14/12/09

Ricongiungimenti familiari

Domenica 13 dicembre, Spal-Foggia 0-0

Le famiglie, anche le migliori, vivono di allontanamenti, di disgiunzioni, di separazioni. Ma poi si riuniscono. Ed è allora che bisogna apprezzarne il calore. Irriducibile. D’altro canto, mancano undici giorni al Natale. Il clima è quello.

Ferrara ispira. Chi dorme, regola la sveglia da camera alle 5:30. L’appuntamento è fissato per le 6, il ritardo è canonico. Il tempo di riaprire l’eterno dilemma sulle aste, di diffondere voci fasulle su leggi e regolamenti che manco dei togati in diritto costituzionale. Undici persone, furgone sold out. Imbocchiamo l’autostrada che è giorno pieno. Fa freddo. Deve fare freddo. Chi è rimasto ci ha consigliato di tenere d’occhio le previsioni che danno neve tra Molise ed Abruzzo. La A14 è un deserto che conosco. Lo scenario della consuetudine. Daniele ci omaggia di una compilation, Radio Corsa si spertica in dediche agli innamorati. Da solo non riuscivo a dormire perché, La notte ho ancor bisogno di te. I finestrini aperti di uno spiffero, giusto per respirare. L’odore del fumo si mischia alla traspirazione dei corpi, il ripieno dei panini all’aria bollente del riscaldamento: un unico aroma, un aroma unico. Inconfondibile. Alla fine abbiamo portato il bandierone e uno solo tra noi è senza biglietto. Ma se ne cura poco. Fammi entrare per favore, Solo, Credevo di volare e non volo. Alle undici centriamo per amore divino il curvone dell’uscita di Rimini Sud. Il piano è tattico, ben congegnato: tappa a San Marino per rifornirci di benzina e sigarette, poi statale per Ravenna, per risparmiare sul pedaggio. Un programmino degno di quello coi baffi che su Rai Uno presenta Occhio alla spesa. Lo stradone luccica di pioggia. I semafori (rossi) si susseguono con precisione irritante. Ci mettiamo mezz’ora a varcare un ponte dove si può leggere Benvenuti nella terra della libertà. “Ma sai che per giocare la Coppa Tritone devi essere nato a San Marino o comunque cittadino sammarinese da dieci anni?”. Lo stupore cattura l’abitacolo, gli occhi vagano sui palazzi, sulle rotonde, sugli store d’abbigliamento indiano, di armi medievali, sulla salita. “Quindi, in teoria, dovresti sposare una sammarinese quando hai dieci anni, per esordire nel Murata o nel Domagliano a 20”. Tutti pensano al tempo che hanno sprecato in vita loro. Il primo distributore appare all’orizzonte. Fiduciosi accostiamo. L’andatura si fa lenta e leggiadra. Le auto suonano il clacson. Il silenzio non promette nulla di buono. “Ma costa quanto in autostrada, il gasolio!”. Qualcuno non si capacita: “Ma magari dobbiamo salire ancora, non siamo ancora a San Marino”. “Ma certo che siamo a San Marino, non li vedi i cartelli!”. Cazzo, niente panico. Ancora un paio di tornanti, poi facciamo inversione. “Ma quante squadre ha il campionato di San Marino?”, “Dodici”, “Dodici?”, “Eh… Senza contare che poi c’è una squadra che gioca in C2 e la Nazionale”, “E dove la trovano tutta sta gente?”. Il secondo distributore, poi il terzo e il quarto, confermano la sciagura. Stiamo sfatando un luogo comune. Dovremmo essere felici, e non lo siamo. Anche il tabaccaio è chiuso. Pit-stop tra le imprecazioni sommesse. Il malumore serpeggia. Risparmiamo quattro litri di gasolio e puntiamo la statale. Abbiamo perso un’ora. E, quel che è peggio, il piano perfetto ha già subito due grosse ammaccature. I cartelli indicano Ravenna. Un semaforo. Un secondo. Un terzo. Siamo all’altezza di un centro abitato, non dovrebbe essere anormale. Eppure, la tensione cresce. L’orologio segna le 12:13. Noi viaggiamo ad una media di 70km/h, la strada è bagnata, fuori piove e davanti c’è una discreta fila di macchine. Abbiamo fatto questa strada per andare a Trieste. Ma era estate. Ed era notte. Oggi splende di luce propria. Rientriamo in autostrada, dove la benzina costa meno che a San Marino.

Ferrara Sud. Ovvero: l’impazienza. Siamo riusciti ad arrivare con mezz’ora di autonomia sul fischio d’inizio. Vaghiamo nella zona industriale della Città Patrimonio dell’Umanità, come annuncia il cartello all’ingresso. Una volante della polizia ci affianca. Ci fa segno di seguirla. Scommetto che siamo gli unici. Puntiamo il centro cittadino. I lampeggianti feriscono le cornee. Vediamo lo stadio in lontananza, dalla fine di un vialone. Ci fanno accostare. Un poliziotto ci dice di trovare parcheggio. Noi chiediamo cosa ne sia del settore ospiti. Quello indica un muro grigio: “Eccolo”. C’è gente che attende d’entrare. Foggiani. Tanti, c’è da dire. Come in ogni trasferta emiliano-romagnola, del resto. Noi abbiamo un paio di ricongiungimenti familiari da ottemperare, qualche birra da stappare. Un paio di macchine da Bologna, una da Roma. Avevamo immaginato un’altra location, ma adesso siamo qui. E dobbiamo fare tutto di fretta. Di corsa alle porte. Poi l’attesa. Tre ragazzi sbarcano. Si avvicinano alle transenne e parlano tra loro: “Ma quante squadre ha il campionato di San Marino?”. Giuseppe mi fissa. È l’argomento del giorno, evidentemente. “A San Marino dovevamo nascere. Ci facevamo la Champions. Il San Marino ha giocato pure a Tel Aviv”. Ho seri dubbi al riguardo, ma una certezza le batte tutte: neppure una partita ad Anfield o al White hart lane mi farebbe preferire il Tre Fiori all’Uesse. E diamine, un po’ di dignità! Guardo la struttura esterna del Mazza. È affascinante questo stadio. Il più vecchio, il più antico d’Italia, se si escludono alcuni pezzi del Penzo di Venezia. Tutto è old style, qui, dalla scritta “Gradinata Ospiti” sul cancello al colorito grigio degli alberi spogli, dalle tettoie ai palazzi limitrofi. Un senso da 90° minuto mi assale. Paolo Valenti e, perché no, pure Furino. Dentro cantano: Fuori le palle, tirate fuori le palle. Noi proviamo a contattare gli assenti. Ingiustificati, visto che dovevano farsi poco più di 30 chilometri per essere tra noi. Un sms annuncia il forfait dei romani. Undici, undici, undici leoni. Due macchine parcheggiano in fondo al viale. Angioletto, Valerio, gli altri. Non c’è tempo per i saluti. Dentro, a cercare un posto per la nostra ciurma sfilacciata.

Siamo in gradinata. Ci sono due ali di emigranti, di residenti all’estero, di foggiani fuori sede. Si nota da come seguono la partita. Noi proviamo a tagliare in mezzo. I gruppi si sono mescolati in maniera anomala. Individuiamo il nostro spazio, quello che ci ha riservato il Fato. Il Destino. Enzo, in virtù di questa sciamanica consapevolezza, chiede ad una schiera di adolescenti di farsi qualche gradino più su. Ci siamo. Il pugno, il pugno. Forza Foggia, Forza Foggia, eh, eh. Vorrei accendermi una sigaretta, vorrei non avere questo giubbino pesante, vorrei più spazio per aprire il battimani. A rondine! Ma stiamo uno sull’altro, e non c’è un attimo di pausa. Allora un coro sull’altro, senza soste, mentre chiamiamo i dispersi nella traversata. Blocco! Facciamo blocco! Tossisco per il freddo e per lo sforzo a crudo. Il Foggia attacca verso sinistra. Prende pure una traversa. Il rumore mi fa tornare alla mente Furino. In basso, tra la gradinata e la curva assente, c’è il chiosco con la scritta Bar che si illumina. I palazzi dietro sono grigi. Il cielo è grigio. Il cartellone recita: Spal, Cento anni di Passione. O qualcosa del genere. Mi sale alla mente l’ardore degli spallini. E la pasta Divella. Passione mediterranea. Sto sempre meglio. Urliamo. Chi era in astinenza da Reggio e chi s’era sorbito pure la Cavese. Finisce il primo tempo. È volato. Una scia di cappotti corre a farsi di Redbull. Io posso fumare. Sulle transenne elastiche, possiamo darci al revival. Nella ripresa il sostegno cresce di tono, ma alla lunga ne risente. Dobbiamo cantare per pareggiare il conto dei giocatori in campo. Un brusio da capo a capo: “Che ci hanno espulso uno?”, “Mi pare di si”, “E chi?”, “Salgado”, “At’bastard!”. Accendono i riflettori. Furino e Pasta Tamma.
A mezzanotte, uscite a mezzanotte. Gli spallini urlano verso la tribuna. Ce l’hanno con la squadra. È finita zero a zero. Diranno che è stata una partita noiosa, brutta, scialba. Usciamo con la consueta lentezza. “Ma com’è che contestate? Avete uno squadrone!”. Eh, beh, fa il signore biancoblu. E fila via. Noi dobbiamo ancora bere quelle venti birre nel bagagliaio. Mangiare quei panini al prosciutto. Chiedere: “Beh, come va?” ai nostri fratelli emigrati. Si decide per un paesello. Si decide per l’ovvio.

Colpa di Altedo

Altedo dista 25 chilometri da Ferrara. E 25 da Bologna. A garantirmelo è un attempato avventore del Bar dello Sport. Non credo sia vero. In ogni caso, gli faccio presente che anche se fosse, ha scelto di tifare per i 25 chilometri più comodi. Ride. Un secondo signore con la spilla del Bologna entra. Qui mi sa che sono in tanti ad aver fatto come il protagonista di Febbre a 90°, che va ad Highbury pur essendo nato a 2 chilometri da Reading. E vabbé, debolezze. Del resto, anche loro hanno perso un derby, oggi. A Parma. E, per giunta, devono sorbirsi questa ventina di individui che fanno viavai tra dentro e fuori, che davanti all’ingresso cantano Prima squadra, panchinaro, primavera. Il Bar dello Sport di questa strada-paese di 5mila anime non poteva lasciarci indifferenti. A due passi dalla pizzeria, sulla piazza, con accanto un negozio dalla sfavillante insegna Fuochi d’artificio. Aperto, nella spettrale domenica sera. Angioletto è entrato in avanscoperta. Non è detto che tutti i gestori dei Bar Sport siano simpatici zuzzurelloni pronti a ricambiare una battuta. Questo qui è bassino e tarchiatello. “Buonasera, sa i risultati delle partite?”. “Certo – replica quello con un marcato accento ferraro-bolognese – quale ti interessa?”. Angelo ci pensa: “Il Catanzaro”. Quello ride: “Me l’avessi chiesto trent’anni fa, l’avrei saputo…”. Il test è superato. Si piantano le tende. Siamo già birra-muniti, per cui si entra solo a riempire bicchieri di Borghetti o Montenegro. Colletta per una torcia da quello a fianco. 10 euro, il prezzo che ci spara. Scandalo. I 10 euri vengono reinvestiti. Sambuca e San Marzano Borsci. Il freddo è pungente. Si canta. C’è una squadra che di gioia impazzire mi fa. Dentro gli anziani sorridono e scuotono la testa. Guardano Novantesimo da una tv d’altri tempi piazzata su una mensola d’altri tempi. I tavolini sono di legno. Per strada passa pochissima gente. Quei pochi, entrano. Nicola stappa la sua seconda birra. Sembra felice. Il repertorio si srotola tra un aneddoto e qualche riepilogo. Com’è difficile stare al tuo fianco a cantare. La familia è riunita, finalmente. Certo, ci sono quelli a casa. Ma l’attimo merita d’essere bevuto e fumato. È di quelli da ricordare. “Allora… mi fai un Vov, un Brancamenta e un Punt-e-mes”. L’oste tarchiatello si gira per raccattare le bottiglie. “No, macchevveramé? Sto scherzando: tre Borghetti”. “Senza di voi questa bottiglia sarebbe rimasta qui un mese”, annuncia l’oste. “Allora facciamo 2 euro invece di 2,30”. Sotto la tv, il nostro secondo Enzo è crucciato per la striminzita vittoria senza gioco. È Giacinto a doversi accollare la dolorosa rettifica: “Guarda che il gol che hai visto l’hanno annullato”. “Cioè, voi mi state dicendo che non l’abbiamo neppure vinta la partita?”. Si parla di Maccarone, di come sia possibile che quel soggetto lì segni in serie A, quando sui display dei cellulari appare la notizia che qualcuno ha colpito Berlusconi con qualcosa. E alé. Da quando sei in C non ti seguono più. Quelli che stavano levando le tende, quelli che stavano chiamando giro, ci rinunciano. Sono le sette. “Capo, ci vediamo il tg3?”. E tutti dietro i tavolini. Seduti e in piedi. Nicola stappa la sua terza birra. È senz’altro felice. Chiedo uno Jagermeister, l’oste mi versa un Montenegro. Si parla di politica, adesso. Sinistra e destra. Un nonno emblematico fissa la scena da un’altra stanza, seduto su una sedia. Sorride. Fuori il dibattito impazza. Argomenti: la depilazione femminile e il tonno Palmera. Mattia colpisce Nicola con un buffetto. Nicola prova ad inseguirlo e rischia di travolgere la macchinetta delle sigarette. “Uagliù, avete mai visto Nicola ubriaco? No? E allora venite fuori!”. Anche questo vale la pena di essere ricordato. “Zio, mettiamo a Rai Uno che comincia il telegiornale?”, “Si, ragassi, ma io tra un po’ dovrei chiudere”, “Va bene, zio, ma prima vediamo il telegiornale”, “Va bene, ragassi”, “Zio, posso toccarti la pancia?”. Un signore parla a Giuseppe della mamma novantottenne, una ragazza che lavora in Comunità (“Quanto ti diverti con noi?”), una giovane signora in nero che s’informa da Mattia se per caso andiamo a San Remo, quest’anno. Poi due napoletani. E non c’è bisogno di aggiungere altro. Time to go. “Occhio alla neve per strada, ragazzi”. Si, si, certo. Tanto che siete sbirri vi si legge in faccia. Un giorno è nata una puttana…

