26/01/09

Questione d'onore

di Lobanowski 2

Domenica 25 gennaio, Cavese-Foggia 1-1

La disorganizzazione è un film muto da seguire col fiato sospeso. Perché, per quanto si possa credere di conoscerne la trama, c’è sempre una rottura scenica spettacolare, che emoziona e merita l’applauso. O commuove fino alle lacrime. Ci siamo detti: Mangiamo tutti assieme e poi vediamo la partita. Quando Salvatore, venerdì sera, è arrivato a proporre un menu di agnello e maiale da arrostire sulla brace, mi sono permesso di intervenire soltanto per invocare puntualità. L’ultima volta che abbiamo pranzato prima di una partita in tv, col Crotone, c’era gente che masticava parmigiana che già le squadre se le stavano dando. Da qui l’accordo: si mangia alle 12,30, come se abitassimo ad Alessandria. O ad Asti. A questo punto, le proposte si sono federalizzate: c’erano telefonate da fare, prenotazioni da annotare, oboli da riscuotere. Un lavoraccio. In mezzo, una giornata letteraria, da passare tra teatro e palcoscenico, piena di trambusto e di fitte lancinanti al cranio. Ho rilanciato: alle 12 accludiamo alla giornata goliardica anche l’aperitivo. Socialità spinta, dalle 12 alle 18. C’era anche l’evento in Facebook, con 9 ospiti potenziali. Nicola s’è informato – con molto tatto, c’è da dire – con qualche domandina in Messenger. Antonello, più grossolanamente, c’ha provato telefonicamente. Risultato: alle due e venti ero da solo. E a digiuno. Socialità spinta. L’istinto alla delega, in assenza di volontà di sbattimento, fa tutt’uno col fallimento. Anche in un collettivo della sinistra extraparlamentare.

Sullo schermo c’è Juary, antico attaccante dell’Avellino, ispiratore occulto della figura di Aristoteles. Fa il commentatore, l’Altafini dalla lingua oriunda, per Conto Tv. Sta dicendo che il Foggia deve evitare di alzare le barricate. Il “Simonetta Lamberti”, stadio che non ho mai visto dal vivo, è semi-deserto. Il terreno sembra in condizioni pessime. Piove. A dieci dall’inizio arrivano Guido ed Antonio. Poco dopo, Giuseppe & C. spuntano dal bar all’angolo, dove si sono dedicati alla filologia della Sambuca Molinari. Poi, via via, i ventisei metri quadri si popolano. A dismisura. Non abbiamo avuto il tempo di piazzare l’impianto coreografico all’esterno, ma la partecipazione non ne risente. Anzi, in settimana abbiamo votato il simbolo del gruppo, che presto farà la sua comparsa in pubblico. Due cannoni pirateschi, incrociati a mo’ di tibie, su un mare rossonero. Sotto, il nome, in perfetto stile punk. Atypical Foggia Supporters. Nel cartone giacciono le prime cinquanta copie della t-shirt. O quel che ne resta. Stiamo diventando adulti, settimana dopo settimana. Sul marciapiede impazza un dibattito sul lassismo e le responsabilità collettive. Dentro, la partita è già al decimo. Non ce ne siamo accorti. Rientriamo in tutta fretta, ci accomodiamo negli spazi lasciati liberi, che non sono molti. La maglia bianca dei nostri è, in alcuni casi, già sporca di fango. I cavesi, nella loro spettacolare tenuta blu-tenebra, provano a bombardare la linea difensiva, che regge. Col passare dei minuti, la partita si fa cattiva, senza esclusione di colpi. E i nostri, incredibilmente, reagiscono. Più d’una volta ci vuole l’abilità dell’arbitro per separare i giocatori. Incredibile sul serio: si stanno battendo! Non me l’aspettavo, e rifiato, prima di tuffarmi in una contesa che solo l’ottusità della legge mi impedisce di vivere a ridosso del pantano verde. A Roma un magistrato creativo ha rispedito a casa il reo confesso che nella notte di Capodanno ha stuprato una ragazza nei meandri di una festa. Italiano e di buona famiglia, naturalmente. Mentre a Guidonia i fascisti aggrediscono rom e rumeni, accusati di appartenere alla stessa etnia di altri cinque violentatori sconosciuti. In un bar, finanche dei polacchi e degli albanesi, se la sono vista brutta. Noi non possiamo seguire il Foggia a Cava. Cristiano De Majo dice che, in qualche misura, ce la siamo cercata, attraverso la reiterazione simbolica di una politica dello scontro che ha poco a che vedere col calcio. Mio padre sostiene che lo stadio deve tornare ad essere il luogo delle famiglie. Poi aggiunge, con poca accortezza, “come era una volta”. L’altro giorno ha trovato tra le sue scartoffie una fotografia della curva Nord dello “Zaccheria”. Tubi innocenti, filo spinato, volti d’epoca. Anni Settanta. E neppure una donna. Ragazzini si, certo, ma con facce e stili più simili agli scugnizzi che scacciarono i tedeschi da Napoli, che ai freschi figli di papà. In cima, lui, il genitore, nell’atto di prepararsi una sigaretta col tabacco. Altro che famiglie, il vestibolo di un inferno casual, con tanto di nostalgia in appendice. Che se al posto del tabacco ci fosse stata pure della marijuana, perderebbe ogni credibilità il suo ruolo da moralizzatore. Il genitore.

