitivo, ma oramai ci siamo e parcheggiamo in salita. Un corso deserto che sembra Alberona, una chiesa e una fontana. L’odore dei camini, che fa sempre il suo effetto. Prima del bar, l’emozione indefinibile di vedere il pullman del Foggia che fa manovra e sbuca da un angolo. Guido si illumina come un miracolato, accenna qualche passo in direzione di quella visione, tenta una corsetta monca, poi, accertata l’impossibilità di raggiungerlo, si limita a fare ciao ciao con la manina. Lo guardiamo stupefatti. Quello ricambia: “Ma, uagliù – dice, sopraffatto dall’incredulità – il pullman del Foggia”. Con lo stesso tono con cui avrebbe salutato l’apparizione di una navicella spaziale. Sconvolto dal vedere a due passi un mezzo di trasporto che, solitamente, è parcheggiato a due passi da casa sua. Ma, si sa, è il contesto spazio-temporale a fare di un oggetto un evento. E a noi tutti, mentre ordiniamo quattro caffè e un cappuccino, improvvisamente appare chiaro il perché di Fossacesia. Come la Samarcanda di Vecchioni.

Lanciano è una trasferta infida. Ci sono stati screzi, in passato: solite storie, con qualche vetro infranto di più. È consigliata prudenza. E noi, per non farci mancare nulla, ci fidiamo della memoria di Nicola, che si inoltra in paese con straordinaria approssimazione. Non ci sono segnali ad indicare il campo sportivo, tendiamo solo a lambire il centro, finché non ci perdiamo in uno slargo periferico dal senso di marcia obbligato. Una discesa sulla destra per rimetterci in carreggiata ed eccoci faccia a faccia con una decina di giovanotti bardati di rossonero. Che sono anche i colori sociali degli abruzzesi. Cazzo, pensiamo. Un rapido calcolo delle probabilità, mentre quelli già ci scrutano da sotto i cappelli con la visiera; e noi scrutiamo loro, con lo stesso sguardo di chi non intendere cedere. Poi un cappello favella: Ma dove cazzo è lo stadio? L’accento è inconfondibile. Boh, rispondiamo, negando gli uni agli altri quel che ognuno stava realmente pensando: vi abbiamo presi per lancianesi, uagliù. Ci incolonniamo e in cinque minuti siamo in un viottolo di ghiaia sul limitare di un discreto strapiombo boschivo. In lontananza, la tribunetta. Settore ospiti. Gli altri ci chiamano che sono appena fuori porta: c’è stato un rapido sfiorarsi coi pescaresi, in un autogrill. Roba da niente, il tempo di comprare le sigarette e saranno qui. Assistiamo all’arrivo della carovana. Entriamo. La scena è sconfortante: lo spiazzo sarà largo qualche passo nei quattro sensi di marcia, la polizia tasta svogliatamente i giubbotti, la rampa è unica e ci vanno a stento due persone affiancate. Lo spettacolo di uno stadio a norma, la pantomima della sicurezza. Niente di male, per carità, questo impianto ha la stessa dignità di ogni altro. E come ogni altro, costa. Ma non si può proprio dire che ci sia gente qui che si impegna febbrilmente a farlo sembrare uno stadio. Siamo dentro, e va bene anche così. Saremo quattrocento, forse qualcuno in più. Al centro, come al solito, le pezze della Sud e della Nord. Di lato, i tifosi svincolati, gli occasionali, quelli che vivono la partita su un’altra frequenza.

Le squadre sbucano dallo spogliatoio sotto la curva lancianese. Non sembrano imponenti, i locali, ma ci sono, con diversi striscioni e finanche una bandiera croata, che mal si concilia con tutto. Si alza il primo coro. Stavolta dire che non vedo niente non è un eufemismo, un modo come un altro per sancire distacco dall’evento calcistico in sé. Non bastasse la prospettiva dadaista della curva dove siamo assiepati, non bastasse l’assurda cancellata modello Manfredonia a circondare il settore, c’è quello che fa partire i cori proprio di fronte a me. Ma è la vita che ho scelto, penso. E mi concentro sui canti e sulla bandiera che fluttua nell’aria tesa e assolata. È troppo forte questo amore che provo per te, Foggia tu sei per me, sei l’unica passion, ti porterò per sempre nel mio cuor. Bastano poche schermaglie per capire che dai lati verranno solo noie, quando non rogne. Da destra e da sinistra giungono fischi e boati solo in concomitanza con le azioni, con lo svilupparsi logico della partita. Lello mi garantisce che c’è un problema di fasce anche in campo. Prendiamo un gol, e l’incitamento degli occasionali. Meglio quando siamo in pochi, dicono dalla balaustra. Concordo, ma il fiato sul collo di questa gente mi spazientisce. Certo, in centro bastiamo e avanziamo. Ma questi che si sono messi in marcia per fare la scampagnata, che magari sono appena usciti dal ristorantino caratteristico, che hanno le mogli che girano per i negozietti del centro, preferisco perderli che trovarli. Sono il simbolo di una Foggia arcaica, che non esiste più. E, come ogni tradizione, devono affondare. Il prima possibile. Prendiamo il secondo. E la mazzata si avverte nei muscoli. Le corde vocali non smettono di articolare suoni, ma il timbro è rauco. È assurdo. Alla fine del primo tempo la discesa verso il bibitaro è vorticosa, possente, desiderata. La delusione, cocentissima. Non c’è nessun bar. Niente birra analcolica, niente acqua a prezzo da lounge bar, niente Borghetti. Nessun bar. Neppure difeso da un’inferriata come a Perugia, neppure incassato in un muro da Montecristi come a Caserta. È il panico. Vado in bagno per disperazione: Forza Pisa, Livorno stramerda, c’è scritto sul muro. E quando sono stati qui i pisani?