01/11/09

Oggi va così

di Lobanowski 2

Domenica 1 novembre, Potenza-Foggia 2-1

Potenza dista 108 chilometri. Zio Franco sarebbe partito alle 9. Nove e mezza, toh, giusto per dare un tocco d’esotismo alla cosa. Quando gli ho fatto sapere che sarei passato a chiamarlo alle undici e un quarto, ha finto di gradire. E la finzione era tanto più evidente nelle frasi di circostanza pronunciate a cadenze fisse: “Ma si… che Potenza qua è...”. 108 chilometri. Il percorso lo conosciamo. Scialbo e svogliato peggio di Benevento. Le quattro macchine in sosta Borghetti, il freddo della prima gelata sulla Piana. S’era sparsa la voce che al Viviani avremmo giocato in posticipo serale. Ultima contro terz’ultima, notte del 2 novembre, diretta Raisport. Da brividi solo a pensarci. Invece è una domenica come tante, tediosa proprio per quel suo sapersi banale. Ridondante. D’assoluto relax. Il Foggia che ha sbancato Reggio Emilia ha fatto tornare il rossore su più d’un viso smorto. I segnali di vita di questa squadra hanno, d’un tratto, rivitalizzato l’encefalogramma della piazza. E, nonostante non ci sia stata corsa sfrenata ai cinquecento biglietti del settore ospiti, in tanti si metteranno in viaggio. C’è da scommetterci. Noi ci siamo guardati in faccia: nessuna sosta a Potenza centro, che a nessuno salti in mente l’idea beona di uno struscio in terra pacificata. Nessuna mancanza di rispetto, nessun atteggiamento da bellimbusti in gita. Ci fermeremo dopo Rionero, alla stazione di posta dove già siamo stati l’anno scorso. Quello dei briganti. Bisogna onorare l’impegno da tutti i punti di vista, anche se in tanti mostrano qualche seccatura a muoversi e s’attardano al bancone. Ci disponiamo a Tetris nelle macchine che sono le 12:10. La transe agonistica di zio Franco non gli permetterà di soffocarsi ancora a lungo. È tempo di andare. Via Ascoli, il curvone, una signora al volante che non ha capito in che direzione intende muovere. Superstrada, e sembra sempre più Benevento. Nell’abitacolo si parla poco. Del resto, ci siamo lasciati ieri notte, non ci sono molte novità. Giusto qualche commento estetico su alcune fanciulle di nostra conoscenza. Commenti neppure particolarmente trash. La trasferta abbrutisce, certo, ma questa è una pasquetta svogliata. Quindi, niente di sostanzialmente inedito. “Com’è che hai messo Bob Marley?”, “Beh, sto pezzo è bello”, “Si, ma da te non me l’aspettavo…”. Il paesaggio scorre ai lati colorato d’un rosso-giallo autunnale che sembra Linea Verde. Io attendo con ansia crescente il bagno del bar. 80, 70, 55. “Perché hai messo sto pezzo dei Punkreas?”, “Perché mi piace il ritmo”, “Si, vabbé, ma da te non me l’aspettavo”. Dovrei scriverlo sulla copertina: una compilation da viaggio non è un manifesto esistenziale. Dalla macchina che guida la carovana parte un sms: Ci siamo fermati. Ma ho lasciato il cellulare a casa. Lo leggerò a sera. Freccia, sosta, foto di gruppo. Il dramma: colui che aveva garantito che non avrebbe fatto il biglietto – 15,50 euro, per la cronaca: una rapina a mano armata – e alla fine l’ha fatto tra mille e mille bestemmie, scopre d’averlo lasciato a Foggia. Ci trasformiamo in macabre maschere di Halloween e gli giriamo attorno in un’oscena danza dell’irrisione collettiva. Non ho fame. Gli altri si, a quanto vedo. Ripartiamo, i trenta chilometri al traguardo, Potenza tra i cavalcavia, il vialone per il settore.

Un poliziotto si mette a fare storie: non possiamo oltrepassare la pattuglia per raggiungere il bar. Dice che lui a Potenza ci vive e c’è una brutta aria. Non ci sembra, ma il fiato speso a discutere è fiato perso. Un paio di colleghi stanno facendo risistemare alcuni furgoncini. Sembrano pignoli. Noi abbiamo l’innocua canna da pesca da far entrare. Nel summit della vigilia s’era detto: vediamo di non entrare a partita iniziata, che ci sarà gente e sarà difficile piazzarci in blocco. Detto, fatto. Il dibattito sulla canna si conclude (felicemente) che l’arbitro ha già fischiato e il settore canta. Le operazioni di montaggio del vessillo prendono altri cinque minuti. Entriamo al decimo. Il bandierone fa il suo porco effetto, ma noi siamo lunghi: disposti su cinque gradoni, intervallati da personaggi silenti intenti a tutt’altre attività sportive. Facciamo del nostro meglio per sistemarci. Il bandierone passa di mano in mano, finché dall’alto qualcuno ci presenta le proprie opinioni al riguardo. Non siamo in gran giornata. Un coro, forse due, da archiviare tra i bei ricordi di questo pomeriggio. Per il resto, è un compitino, una minestra riscaldata alla meglio. Ci sentiamo mal posizionati. Spero finisca presto il primo tempo, per correre ai ripari. E il primo tempo finisce. Non prima d’aver preso l’1-0 su rigore. Quel po’ di partita che domenicalmente si intuisce, al Viviani si intuisce davvero male. Segnano dal dischetto, i rossoblu. Questo lo vediamo bene. Poi il settore scende al bar, e ne approfittiamo per ordinarci un po’. Nella ripresa di solito va meglio. Oggi invece stentiamo ad avviarci: sembriamo divisi, confusionari. Troppa gente attorno è inspiegabilmente attratta dalla partita, dal suo svolgersi. Non mi chiedo il motivo. Piuttosto non capisco perché – quando si ha intenzione di godersi un po’ di calcio di Prima Divisione – immancabilmente ci si piazza tra le prime file, dove la partita si vede peggio e dove, inevitabilmente, si finisce per essere d’intralcio. Dalla balaustra si sprona l’orgoglio delle curve. Altro coro da consegnare ai ricordi. I potentini sventolano. Li ho sentiti mentre entravamo. Mancino, in mezza girata, azzecca l’incrocio dei pali. Il portiere ci arriva e devia in angolo. Sul corner, un terzino intuisce, s’impossessa del pallone, e si fa settanta metri di campo dritto per dritto senza che a nessuno dei nostri venga in mente di stenderlo. Il cross è calibrato, il colpo di testa di quello in mezzo preciso. Prendiamo gol sotto il settore. E ciò che prima era in salita, diventa salita doppia. Il Foggia siamo noi, la la la la lala… Sgonfi. Le prime file ancora reagiscono, cantano ancor prima che qualcuno provi, a quindici dal termine, a raddrizzare le sorti della sfida. Ma c’è poco da fare, oggi è andata così. Dall’alto e dai lati piovono – di tanto in tanto – improvvisi boati, fischi, finanche cori autogestiti sulle genitrici dei calciatori. Dal basso fanno notare quanto sia strano avere fiato per certe cose e non averne per altro. Si continua a incitare, ma al fischio finale è il silenzio la migliore risposta. Umore nero. Giocate senza la maglia, è l’invito corale. Ma il grosso l’abbiamo detto con quei venti secondi di assoluto mutismo. Poco altro da aggiungere.

Per la consueta sosta al ritorno s’era parlato di Melfi. Poi di Rionero. Alla fine ha prevalso la ragione: non sperperiamo denaro inutilmente, basta un caffè al solito posto. E via. La strada vola con leggerezza. “Siamo a sei punti dalla zona playoff”. Nello stereo Canzone dalla fine del mondo. Tutti sembrano gradire, stavolta.

PS: L’amico che aveva dimenticato il biglietto è poi riuscito a vedersela la partita. Ma l’amico in questione è un furbo – hanno detto tutti quelli della spedizione – e nessuno ha mai minimamente creduto alla storia del biglietto smarrito. E neppure al suo triste broncio ruffiano. Eppure, quando abbiamo sollevato la saracinesca della sede per goderci 90° minuto, il biglietto era lì. Proprio lì. Accanto alla cassa. Autentico. Che il Potenza calcio possa pagare pegno. Anche per lo scetticismo che ha circondato un uomo giusto.

26/10/09

Mi familia

di Lobanowski 2

Domenica 25 ottobre, Reggiana-Foggia 3-4

“Ma, insomma, alla fine quanti siamo?”, “Dodici”. “Quindi 9+3?”, “Si, o 8+4”.
“Ma è uno spreco!”. Certo che lo è, ma che vuoi da me se la gente desiste quando tutti hanno già fatto il biglietto? Angioletto cambia argomento. Si avverte l’eco di un’inversione col freno a mano. “Oh, oh… Nella Reggiana gioca terzino Nardini, che ha giocato a Foggia qualche mese…”. Embé? “Facciamo lo striscione Nardini Indimenticabile Eroe”. Si ricorda il caso Fornaciari. Fuori dall’autogrill c’è Hot Stuff. Non s’è ancora capito se fa caldo o fa freddo. Il Conte mi fissa con occhi appuntiti. È tardissimo, sancisce. Effettivamente. L’ora solare nuovamente in vigore, la partenza prevista alle 6 che sono le 7. Chiacchiere. Sono le otto passate. Siamo appena entrati in autostrada. Oggi la A14 è zona d’esame. C’è qualcuno che da diversi anni ha perso l’abitudine a viaggiare in massa ed oggi vuole prendersi la sua rivincita sulla storia. Lo si nota dalla sicumera di certe sciarpette al vento. Non si fa, non si dovrebbe. Esagerano, questi. C’è persino la delegazione, la carovana scortata che perde pezzi. I nostri schierano alcuni furgoni già ad Ancona. Uno smarrito dietro, nei buchi neri delle troppe soste per pisciare fuori il Long John. Noi e i golfisti. Al santuario attendiamo gli altri per due orazioni e prendere la rincorsa. Inseguire o essere inseguiti, la vita è sommatoria di punti di vista. La strada scivola lenta e veloce. Contatto telefonico continuo, vecchia compilation nelle orecchie. Non sono riuscito a masterizzare quella con Reggaemilia. La mi familia, la mi familia. L’intera carovana è un elastico sparato sull’Adriatica. Enzo mi ha detto che dobbiamo parlare di questa storia dei dodici, che così non va. Anche a noi – in quattro in macchina – manca il clima ridondante del furgone. Ma è andata così, non ripetiamo sempre gli stessi fatti.

Oggi niente piazza di paese, niente cucuzzolo domenicale, niente aperitivo. Giuseppe ha raccolto 4 euro cadauno di extra scialando su quella che riteneva essere una trasferta da 35 euro (biglietto escluso). E che si è rivelata una catastrofe finanziaria degna di un Venerdì nero di Borsa. Due bottiglie di Borghetti giacciono inermi e desolatamente vuote in un anonimo spiazzo di campagna. E secondo Nicola è meglio, molto meglio che sia andata così. Fatto sta che nel portabagagli resistono due teglie di lasagna, frutto del lavoro e della paziente perizia della genitrice del pilota. Uno sguardo all’orologio. Gli altri sono già nel parcheggio del Giglio. Non è il caso di pensare alla gola. Carosello all’Agip, e muso rivolto a Reggio. Mancano meno di dieci chilometri. Andiamo. Dello stadio – che molti garantiscono essere bello, ma la cosa non mi convince affatto – si intravedono i fari. Arriviamo al nostro spiazzo. Uno sguardo ai dintorni. C’è tanta gente. In ogni capannello, i volti di quelli che a Foggia non vivono più da tempo. L’affetto non sembra conoscere crisi. Il nostro furgone è già fermo. Mattia fa i giri su se stesso, come una dama del Settecento. Gli mancano gli sbuffi alle maniche e la gonna con le ossa di balena. La vestizione dell’eroe. La voce di un signore ci distrae da quella vista macabra: “Dove avete fatto i biglietti?”, “A Foggia”, “Aaaah”.
Biglietto e documento, Angioletto che posa per il suo pubblico televisivo, un doveroso tributo a Fabrizio Corona, il sottopasso, la scritta degli Ultras Cesena, il metal detector, il tornello che sputtana i nomi e i cognomi al resto della fila. Emergiamo a rivedere il cielo (e le mongolfiere) che le squadre sono già in campo. Il tempo di sistemare la pezza e assemblarci. Male, molto male. Sembriamo una costruzione Ikea malfatta. Lunghi, sfilacciati. La presenza dei tanti emigrati, poi, attorno a noi, non facilita le cose. Ovunque ci sono saluti, abbracci, chiacchiere da salone di barbiere, o da caffetteria del centro. Per un quarto d’ora buono. Dalla balaustra si evitano i cori secchi al minimo. Forza Foggia, Vinci per noi. Carburiamo lentamente. Di fronte, la curva reggiana non mi fa un brutto effetto. Sono in buon numero e i loro battimani sono belli. Non cantano, però, o cantano poco. Troppo poco. A parer mio, però, risultano quasi più convincenti dei cosentini. E infinitamente più dei ternani. Il Foggia passa. Il sostegno discontinuo di quelli del loggione si scarica nel boato di esultanza. E quando la Reggiana pareggia, diventa difficile riprendere. Ma poco alla volta cresciamo. Ci sistemiamo un po’ meglio: piazziamo Angioletto ai piani alti, accorciamo la linea di centro-gradone smistando Davide e Daniele al piano di sotto, spostiamo l’asse del coro a destra, riequilibrandoci. Enzo esce per infortunio. In campo, segnamo su rigore. Salgado la piazza centrale, il portiere salta come un gatto e – chiaramente – non la prende. Noi stiamo cantando ancora. Mai provata la sensazione di cantare su un penalty in luogo dell’Oooooo. Mi piace. Evoluzioni di stile.