Il Foggia lotta, se la gioca, prende calci e li restituisce. Antonio, telecronista radiofonico in quel di Cava, unico dei nostri presente sugli spalti, parla di un ambiente incredibilmente surriscaldato, con gente che s’arrampica alle inferriate e che inveisce contro il gabbiotto dei giornalisti ospiti. Non hanno mai dimenticato il gol al minuto 95 con cui persero la finale play-off. E non potrebbe essere altrimenti. Per molto meno, Omero scrisse l’Iliade. Rischia, il cugino radiocronista. Rischiano tutti i foggiani. Da noi si urla contro l’elettrodomestico, con foga e partecipazione. Cava è importante in ottica play-off, ma è anche – e soprattutto – una questione d’onore. E il fatto che i nostri non stiano sfuggendo allo scontro, su un campo dove l’ingrediente intimidazione è più importante dei piedi buoni, non è cosa da poco. Alla mezz’ora la Cavese non ha prodotto niente. È assurdo pensare che questi abbiano affrontato la partita – una partita di alta classifica – impostandola sul semplice carattere, sulla cattiveria, sulla malcelata minaccia. Impossibile che occupino il quarto posto senza un briciolo di schema offensivo. Volevano intimorirci, chiuderci in una sala torture ovale, e farci mollare l’intera posta col semplice spavento. Invece, al minuto 37, passano addirittura sotto. Un cross altissimo finisce nel vuoto, ma l’arbitro – che dimostra personalità – vede un fallo e fischia una punizione per i nostri dal limite dell’area. Sulla battuta, la barriera s’alza in volo e respinge. Ma l’arbitro – che dimostra istinti suicidi – vede un tocco di mano ed indica il dischetto. Il “Lamberti”, lo si percepisce, diventa un inferno. Ma il Foggia passa ugualmente. In campo scatta la caccia all’uomo, mentre da noi la bolgia è furiosa e mesta al contempo: si intuisce, dopo Taranto, che questa squadra caccia fuori gli artigli solo quando non ci siamo. È la prima volta che passiamo in vantaggio fuori casa. I cavesi attentano alle caviglie, alle tibie, ai peroni, ai crociati. L’arbitro – che dimostra un sussulto d’attaccamento alla vita – non prende provvedimenti. E quando rinsavisce, al secondo minuto di recupero del primo tempo, concede un rigore anche ai padroni di casa, che pareggiano. Ed evita, per un pelo, una passerella nel sottopasso che nemmeno alla naja.

Antonio scrive un sms: “Speriamo di perdere”, a metà tra l’ironico e l’effettivamente traumatizzato. Ma non perdiamo. Anzi, nella ripresa evitiamo accuratamente di soffrire. Ci prendiamo il punto e restiamo a domandarci se ne abbiamo persi altri due. Ma non importa. I nostri hanno tenuto la testa alta dinanzi ai provocatori cavesi, e questo – nella mentalità di un tifoso – conta più della posizione in classifica. Infinitamente di più.

23/01/09

La curva nord...


22/01/09

La trincea imprevista

di Lobanowski 2

Gent.mo Direttore Responsabile,già da qualche tempo abbiamo verificato che sul sito da Lei diretto, compaiono gli highlights delle gare ufficiali dell'U.S. Foggia per la corrente stagione agonistica.
Nel rammentarLe che tale utilizzo è improprio, in quanto non concordato preventivamente con questa Società, La diffidiamo per il futuro a perseguire in tale direzione.
Viceversa ci vedremo costretti, nostro malgrado, a perseguire tutte le azioni atte a salvaguardare l'immagine di questa Società.
Contestualmente, La invitiamo a provvedere in tempi rapidi a variare logo e denominazione del Suo sito, in quanto appare palese lo sfruttamento d'immagine dell'U.S. Foggia: le rammentiamo, infatti, che logo e denominazione da Lei utilizzati risultano regolarmente registrati dalla scrivente U.S. Foggia.
Certi che Vorrà ottemperare in tempi brevissimi a quanto richiestoLe e rimanendo a Sua disposizione per qualunque tipo di chiarimento, l'occasione ci è particolarmente gradita per porgerLe distinti saluti.
Foggia, 20 gennaio 2009

U.S. Foggia

Non ricordo quanti anni avessi quando un’emittente locale mostrò per la prima volta, a margine di una partita di C1 dei fondi Ottanta, il logo coi due satanelli stilizzati. Il quasi-bambino che ero tirò un sospiro di sollievo: la Panini avrebbe senz’altro dovuto tener conto della miglioria apportata; avrebbe dovuto smetterla con quello scudetto inesistente, con le tre fiammelle in un mare d’argento, che da qualche stagione piazzava accanto all’undici titolare, nelle pagine di coda dell’album. Il Foggia, finalmente, aveva uno scudetto ufficiale. E questo lo si doveva alla campagna di restyling seguita a quella di riorganizzazione finanziaria dell’intera società. Ad opera di don Pasquale Casillo, con quel don imbarazzante ripetuto come una cantilena, senza badarci più di tanto. Era mutata la ragione sociale: l’Unione Sportiva aveva ceduto il passo al più agile Foggia calcio, denominazione efficace e sbrigativa, segno dei tempi, annuncio dei Novanta. Mi piacque, anche se non avevo idea di cosa fosse una campagna di restyling. Era l’epoca chiaroscura di scudetti in mutazione, che sostituivano la pesantezza del tempo e del passato con la nettezza dei tratti appena accennati: scudetti per chi andava di fretta, incapace di soffermarsi a decodificare l’intero sistema dei significati araldici. La zebra sfumata era il simbolo della Juventus, una fiamma che assumeva i contorni di un diavolo quello del Milan, la testa della lupa quello della Roma, in oro massiccio alla gola di Claudio Amendola in Ultrà. Tempi incalzanti, i primi Novanta: Tangentopoli, il processo Enimont dopo pranzo, Paolo Brosio dal Palazzo di Giustizia di Milano. Il Foggia calcio promosso in B. Poi in A. I quattro anni consecutivi nella massima serie. L’arresto di don Pasquale, lo sfascio, la curatela fallimentare. La B, la C1, l’onta della C2. Anni impegnati a pensare ad altro, tanto da poter dire che le riflessioni sulle sorti del logo si erano ridotte all’osso. Accettati di buon grado, presi a vizio o ad abitudine, i due satanelli sono rimasti lì. A ricordare Casillo e il suo restyling. Anche se il Foggia calcio non esiste più. Adesso è di nuovo Unione Sportiva. E quei due diavoli, lo si può dire, sono sopravvissuti al suo creatore, al contesto. Come dinosauri scampati alle glaciazioni, uniti come siamesi, come carabinieri, come Ale e Franz. Foggia calcio è ancora locuzione quasi dialettale, quando parli della squadra. Ma è scoria anch’essa.