Al fischio d’inizio del secondo tempo siamo tutti un gradino più giù. Guardo le fasi di gioco dagli scacchi della prigione. E va bene che tutta questa scomodità, a ben pensarci, ci piace da morire… ma se qui ci si volesse soffermare sul rapporto qualità/prezzo, staremmo freschi a fare l’alba a forza di rimostranze. Ma non siamo gente che si lamenta. Segnamo l’1-2 su una punizione dal limite che il portiere non trattiene. E torniamo a crederci. Gli osservatori casuali che giocano sulle fasce la loro partita silente, si riconquistano all’incitamento. Poi tornano a spegnersi, a rumoreggiare finanche, quando il Lanciano fa il 3-1 e sembra chiudere la partita. È avvincente questo limbo, questo livello multiplo, questo susseguirsi di membrane: sul tavolo da gioco ci sono almeno tre differenti puntate: c’è quella propriamente detta, quella del match, della gara valevole per il campionato di Prima Divisione; c’è quella degli spettatori umorali, che s’arrovellano e si inacidiscono, s’esaltano e si deprimono in diretta conseguenza di quanto avviene sul rettangolo verde; e poi ci siamo noi, c’è la nostra puntata, che quasi sempre è vincente: non è casuale questo coro altissimo con un parziale devastante. È una conseguenza dell’approccio. Noi continuiamo a cantare, dal centro della gradinata un gruppo di ragazzini ci indica e ci saluta con l’ombrello. Si va avanti, e quando Salgado mette dentro un diagonale che vedo finanche partire, cominciamo pure a crederci. Ed è bellissimo, un’attesa degna dell’Avvento, una vigilia lunga che sa di boato in avvicinamento, che prepara alla grande felicità della rincorsa conclusa. Nessuno è più fermo al suo posto, ognuno si sente in diritto di camminare – da parte a parte del settore – con un’agitazione degna di un neo-padre fuori dalla sala parto. Argento vivo, impazienza. Si salta, si canta, si danza. Si inganna l’attesa dell’inevitabile. Che pare palesarsi quando Del Core giunge a tu per tu col portiere avversario. Uno sguardo al pallone, uno all’estremo difensore, uno al pallone, uno all’angolino. Al centro, Salgado tutto solo attende l’assist per il pareggio facile facile. Sono pronto a saltare. Ma Del Core zappa sotto la sfera un cucchiaio che non vuol saperne di alzarsi. Sembra ci sia ancora un’eternità da giocare, e la onoreremo. Ma non riusciamo a capire perché, se ti chiami Del Core e giochi in terza serie, trovi così sconveniente la botta ignorante all’angolo opposto. Perché te ne senti sminuito. Dopo l’occasionissima, i nostri ne fabbricano altre due. Ma la difesa alta per necessità mette i brividi. Se il pallone si infila tra le linee, e non si alza la bandierina, c’è l’uomo solo davanti a Bremec. Succede, e il catalano è costretto al fallo di mani fuori area. Espulso. Entra un tale Milan, che esordisce con un’uscita raggelante quanto inutile. E poi prende il quarto al 90’.