L’intervallo ci coglie increduli, ma il bello deve ancora venire. Perché nella ripresa siamo più compatti, e il risultato è nelle orecchie di tutti. Poi Salgado inventa una serpentina che ci tiene col fiato sospeso. Quando la rete si gonfia, il settore viene giù. Quando realizza il quarto in rovesciata, rischia di esplodere. Incredulità. Stupore. Per diversi attimi ci siamo guardati attorno, prima di esultare. Incapaci di crederci. Adesso ogni coro è potente e corale, liberatorio. Il Conte torna dalla sua passeggiata ai margini del settore. Ce l’ha coi ragazzini in divisa granata – tanti – seduti in tribuna. Sostiene, fissato come certi vecchi pazzi alla posta, che dovrebbero applaudirci per la lezione di tifo che gli stiamo dando. Mattia è ormai in canottiera e la gente se lo rimpalla tra le file come una pestilenza. Il terzo gol reggiano è su rigore. Guardo il display del cellulare. Mancano 20 e passa minuti. Non me ne convinco, e chiedo lumi ad Angioletto. “Meno di dieci”, dice. Propendo per la sua ipotesi, che entrambi sappiamo falsa quanto la giustificazione di Marrazzo. Sosteniamo con le ugole, le braccia e le mani l’assedio granata. Triplice fischio. Liberazione. Non ci credo. È finito il mio incantesimo al contrario. Tra i miei compari c’è chi non vinceva fuori casa da Novara. Io a Novara non c’ero, e per ritrovare una mia vittoria si deve tornare a Tivoli. Me la godo. Vedo lo sguardo di un giocatore del Foggia mentre gli viene restituita la maglia che aveva offerto al pubblico. Mentre dall’alto cantiamo Il Foggia siamo noi. Umanamente – lo ammetto – un po’ mi spiace, ma andassero a farsi fottere! Non dimenticassero quel che ci hanno fatto subire a Terni e a Cosenza. E poi è vero che il Foggia siamo noi. Chi può dire il contrario? Tirate fuori le palle! La gente attorno prova ad aprire un dibattito: “Ma che volete da loro?”. Non ho fiato, forza, voce, per ricominciare tutto da capo. Adesso, per molti, questo è di nuovo uno squadrone da play-off… E pensare che meno di quindici giorni fa chiedevano il fallimento e la serie D. Volubili. Come i pescaresi che adesso in trasferta vanno in massa e fanno i duri. Puah! Fatto sta che i giocatori non capiscono, o fingono di non capire. Beh, è dura comprendere la psicologia di gente che ti acclama dopo il 4-1 subito a Terni e ti bastona dopo un 4-3 rifilato alla Reggiana. Dura un po’ meno, magari, se consideriamo che in mezzo ci sono state Ravenna, Marcianise e Cosenza. Unico appunto: magari certe cose andrebbero pianificate prima e meglio, per evitare di essere presi per passionali che decidono sul momento. O, peggio ancora, per psicopatici. Comunque, sono certo che i giocatori in pullman non avranno pianto. “Buonasera – fa Enzo passando accanto agli ultimi due steward – da che parte per il rinfresco?”. Quelli si guardano stupiti. “Perché, non offrite il rinfresco?”. Mattia sopraggiunge: “Chiedo scusa… Per farsi una doccia?”. Giuseppe sta litigando per un accendino, invoca la giustizia proletaria. Accanto allo stadio c’è un centro commerciale e oggi è giorno di primarie del PD. Non è più tempo per simili anacronismi. Quello glielo dice in dialetto: “Qui siamo in democrazia!”. L’accendino è perso per sempre. “Arrivederci, ma il servizio non è stato all’altezza”.

Cronache di Fano

E così s’è fatta sera. Un ultimo brindisi all’autogrill, a due passi da Bologna. Valerio s’è perso. Doveva scendere a Modena. E doveva scenderci in treno, oltretutto. Sabrina mi offre generosamente parte della sua Ceres, il bagno ricalca atmosfere da giungla alle pareti. Ci sono i tifosi di una squadra gialla. C’è anche una rossa che tutti hanno notato. Un plauso ai lavavetri extraterritoriali. Via. Una tirata verso il mare. Uscita Fano, direzione stazione. Bisogna mollare Angioletto. Bisogna mollarlo a Manu, ad Aurelio, ai suoi doveri. Devono ripartire, nuovamente emigranti. Si addensano abbracci e baci da straziante saluto, all’orizzonte. Ma prima, ci sono le due teglie di lasagna. Il baretto sulla piazza è aperto alle otto e mezza. È un evento straordinario, ci dicono. Uno strappo figlio del destino, evidentemente. Qualcuno deve aver visto la stessa stella cadente che ho visto io, e deve aver chiesto un bar aperto a Fano. I sospetti di addensano su Giuseppe, che corre a constatare quanto una Moretti grande costi 3 euro, in queste lande così simili a Tolentino, la prima sosta di questa new age. Tra qualche giorno il gruppo compirà un anno. È molto più grande di Aurelio, ma tra qualche anno potranno giocare assieme. Non un anno dall’inizio, certo, altrimenti saremmo già nel secondo, ma uno dalla prima volta della pezza. Ci eravamo ripromessi cinque trasferte di prova, per testarci. Nessuno ci sperava più di tanto, però. Invece, tra qualche giorno potremo brindare ancora. Angioletto brinderà in chat, che vuoi che sia la fisicità della presenza? Un dettaglio, niente più. Non pensiamoci. La piazza è vuota, un bambino gioca con la palla e non ci coinvolge. Bastardo. Tempo di andare. Abbracci e baci. Il momento straziante del commiato si limita il più possibile all’antiretorica: “Ci vediamo a Ferrara”. 13 dicembre. Mancano due mesi. Passeranno.

12/10/09

La linea del novantesimo

di Lobanowski 2

Sissignori, io affermo che Waterloo consacrò Napoleone più delle tante vittorie, delle quali infatti non ricordo né date, né luoghi. Quanto a voi, maestà, avete oggi dimostrato che il vostro modo di perdere è, senza dubbio alcuno, davvero… imperiale. (Wu Ming)

Giuseppe mi scrive: Ma non pensi sia esagerato partire alle sette?
Io non devo pensare, rispondo. Io sono un soldato.
Soldato della vera fede, sanfedista d’altra specie. Vado incontro al destino, anche quando è prevedibile più di una fetta biscottata a colazione. La sveglia rumoreggia che fuori è ancora buio. La strada è quella che punta a Sud. Anomalie del girone B, la cosa sembra strana. Non scendiamo da gennaio. Direzione Potenza. Si punta sulla carovana. I furgoni precedono le nostre due macchine. E ci sfuggono dopo meno di un quarto d’ora di marcia. La prima sosta è in aperta campagna. Il Conte fa il botanico, l’umore – come al solito – è alto. Non ci sfiora l’idea di come abbiamo abbandonato lo Zaccheria sette giorni fa: i cori contro la società, le critiche sempre più aperte all’impegno (oltre che alla qualità) dei ragazzi. Se ne parla incidentalmente. A Cosenza fa freddo e piove, dicono gli oracoli. Abbiamo le prime felpe della stagione, ci sentiamo in una botte di ferro. I segnali che indicano la Salerno-Reggio. Proseguiamo per Brienza, paese natale di Mario Pagano. Non possiamo non fermarci. Il viale che porta al castello è coperto da una coltre di nubi grigie. Pioviggina. Ci ripariamo in un bar. La signora al banco ci narra delle vicende dell’illustre cittadino mentre raccatta bicchierini di vetro, poi – dinanzi allo sfoggio di erudizione del nostro autista – si rifiuta di venderci una bottiglia di Borghetti. Il suo collega a cinquanta metri è più malleabile. Tre ragazzine completano tre vasconi del viale nel tempo della contrattazione. Spunta il sole e l’autostrada senza pedaggio comincia a scorrerci sotto le gomme con una serie di strani zig-zag. Notizie dagli altri: sono a Sibari, o giù di lì. Altri cinquanta chilometri e saremo nuovamente un convoglio unitario. Si ammazza il tempo raccontando di quella volta che Delio Rossi fu inseguito – con tutta la sua nidiata di svogliati campioncini – da Ancona fino alle porte della tribuna. Strani presagi, mentre le montagne disegnano un orizzonte ispirato. All’autogrill di Tarsia c’è l’intero plotone di foggiani al seguito. Sette furgoni e le nostre due macchine. Un’ottantina scarsa di elementi. Un tempo badavo molto ai numeri, agli esodi, alle svariate invasioni. Oggi non mi sento di criticare più di tanto chi è restato a casa. O, meglio, non mi preoccupo di loro, non li detesto e non li invidio. Come Enrico d’Inghilterra sul campo di Azincourt, “Se è destino che si muoia, allora siamo già in numero più che sufficiente”. Una volante della polizia ci attende allo svincolo per Rende. Scortati. Transitiamo per una indefinibile periferia. Un cancello aperto accoglie i veicoli. La caserma. C’ero già stato nel 1995, e non sembra cambiato niente. Mi lascio assalire dalla nostalgia mentre un operatore videoriprende le perquisizioni dei mezzi. Via tutte le aste dalle bandiere. Una domanda a mezz’aria: “Ma come si sventola così?”. La più classica delle risposte: “Non dipende da me, sono disposizioni e ci atteniamo. Però – si sente di aggiungere il milite – non appena finita la partita ve le restituiamo”. Sguardi perplessi. Ha smesso di piovere, il cielo è grigio, l’aria è afosa. Il San Vito è vecchio decrepito: uno stadio malmesso, monumento esso stesso di un calcio oratoriale spazzato via dal tempo implacabile. La polizia fa filtro nelle due vie d’accesso al settore. C’è un tornello. Ci sono due steward.

Aspettiamo che i due piloti tornino dal parcheggio. La nostra jolly roger è rimasta com’era, attaccata all’asta con determinata ostinazione. Sfuggita al frugare, è disinvoltamente passata aldilà del cancello. Chiedo: “Ma come avete fatto?”, “Semplice – è la risposta – sventolando”. Mi viene in mente Fantozzi e la sua radiolina. Il posto più sicuro per chi nasconde è sotto il naso di chi cerca. Abbiamo uno spicchio di curva, speculare a quello dei padroni di casa. Sono divisi, dall’altra parte: un buon gruppo sopra il generico striscione Curva Sud, uno piccolo ma compatto sullo striscione Brigate. Un tempo gli ospiti si accomodavano in un angolo alto della gradinata. Fa caldo. Si appendono le pezze. Mancano dieci minuti all’inizio. C’è una specie di sospesa indifferenza nell’aria. È ben lungi dall’essere una bolgia, questo stadio. Un tempo era diverso, ma adesso non c’è più tempo per rimpiangere il tempo andato. Ci compattiamo, ma sembriamo sfilacciati. Dobbiamo sostenere i ragazzi, sperando in un’insperata riscossa. Ma soprattutto siamo qui per noi. E partiamo in sordina. “Tu devi gridare, non cantare!”, urla Angioletto, dal volto contratto e per niente addolcito dalla paternità. Il Conte dopo un po’ si preoccupa, e comincia a guardarsi attorno. Poi annuncia: “Non è a me”. E urla il solito: “Diamogli una lezione di tifo!”. Squadre in campo. Quel che accade in campo non è degno di interesse. Di solito, lo si intravede appena. Ma stavolta non c’è bisogno di un esperto per notare che i nostri sono più pietosi del solito. In macchina con noi sono venuti un paio di Nocivi. Abbiamo parlato anche di questo: di come probabilmente la questione societaria abbia shermato l’incapacità dei ragazzi, finendo per sottrarli alle contestazioni che meriterebbero. Oggi sembra chiaro che è così. Dopo il consueto quarto d’ora, prendiamo un gol ridicolo. Noi cantiamo, alziamo i decibel. A volte sembra un gioco: cantare a squarciagola nelle situazioni disperate per dimostrare mentalità o chissà cos’altro… Potrebbe quasi sembrare, ad occhio estraneo, una specie di goduria rovesciata, un piacere perverso nell’atto del protomartirio. Non è così, ed è dura da morire. Un decennio tra terza e quarta categoria, unito all’amore profondo per la quella maglia e i suoi colori, provocano fitte lancinanti ad ogni rete subita. Ma siamo qui per dimostrare che non ci arrendiamo. E allora svolgiamo il compito a dovere. Incassiamo il secondo e il terzo. La partita è chiusa alla mezz’ora, o giù di lì. Fa male, altroché. Ma siamo a Cosenza, a 400 chilometri da casa. In ottanta. Rappresentiamo Foggia, non possiamo metterci a fare capricci come bimbi viziati. Con la squadra, la società, ci sarà modo di discutere. Ma qui si incita fino al novantesimo. Il malumore è nerissimo. Il caldo, apertamente africano. In bagno, alla fine del tempo, volano battute amare e ciniche. “Mario, ti va bene il pareggio?”, “Neanche per sogno, questa la dobbiamo vincere”. Mi chiama Antonio dalla cabina: ridere o piangere per questa squadra senza spina dorsale? Impossibile dirlo su due piedi. Ho visto io stesso uno dei nostri difendere palla sulla linea di fondo, a mezzo metro dalla bandierina; chiamare a sé, palla al piede, un difensore rossoblu; alzarsi il pallone, come a preannunciare un gioco di prestigio, una magia. E al secondo palleggio indisturbato, osservare il pallone uscire fuori. Nella ripresa prendiamo anche il quarto. È una disfatta. Non ci resta che usare l’ironia. Andiamo, andiamo, andiamo a vincere. E attendere la fine. Che pure arriva. I nostri pensano di venirci a salutare. Il nostro è uno di quei gesti che – nel suo piccolo – fa la microstoria di questa stagione: tutti di spalle. Meritiamo di più! Sbircio i giocatori chinare il capo, tristi come bambini. Ma davvero pensavano ad una benevolenza infinita? Mi torna alla mente l’inseguimento al pullman di Delio Rossi. Mi torna in mente Sanò. Uno mi guarda dal gradone di sotto: “Se ne sono andati?”. Si, si, puoi girarti. All’uscita prevalgono le note di Lupin. Poi è una serpentina tra le vie. Tifosi cosentini ci passeggiano accanto. Non fanno in tempo a sfotterci che rimangono sfottuti: quattro, quattro, ripetiamo con le dita. Loro non capiscono. Il blindato della polizia ci accompagna fino all’uscita della città. Non abbiamo ripreso le aste. Lo Stato ha disilluso una formale promessa. Faremo formale protesta.