In tutta onestà, quel simbolo non mi va più a genio. Troppo casilliano, troppo zemaniano, per i miei gusti. È argomento classico d’ogni cena in famiglia, d’ogni quasi-sbronza con gli amici e i compagni, chi mi conosce lo sa: vorrei che l’Unione Sportiva tornasse alle tre bande verticali, sul modello Nocerina. Vorrei che l’Unione Sportiva avesse di nuovo il simbolo dell’Unione Sportiva. Tornasse ad essere il riconoscimento iconografico del calore e della fantasiosa lentezza d’un tempo, senza le ansie, le frette e il carrierismo dei Novanta. Ma è una battaglia persa. I satanelli sono entrati nel cuore della stragrande maggioranza dei miei concittadini, ed io non posso che rispettare questo sentimento, accettando la sconfitta dei miei principi. Pur senza cedere le armi.

E vengo al dunque. La letterina riprodotta all’inizio, prima di questo breve excursus nelle mie viscere, è dell’U.S. Foggia. In persona, mi verrebbe da dire. Inviata un paio di giorni fa ai gestori di tre siti foggiani: UnioneSportivaFoggia.com, Foggiacalciomania.com e Usfoggiagol.it. Forse l’avete letta con fretta e superficialità. Ripeto per giovare: La invitiamo a provvedere in tempi rapidi a variare logo e denominazione del Suo sito, in quanto appare palese lo sfruttamento d'immagine dell'U.S. Foggia: le rammentiamo, infatti, che logo e denominazione da Lei utilizzati risultano regolarmente registrati dalla scrivente U.S. Foggia. Quando si canta No al calcio moderno, verrebbe da riflettere, non si compie un gesto di titanica nostalgia. Si ha in mente un insieme di cose, legato a sistema, con precisi riferimenti culturali, sociali, antropologici. Ci si oppone all’imposto, lento martirio di una passione. L’U.S. Foggia è andata oltre. Ha impresso sulla passione il marchio del copyright. Inaccettabile.

Ma pur tralasciando la questione degli highlights, delle migliaia di nostri concittadini che solo attraverso il moltiplicarsi delle fonti d’informazione riescono ad alimentare una fede vissuta a centinaia di chilometri di distanza, c’è da spendere qualche parola sulla concezione, sull’orizzonte mentale che accompagna il latore di una siffatta lettera intimidatoria: il Foggia come bene privato, come proprietà esclusiva di una dirigenza, come gingillo di pochi accoliti, occasionalmente mostrato al resto degli appassionati del genere, una volta a settimana. Come una collezione di maschere di scena. Eppure, Foggia non è Piacenza. Basta farsi un giro: a Foggia si esce con la sciarpa al collo, con la tuta della Legea rigorosamente griffata, si gioca a calcetto con la divisa ufficiale. Foggia è il Foggia, e viceversa. A Foggia il segno della passione adorna i muri, i banchi scolastici, i bagni pubblici. Eppure, nonostante il ruolo e la presunta competenza, un responsabile dei rapporti con il pubblico, parlando dei segni distintivi della foggianità, usa la formula del “palese sfruttamento” di un marchio registrato. Quando Mondonico scese con la sua Cremonese a disputare l’andata dei play-off si disse stupefatto della quantità di trasmissioni televisive sul Foggia. Disse, più o meno, da noi a Cremona, non ce ne sono. Voi sembra che non facciate altro, dal lunedì al lunedì. Ecco, dirigenti. Non pensavo di dovervelo dire, di dover arrivare a tanto: meritate Cremona.

Per chi non ha compreso, non ci sono grandi terapie. Semplicemente, seguiterà a non capire. Ma il concetto è chiaro ed antieconomico, perciò inadatto a chiunque applichi il proprio pragmatismo al banale campo del libero commercio senza sogni: il Foggia siamo noi. Il Foggia sono quelle migliaia di appassionati che indossano sciarpe, preparano bandiere e scrivono sui muri. Senza badare al copyright. Come e più della Fiat per gli operai di linea. E se questo non sta bene agli aguzzini del nostro entusiasmo, beh, siamo pronti ad aprire un nuovo fronte. Uno in più, uno in meno, del resto… La passione è una trincea.

19/01/09

Implosioni

di Lobanowski 2

Domenica 18 gennaio, Foggia-Pescara 2-0

Il rientro da Roma è stato nebbioso, oltre ogni previsione. Escursione termica, si dice, o qualcosa di simile. Fatto sta che all’altezza di Cassino c’è mancato poco che parcheggiassimo la macchina ai margini del guard-rail e, quattro frecce in funzione, scendessimo ad immaginarci l’abbazia, persa nelle atmosfere medievali del più cupo Umberto Eco. Dopo la mezzanotte, all’autogrill, il caffè è gratis, ma a Grottaminarda lo ignorano. Avellino ha lo stesso numero di uscite di New Orleans e al quindicesimo cartello, la mia testa ha cominciato a pesare. Solo alle 4,30 ho rimesso piede a casa, ma ne è valsa la pena. Abbiamo manifestato per la causa palestinese, una causa giusta oltre ogni irragionevole dubbio. Un ronzio sinistro nell’orecchio sinistro, effetto acustico di una stanchezza coltivata alacremente; la spossatezza delle membra. In tv un film con Paolo Villaggio. Qualche secondo della Virtus Bologna e il sonno, riparatore d’ogni affanno, sopraggiunto prima che potessi sincerarmi dell’avversario. Implosione.

