24/02/09

L'accento di Jvan

di Lobanowski 2

Domenica 22 febbraio, Foggia-Pistoiese 1-1

“Ci vuole un attaccante di sfondamento, uno che butti la palla dentro”, gracchia una voce dal televisore. La casa si impregna. Ed è un refrain sanremese. Ciclico, ridondante, codificato. Un luogo comune agghindato a bandito, acquattato all’angolo d’ogni mezzo passo falso. Pronto a pugnalare il silenzio, a sovrastare i fischi. Pochi attimi. Poi lo spettatore al telefono, male equalizzato dai tecnici di Telefoggia, si fa rosso d’ira. Il suo timbro vocale s’impenna in un crescendo arioso: “Questa società ci sta prendendo per i fondelli!”. Che gente. Non vengono allo stadio perché piove e fa freddo e poi s’arrogano il diritto di parola. Di sicuro non hanno letto quanto diceva il Presidente Mao in proposito: solo chi fa, ha diritto di critica.

L’accento di Jvan è un problema. Ha deciso che vuole essere dei nostri allo “Zaccheria”, sugli spalti della Sud, e condividere con la ciurma ogni attimo della partita con la Pistoiese. Che già si preannuncia storica. Come, del resto, ogni gara con gli arancioni (…). Noi siamo contenti, finanche lusingati, dalla sua proposta. Ci fa piacere, certo. Solo che la Sud è un (meraviglioso) serraglio di folli integralisti. Tra cui ci saremmo anche noi, oltretutto. Jvan ci tranquillizza: “Ma io non tifo Salernitana – fa, con voce pacata, come a spezzare la tensione – tifo Napoli”. Il silenzio preoccupato muta in accorata partecipazione. “Facciamo che non dici niente e lasci parlare noi”. Accetta di buon grado. Le grate del prefiltraggio, quelle più esterne, quelle che si vorrebbero stabili – a ricordarci la nostra condizione di detenuti in attesa di giudizio, o di imputati a piede libero – sono finalmente al loro posto. Un tributo alla società dello spettacolo. Dentro soffia in piena faccia un vento gelido, da morsa. La curva, che è semideserta a venti minuti dall’inizio, non si riempirà, ormai è certo. Meglio stringersi, compattarsi. Di fronte ci sono nove pistoiesi. È un merito esserci, sempre, e gli va riconosciuto. Un minuto di raccoglimento per Candido Cannavò. Poi si parte, in campo e fuori. Due ricordi si sovrappongono. Quello di mio cugino Carmine, avellinese silente in curva Nord mentre la sua squadra veniva divelta dal Foggia di Baiano e Signori, e un vecchio Foggia-Reggina di B, con la pioggia battente e la tifoseria al piano di sotto. C’era un gruppo di inglesi, quel giorno, a vedere Zanchetta insaccare su punizione. Ci si diverte tanto, quando piove o tira vento (come recita un celebre mottetto). Si salta, ci si spinge, si canta. Quel tanto che basta ad intorpidire le menti, a fissare il proprio sguardo interiore sul pezzo di tribuna che occupi. E farti dimenticare, se ci riesce, che proprio il motivo che ti spinge a far festa – il gelo – oggi ha spinto tanti nostri eroici concittadini a preferire il divano. A seguire lo show mal microfonato di Telefoggia con la recondita speranza che tutto vada male, torni ad andare male, per comporre i numeri del telefono fisso e dire al conduttore che con questa società non andremo da nessuna parte. Uno sfogo morettiano, senza i girotondi. Perché anche i girotondi, diciamocelo, prevedono troppo movimento. Questi non ci sono e basta. In tanti invece ci vengono, ma non saprebbero spiegare ad un tribunale il perché. Braccia conserte, sguardo vitreo a seguire l’azione, scatti repentini a destra e a sinistra per scansare la bandiera che sventola qualche fila più sotto o più di lato, braccino teso o a volo di farfalla a spiegare all’amico che Coletti doveva aprire e Lisuzzo chiudere. Antonio dice che mi vede dare le spalle al campo, fregarmene della partita. Si sbaglia, non è vero che non mi interessa. Ma, a trentadue anni suonati, ho deciso di non far dipendere tutto dai nostri e dai loro undici. C’è un’altra partita, sugli spalti, importante anche aldilà del valore di funzione, che deve essere onorata. E poi certa gente, che presenzia e mugugna, mi appare offensiva, più che inutile. Non dico cantare, per carità… Non dico spingersi e crollare sulle note di uno stornello… Non dico perdere la voce… Ma almeno sostenere: ognuno a modo suo, come gli viene. Invece, mentre il Foggia attacca sotto di noi ed entra in area sei volte nei primi cinque minuti, sembriamo un mondo a parte, circondati dal nastro giallo delle scene del crimine. Limite invalicabile. Sui corner, sui calci da fermo, qualcuno prova ad oltrepassare il limbo elettrificato ed immaginario. E si unisce al canto. Poi il corner finisce tra le mani del portiere, la punizione sfila sul fondo, e tornano a chiudersi in sé stessi, nella loro concezione autistica della partita. Lo speaker ricorda la curva degli anni Novanta, per spronare i reticenti. Dice anche una cosa molto brutta. Dice: “Dove sono i vecchi? Quelli che si sono fatti la serie A?”. Vecchio, qui, è un bel complimento, di solito. Come tra gli alpini. Ma una parte di me, che la serie A se l’è fatta, ci rimane male. Il campo è pesante, i restii non si lasciano commuovere e coinvolgere. Non vedo il fallo da rigore che porta gli arancioni dal dischetto. Vedo che segnano. L’autore del gol va sotto la curva. I tifosi toscani lo salutano superficialmente, lo allontanano con un certo fastidio. Probabilmente stavano giocando a tressette e quello li ha distratti. Ed ora li sta disturbando oltremodo.