Look back, Look back, Atena was black

Dormi sepolto in un campo metano, Non è la rosa non è il gas propano.

Un sole giallo copre la distanza tra la statale e le montagne. La strada è nostra, nostra è la serata. Comincia l’avventura. Nicola reclama il suo abbeveraggio di metano. Giuseppe, su Google, aveva parlato di Castrovillari. “Ma Castrovillari dove?”, “Castrovillari”. Chiediamo ad un motociclista appiedato che fa la guardia ad un drink bar. Gesticola. Ci narra di una rotonda e di 400 metri sulla sinistra. Ringraziamo. E quello, per tutta risposta, incalza: “C’avete un euro? Cinquanta centesimi?”. Prima sbandata in campagna. Ripieghiamo. Un benzinaio ci racconta di una seconda rotonda, e di un chilometro da fare a destra. Ci impelaghiamo nella natura silvestre. Troviamo la Esso. Ma è chiusa. Il Conte, con la felpa raccattata dagli scarti di uno zingaro felice, s’avvicina ad un elettricista e cerca di convincerlo a mettere in funzione il distributore. Quello non sa come spiegargli che la richiesta è assurda. “Che ha detto l’addetto?”, “Non l’ha detto”. Ripieghiamo ancora. Scartiamo l’ipotesi del bar in piazza e sfidiamo il tempo. Il prossimo distributore è a Sala Consilina. I chilometri ascensionali sono tutti in una strada nera a due corsie, immersa nel nero della vegetazione. No surprises dei Radiohead ci fa da ipnotica colonna sonora. Allo svincolo per Potenza, seguiamo la sorte. Una salita, un paio di curvoni, un cartello. Benvenuti ad Atena Lucana. Non ci pensiamo due volte. Parcheggio e bar. Buonasera. Il momento che storicizza le trasferte. Panzerotti e birra. La ragazza che gestisce il bar, popolato da una decina di ultrasettantenni, si incuriosisce: “Ma che ci fate qui?”, “Andiamo a vedere la partita del Foggia”, “E a che ora gioca? Alle otto e mezza?”, “No, ha già giocato”. Resta basita. Tifa Napoli, ci confida. Ne approfittiamo per chiederle se il tappo del Borghetti al San Paolo sia effettivamente azzurro. Nega decisamente. Un’altra leggenda sfatata, siamo come il Cicap. In tv va la Salernitana. Fuori il buio e la curiosità. Girano foto oscene. Mi torna in mente che stasera, alle undici, Espn trasmetterà lo speciale sulla cosiddetta Zemanlandia. Dentro di me spero di trovare mio padre già addormentato. Non accetterei un sorriso modello bei vecchi tempi dopo una giornata come questa.

05/10/09

La contestazione e la viltà

di Lobanowski 2

Il Licata passò in vantaggio con un colpo di testa di La Rosa. E lo Zaccheria esplose. Un boato che precedette di poco gli applausi ai siciliani, che uscivano dal campo increduli, salutando lo sportivissimo pubblico rossonero. Undici anni e guardavo mio padre, che si spellava le mani. E più le batteva, più – inspiegabilmente – pronunciava insulti e bestemmie. A me veniva da piangere. La grande speranza della promozione in B – tessuti, ossa e membra della mia prima familiarità calcistica – svaniva. E tutti attorno a me, mio padre e gli amici, applaudivano i sicari. Trovai il coraggio di scattare. Ma perché applaudite, traditori? Mio padre mi guardò come si guardano i bambini. Mi zittì. Avrei capito da grande.

Non so di preciso cosa non mi andasse giù di quell’atteggiamento. So che non mi andava, che lo percepivo come ignobile diserzione. E tanto bastava ad accendermi.

Il Giarre s’impose con una partita accorta. Punì la sicumera del Foggia di Peppino Caramanno che faceva esordire Pasquale Padalino. Mancavano poche giornate al termine del campionato. Lo Zaccheria, nuovamente colmo come un uovo, applaudì i gialloblu siciliani. Un pubblico corretto. Correttamente vigliacco, incapace di soffrire con dignità, di esporre il petto al fato avverso senza fingersi in dubbio, senza tentare di saltare dall’altra parte.

Perché l’applauso, il tifo improvviso per la squadra che sta sbancando un sogno, è moto di impazienza, rassegnazione, viltà. È come togliere la faccia dal carro del perdente. All’ultimo momento, sperando che nessuno se ne accorga.

La contestazione. Dopo una settimana passata ad ascoltare gli esperti in dietrologie che accusavano i gruppi organizzati della Sud e della Nord di non voler contestare per paura di perdere chissà quali prebende; dopo una settimana passata a dare retta agli strepiti di quelli che promettevano tempeste; a fingere interesse per quelli che sapevano in anticipo come sarebbe andata a finire, si è materializzata.

Sette giorni. Sono bastati sette giorni. Alla vigilia della trasferta di Terni, qualcuno s’inoltrava nella fitta selva dei pronostici azzardati: Con un po’ d’esperienza, questa squadra può puntare ai playoff. A Terni, a detta di quelli che hanno seguito la partita in tv, abbiamo disputato il miglior primo tempo di questa stagione. Poi il Ravenna, nell’infrasettimanale.

Al 2-1 del Marcianise è stato impossibile arginare il malcontento. Una specie di onda d’urto s’è abbattuta dagli angoli della Sud al centro del settore. Contestazione. E ci sta, anche se bisognerebbe sempre attendere il triplice fischio. Al terzo gol, lo Zaccheria è tornato ad essere oasi di vigliacca sportività: l’applauso. Finanche una specie di boato. E no, non ci sta proprio. A dispetto di quanto sperava mio padre, sono cresciuto, ma non sono maturato così tanto. I gol della squadra avversaria non meritano applausi. Mai. Neppure per dimostrare ai nostri il nostro malcontento. Tutti via. Un impeto di protesta senza obiettivi e alternative. La scossa all’ambiente. Ok, ci sto. Si va sotto la tribuna. E, tra una pineta di mani che innalzano cellulari che videoriprendono, chissà com’è… ci sono solo i gruppi. Quelli delle prebende.

Adesso le chiacchiere della piazza s’inseguono ridondanti: la colpa non è dei ragazzini (che poi tanto ragazzini non sono), la colpa è degli otto soci (che otto non sono più da tre anni). Senza di loro, col Foggia in vendita a costo zero, vedrete che si faranno avanti i veri acquirenti. Don Pasquale Casillo, dice la folla. Questi ci hanno preso per culo fin troppo (e tu lì a far presente che abbiamo centrato i playoff per tre anni di fila), non hanno speso una lira (sebbene Dall’Acqua, Salgado, Campilongo non siano stati proprio investimenti facili), devono andarsene. E far spazio al Tim Burton di turno che manderà in sollucchero questo sportivissimo pubblico occasionale. Salvo poi rivelarsi un pupazzo di pezza. E far esclamare alla folla che ora vuole il fallimento e la serie D, che “…quanto meno all’epoca dei soci abbiamo sfiorato la B”. Corsi e ricorsi di una piazza a cui – gruppi esclusi – la C sta fin troppo larga.

28/09/09

“Insò, come l’hai visto sto Foggia?”

di Lobanowski 2

Prologo sentimentale

È sempre la stessa storia. Quando li rivedi – pieni di difetti, brutti e malandati – e percepisci il ronzio del ronzino a nove posti che ti spiana la strada verso una nuova inspiegabile meta, ti chiedi – e non puoi farne a meno – cosa diavolo ti ostini a frequentare certa gente. Cosa ci trovi di affascinante, stimolante, finanche di spassoso, in questi derelitti figuri. Poi passano ore. E, dopo una parentesi passata a sgolarsi contro un campo verde, arriva sempre – sistematicamente – il momento in cui sembra che la fata abbia toccato il touch screen della realtà e immortalato una qualche forma di serenità, se non proprio di perfezione, che ti fa dire a te stesso che si, non vorresti essere con altri che con loro. È una specie di oblio, o di febbre della corteccia cerebrale. Lo ammetto, per quanto paradossale possa sembrare – e basta vederli per comprendere il paradosso! – ma è così. Dannatamente così.

Cronache

Prendi il Transit che non arriva. E quello che non s’è capito se ha fatto nottata e si sta guardando i piedi sull’uscio, dopo aver steso un bandierone sul marciapiede; quello che, piegato al sonno, sta guardando i cartoni su Rai tre e farfuglia di un pony da inseguire. Quello che fa ritardo, che poi sono due o tre, e quelli fraccomodi che li dobbiamo passare a prendere quasi sotto casa. Uno adduce la scusa della recentissima paternità, ma sta cosa non ha senso. Nervosismo geografico. La posizione di Terni, lì in mezzo, non favorisce plebisciti. Noi, fino a venerdì sera, eravamo fermi sostenitori dell’Adriatica fino a Civitanova e della superstrada per Foligno; poi, dopo diverse consultazioni, abbiamo virato per la classicissima Campobasso-Venafro-Roma, e il pezzetto di autostrada fino a Orte. Tanto più che ci aspettano anche i cinque che salgono dall’Urbe. Ci siamo svegliati con questa convinzione. Anche Google Maps era d’accordo con noi. Risparmio chilometrico ed economico. Poi una telefonata, che come il sorriso all’improvviso nella canzone degli Equipe 84, stravolge i piani. Casello e nervosismo. Ritardo e nervosismo. Autogrill e nervosismo. Inseguimento e nervosismo. Alla fine ce la facciamo. Ci ricongiungiamo al gruppo e sostiamo lietamente nell’area di servizio. Di brutto c’è che abbiamo imboccato la Pescara-Roma. Autostrada fino a destinazione, un salasso imprevisto. Nell’abitacolo, Giuseppe guida masticando foglie d’odio, ingoiando bile nera. Angioletto tiene sveglio il pilota narrando fluviale una quantità di storie sugli ultras della Lodigiani, del Mosciano e del Ponticelli che, per poco, non producono l’effetto catastrofe che vorrebbero scongiurare. C’è sempre una “catastrofe iniziale”… La seconda fila sembra dormire, la terza è irraggiungibile, una specie di settore ospiti furgonato. Lo stereo spara Spirito dei Litfiba, poi Pseudofonia fino alla certezza che abbiamo perso gli altri. I cellulari non servono a granché nella Valle del Salto. Troviamo i romani all’uscita di Orte, dopo esserci purgati di 30 euri superflui al casello. Non è ancora l’una. Conviene trovare un bar e riordinare le idee per il degno ingresso a Terni.

La zona industriale è un rettilineo, il primo posto di blocco è all’imbocco del Liberati. Biglietto alla mano. Un ricordo svampito: la mia patente sul mobile all’ingresso di casa. Mani nelle tasche: non ho neppure la tessera sanitaria, o quella della videoteca. Un problemone, dice lo steward, che s’appunta i miei dati autocertificati. Sabrina, per un disguido dell’ultimora, si chiama Gianluca. Sarà difficile da spiegare, il cambio di sesso è ipotesi da scartare. Il setaccio all’ingresso lascia intendere che qualcuno, da queste parti, attende una provocazione per scattare. Gli addetti ai controlli e ai metal-detector sono zelanti. La celere osserva. Ogni ingresso apre un nuovo fronte di confronto: la bandiera è troppo grande, è troppo rossa, è troppo nera. Io arrivo al tornello e vengo sputato indietro. Dal funzionario capo c’è anche Sabrina, intenta a spiegare di non essere un trans ed ambire al cambio di nominativo sul tagliando e non al cambio di generalità. Si apre la pezza. La scritta in volgare albionico non è immediatamente “percettibile”, dicono. Quindi resta fuori, a fare compagnia alla Jolly roger, fuori ma senza spiegazioni. Meglio non cadere in tentazione, meglio non accendere focolai di tensione. Abbiamo quindici minuti di sciopero del tifo da mettere in pratica. Ci sono cose più importanti di un pezzo di stoffa, anche se è per quel pezzo che viaggiamo. Anche se quel pezzo siamo noi. Giuseppe garantisce per me e varco il mostro dalle porte girevoli. Posso così assistere allo spettacolo delle perquisizioni dall’altra parte della barriera. Il metal detector emette un suono da orsacchiotto di pezza che suscita ilarità. Facciamo blocco. Assestiamo un paio di inni a Maroni che siamo ancora fuori dal settore. Lo stillicidio dei perquisiti è una saga commovente. Entriamo con le mani in alto ed in bocca una canzone, come cantava Ligabue. Lo stadio ci accoglie con una bordata di fischi. Avevo vaticinato ai miei che, semmai avessimo espugnato Terni, il gol l’avremmo segnato intorno all’ottavo minuto. Giusto per toglierci il gusto d’esultare. Invece siamo sullo zero a zero. I nostri hanno retto il quarto d’ora di sciopero contro la tessera del tifoso. Ci hanno visti entrare e si sono rilassati. La Ternana passa che ci stiamo ancora sistemando. Un gruppetto di ragazzini, dalla gradinata, ci fa gestacci. Fatichiamo a compattarci qualche minuto più del dovuto. Fa caldo e si sente l’umidità. Siamo in alto, quest’anno, inversamente proporzionali alla squadra. I cori partono in sordina, ma il primo tempo vola via senza particolari acuti. Loro, di fronte, sono tornati a fare tifo. Saranno trecento, il che significa più del triplo di quanti ne sono stati in questi anni di buio. Longarini, dicono, è il colpevole della disaffezione. Come Matarrese lo era a Bari. Sono bastate tre vittorie consecutive per tornare a popolare la Est, proprio come a Bari è bastata una promozione in A per riempire il San Nicola. Il tifoso è animale volubile. Hanno cantato e qualche volta si sono anche sentiti. Ma i momenti di silenzio superano di gran lunga i momenti di passione. Mi si potrà dire che anche noi l’anno scorso eravamo più del triplo. E non posso che confermare. E ripetere: il tifoso è animale volubile. La differenza è nello zoccolo.