La curva è passione, è azione, è partecipazione. Ma, come ogni location della vita, ci sono momenti in cui se ne potrebbe fare a meno senza precipitare nel panico. È una giornata affollata, questa che si spalanca allo spalancarsi delle imposte. Sono le 10 e il computer già macina byte. Ci sono comunicati da stendere, sintassi da correggere, contatti da prendere e mantenere, stimoli da tramutare in impulsi, fotografie da incamerare, raccogliere, sondare, modificare. E poi rilanciare nell’immenso mare della rete, che fa da baia a quello che gli esteti chiamano lavoro politico. La moka è lodevole nel suo sforzo di tracimare liquido scuro, che serve alla gola più che alle papille gustative. Se lavorassi di buona lena, oggi, ne avrei per qualche ora, di sicuro fino al pomeriggio inoltrato. Invece c’è il Pescara, e la Sud da onorare. L’ennesima partita senza tifosi avversari. L’ennesima partita inutile. Senza ospiti, il Pescara e il Nissa pari sono. Non ci sono pungoli ferrei a vibrare nei fianchi, e l’istigazione alla mollezza di una giornata del genere si fa sentire per intero. Tra due settimane sarà la volta del Foligno, poi della Pistoiese. Due belle squadrette senza tifosi. In mezzo, le belle trasferte di Cava e Castellammare. Entrambe, ovviamente, rigorosamente vietate. Una specie di esercitazione al tedio, di abitudine alla noia, di erosione della passione. Mentre i tifosi dell’Ascoli hanno ottenuto il permesso di occupare la Sud del “Picchi”, venerdì sera a Livorno. Paradossi tali da far esclamare al sempre puntuale Gianni: “A capo dell’Osservatorio c’è mio nonno”.

Giuseppe e Nicola sono stati a Cerignola, stamattina presto, a riconsegnare il furgone noleggiato. Ad entrambi ho reso noto che prenderò parte all’aperitivo pre-gara solo alle 12,45. Di sicuro non prima. L’hanno presa bene. Ho colpito una corda occulta della loro pigrizia. Non prendiamoci in giro: Potenza è stata una sorta di prova d’orchestra, attesa spasmodicamente e superata di slancio. Le tensioni, la voglia, l’emozione di rimettersi in macchina e consumare pneumatici ha fatto da molla all’attivismo. E all’iperattivismo. Il Pescara, beh, è altra storia. S’apre il ventre molle del girone, con la prossima trasferta prevista tra più di un mese. E la sensazione è frustrante. Lello è il primo ad arrivare, poi Antonello. Il cellulare di Giuseppe trilla a vuoto. La bandiera necessitava di una bella lavata, dettaglio significativamente omesso. Il Lucano mi gela le dita, ma il cielo è limpido. All’una e venti comprendiamo il dramma che ha colpito il compagno assente: il sonno, nemico implacabile, s’è impossessato delle sue stanche energie. Nessuno sospetta un rapimento, un improvviso malore, un incendio. Sappiamo che quel segnale d’assenza è il frutto dei tempi. Ci avviamo in formazione monca. Oltre a Giuseppe, mancano Mattia e Daniele. Il primo è rimasto nella capitale e contava di tornare col teletrasporto, o grazie ad un prodigio elfico; il secondo, pare sia a letto con l’influenza. Se il Foggia perde in casa, le porte della contestazione si spalancheranno come un ponte levatoio. Inutile nasconderci dietro un dito. Noi siamo abbastanza sicuri che non perderà: il Pescara è una squadra allo sbaraglio. Dido mi annuncia telefonicamente che in Sud campeggia uno striscione in cui alla squadra si chiedono emozioni. Ripenso agli auguri di un sereno 2009 che la società ci ha elargito a fine 2008. E mi scappa da ridere. La psicologia del tifoso dovrebbe essere l’abc d’ogni manager.

Occupiamo i gradoni in corrispondenza della rete, lievemente sfalsati sulla destra. Abbiamo la jolly-roger e tanta pazienza per gli invertebrati pellegrini che chiederanno di abbassarla. All’ingresso, nessun problema. Un poliziotto ha chiesto a qualcuno, o a tutti, o a nessuno, di consigliare a Capobianco di comprare Kakà. La sua brillante proposta, che fa pendant con quella di Mario Schena circa l’acquisto di Cafu, cade nel vuoto con la forza di una pietra tonda in una bacinella di mou. Non vediamo gli angoli, ma la curva sembra piena. Lello si sofferma a guardare i seggiolini della tribuna centrale, come fosse la prima volta. Ipnosi. A pochi minuti dall’inizio, un corifeo viene a posizionarsi sotto di noi, mentre un bandierone del Regime comincia a sventolare tre gradoni più in basso. È un bene, perché vuol dire che qualcuno lassù ha deciso di frapporsi tra l’indifferenza e l’estinzione della specie. Conto Tv, la stessa emittente satellitare che possiede i diritti del Foggia, segue il Pescara in trasferta. Il primo coro, alto e abbaiato, è contro i pescaresi a casa. Il secondo e il terzo contro Cardinale, il numero 4 degli abruzzesi, ex odiatissimo da queste parti. Galderisi, il mister dello scorso girone di ritorno, viene sotto la curva a prendersi un applauso scialbo e poco convinto, tant’è che si ferma alla trequarti e torna indietro dopo un saluto frettoloso. Da queste parti abbiamo crocefisso D’Adderio, un poveraccio che ebbe il torto di perdere il lume della ragione nell’ultimo quarto d’ora della finale play-off di Avellino, due anni fa: uno che arrivò a confondere i numeri dei suoi in campo, che vacillava tra l’amnesia e la febbre, man mano che si avvicinava all’ambito novantesimo che ci avrebbe consegnato la B. Che prese gol al 91’ con una botta al volo da fuori e perse, come noi tutti, il paradiso della promozione da un momento all’altro, senza demeriti tecnici che non fossero correlati alla trance. Ebbene, noi adesso dovremmo applaudire colui che ci ha suicidati a Cremona e ci ha mollati per seguire i suoi sogni di grandezza nell’odiata Pescara. Stranezze del calcio.