E Jvan in tutto questo? Arrivato nel giorno più freddo dell’anno, nel giorno del record negativo di presenze, becca il gol dell’ultima in classifica con stoica rassegnazione alle sfighe. E c’è di più, c’è di peggio. Una specie di ispettore di curva comincia ad aggirarsi tra le linee dell’esercito abbioccato e deluso. Afferra dal cravattino i fanti scoraggiati, li scuote, li percuote, fino a farli dondolare avanti e indietro, come pupazzi di pezza: “Allora? Volete cantare o no?”. Il tono non è conciliante. Lo speaker fa partire Noi non molleremo mai, la versione sulle note di Go West dei Pet Shop Boys. E l’ispettore prosegue il suo tour, a sincerarsi che ogni labiale corrisponda. Erano anni che non succedeva, che non c’era bisogno di cotanto drastico provvedimento. Proprio oggi che c’è Jvan. Eppure Jvan canta, con la massima naturalezza, senza perdersi d’animo, senza risentire delle forzature. Almeno, così sembra. Il pareggio giunge nella ripresa, ancora su rigore. E alla fine piovono i soliti sparuti fischi, dagli angoli del silenzio. Ma non è quello che conta. Oggi mi ha impressionato altro. E cioè che erano anni che non mi soffermavo a pensare alla serie A, a cos’era la curva a quell’epoca. Me l’hanno fatta risalire come un gin-lemon, rancida come un conato di maionese. Idolatrata, mitizzata, sopravvalutata. Certo, diecimila voci sembrano più possenti di centocinquanta. Ma non c’è da rimpiangere niente. Una diserzione di novemila e passa uomini non è cosa da ricordare con nostalgia, nel bilancio di una guerra trentennale come la Guerra dei Trent’anni. O centenaria, come quell’altra. Ci sarebbe da scomodare Shakespeare, il suo Enrico ad Azincourt, il suo giorno di San Crispino e Crispiano. Ma quel pistolotto poetico l’hanno usato tutti, dai fascisti all’antimafia. Allora, meglio sorvolare. Scriviamo sulle nostre porte: Niente nostalgia. E andiamo avanti, please.

Jvan è partito alle 18,25, dal binario 4. L’Eurostar, di quelli bianchi e rossi, un po’ vetusti, un po’ comici, un po’ Treno Ok di una volta, ha fatto il suo placido ingresso in stazione, planando come un Pendolino senza pendolo. Il rituale d’ogni arrivederci, un abbraccio, una raccomandazione scherzosa, una battuta. La bandiera ancora in mano, residuato del pomeriggio. Mattia, che ad Jvan l’ha preso proprio a benvolere, dice che lo si potrebbe salutare sventolando. Si ride. Dovessero esserci dei baresi a bordo, lasceremmo il nostro salernitano alle prese con una quantità di contraddizioni difficilmente esplicabili in un’oretta di viaggio. Lasciamo perdere e lo guardiamo salire. Sulle scale che portano al sottopasso, però, decidiamo che la bandiera può essere aperta. Così, giusto perché se hai una bandiera è bello sventolarla. Una famiglia – padre, madre ed un bambino – sta per imboccare la nostra stessa scalinata, solo in senso opposto. Ci viene incontro, distrattamente. Poi si accorgono della nostra presenza. Ed è un attimo. Il padre allunga la sua mano protettiva sul bambino e sulla consorte. E l’intero gruppo si schiaccia al muro, come si fa quando c’è un terremoto da far trascorrere, e ci si accalca sotto gli stipiti delle porte. Ma noi siamo in tre, stiamo ridendo, e c’è una bandiera che fa avanti e indietro. Capisco quel che sta succedendo ed allargo lo sguardo. Attorno a noi, i passeggeri scesi dall’Eurostar al binario 4 sono imbarazzati. Se ci siamo noi, è probabile che ci siano altri tifosi, altri “ultras”, nei paraggi. E la cosa pietrifica diversi bravi viaggiatori, li rende confusi sul dopo, immobili nel durante. Sguardi obliqui, qualche sussurro. Il tutto per una bandiera. Eccoci, faccia a faccia, col mostro mediaticamente costruito. Questa è la gente che s’abbevera al video, che ha imparato a temere, a tremare di questa (e di ogni altra) difformità comportamentale; questa è la brava gente in buona fede che non può più fare a meno di ritrarsi, se non proprio fuggire, alla vista di ogni pericolo indotto. Che pensa male di tutti solo perché qualcuno ha spiegato che così si fa. Un po’ li capisco, un po’ li detesto. Mattia, invece, vorrebbe prenderne a ceffoni un paio, così, presi a casaccio, a mo’ di sveglia. Giusto per confermare, nel rovesciamento dei valori, il senso di un luogo comune. Meglio lasciar perdere e tirare avanti. Dietro di noi c’è gente che sbircia ancora verso i binari, che si attende di veder spuntare dal nulla e all’improvviso altre duecento teste calde, e nel frattempo si esercita nel fingersi invisibile. Meglio andare. Lasciare l’atrio e liberare una stazione prigioniera dei suoi fantasmi. Che poi sono i fantasmi di un intero Paese.