Nella ripresa partiamo bene, in campo e sugli spalti. Sul rettangolo verde non sembra che i ragazzini si siano arresi. Per un paio di volte sfioriamo il pari, ma la Ternana è sorniona e ci controlla. Sugli spalti, i vecchi freak sono stanchi, o almeno così sembra. Tra di noi si spaccia acqua liscia. La gola è già una piaga. Insistiamo, cresciamo di intensità. Prendiamo il secondo. Ed è una benedizione divina. Senza l’intralcio della partita da seguire a sprazzi, ognuno si concentra sul proprio ruolo. L’orgoglio, in questi casi, diventa puro spasso. Mani in alto! A rondine! A rondine! Noi siamo qua, Sempre con te, Unica fede in tutto il mondo intero, Io canterò, Ti sosterrò, Ovunque adrai Us Foggia. Il Liberati esulta, liberato dallo spauracchio. Forse siamo pure rimasti in dieci, non ho capito. I ragazzini della gradinata tornano all’assalto, si piazzano sulla balaustra di confine per farci le boccacce… e ci trovano canterini. Si guardano perplessi, poi uno tira fuori il cellulare e comincia a riprenderci. I tabellini diranno che si era al minuto 53. Al minuto 58, quando prendiamo il terzo, il coro è ancora lo stesso. E il ragazzino non ha ancora smesso di video riprenderci. Cantiamo, cantiamo, cantiamo perché, è magico il Foggia. Il battimani è un’arte nella quale – qualcuno mi smentisca – siamo cresciuti tantissimo. Da un po’ sono metallici e corali, roba da fare male ai palmi. Antonio, nell’ilare dopopartita al gusto di luppolo, mi dirà che questo – il 3-0 per loro – è stato il momento in cui ci siamo sentiti solo noi. Il Conte, cuffietta da partoriente in testa e adipe in bella vista, passa in rassegna le linee. Lo sprono è sempre lo stesso: “Diamogli una lezione di tifo!”. Canto per te, solo per te. Il gol di Quadrini fa impazzire Enzo, che emula – solitario – la curva del Gremio. Angioletto avrà modo di ripetere all’infinito quanta infinita pena provi per quei poveri baresi che sono andati fino a San Siro e non hanno visto neppure un gol della Bari. Noi uno l’abbiamo visto. Prendiamo il quarto. E alla fine succede un fatto strano, che non so come interpretare, sul momento. La squadra viene sotto il settore. Certo, il ringraziamento a chi ha offerto sostegno incondizionato ci sta, è quasi doveroso, direi. Ma qui si va oltre. Milan, che è un ragazzino ma sembra avere più personalità di tutti i suoi compagni, precede gli altri. Giunge le mani e poi saluta, quasi a chiedere scusa della prestazione, del risultato. Ma giù ci sono una quarantina di persone che saltano e gridano, e allora la squadra per intero si denuda per regalare cadeau. Non so come prenderla. Non vorrei s’abituassero troppo a questo clima da festa continua. Non vorrei credessero che tutto gli è concesso in nome della giovane età. Uno grida, rivolto ai ternani che abbandonano lo stadio: “Infami! Ve la siete presa coi ragazzini!”. Altri in tribuna, ed è ancora Antonio a raccontarmelo, interpellano i giornalisti foggiani per chiedere spiegazioni di quanto sta avvenendo: “Ma li festeggiano?”. Io non mi sono mai accalcato a una balaustra per ottenere una maglietta. E quando Enzo e Giuseppe tornano dalla missione con due cimeli, non posso fare a meno di guardarli sospettoso. All’uscita una macchina di tifosi di mezza età ci affianca: “70 euro per la maglia del numero 2. Se vuole quella dell’8 deve salire a 80. Perché non è neanche sudata…”.

Cronache di Narnia

Un funzionario ci affianca: “Andate a Roma o Rieti?”. “A Roma”. “Ok, allora seguite me. Vi porto sul raccordo”. “Ma noi non dobbiamo andare a Roma, scendiamo a Narni”. “E si, vi porto io. Sul raccordo”. “Ma noi non ci vogliamo andare sul raccordo”. Un dubbio. “Ma che chiamate raccordo la circonvallazione?”. “Si”. Il Grande Raccordo Ternano. Sfiliamo tra macchine ferme al semaforo. Una vigilessa scruta da sotto le falde di un berretto troppo largo. Il funzionario accelera per sfuggire ai nemici invisibili. Noi acceleriamo per non perderlo di vista. Dietro di noi, altre macchine accelerano. Punta la zona industriale. Cartello Orte. Accelera. Noi dietro, dubbiosi. “Ma noi dobbiamo andare a Narni. C’è un bar che ci attende”, protesta l’abitacolo. Quello va, non può ascoltare le nostre lamentele. E quando giunge al bivio, lasciamo che sfrecci verso il Raccordo. Senza di noi. Lui a destra, noi a sinistra. Liberi. Liberi di abbrutirci, come sempre avviene quando usciamo dai Tre Archi. Angioletto, per esempio, oggi ha optato per il maschilismo militante. Puntiamo su Narni, il paese delle Cronache. Strapiombi spettacolari e sentore di prezzi altissimi. La piazza con la fontana, la fiancata della cattedrale e l’imbocco del centro medioevale, è un gioiellino dove convivono macchine in sosta e vigili di guardia. Strappiamo un permesso da dieci minuti per una birra. Tavolini di legno, frescura settembrina, scarica di birre grandi a prezzi tutto sommato accessibili. E i dieci minuti diventano un’ora. Eccolo: il momento perfetto. Come Gualdo Tadino, come San Giorgio del Sannio. Il momento in cui queste brutte facce che mi circondano si trasfigurano e diventano quel che rappresentano. Poche storie. Lasciamo la piazza con una manovra ardita. Il barista si avvicina al finestrino. Chiede, con malizia, se sappiamo qualcosa di quelle tre bottiglie di Heineken scomparse dal cartone. Il vigile e la vigilessa si mettono all’ascolto. Giuseppe, volante alla mano, è sincero: “Guarda, ne ho bevute cinquanta pagandole, perché avrei dovuto rubarmene tre”. Il vigile, di fronte a tanta rinfrancante onestà, non è affatto sfiorato dall’idea di indagare su quell’autista alcolizzato. Ma, convinto, annuisce: “Eh, già”, dice rivolto al barista che scompare nel suo negozio. Narni è storicamente la rivale di Terni, come Jesi lo è naturalmente di Ancona. Quando torniamo al bar della frazione, seconda sosta in meno di dieci chilometri, la signora che ci aveva augurato buona fortuna all’andata è ancora lì e chiede: “Beh? Com’è finita?”. Angioletto, sotto tiro, risponde con enfasi: “Abbiamo fatto un gol bellissimo, signora… roba da non crederci… quanto costa la Tennent’s?”. Sulle sedie di plastica al margine della provinciale, la sosta che doveva essere un celere pit-stop diventa bivacco. È buio. Amici ci chiamano che sono a Cassino. “Voi?”, “Sulla strada”, è la risposta più diplomatica che riusciamo a dare. Cantiamo l’intero repertorio daccapo, che la signora è convinta si tratti di entusiasmo post-vittoria esterna ed immagina una sbronza colossale. Del resto, mai avrebbe immaginato stamattina di finire la scorta di Borghetti. Solo alla fine scoprirà che abbiamo perso 4-1. A Orte imbocchiamo l’autostrada per Napoli. Ci fermiamo a fare benzina. Per fare Daspo, ci vuol Borghetti. Sei Faxe da litro. La festa, tra balli tribali e canti, prosegue. Uno sguardo all’orologio. Sono le 20:25. La partita è finita alle 16:50. Sono passate tre ore e mezza. Terni è 30 chilometri.

14/09/09

Foggia-Lanciano o Dell'età adulta

di Lobanowski 2

Venerdì 11 settembre, ore 23:30

Porte chiuse, blindate. Lo sapevamo. Ma ci siamo lo stesso. Non potevamo mancare. L’appuntamento è di quelli che si onorano, costi quel che costi. Macchine nel parcheggio. In prima linea quelli con le vettovaglie, in coda quelli con le bottiglie e i bicchieri di plastica.
Dalle notizie che trapelano, in campo, oltre il limite invalicabile, c’è sofferenza, tensione, passione. Uno sforzo agonistico che dura da un po’, oramai. Non ci aspettavamo niente di meno. E affolliamo il settore. Sudore, pathos, emozione. Tutto mischiato, tutto compreso.
L’impianto – saturo di indicazioni, frecce, cambi di direzione – trasuda anni Ottanta. Odora di brodo. Fa un caldo che non ci si crede.
Le avanguardie salgono al terzo anello, nel settore precario che ci è stato riservato, immerso in una oscurità da thriller scandinavo. Noi, in quattro, restiamo giù a fare da balia al pastore tedesco in miniatura. Retrovia e carriaggio. Il buio circonda la struttura. Rare luci da serenate alle finestre. Il clima ideale per questo genere di sfide. Siamo fuori, ma non conta. Del resto: i primi dieci minuti, i primi dieci minuti, i primi dieci minuti, non li vediamo mai. Senza contare che il nostro esserci-non esserci può essere anche letto come una protesta sfacciata contro il calcio moderno. E sia.
Neanche il tempo di sintonizzare le radioline, di scambiarci due chiacchiere sulle stagioni, l’invariabilità della natura, le dure leggi del mercato. Che dall’alto giunge il boato.
Uno sguardo fugace e carico di speranza. Occhi negli occhi, negli occhi e negli occhi ancora. Non c’è bisogno di aggiungere parole. Sono i nostri. Inconfondibili. È fatta.
Dopo cinque ore di travaglio, Manuela è diventata mamma. Angioletto papà. Noi zii.
Ascendiamo al terzo anello.
Gooooool!

Nell’atto di venir fuori dalla sala, il medico ha aguzzato lo sguardo per capirci qualcosa oltre le lastre spesse dell’oscurità svedese di cui sopra. Di fronte deve essergli palesata una selezionata schiera di fuoriposto, più adatti a un chiosco che a un reparto maternità. Non a caso, si è ritratto e alla prima donzella adocchiata ha confidato quel che aspettavamo con ansia: - La signora ha partorito.
Ceska, che era la donzella in questione, ha assunto una faccia da schiaffi ed ha chiesto un supplemento d’informazione: - Davvero?, ha concluso. E quello, serio, di rimando: - Perché, aveva dubbi, signorina? La notizia s’è propagata come un monsone nel Sud-Est lungo la dorsale ospedaliera.
Il boato.

Avevamo pensato a lungo a cosa avremmo fatto. Bandiere, torce, striscioni. Ed ora che ci siamo, non possiamo che recriminare sull’orario e il contesto. Accendere un fumogeno e far scattare un coro a mezzanotte dell’undici settembre, nel corridoio, accanto ad un’altra famiglia in tensione per un travaglio complicato, non sembra proprio il caso. Rinunciamo a malincuore, ma ci facciamo riconoscere ugualmente. Nei limiti del possibile.
L’infermiera fa capolino con una specie di teca con le rotelle. Due buchi appena per il respiro del piccolo. Due passi ed è inghiottita dalla folla. “Ma quanti padri ha questo bambino?”.
I cellulari inviano frenetici segnali agli assenti (presenti). Ci siamo, urlano ai quattro venti.

Il pensiero: uno striscione, rosso e nero su stoffa bianca, all’angolo della curva sud: Benvenuto Aurelio!

Domenica 13 settembre, Foggia-Lanciano 0-0


Angioletto appare da Salvatore che sembra un divo cinematografico. Due ali di folla lo chiamano, lo invocano, gli concedono pacche sulle spalle e congratulazioni. Succede così, di solito. Quello che ha meno meriti di tutti, viene osannato più di chiunque altro. Come un eroe. Il genio militare di certi condottieri all’asciutto magnificati dalla Storia per le vittorie dei fanti infangati. Succede così ai padri. Cameratismo maschile all’ombra rassicurante dello “Zaccheria”. Domenica di settembre. Il neopapà è sfuggito per due ore al calore asfissiante e ai sentori di brodaglia del reparto. Poteva permetterselo, a differenza della mamma bloccata in un letto che – per quanto simbolicamente allegro – rimane pur sempre un letto d’ospedale. C’è il Lanciano, c’è la gloria. Lo invidio da morire, e non è un peccato ammetterlo. Peccato sarebbe nasconderlo nelle pieghe dei sorrisi di facciata. Io sono sincero fino in fondo: felice fino in fondo: invidioso fino all’osso. Confesso: l’ho invidiato anche quando nessuno lo invidiava, nella penombra della sala d’aspetto, quando gli si spalancavano davanti le ore vuote (e i minuti eterni) di una nottata d’attesa. Quando tutti levavano le tende, in attesa dell’sms risolutivo. Mi immedesimavo – e più di tanto non ci riuscivo e questo mi rodeva – nel peso dell’attesa senza vie d’uscita. Voglia di paternità inevitabile ad una certa età, conseguita senza meriti e senza sacrifici. Ma tant’è. È questione d’alchimie. Che è buono e saggio non pensarci.