L’esperimento del corifeo decentrato, del federalismo corale, riesce – quanto meno – a smussare alcuni angoli che erano divenuti insopportabili. A parziale discolpa di quelli dalle ugole secche o flosce, sta il fatto che senza tifosi avversari a cui dare dei pezzi di merda, è difficile trovare stimoli. Ma questo l’abbiamo già detto. Il Foggia segna, perché il Pescara c’ha una difesa alta da far ridere. Il pensiero va a Zeman, che in settimana è stato qui a presentare il cortometraggio su Zemanlandia, che ha rilasciato due frasi di dichiarazione che è stato necessario sottotitolare. Dall’italiano all’italiano. Uno a zero, e prigionieri del passato. Come una volta, come sempre. Nell’intervallo un discreto gruppo di ragazzini, coadiuvati dalla tecnologia applicata ai Nokia, segue in diretta l’Inter che prende tre sberle a Bergamo. Non si trattengono neppure dall’esultare, smascherando chiare simpatie juventine. Eccoci faccia a faccia con la sostanza del nostro essere colonia, eterna provincia. Per quanti sforzi si facciano, per quanto stile si investa nella causa della nostra indipendenza, Foggia rimane la calda seconda squadra del cuore che era negli anni Ottanta. E che, ed accetto smentite al riguardo, è stata anche durante i Novanta dell’effimera gloria. Nella ripresa raddoppiamo in fuorigioco, ma non è un problema. Gli ultimi trentacinque minuti non servono alla cronaca e non servono alla storia. Si bersaglia la genitrice di Cardinale, che s’innervosisce e becca il giallo. Si balla dando del nomade al pescarese virtuale. I puristi, i corretti, inorridiranno. Ma non si capirà mai nulla di una curva se non si possiede ironia e senso della goliardia. In serata, giusto per la cronaca, lo stesso coro è rimbombato negli angusti locali del nostro laboratorio extraparlamentare, dedicato a Giulia e al suo compleanno, nell’atto di alzare al cielo i bicchieri di vino e spumante. Qualche coro tirato giù dalla soffitta impolverata, qualche amarcord, e il classico chi non salta che viene male. Il commento del corifeo è eloquente: “Siete dei zompatori di merda”.

In piazza Cavour, fermi al semaforo, ascoltiamo Tutto il calcio. Alle mie spalle il chiosco delle schedine, dove un tempo gli anziani sostavano ore a compilare le colonne del Totocalcio e del Totip. Non c’è storia: il calcio a cui uno finisce per appassionarsi è il calcio dell’infanzia. E per tutta la vita sogna che tutto torni ad essere com’era. Come quelle mattine con nonno Antonio, quando Juve-Inter era il derby d’Italia ed il Foggia giocava a Francavilla, ed era in schedina, tra le due di C. E le due di C in schedina erano X fisso. Sempre. A quei tempi Foggia-Pescara sarebbe finita a cazzotti, dentro e fuori lo “Zaccheria”. Ma al nonno di Gianni non era ancora stato assegnato l’Osservatorio, e nessuno se ne sarebbe accorto. Giallo, verde. Giusto in tempo per arrivare a casa ed osservare il lavoro che mi resta da fare. Giusto in tempo per rimandare.

12/01/09

Una recensione di "Juve o Milan? Meglio il Foggia"