Ed avviene quel che doveva avvenire; quel che, sottotraccia, è avvenuto per novanta minuti. La scissione delle due curve: quella che ci crede a prescindere, che lotta e che fa il suo dovere, e quella che incrocia per impalpabile tangente. Una, due volte all’anno. I fianchi escono, esasperati dal gioco di una squadra che sarà la terza volta che vedono all’opera: fischi, borbottii, esplosioni di rabbia. Tutti in fila verso l’unica uscita, pronti a far morire sulle labbra l’ennesimo Mai più. E si che da Lanciano, per tornare a casa, ci vuole quasi un’ora e mezza. Dal centro li guardiamo divertiti, con lo sguardo appena appena appesantito di pena. Sono spaventapasseri della foggianità, gente incapace di partecipare, di soffrire, di perdere con stile e dignità. Caramanno, il Mister, diceva che il tifoso si guadagna il diritto a contestare la squadra sostenendola fino al 95’. E qui mancano ancora i 5 di recupero. Stavolta il coro è tutto per loro: dal centro ai lati: Il Foggia siamo noi, chi cazzo siete voi. Legittimo, doveroso, giunto a puntino. Alleggerita la zavorra, ci concentriamo sul rettangolo verde, dove i nostri non lottano più. A Foggia non ci tornate, suona vagamente minacciosa; Senza la maglia, giocate senza la maglia, invece, risulta forzato. Ma ci sta, filosoficamente parlando. Milan, il mio nuovo idolo, prende il quinto in maniera ridicola. Non c’è più tempo per alzare inni di gioia e ringraziamento. Sentiamo gli altri esultare.

02/12/08

Cosa cazzo mi fischi?

di Lobanowki 1

Da quando sei in C non ti seguono più,
ma chi ti ama davvero è sempre con te
Forza Foggia alé, non ci posso far niente,
il mio cuore lo sai, batte solo per te

(coro della Sud)

Chiariamoci, la differenza che corre tra una vittoria e un pareggio nell’umoralità innata del tifoso si misura in chilometri, lo so bene. Però, cazzo, un minimo di equilibrio nei giudizi uno lo pretende. Del Core ieri l’avrebbero impallinato in tanti, nella Sud. Perché mai, non lo so. Per colpa delle voci che girano, che dicono che a Foggia ci sta contro voglia? Eppure è uno che lotta, si danna. Poi una cosa può riuscire bene o male, ma il giudizio dovrebbe essere tecnico, su come si muove in campo la domenica, non sul gossip feriale. Poi capita che Pecchia fa un lancio al cielo, una palla che chiunque ha già battezzato come inutile, e ti ritrovi Del Core che fa a sportellate con un difensore in area, che ci crede, che fa un aggancio mica facile, che salta l’uomo, tira ma prende il palo, e da lì nasce il gol del vantaggio del Foggia. E tutti a dire: che bravo Del Core. Eppure qualche decina di minuti prima era svettato in aria colpendo bene di testa, che solo con l’istinto c’è arrivato il portiere della Paganese. Mica se l’era guardata la partita.

Abbiamo giocato maluccio ma abbiamo vinto. Qualcuna rubacchiata con rigori un po’ così. Questa è stata la trama delle partite allo “Zaccheria” del Foggia, Arezzo esclusa, dove la prova d’orgoglio ha sopperito ad una certa improvvisazione tattica. Lì tutti ad applaudire a fine gara. Anche se non mancavano i mugugni: si gioca male, si tira poco in porta, dicevano i più. Ieri il Foggia ha giocato la sua migliore partita, creando tante palle gol nitide quante ne ha avute in tutte le partite fino ad oggi giocate. La palla viaggiava veloce, nel primo tempo, in linea verticale e orizzontale. La difesa era sicura. Certo, ogni tanto partiva il solito lancio lungo dalle retrovie in cerca di fortuna, ma contro un undici che si chiudeva in dieci dietro il centrocampo ci può stare. Nella ripresa abbiamo lasciato un po’ troppo campo, ma pericoli non ne sono arrivati. Se Tisci non s’inventava un gran gol, sarebbe morta lì la partita, con il Foggia a ripartire veloce in contropiede e quelli a sbattere contro il muro eretto da Lisuzzo e Rinaldi. E se Salgado si mangia un gol incredibile davanti al portiere allo scadere, non resta che inveire al cielo.

Ma poi ascolti qualche trasmissione in tv, ti ritrovi qualche crocchio di esperti davanti all’edicola il lunedì, e scopri che la colpa è di Novelli. Ok, ci sto: io uno come Del Core in campo l’avrei lasciato, perché è bravo a difendere palla, a far salire la squadra. Ma io me li ricordo quegli stessi tifosi invocare Germinale titolare dopo Taranto, a danno di Del Core. Magari sono sempre loro che ieri hanno fischiato l’attaccante barese all’uscita dal campo. Ed ora rigirano la frittata. E che diamine, un minimo di coerenza. Ma poi, com’era quella storia che ai foggiani piace il bel calcio, che dopo Zeman nulla è stato più come prima, che va bene vincere ma vogliamo divertirci? E cosa cazzo mi fischi la squadra dopo una partita così, dove Pantanelli ha fatto miracoli sulla linea di porta e Salgado ha litigato col pallone?. La Sud per tutta risposta (parte della Sud), ha fatto partire un coro d’incitamento. Alla squadra, alla maglia. Che prescinde da tecnici, giocatori, eurogol domenicali. E dagli stipendi pagati. A quanto pare fermi ad agosto. Hai voglia noi a farci la bocca sulle sfortune del Pescara.

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