La macchia nera delle nostre t-shirt s’avvia al settore che manca mezz’ora al fischio d’inizio. Diverse incognite, oltre quei cancelli. Ma lo spirito è alto, combattivo, festante. Gli steward e gli staccabiglietti fanno il loro lavoro in maniera eccellente. I bagni della Sud sono il termometro della partecipazione emotiva. I bar traboccano di alcolisti parzialmente anonimi. Aria di casa, tra questi ambienti accoglienti. Siamo al solito posto, dopo tanto parlare. Un bandierone issato, la Jolly Roger. Noi su due file. Di fronte, il gruppo di lancianesi fa blocco a tre gradini dalla balaustra. Le squadre finiscono la rifinitura e imboccano lo spogliatoio. Alla spicciolata sfilano sul tappeto rosso i ritardatari e quelli che s’attardano volontariamente. Uno sguardo, un lampo: Auguri!, Grazie! È bello, penso, avere famiglie allargate. Anche smisurate, come questa. Auguri! Grazie! Invidia. E pessimismo: non mi succederà mai, penso. Una certezza compulsiva, malaticcia: non so perché, ma so che sarà così. Un po’ come la storia della Coppa Uefa, di quella trasferta a Mosca (ma anche a Maiorca) che immaginavo da ragazzino e non ho mai fatto; la voce di De Niro che alza il tiro: Non c’è nulla di peggio del talento sprecato. Bronx, visto per la prima volta che avevo diciassette anni. Non devo sprecare il talento, pensavo. E a furia di pensarlo, sono passati tre lustri. Meglio scuotersi. Meglio sradicare l’asta, testare la voce, dare il via alle danze. Oggi è un giorno di festa.

Il Foggia rischia, il Foggia allarga il gioco, il Foggia difende e regge; il Foggia riparte, il Foggia sfiora, il Foggia si salva. Una partita affascinante, brutta, di quelle dove l’agonismo sopperisce al talento. Questa squadra mi piace. Mi dicono che non arriverà ai playoff. Pazienza, rispondo. E torno a cantare. Il pantaloncino rosso non si può guardare, ma ad ogni calcio d’angolo la telecamera inquadra il vero sottinteso di questa sfida: Benvenuto Aurelio! La Nord si sente bene, assedia la Sud, che alza il livello di un primo tempo flaccido. Nella ripresa la prova è più che buona. Anche la nostra. Alla fine è zero a zero. E va bene, più che bene, così.





PS: per coloro che hanno trovato troppo tristi e funerei alcuni passaggi, tengo a precisare che non si tratta di improvvise crisi funeste, ma di un ben preciso, pianificato, piano di panico collettivo. Ritengo altresì simili crisi inevitabili dinanzi a eventi logicamente inconcepibili e socialmente irreversibili come il parto in soggetti dotati di qualche neurone funzionante. Dirò di più: ben più d’un collega di t-shirt, nel festeggiamento al neopadre che si è consumato a ridosso della grande notizia, ha ingoiato Borghetti senza la solita spocchiosa indifferenza dei momenti qualsiasi. C’è da scommettere che pensieri pesanti si siano mischiati al Caffè Sport.

08/09/09

Corsari

di Lobanowski 2

Lunedì 7 settembre, Andria-Foggia 0-1

Non bisogna mai rinunciare alla socialità; al principio aggregante per cui esistono cose come i bar, i pub, i circoli del ricamo. E il calcio. L’abbiamo detto, l’abbiamo scritto. Ore 20:45, tutti da noi. Tutti alla Cantina Politicamente Orientata. Abbiamo inventato anche un aperitivo serale per l’occasione. E una volta lanciato l’appello, fissato l’appuntamento, non si torna indietro. È un piacere, certo. Ma manca tutto. Il frigo boccheggia. C’è da lavare a terra, riordinare lo spazio agibile, riempire il freezer di birre, Caffè Sport, vodka, gin, Martini. Senza contare che mancano i tovaglioli di carta, i bicchieri grandi e quelli da cicchetto. Compunta rassegnazione, maniche rimboccate all’inverosimile. Una teglia di pizza da passare a ritirare, un paio di limoni da cercare. Siamo a due passi dal mercato e sono da tempo passate le 18. Lunedì sera e le saracinesche chiuse ricordano mollezze arabeggianti, da placida cittadella mediorientale. “Dovete aspettare che apra”, dice il macellaio indicando una serranda colorata, vivacizzata da una grottesca floreale. “Ma apre?”, “Bah – fa quello buttando un occhio distratto all’orologio – a volte si, a volte no. Dipende”. Questo un milanese non lo capirebbe di sicuro. Alle sette e mezzo diamo il via alle danze. Il pavimento è lucido, Valerio ha portato anche del vino casereccio. Raisportsat trasmette una trasmissione con Tramezzani ospite. La sera plana dolcemente. Tra un po’ arriveranno tutti. Andria è trasferta vietata. Non bisogna mai rinunciare alla socialità.

Che poi, spiegare perché Andria è vietata, richiederebbe di suo una robusta digressione. Una digressione che – ne sono consapevole – annoierebbe mortalmente e puzzerebbe di vittimismo postumo. Ma siccome anche tacerne sarebbe sbagliato, non posso che sintetizzare il più possibile. Dunque. L’Osservatorio, supremo ente mistico, eminenza grigia sacerdotale che sovrintende alle nostre domeniche e alla nostra libertà di movimento, si è espresso con largo anticipo, senza menzionarci. Funziona così: ogni mattina ti svegli e consulti il sito. Quando vedi l’elenco delle partite proibite, lo scorri da capo a piedi per capire se c’è il nome della tua squadra. Se non c’è, è probabile che si possa partire. È, come avrebbe detto monsignor Casaroli, il martirio della pazienza. Ma siamo disponibili a giocare al massacro. Del resto, è il gioco di ruolo che abbiamo scelto. Insomma, dal silenzio s’arguiva che Andria-Foggia non era considerata partita a rischio. Un iniziale sconcerto ha percorso la piazza. Una serie di perché, di ma come, di come mai. Qualcuno ad ipotizzare addirittura un trappolone, modello Roma-Napoli. Ma Ticket One ha messo in vendita i biglietti del settore, si diceva. È fatta sul serio, hanno pensato gli scettici. Ed increduli si sono scalmanati verso lo sportello. Il prezzo per essere ospiti al Degli Ulivi è da omicidio seriale: 15 euro, a cui aggiungere l’euro e cinquanta di prevendita. 16,50 per una gara di C. Siamo bestie da soma, animali vivisezionabili. Qualcuno insorge, altri correggono il tiro: calmi, state calmi… è una trappola, non facciamoci provocare. Giusto, ma qualcosa andrà pur detta a coloro che considerano il Degli Ulivi un Meazza senza anelli. Fatto sta che in tanti, fin da martedì, hanno il permesso e il tagliando. Mercoledì il Prefetto di Bari è a Foggia. Non so perché e comunque non mi interessa. Andria è uno dei tre capoluoghi della Bat, la nuova provincia pugliese. Non è più provincia di Bari, quindi è altamente probabile che abbia un prefetto diverso. Eppure, giovedì mattina la notizia s’infrange sui frangiflutti dello stupore: la trasferta è vietata. Ha deciso il prefetto. Di Bari. Motivazione ufficiale: il settore ospiti non è a norma e non si può garantire la sicurezza in una partita in notturna. Altri perché, altri ma come sarebbe a dire, altra impotenza. È così e basta. Inutile trastullarsi i neuroni. È la stessa logica che vieta Potenza ai ravennati e concede Lanciano ai pescaresi. Una logica vuota di logica. Un’assenza di buonsenso che si fa senso comune. Contro la quale combattiamo da mesi, che si fanno anni.

Lo striscione fuori recita: No alla tessera del tifoso. C’è gente ovunque. Sulle sedie di plastica che s’approssimano al fuoco televisivo, in piedi nelle file più arretrate, sul divano, fuori. La curva dell’Andria sembra piena. Sapevo che avrebbero protestato contro il divieto, ma la Rai non copre l’evento. Resto dubbioso. Al fischio d’inizio molti scommetterebbero sullo zero a zero. Ma il Foggia sembra in palla. C’è una cosa che mi stupisce di questa squadra di ragazzini. L’ho già notato a Trieste e poi a Verona. È che non si fa mettere i piedi in testa. Anche in campi d’altra categoria, o dinanzi alla muraglia umana d’un pubblico ostile, o ai tranelli inevitabili di una piazza meridionale. Hanno la testa alta, questi giovanotti. E vanno giù duro, combattono. Penso che saranno amati. In fondo, gli si chiede solo quello: lottare e sudare. Nel primo tempo, vanno addirittura oltre. In una parola abusata, dominano. Tengono il campo, ripartono, portano il baricentro nella trequarti avversaria. In un paio d’occasioni sfiorano il vantaggio. Io servo Borghetti e vari miscugli alcolici. La gente mormora: “Stai a vedere che perdiamo uno a zero. Questi al primo tiro ci castigano”. E il vaticinio pessimista sembra realizzarsi nell’unica azione biancoblu, un traversone che taglia l’area per intero. L’arbitro fischia, il pari va più che bene.

Spunta un megafono e la ripresa la interpretiamo diversamente. Cori e solo cori, come se fossimo realmente al seguito dei rossoneri. Poco alla volta, la partita giocata si allontana, evapora. Sosteniamo il piccolo schermo. Il Foggia tiene. Siamo al centro del primo momento topico della stagione. Tutto è in equilibrio, col giudizio della piazza sospeso come una nube sul rasoio. Basta un golletto, da una parte o dall’altra, per modificare radicalmente l’umore di questa strana, normalissima gente meridionale. Là fuori, pensiamo, ci sono tifosi mediamente coinvolti, giornalisti beccamorti e semplici occasionali, pronti ad esaltarsi o a sprofondare. Sulla scia di un gol. Se lo segniamo, siamo dei supereroi prossimi ai playoff; se lo prendiamo, è il baratro. Torna alla mente la celeberrima diatriba sull’assoluta superiorità del risultato nel gioco del calcio. Non ci pensiamo. Il lanciacori s’assopisce per qualche istante, bisogna rialzare il morale di una platea orientata sulle reti inviolate. E nulla è meglio di un bel coro contro. Ci tornano alla mente i compagni tarantini, quelli che conosciamo bene. È da luglio che intendiamo mandargli un video-messaggio. Mi torna in mente che ho la digitale in tasca. “Aspettate”, dico. E piazzo la telecamerina sul bancone, puntata sulle piccola folla. Enzo, col megafono, fa appena a tempo a parlare: “Tarantini…”. L’immagine si fa mossa. Salgado di testa ha messo in moto Di Roberto sulla fascia. Questi è rientrato, ed ha piazzato un rasoterra in mezzo. C’è un ragazzo in maglia bianca che s’avventa sul pallone. Uno sull’altro, tensione, spasimo. Tira. Il video trema. Siamo in vantaggio. Non ci prenderanno più.

È il boato. Siamo in zona playoff, siamo uno squadrone, tutti festeggiano, la piazza impenna come su un Bravo d’annata. Io sono senza voce. Devo farmi controllare, penso, non è possibile ridursi sempre così. Gin e cocktail. Relax. Riflessione. Un secondo tempo di puro sostegno. Bravi. E mentre la città sfolla, una triste consapevolezza fa capolino come una serpe tra i rovi. Riassunta nelle parole del rancore festante: “Bravi si, però che stronzi… vincono solo quando non ci siamo”. Ci avevo pensato anch’io.

07/09/09

Come saremo (Note sulla Tessera del Tifoso)

di Lobanowski 2

Note sulla Tessera del Tifoso a margine della manifestazione di Roma (5/09/09)

L’uscita è Tor di Quinto-Labaro. Bisogna seguire le indicazioni per lo “Spazio Roma”, una struttura polivalente a metà tra la disco, la galleria d’arte metropolitana e un capannone industriale. Prima sorpresa. Immaginavamo un raduno all’aperto, col Coni come sfondo. Invece qui c’è il cancello e si entra facendosi riconoscere. Appartenenti a una delegazione. Ci sono ragazzi in maglia bianca che sorvegliano le porte. I giornalisti e i curiosi restano fuori, in attesa di comunicazioni ufficiali. Tre i gruppi da Foggia. E poi noi. È la prima volta che ci capita di usare il nome collettivo in un’occasione ufficiale. Fa un certo effetto. Parcheggiamo. Un breve corridoio coperto. Dentro. Pareti plastiche e nere, spazi delimitati da pannelli di legno compensato. L’organizzazione sembra impeccabile. In grande stile. C’è tanta gente. Tanti ragazzi, da tutta Italia. E non è un modo di dire. Gli occhi saltellano da una t-shirt all’altra, per scorgere indicazioni sui luoghi di provenienza, sulle curve d’appartenenza. Le t-shirt subiscono gli sguardi indagatori degli altri. Io ho la maglietta in lavatrice, me ne sono accorto alle 5 di stamattina. Ho su quella comprata a Gracia, che dice che il Barca è l’orgoglio di Catalogna. Gli altri mi guardano strano. I miei sono rigorosamente in divisa ufficiale. Anche i primi amici che vivono a Roma e ci raggiungono sono inappuntabili. L’ho steccata proprio. Ma non si torna indietro. Il salone è pieno, trabocca. C’è gente in piedi sui tre lati della platea. Cerchiamo una collocazione, andiamo verso destra dove c’è il cortile. E un sole a trequarti con punte di umidità furenti. Fissiamo la tavolata degli organizzatori e degli avvocati e ci abbronziamo il capocollo. È quasi mezzogiorno.

Ora, gli aspetti da isolare sono un paio.
Uno riguarda l’essenza della protesta, di questo tam-tam che risale la risacca con forza crescente, fino a farsi notare dal mondo che sosta a riva, sul bagnasciuga delle certezze televisive. L’altro il metodo. Interventi brevi, cadenzati, solitamente aperti. È uno stile, e chi non ci è abituato lo nota. C’è una grande voglia di decidere, di trasformare il raduno in azione. E questo asciuga i pensieri, li rende poco pomposi, per nulla politicanti. C’è fretta, e si avverte. Volontà, più ancora che necessità, di combattere questa battaglia – fosse anche l’ultima della specie – senza cadere nella trappola dell’attendismo, del “poi vediamo che succede…” che già è stato fatale per le trasferte proibite e l’inasprimento dei Daspo. Parlano gli avvocati, i rappresentanti dell’organizzazione. Poi il microfono è aperto, e gli esponenti dei centoquaranta gruppi presenti s’avvicendano. Molti applausi accompagnano le parole della lotta. E qui apriamo parentesi. Una parentesi che forse è tutto.