di Jvan Sica

I libri letteralmente divorati (quasi fisicamente, con relativa sfaldatura dei fogli per quelli a stampa digitale con brossura a colla) capitano poche volte. L’ultimo che ricordavo era stato “Il Diavolo e Sonny Liston” di Nick Tosches (un libro straordinario, dove la biografia del pugile mette in faccia al lettore il senso reale, e non solo le categorie, del razzismo, del furore, della povertà e del dolore), prima che mi capitasse in mano “Juve o Milan? Meglio il Foggia” del Collettivo Lobanowski di Foggia, tre autori che scrivono dell’U.S. Foggia dal campionato di serie A 1976/77 a quello di C 2006/07. Sulle corde della narrativa calcistica britannica e con il nume tutelare Nick Hornby ad indicare la strada, i tre autori che formano il Collettivo Lobanowski hanno tirato fuori un gioiello luminoso e imperdibile della nostra narrativa calcistica contemporanea. Tre voci distinte e per molti versi diseguali hanno messo insieme un racconto a più fili intersecanti, che cattura l’attenzione mandandoti in trance da ultima pagina e giocando soltanto sui fili del ricordo e dell’appartenenza.
Lobanowski 1 scrive della storia più datata dell’U.S Foggia con uno stile di un’asciuttezza barocca (sembra un ossimoro, ma leggendo le sue pagine viene fuori proprio questa idea di troppo e poco allo stesso tempo) meraviglioso. Sugli ingranaggi della sua normale vita di foggiano e ragazzo in quegli anni riesce a buttare nel suo racconto tutto quello che una memoria pulita ha mantenuto come segno e sintomo di passioni: dal China Martini a Carmine Gentile, dalla sorella Nina al terremoto irpino del 1980, da Maurizio Iorio a Leonid Breznev in un percorso che ricalca il Berselli de “Il più mancino dei tiri”, ma che da quest’ultimo si discosta in parte per minore classe, in parte per maggiore capacità di descrivere un tempo vissuto. In questo Lobanowski 1 aggredisce e vince il lettore: il suo farci vivere un percorso di vita magari semplice, spesso molto simile al proprio, in tanti punti poco narrativo eppure di una delicatezza storica che riesce a catapultarti nei tempi descritti e a mostrarti non il senso di quei tempi, ma il loro valore per la persona che si è adesso.
Lobanowski 2, diversamente dal primo autore, non gioca mai di rimbalzo con le sue e nostre emozioni di lettore, le prende di petto e le trascina dove non pensavamo mai di andare a finire con un libretto sul calcio a Foggia. Prendendo parte con una nettezza che al lettore, abituati al melenso “volemose bene” televisivo e soprattutto al sotterfugio strafottente della nostra società, squaderna ogni pregresso avvicinamento al testo, l’autore di questa parte rifiuta le convenzioni da bar, del tipo: Zeman è un profeta che ha estetizzato il calcio oppure quando è morto Brera ho pianto per la scomparsa del genio, buttandoci addosso opinioni sue, personali, incattivite dal pensiero differente, autoreferenziale e congelato della vulgata di paese e della Vox populi nazionale. Riuscire a suggerirci opinioni sul vivere in società e sulla difficoltà dell’espressione del pensiero individuale, parlando di Codispoti, Burgnich e della trasferta di Avellino, è qualcosa di veramente stupefacente che Lobanowski 2 crea quasi senza volerlo, soltanto grazie ad un talento innato nel discorrere e una forza d’urto devastante delle sue e solo sue opinioni nate chissà come. Infine Lobanowski 3, che ad una prima e vorace lettura sembra essere l’anello debole, perché si limita al cronachismo appassionato, alle vicende condite dalle storielle di periferia. Ma non è così. Insieme e forse grazie al traino delle voci che lo hanno preceduto, il suo racconto dell’ultima fase dell’U.S. Foggia in serie C è piacevole proprio per quello che è: la storia di un ragazzo che cresce professionalmente e nelle esperienze di vita attraverso lo stare dietro una squadra di calcio, domenica dopo domenica. Il racconto che può sembrare povero di spunti rispetto alla dimostrazione di forza dei ricordi e delle opinioni negli altri due autori, acquisisce invece la sua forza proprio nel riuscire a decodificare con gli occhi di chi vive e sogna nel presente quello che accade, senza forzature di colore eccessive né aneddotica spicciola che ogni giornalista cerca di piazzare in un racconto per renderlo accattivante. Resta un racconto fatto di piccoli quadri di vita, senza la lode dell’esaltazione cafona né l’infamia della veduta ristretta.
Un libro che davvero consiglio a tutti di trovare da qualche parte e leggere subito.
Una piccola critica finale: signori del Collettivo Lobanowski non abbiate paura di scrivere quello che più vi piace. Non pensiate che per parlare di amore, di una doccia, del mare, del dolore, di un paio di sandali e della vita ci sia bisogno sempre del paravento U.S. Foggia. Siete degli (Lobanowski 3 è soprattutto un giornalista sportivo coi fiocchi a dire la verità) scrittori che possono parlare di tutto quello che la testa fa passare. Non crediate di farla franca con due storielle sulle partite dei rossoneri.

Anonimato

di Lobanowski 2

Domenica 11 gennaio, Potenza-Foggia 0-0

Siamo la ciurma anemica, di una galera infame…


Dunque: se abbiamo fatto bene i calcoli, dovremmo essere quattordici. Se le previsioni si rivelano attendibili, non dovremmo trovare neve per la strada. Un po’ ce ne rattristiamo, ma effettivamente è meglio così. Inutile continuare a ragionare per impeti sanguigni. Zio Franco indossa un giaccone pesante, antivento e antigelo. Rossonero, ovviamente. Gli altri hanno guanti e cappelli. Mancano i colbacchi. Mancano Totò e Peppino. Manca Mattia, sulla cui sorte nutriamo più di un dubbio. Qualche mugugno sofferente dall’altro capo del telefonino, è tutto quello che abbiamo di lui. È sveglio, è vivo. Ma lo attendiamo per mezz’ora e passa. Poi lo vediamo giungere, con gli occhi di chi ha dormito due ore in tutto. Quattordici, si. Tre macchine, in carovana. Non abbiamo pianificato la sosta: Rionero è troppo vicina, le altre sembrano tutte fuori mano, in altura. Consideriamo l’ipotesi di consumare il nostro aperitivo direttamente a Potenza, in qualche bar del centro. Mattia, che ha frettolosamente buttato giù un Lucano per riprendersi, ci ricorda che – in fondo – all’andata siamo stati noi ad offrire due bottiglie di Pampero agli ospiti. Dovessero ricordarsene, potrebbero ricambiare.