Cosa sia la Tessera del Tifoso è presto detto: un’idea geniale per raggiungere, in un sol colpo, almeno tre buoni obiettivi. Fidelizzare il tifoso alla società, aprendogli un bel credito e facendo la gioia degli istituti bancari; plasmare il tifoso di nuovo tipo, asportandogli la passione come una trasfusione di plasma, renderlo spettatore passivo di uno spettacolo di cui è ufficialmente estraneo, burocratizzarlo e rincoglionirlo tra uno sportello e un Punto Assistenza Sky; consegnare alla società un residuo di cittadino snaturato, controllato, schedato, ammansito, buono per altri controlli, altre schedature, altri snaturamenti. In altri ambiti. Dal primo gennaio del prossimo anno tutte le società calcistiche dovranno mettersi in regola, e dopo aver approntato gli stadi, prepararsi ad accogliere le copiose schiere di appassionati e tifosi in fila per vedersi riconosciuto il proprio status di Tesserato. La Tessera, dai vivaci colori personalizzati, una volta ottenuta e stampata servirà come documento di riconoscimento e di credito, dai botteghini agli official store, dagli autogrill al casello autostradale. I biglietti saranno acquistati solo mediante l’ostensione di questa reliquia. E sarà possibile, per i possessori della card, anche seguire la squadra in trasferta. Cosa preclusa agli altri. Il buon padre di famiglia – quello che ama ripetere che se hai la coscienza pulita non hai niente da nascondere – incalza la sua incredula curiosità: “E allora? Che problema avete con la tessera?”.

C’è una difficoltà, che è all’ordine del giorno da un po’. Latente, e sintetizzabile nella locuzione da discorso diretto: se fino a questo momento non l’hai capito, non so come spiegartelo. È un po’ quello che accade coi versi di certe poesie ermetiche. Perché giunti a questo punto del discorso il cittadino comune avrebbe dovuto già arguire lo schema e provare indignazione. Dinanzi a chi non riesce ad indignarsi, la battaglia annaspa. Benjamin Franklin, in una pluri-citata esternazione, diceva “Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza”. Ed è più o meno questo, il fulcro della storia, la morale della favola. Lo stadio è un laboratorio. Non è un mistero per nessuno che i reparti della celere abbiano in passato testato le tattiche da scontro aperto più efficaci contro le tifoserie riottose all’esterno degli impianti; così come non è un mistero che quelle tattiche abbiano trovato applicazione ben oltre gli angusti dintorni delle curve, e siano sbarcati nelle nostre città; Il G8 di Genova, poi, addirittura fatto studiare alla polizia irachena in formazione. Senza andare troppo in là: lo stadio è per molti, troppi, il luogo dell’eccezione. In tanti, troppi, sono convinti che il frequentatore di una curva goda di un surplus di diritti che il cittadino che si limita all’esterno non possiede. In realtà è vero il contrario. Come luogo del controllo sociale, del rapporto tra potere e masse, lo stadio – e in particolare le curve degli stadi – sono il principale punto d’osservazione della “sicurezza” che sarà. Una specie di popolazione cresciuta in vitro da schedare, controllare, reprimere. Un soggetto multiforme da sollecitare con impulsi sempre più assurdi: biglietti nominali, divieto di vendita dei tagliandi la domenica, prefiltraggi multipli, tornelli, steward, forze dell’ordine schierate, norme rigide ed ottuse su striscioni e bandiere, estromissione di fumogeni e torce, tamburi e bottiglie di vetro, lattine e aste flessibili, telecamere, trasferte concesse e poi proibite, prezzi altissimi anche nelle serie minori. E diffide, diffide per qualunque scelta difforme, innocua o aberrante che sia. Un fumogeno acceso e lasciato morire su un seggiolino, a distanza di sicurezza da ogni altro cittadino occasionalmente presente nello stadio; il rifiuto di aderire a determinate commemorazioni o, al contrario, l’ansia di partecipare all’esecuzione di un coro specifico. Ce n’è a sufficienza per confermare l’impressione: il cittadino che s’approssima all’arena, perde molti più diritti di quanti – secondo la vulgata – ne guadagni.

E con la repressione in stato di grazia, e gli anni di Daspo – sanzione amministrativa – comminati senza dover dare spiegazioni a nessuno, con la propaganda mediatica che parla di ultras e mostra le streghe, è facile prevedere che la Tessera, come tassello finale del percorso ad ostacoli, assassinerà i gruppi. O ferirà mortalmente loro e un bel pezzo di libertà. Inutile dirlo alle sinistre, troppo impegnate a confondere le bassezze di Repubblica con la libertà di stampa. Eppure a Roma c’era Cento, onorevole dei Verdi, che non ha parlato poi così male: battaglia da cittadini e non da tifosi, ha detto. Nel mirino gli ultras, certo, e il loro modo “sconsiderato”, “folle” e “incomprensibile” di vivere la domenica, la settimana. Ma portare la lotta nelle strade, guadagnare consensi, alimentare la fiumana, prima che sia troppo tardi, è un dovere che non richiede neppure la condivisione della “mentalità”. Basta osservare alcune sintomatiche innovazioni giurisprudenziali per comprendere la massiccia portata dell’attacco che stiamo subendo: l’introduzione di una specie di diffida preventiva, atta a negare l’ottenimento della card a tutti coloro che frequentano zone calde dello stadio, che si va ad aggiungere al divieto per tutti coloro che hanno subito una condanna “da stadio” qualsiasi dal 1989 in poi. L’ergastolo, l’esilio a vita. Un provvedimento emergenziale senza pari nel nostro ordinamento giudiziario, altrimenti rivolto al recupero e al reinserimento di qualsiasi reo. Di qualsiasi pedofilo, stupratore, funzionario corrotto o corruttore, assassino. Per intenderci. Qui, invece, vittimismi a parte, sembra che la tolleranza debba rasentare la lettera scarlatta.

Ma l’argomento si complica, s’ingarbuglia. Meglio chiuderla qui. Roma è stato un appuntamento importante. Perché guardarci in faccia è sempre importante. Le decisioni, il calendario degli appuntamenti, hanno una rilevanza relativa, rispetto all’acquisita consapevolezza che la casa brucia, e la fretta non sempre è cattiva consigliera. Adesso scopriamo le carte. Il buon senso comune dovrà misurare la follia e smascherarsi: volete vivere in un mondo asettico, regolamentato, sicuro e controllato, dove è impossibile sgarrare, o continuare a sgarrare in un mondo passionale dove ancora – nonostante tutto – prevale la libertà? Scegliete. Scegliete chi vorrete essere nel futuro prossimo venturo. E fatecelo sapere.

24/08/09

Di questa partitella...

di Lobanowski 2

Domenica 23 agosto, Verona-Foggia 0-0

A Verona non ci fanno andare. Sicuro come la morte. Verona c’ha lo stadio a norma, ci sono andati pure i padovani l’anno scorso. Vedrò, vedrai. Vedremo. Anzi, conviene partire presto, che non si sa mai. C’è il grande rientro, è bollino nero. Avviamoci alle 4. Tardi, è tardi. Ci vogliono sette ore, uagliù, mo non esageriamo. 3,45. E sia. I rintocchi della campana della cattedrale mi si allineano in testa. Occhi serrati a viva forza, senza riposo. Su Telenorba s’agitano scoordinati gli pseudo-tarantolati di Melpignano. Sguardo all’orologio del Televideo. Non ho chiuso occhio. Conviene muoversi. Acqua gelida sulla faccia. Ancora voci: attenzione ai cosentini. Perché, dove vanno i cosentini? A Ferrara. E perché dovrebbero prendere l’Adriatica? Perché si, loro salgono per Taranto. Allungano perché Sarni c’ha gli autogrill da questa parte e non da quella. I baresi, piuttosto. Quelli vanno a Milano per l’esordio in A, ne saranno tantissimi. Ma il Bari gioca alle 6. Ma Milano è più lontana. Nessuno nomina i lancianesi. Mio padre asserisce che siamo a quota 1.800 abbonati. Non superiamo i seicento. Ho ritirato il mio: hanno sbagliato il cognome. In giro ci sono gli Ufo. Da Ticket One alla questura ho pagato la bellezza di 14 euro e 50 il tagliando per il Bentegodi. A Verona non ci fanno andare. Sveglio Antonio. Scendiamo. Notte.

Minimi intoppi. Il pilota del primo tratto ha staccato tardi, un passeggero è riuscito a radersi solo parte dei capelli, un altro è senza macchina e dobbiamo andarlo a prendere. Si bestemmia placidamente. Muoversi! Ci dobbiamo muovere! Ascende al volante Pietro da Wroclaw, che sarebbe Bratislava. Punta il cartello Autostrade, accende una Diana blu. Acceleratore, corsia di sorpasso. Quelli dietro non fanno a tempo ad appisolarsi, il sole a sorgere sull’Adriatico. Al primo autogrill ci si guarda in faccia increduli: Ma davvero siamo ad Ancona? Già? E tutti fissano il Polacco con spaventato rispetto. Di questo passo, supereremo Bologna alle 11. Dovremo anticipare l’aperitivo. È giorno. Si va. Sbirciamo negli abitacoli altrui: sciarpette dell’Inter, turisti, persino una famiglia d’atalantini. Un pullman in lontananza. I baresi. Ci accostiamo. Goliardia. Non la prendono bene. Un rallentamento, un secondo, un terzo. Siamo sulla Riviera romagnola e ad ogni uscita si procede a passo d’uomo. Ma ormai la meta è prossima. Toto Cutugno e Umberto Tozzi se la battono in radio. Lo scatto dell’accendino segnala la presenza tra noi del pilota automatico, Bologna San Lazzaro. È tempo di puntare sul Brennero. Siamo tutti svegli quando scegliamo Carpi come luogo della sosta lunga. Svegli tutti quando parcheggiamo a ridosso del centro. Immaginiamo un tranquillo struscio domenicale, un bar coi tavolini sotto i portici, una scarica di Peroni. Io mi sbilancerei fino ad un Negroni con olive e patatine. Ci muoviamo. Tutti neri, tutti uguali. In dieci con la maglietta d’ordinanza. La gente ci guarda, chiede. Il viale che porta alla piazza è tagliato da biciclette. I primi bar sono chiusi. Il fornaio è caro da morire. La piazza è lunga e larga, la chiesa sullo sfondo. Fermiamo un ciclista. Ci indica un paravento in lontananza: “Quello è poco costoso”, “Ma quanto viene una birra piccola?”, “Mah, non ti so dire… senz’altro meno di 5 euro”. Sguardi perplessi: un Paese diviso, dove anche il senso del caro è federalizzato. “…altrimenti – continua – c’è un bar di fronte al tabacchino. Ci lavorano due ragazze. Abbordabili”. Andiamo lì.

Il proprietario del Wine Bar s’informa: “Ma quando torneranno i bei tempi di Zeman?”, “Speriamo mai”, rispondiamo. Non capisce, ma è scontato. Ci siamo accampati nel parco, a bere il nostro Borghetti casalingo e, intanto, c’è turnover nel bagno. A giudicare dai prezzi, l’idea di Bossi di ingabbiare il costo della vita non sembra proprio così geniale. E chiarifica i motivi del recente exploit leghista in queste terre. Abbandoniamo l’Emilia senza rimpianto alcuno. Puntiamo le montagne. Gli altri sono all’autogrill, a 20 chilometri dalla meta. Ci uniamo alla carovana. Spunta una bottiglia d’Averna, ancora nessuna notizia dei lancianesi. Al casello non c’è ad aspettarci nessuno. La tangenziale, l’uscita stadio. La colonna di furgoni e macchine mette la freccia a destra e svolta. Nessuno. Siamo a Verona, in carovana e senza scorta puntiamo il Bentegodi. Adrenalinico, anche se qualche domanda balza in testa: eccola, l’idea del calcio da tessera del tifoso. Una specie di ventriloquo che con la prima voce ti dice che la sicurezza è tutto, e con il falsetto ti annuncia che – se vuoi coltivare l’insana passione – devi arrangiarti. Cazzi tuoi. I veronesi dalle macchine ci affiancano, stupefatti. Noi affianchiamo loro. Un carosello. Poi il parcheggio ospiti. Siamo confusi e felici. Gli steward aprono i cancelli. Incalza il tamburello delle prime tarante. Uno vestito d’arancione sta dicendo ad un signore che il biglietto di gradinata non vale per il settore. Quello, giustamente, fa storie. Entro, documento alla mano, e un giallo mi dice: “Lo fai finire?”, “Finiscila tu”. Respingono la pezza. Di dieci centimetri troppo larga. “Non è colpa mia – mi fa un secondo giallo – ci sono delle regole” e mi indica un secondo arancione, che si dichiara impotente e mi gira all’ispettrice, che domanda ad un terzo arancione. Due celerini sbadigliano. Uno dei due sta dicendo ad un tale che loro, qui, non comandano niente. Le responsabilità rimbalzano da un capo all’altro. E svaniscono nel nulla. “Guarda che se continui a far polemica ti perdi la partita…”. Sai che danno. Non entra neppure la Jolly Roger, che “inneggia alla morte”. Secondo blocco, tornelli. Terzo pit-stop all’imbocco delle scale. Volevamo entrare tra i primi, per sentire la Sud fischiarci compatta. Invece, quando arriviamo su, è già tutto avvenuto. Maledetti. Senza pezza non vale, allora decidiamo di toglierci le t-shirt ed allinearle alla balaustra, una accanto all’altra per un totale di dieci. Ci posizioniamo. In alto le mani. Forza Foggia, Vinci per noi. Sudo. Di solito questo coro rimbalza, rimbomba. Qui a stento arriva a centrocampo, o almeno così mi sembra. Dovremo cantare il doppio, il triplo. È uno stadio strano, questo. La Sud apre le danze, tenebrosa. C’è tanta gente, qui hanno fatto una signora campagna acquisti, è l’anno della risalita.

I nostri, in maglia bianca, si dispongono ordinatamente a difesa del forte. Mi piace. Resistere senza fronzoli, senza l’idea assurda che in ogni parte del globo si debba andare a fare calcio. Difendersi. E anche noi, in alto a destra, ci difendiamo. Timidamente, all’inizio, poi cresciamo. La Sud cala quasi subito. Ha fatto tre cori imponenti, rabbiosi e compatti, gutturali. Poi, per lunghi tratti, è rimasta in silenzio. Noi siamo usciti dal guscio progressivamente. Il Foggia ha spazzato senza ripartire. Bene così. All’intervallo il barman barricato nel suo loculo ha comunicato all’umanità disidratata che non vende bottiglie d’acqua. Solo birra e coca, a 4 euro cad. Gli steward incalzano con pretese assurde. Per difendere la loro incolumità, l’intero gruppetto di celerini sale ad occupare lo spiazzo angusto del baretto. È uno stillicidio di provocazioni. È ancora il falsetto del ventriloquo: Siete voluti venire, mo cazzi vostri. Beviamo l’acqua dei bagni, senza sapere quanto sia potabile. La partita ricomincia. Lo spartito è lo stesso del primo tempo. Ci va bene così. Cantiamo, finché la voce non svanisce in un gorgo. Mi fa male l’addome, ma è necessario. Di questa partitella non ce ne frega un cazzo, Verona, Verona, vaffanculo. La gradinata si scuote. Quel gruppetto lì sembra Napoli. Insorge. Ogni tanto qualcuno dei nostri torna a stendere le t-shirt alla balaustra, come una massaia. Stavolta mi dispiace di non avere con me una macchinetta fotografica. Alcuni scorci sono davvero suggestivi. In campo ci difendiamo senza affanni particolari. Loro hanno smesso di incitare. Un solo boato quando la palla finisce per scheggiare la traversa. Ma è niente. Triplice fischio. Noi non molleremo mai. E squadra sotto il settore.

Appendice

Mi scuoto, il finestrino mi respinge. Mi ero già addormentato. Incredibile. Riannodo i pensieri. Ricordo che abbiamo incrociato i veronesi sul ponte e ritirato il biglietto al casello. Questo è il primo autogrill. Ci stiamo parcheggiando. Scendo, entro e m’aggiro come uno zombie tra gli scaffali. Acqua, mi serve acqua. Prima, però, una birra. Una Paulaner, va bene. Alla cassa cerco gli spiccioli. Entra un gruppetto, lo seguo con distrazione. Ragazzini con una strana polo rossonera. Non mi dire che… Non mi dire che… Ma certo! Questi qui sono i nostri, è il Foggia. Dio santo, ma sono dei bambini! “Tu giochi nel Foggia? Ma ce l’hai la patente?”. Angioletto è in estasi, può entrare in scena. Ne avvinghia un paio a caso: “Zero a zero per noi!”, continua a ripetere. Poi ne inquadra uno e si confessa: “Senti, io ti abbraccio perché c’hai sta maglietta… ma sia chiaro: io non so se hai giocato o se sei stato seduto a vederti la partita… In fondo, non so neanche chi cazzo sei…”. Poesia pura.

10/08/09

Settore Out (Triestina-Foggia)

di Lobanowski 2

Per raggiungere il Nereo Rocco c’è da percorrere il lungomare per intero: lasciarsi a sinistra piazza dell’Unità d’Italia, coi suoi magniloquenti palazzi asburgici, e imboccare la tangenziale. Godersi per qualche minuto il panorama della baia, rendersi conto che la strada è quasi sgombera. Una città in ferie. Dal sottopasso al parcheggio ospiti ci si impiegano due minuti, non di più. Sono le 17 e 30 del nostro sabato di vigilia. I botteghini sono chiusi, ma un cancello socchiuso lascia intravedere una mezza fila all’angolo tra la curva (Sud) e la gradinata alabardata. Entriamo. Ma prima ancora di avventurarci verso l’assembramento, ci lasciamo sedurre dalla scalinata che porta ai seggiolini. L’effetto è notevolissimo: uno stadio all’inglese, quasi interamente coperto, con una fila di posti ad altezza manto erboso e gradoni imponenti. Sul prato si sta allenando la Triestina. Provano dei contropiede anomali, che finiscono tutti con un cross altissimo verso il centro. Attorno a noi, una dozzina di curiosi. Decidiamo di domandare all’assemblea dove si facciano i biglietti. Ci rispondono coralmente che sono in fila già da qualche tempo, ma che – ahiloro! – dietro alla scrivania c’è un solo addetto al ritiro delle carte d’identità; che è vecchiotto e non sa usare il pc. Ergo: le operazioni proseguono a rilento. Circoscriviamo la richiesta e chiediamo del settore ospiti. Ci guardano lievemente stralunati: “Quali ospiti?”. “I tifosi del Foggia, no?”. Ancora sguardi perplessi: “Ma non verranno mica su da Foggia per una partita di Coppa Italia?”. Stavolta tocca a noi perplimere. “Certo che verranno”. “Ma no, dai… Magari verrà qualcuno che è in vacanza da queste parti”. Uno, più attento degli altri, aggiunge: “Ma perché? Voi siete di Foggia?”. Annuiamo come muli. “Non mi direte che siete venuti apposta?”. “E perché, sennò?”. Non certo per la piazza, mi verrebbe da dire, che si, è bella, ma da sola non vale nove ore di macchina. No di sicuro.

Una signora si affaccia sull’uscio di una porta scudettata. Intima di fare presto, che stanno per chiudere i cancelli. Chi c’è, c’è. La fila per il tagliando si trasferisce all’interno. Entriamo e la porta alle nostre spalle si chiude con un clac. E ci rendiamo conto un qualche attimo di essere all’interno del Centro Coordinamento dei Triestina Clubs. Un locale come si deve, c’è da dirlo, con tanto di manifesti d’epoca ai muri, banco bar e pavimento biancorosso a scacchi. Come la bandiera croata, come il piastrellato dei bagni dell’impianto. Ci sono quattro foggiani in fila, ma questa cosa sembra non scandalizzare nessuno. Anzi. Si parla di calcio moderno e pay-tv, di glorie vecchie e precedenti, di Zeman e Casillo. È una specie di nuvola fantozziana, che mi perseguita. Il vecchietto al computer non è solo lento come preventivato, ma anche insopportabilmente cavilloso. Zelante, si direbbe. Un poliziotto accede in divisa ed usufruisce di un’inspiegabile precedenza. Mi chiamano da Foggia. Mi dicono che tutto è bloccato, che il circuito informatico non risponde, che nessun barista di buona volontà riesce a stampare i biglietti di questo secondo turno di Coppa. Alle 20 passate tocca a noi. Due vengono fatti accomodare ad altrettante poltroncine, gli altri rimangono in piedi alle loro spalle. “Quattro biglietti per il settore ospiti”. Quello, che ha già ritirato le nostre carte d’identità, ferma sul nascere l’atto di battere sui tasti. “Quale settore ospiti? Non c’è nessun settore ospiti…”, “Come no? C’è anche specificato sul sito della Triestina: settore ospiti, 12 euro”. Ah, si? Il nonno guarda un collega, come a chiedere lumi in merito. E quello interviene in soccorso: “Si, la Triestina ci ha comunicato stamattina che ha intenzione di aprire solo una curva e la tribuna. Poi, se dovesse arrivare qualche tifoso del Foggia, probabilmente lo si metterà in tribuna laterale. Ma non penso… Insomma, è agosto, è Coppa Italia, Foggia non è mica dietro l’angolo…”. Mi viene da ridere, ma mi trattengo. Penso alla faccia che faranno tra ventiquattro ore scarse. “Allora? – incalza il primo addetto, quello che aveva fatto la domanda e che si è beato della risposta – Che faccio? Quattro biglietti di Tribuna Laterale?”. L’istinto è rispondere: No, grazie… Ma la curiosità veleggia altrove: “Prezzo?”, “15 euro”. Vogliamo evitare di piantare una polemica (che pure rasentiamo), perché non ci sembra il luogo: “Va bene – ci limitiamo a rispondere – vorrà dire che lo compreremo domani…”, diciamo per chiuderla lì. Ma quello ritorna sull’argomento: “E non vi conviene! Domani il biglietto costerà 17”. Penso a come chiederanno 17 euro a certa gente di mia conoscenza. Con che faccia. Con che forza. Nuovo istinto a ridere. Represso. “Guardi – medio – vedrà che domani noi saremo in curva, nel settore ospiti…”. “Impossibile”, si ritrae quello. “La Triestina non apre la curva Sud”. Ma per sincerarsi dell’inattaccabilità della sua posizione, fa lo stesso partire una telefonata verso il responsabile dell’area. A voce alta sentiamo ripetere che effettivamente una trentina di foggiani hanno fatto richiesta di tagliandi. “Arrivano in pullman”, dice. E un triestino in polo verde alza lo sguardo da terra e ci inquadra con uno stupore che rasenta l’imponderabile: “Fosse per mi – chiosa – non vi farei pagare niente”.

Alle 19 domenicali – minuto più, minuto meno – le nostre due macchine s’adagiano nel parcheggio interno dello stadio. Veniamo dalla piazza, dove tra un Borghetti d’importazione al ghiaccio e una foto ricordo, abbiamo incontrato la terna arbitrale – “Godeas è un cascatore, mi raccomando” e “Sei un bastardo, sei un bastardo, sei un bastardo arbitro!” ripetuto come un canto chiesastico – e ci siamo goduti il panorama sulla tangenziale, il sole sui palazzi montani, il mare e le gru. Fronna, 'na luce sbatte 'into 'e cchiocche se 'nchiomma, chistu calore me lassa 'ntrunato. Alle 19 domenicali, si diceva, scendiamo dai mezzi, alziamo lo sguardo e lo spettacolo che si riflette rasenta il delirio. Sessanta, settanta, forse cento foggiani occupano lo spazio calpestabile del rettangolo d’asfalto. 9 agosto. Coppa Italia. 900 chilometri. Pazzi, tutti pazzi. Saluti, abbracci, strette di mano. Pochi emigranti, qua la maggioranza schiacciante viene da Foggia. Dalla City in persona. In macchina, in treno, in Transit. Hanno bivaccato un po’ qua e un po’ là, nelle ore di calura e d’attesa. Ora sono in fila per i biglietti. Documenti, steward e poliziotti. Una telecamera riprende le nostre facce mentre saliamo la prima rampa d’accesso allo stadio. L’altoparlante diffonde musica. Dentro. La pezza all’angolo della balaustra, la tettoia sulle nostre teste. L’uomo in giallo conosceva i Metallica e non ha fatto problemi. Il collega, invece, ha chiesto la traduzione. “C’è un bel po’ di ignoranza al riguardo, al centro-nord… La Gelmini dovrebbe intervenire”. Caldo umido e stadio deserto. Il primo coro serve a sfogare, oltreché a precisare intenti e motivazioni: Di questa partitella non ce ne frega un cazzo, Verona, Verona vaffanculo! A scanso d’equivoci.

Fatto sta che di fronte la Curva Furlan è solo sporadicamente occupata e gli stimoli, tra noi e loro, fanno la differenza. Perché noi cantiamo come ossessi, e i battimani sono sempre più aperti, sempre più corali, sempre più metallici, mentre loro si limitano ad osservare. C’è qualche esponente della Nord laziale, da quella parte. Ne prendiamo atto. Il Foggia è in maglia bianca, coi pantaloncini neri. I fari sono accesi. Lo scenario invoglia. E lo spettacolo comincia. L’intero repertorio srotolato sui gradoni del Nereo Rocco con stile e classe da navigato cantautore d’Oltreoceano. Inappuntabili. Per tutto il primo tempo, e il secondo, con la sola eccezione dell’intervallo, passato a rastrellare bottigliette d’acqua senza tappo al barista d’occasione. In campo il Foggia si difende con ordine. È pulito e ha un ottimo centrocampo. Pare. Riparte sulle fasce con autorità, anche se difetta ancora di forma e fiato. Ma ha schemi, sebbene manchi di soluzioni offensive. Me ne accorgo. Mi accorgo di tutto questo perché, con uno stadio così, puoi accorgerti della partita senza venir meno ai tuoi doveri. È una grossa comodità, anche se da queste parti non sembrano usufruirne al massimo. Al novantesimo siamo ancora 0-0. Ed è pur sempre un pari in casa di una squadra di B. Ma più che la gioia, nel settore prevale uno strano sentimento di calcolo: in pochi hanno previsto la mezz’ora supplementare, e qui tra coincidenze ferroviarie e turni lavorativi previsti per l’indomani, la cosa si fa poco scherzosa. Té fatic, tè. Concentrati! Compatti! Tu non sai cosa ho fatto quel giorno quando io la incontrai. La filarmonica dei cento è sul palco, in scena, e chiama il resto dello stadio in pista. Lo stadio, che muto era già prima, ammutolisce più profondamente, profondamente incuriosito. Tutti ci fissano. Il godimento lo possono comprendere solo gli artisti. E gli egocentrici incurabili. In spiaggia ho fatto il pagliaccio per mettermi in mostra agli occhi di lei. L’esecuzione è integrale, sentita, passionale. Magistrale. Celentano in persona avrebbe apprezzato lo schiaffo all’improvviso. È roba da pazzi, non tutti possono accedervi. Le squadre in campo. Godeas che casca. L’avevamo detto all’arbitro, l’avevamo messo in guardia, quel bastardo. Ma abbocca tale e quale. Milan, strepitoso fino a quel momento (con la famiglia sugli spalti e un fratello minore in estasi), non ci arriva. L’uno a zero qualifica gli alabardati. Ma noi insistiamo. E di fronte ai gestacci della fino ad allora silente tribuna, auguriamo ai confinanti una rapida vittoria tricolore. Poi ci ricompattiamo. Le braccia aperte, ampie. Il coro che nasce nello stomaco della curva. Di questa partitella non ce ne frega un cazzo, Verona, Verona vaffanculo! Ripetuto così. A scanso d’equivoci.

PS: Gli sportelli che sbattono, la coda che si snoda sul primo tratto di tangenziale in uscita.
900 chilometri all’incontrario.
Ma ne è valsa la pena. Eccome se ne è valsa la pena.

Il Libro