La strada ci è mancata, non lo nascondiamo. Il Foggia, nella sua accezione più tecnico-tattica, non occupa che una minima parte dei nostri argomenti da viaggio. Certo, andiamo incontro ad una tappa decisiva. In mezzo al campo, oggi, si testeranno le reali ambizioni di questa squadra. La voglia e la passione, la fame, dopo una sosta dannosa e sfibrante. Ma in macchina si parla d’altro. La goliardia sottolinea la riappropriazione del diritto al cazzeggio. All’altezza dello svincolo di Venosa, città di Orazio, perdiamo un pezzo, che si distrae e prosegue verso la Murgia. A Rionero incontriamo i primi banchi di nebbia. Sulla destra, Barile ci appare come un piccolo presepe abbarbicato in un cuneo di colline. Procediamo a 60km/h e non è il caso di sfidare i tornanti per metterci a fare turismo. Giusto il tempo di sgranchirci le gambe in una Posta, di prendere un caffè, di ingoiare vapore. È dolce lo scuro stanotte, nemica ormai la luna. La frase al neon ci ricorda che siamo in terra di briganti e brigantaggio. È affascinante questo viaggio sensoriale sulle ferite dell’Unità d’Italia. Questo continuo andirivieni tra le radici contraddittorie – e gli idoli postumi – dell’identità nazionale. Qui si esaltano i precursori dell’antistato, e noi – pur consapevoli delle scelte del marketing identitario – non siamo affatto a disagio. Lello ci racconta di un’associazione che, ogni anno, arruola duemila comparse per rappresentare le battaglie più epiche della cosiddetta Guerra al brigantaggio. Che altro non fu, poi, che l’atto di annessione colonialista del Sud borbonico e paternalista alle politiche già capitaliste del Nord sabaudo. Un poster commemora le Brigantesse, donne che in tutto e per tutto – spiega la didascalia – condivisero i rischi e le passioni degli uomini. Ceska sorride, conquistata alla causa. Un bicchiere di vino alla memoria delle bande, sullo spiazzo dell’autogrill sommerso dalla bianchissima nebbia. I dispersi della Murgia ci chiamano che sono sulla retta via. Possiamo proseguire. È dolce lo scuro stanotte, nemica ormai la luna.

Potenza ci appare come un asimmetrico condensato di palazzoni iper-moderni, piantati a vanvera su di un monte, come un Golgota sperimentale. Una specie di Sala Consilina. O, per chi c’è stato, di Catanzaro. L’ingresso in città è reso complicato da una quantità di segnali (e di segnali assenti) in antitesi tra di loro. Giriamo a lungo, saliamo e scendiamo, affrontiamo ponti metallici e procediamo ad angolo retto verso grattacieli inspiegabili. E immotivati. Un posto di blocco della Finanza ci dirotta su uno stradone a picco sulla stazione ferroviaria. Dal trenino in arrivo s’alzano cori inequivocabili. Non è il grosso della truppa, ma sul ponte – in alto – decidiamo di accogliere i nuovi arrivati con una sbandierata di tutto rispetto. Sventolano, nel biancore della foschia, i nostri vessilli. Quelli, da sotto, escono in gruppo. E cantano. Poi è la volta dei pullman. Quello degli Ultras 1980, quello del Regime. Non ci sono bar, non ci sono negozi aperti. C’è il palazzone di Woodcock, il Tribunale. E una scalinata in discesa. La questione del caro-biglietti sembra essersi risolta con un escamotage. Noi, che i tagliandi li abbiamo acquistati con largo anticipo, pagandoli a prezzo intero, decidiamo di trattare alle porte per fare entrare i nostri senza-biglietto. Ce la facciamo. Entra tutto, tranne lo striscione. Siamo alle solite. I fuochi della trattativa si moltiplicano, mentre Daniele, Giuseppe e Antonello restano fuori. L’appuntato dei carabinieri sembra convincersi, mentre quello della Polizia mantiene ferma la sua posizione: non deve entrare niente che contenga un messaggio. Quale che sia. Un poliziotto ci chiede di indietreggiare. Poi, per stemperare la rigidità, aggiunge: “Non voglio uomini dietro di me, solo donne”. Il che ci sprofonda in un lago di costernazione. Forse è un fan dei massaggi orientali, chi può dirlo. Da dove siamo riusciamo comunque a vedere che tra i nostri, la polizia e i carabinieri, è in corso un vero e proprio scontro di procure. Ma prima dell’interevento del Guardasigilli, ci pensa la Digos di Foggia, a trovare la soluzione ottimale per scontentare tutti: che la pezza entri, ma venga esposta al contrario. Senza lettere, in sostanza. Poi un poliziotto indica un paio di noi, vecchie conoscenze dell’ambiente: Vi tengo d’occhio.

Come che sia, saliamo i gradoni di ferro di questo settore da 15 euro e passa. E una volta in cima, stupore e ilarità se la battono. Nessuno dei due sentimenti riesce ad avere la meglio: non si ride, ma non si piange neppure. Questo spazio di tubi Innocenti fa letteralmente pena. Dalla nostra posizione, dritti di schiena e con lo sguardo fisso in avanti, vediamo gli spogliatoi, degni di un campetto di periferia. E, poco più a sinistra, un paio di porte per qualche tiro d’allenamento. Per vedere il campo vero e proprio, dobbiamo girarci sul fianco destro. Come militari al giuramento. La curva di casa, con pochi striscioni e poche bandiere, è a Ore 7-9. Senza parole. Siamo trecento. Le squadre ci passano sotto. Non fa freddo come preventivato. Soliti esercizi per sciogliere le ugole. Noi vogliamo questa vittoria. Una squadra con la maglia rosso-qualcosa a righe. L’altra in maglia bianca. Al secondo minuto uno in maglia a righe spara a lato da distanza ravvicinata. Non sappiamo ancora se quel gol lo abbiamo fallito noi o stavamo per prenderlo. Ci mettiamo qualche minuto ad appurarlo: si, quelli a righe siamo noi. Il Potenza, in uno strano impeto di ospitalità, gioca tra le mura amiche con la maglia di riserva. Che poi è identica alla maglia di riserva che avevamo noi l’anno scorso. Vincere, siamo venuti per vincere, vogliamo vincere, siamo venuti per vincere. Gli scarponi battono sulla ferraglia, il frastuono è notevole. I potentini a Foggia mi erano sembrati validissimi. Ma, al momento, hanno fatto partire un solo coro. Sul loro sito si parla delle diffide che stanno uccidendo il movimento.

La prima partita del duemilanove, intravista a sprazzi dagli spiragli delle bandiere in moto perpetuo, scorre via noiosa e senza sussulti. Il Potenza non ha voglia di perdere, ma neppure d’offendere. Il Foggia pensa per un attimo di provarci, a metà ripresa. Pensiero stupendo, direbbero al Piper. Mancino colpisce un palo e il tonfo sordo riecheggia fin su agli ultimi piani. Poi Novelli decide di arretrare il baricentro, di accontentarsi.Pare che a fine partita, nel momento in cui ai giocatori viene chiesto di giocare senza di senza la maglia, gli stessi svogliati eroi stessero dirigendosi verso di noi, con l’implicito intento di beccarsi l’applauso per un punto prezioso strappato al “Viviani” di Potenza. In casa dell’ultima in classifica. Che strana gente.

Fuori dal campo sportivo, c’è ressa a puntellare l’apparente disinteresse. Il pullman del Foggia, dove troverà posto qualche pezzo grosso della società, è parcheggiato in strada. Esposto al pubblico ludibrio. I foggiani, pronti a riprendere lo stradone del ritorno, si soffermano qualche attimo di più a ricordare agli astanti la dote preziosa del pudore. Della contrizione e della vergogna. Mentre la polizia sfolla, ed un poliziotto foggiano si lascia scappare che prenderebbe volentieri a manganellate questa squadra senza coraggio. Ma noi siamo contro ogni forma di collateralismo. A ognuno il suo.
La jolly-roger è l’ultima a smettere di sventolare.

02/01/09

In quiete

di Lobanowski 2

Sul sito ufficiale c’è scritto: La grande famiglia dell´U.S. Foggia augura alla grande famiglia dei suoi sostenitori sparsi per il mondo un sereno 2009.
C’è qualcosa che non quadra, qualcosa che non torna.
Rileggo: La grande famiglia dell´U.S. Foggia augura alla grande famiglia dei suoi sostenitori sparsi per il mondo un sereno 2009.
Presto detto.
La serenità attiene al tifoso quanto l’abigeato alla signora Minù.
È un bene prezioso. Non discuto. L’ho sempre augurato ai miei cari. Tranne quella volta, a Casertavecchia, che c’era da scegliere tra i vasi di terracotta: allora, al ballottaggio, vinse la Felicità. Ma, per il resto, non sono contrario alla Serenità, come sentimento, come stato d’animo. Lo accomuno alle tavole imbandite, alle bevute dinanzi al camino, agli amarcord e a certe vedute da certe finestre invernali. Ma per ogni cosa c’è un tempo ed un luogo. E gli spalti di uno stadio non sono il posto adatto per simili impeti.

Un tifoso – il tifoso che sono, quanto meno – in una curva a picco sul rettangolo verde cerca slanci eroici, battaglie da raccontare, agonismo da zippare in aneddoti, sudore ad impregnare magliette bicolore, sofferenza in quantità industriali. Ci sono tifosi malinconici, introversi ed intimisti, che tremano e temono ogni appuntamento, fino a farsi mancare la voce, fino a farsi venire la febbre. Altri arroganti, sbruffoni e saccenti, che mostrano il petto alle fucilate della sorte. Ma tutti, chi più chi meno, si confrontano con l’impeto e con l’estasi, si sublimano alle prese con i tormenti e le tormente. A Cremona è stato atroce perdere, ma è stato altresì meraviglioso esserci. Non c’è campionato tranquillo, confortante mezza classifica che regga il confronto con la delusione cocente di quel ritorno a casa: siamo gente bizzarra, che baratta emozioni per pacchetti di sigarette, adrenalina per quieto vivere. La serenità, dio santo, non è neppure l’ultima delle aspirazioni. Non è proprio un’aspirazione. Vogliamo lottare, esaltarci, librarci come in un decollo. Magari cadere e rialzarci, precipitare e meditare vendetta. Ma assolutamente non sentirci sereni. È l’inquietudine il segreto del gioco.Prova ne sia che siamo a digiuno di spalti e di chilometri da quindici giorni appena. Un’inezia se raffrontata ai lunghi mesi estivi di vuoto pneumatico. Eppure è bastata una scintilla per incendiare la prateria. Una foto, un singolo scatto: il segnale stradale che indica Potenza, immortalato e pubblicato sul mio blog, poco prima di Capodanno. E la ridda di voci ansiogene ha preso il posto dell’apparente ozio da feste comandate. Come togliere il velo da certe nudità intraviste. Non vediamo l’ora. Di raccogliere adesioni, sistemare presenze e mezzi, scegliere tra il furgone noleggiato e la micro-carovana di macchine, caricare il bagagliaio di bandiere, ripeterci appuntamenti e orari e radunarci. Quando ci metteremo in moto, quando sosteremo al primo bar sulla statale, guardandoci negli occhi, avremo la certezza che nessuno, ma proprio nessuno, anela ad un sereno pomeriggio di svago.

La grande famiglia dell´U.S. Foggia augura alla grande famiglia dei suoi sostenitori sparsi per il mondo un sereno 2009.
No, ragazzi, non siamo d’accordo. Per niente.
Se proprio volete venirci incontro, impegnatevi a scuotere le nostre coronarie.
I tifosi conoscono l’alto ed il basso e sanno, più delle persone ragionevoli, che nel mezzo non c’è alcuna virtù da idolatrare.
Per la serenità c’è sempre tempo. Per l’epica, no. E noi si vive d’epica.

Il Libro