16/02/09

Bremec e Brunner ...ma c'è il gabbiotto

di Lobanowski 3

Il freddo si è infilato nelle ossa sin dal sabato sera, realizzo poco al risveglio. La partenza è fissata nel parcheggio dell'Ipercoop. Che alle dieci, con Foggia che sonnecchia, è deserto. Cielo cupo, il vento scuote la Nissan, mentre sono in silenzio e ricontrollo mentalmente che ci siano tutti i "ferri del mestiere". Cuffia, foglio con l'intro egli appunti, "cornetto", tesserino...
Forse è la trasferta che temo di più; sarei stato più tranquillo se avessero giocato a Castellammare. Almeno c'è il gabbiotto, e avrei lavorato più tranquillamente. Si parte, non c'è neve fino a Vallata. Fisso il vuoto e penso a Nesti paraculato dalla Gialappa's dopo il suo "tasso di umidità molto elevato...molto scarso..". Sorrido, rivivo il momento in cui Topone ha sfossato questa battuta nello spogliatoio, il lunedì prima, durante il prepartita della Dinamo. Filippo tace alla guida, poi lancia l'allarme: "Mi sa che abbiamo sbagliato strada..."In realtà, eravamo su quella giusta, ma non abbiamo imboccato l'uscita Nocera-Pagani, perchè non potevamo saperlo. Fottuta segnaletica. La distanza tra Angri e Sant'Antonio Abate è un marciapiede. Finisce un paese, ne comincia un altro. E' il posto più particolare (o particolarmente brutto) che abbia mai visto.Dinanzi ad un bar giovani con sciarpe giallorosse. Si preparano alla trasferta: il Sant'Antonio Abate oggi gioca a Torre del Greco con la Turris, fanno la serie D. Sguardi torvi, attiriamo le attenzioni dei cento parcheggiatori abusivi e di un carabiniere che non sa indicarci l'entrata per i giornalisti. Ci siamo nella lista, ed è già un' ottima cosa. Non ho il coraggio di entrare in tribuna; voglio rimandare il più possibile il momento in cui prenderò coscienza di dover lavorare tra i tifosi stabiesi. Più o meno come quando speravi che matematica non avesse ancora corretto i compiti in classe.....
"Cazzo, c'è il gabbiotto....."...espolodo di gioia...mentre faccio a grandi passi le scale. Mi volto verso il campo di gioco. Sintetico che pare il Kappa3, piccolo, con gli alberi dietro una porta e col muro ai piedi del cancello, lato gradinata fantasma. La Curva ha i gradoni giallo rossi, e la scritta un pò sbiadita "Sant'Antonio Abate". Alla mia sinistra uno scorcio della costa, col Vesuvio sullo sfondo. Sembra lo stadio di una neopromossa nel massimo campionato romeno.Ma ha un suo perchè. Il gabbiotto è chiuso, ma la vetrata della porta è sfondata. "Potete infilarvi", ci dice un non so chi. Lo faccio, ed entro il quel gabbiotto aperto sul retro, soddisfatto. Un tavolo sporco , tre sedie, nessun altro operatore. Enorme sollievo, mentre in sottofondo c'è una muscica dance inascoltabile. Arrivano le formazioni, si gioca. Segna la Juve Stabia e tutti urlano "Juve-Juve". E lo fanno in maniera molto più intonata, rispetto a quegli stonati stornelli gobbi. Capiscono che siamo ospiti, e io capisco che loro capiscono. Quando parte Piccolo, so dove andrà il pallone, perchè Brunner non si muove. Tutti si girano dalla mia parte, perchè si aspettano un'esultanza plateale. Continuo a parlare e fingo di annotare su un taccuino che non ho. Al 2-1 è lo stesso, anche se vorrei uralre stile Villaggio in "iO No spik inglish". Poi si arrendono, capiscono che il Foggia è più forte. Si soffre dopo il 2-3, ma neanche tanto. Non la migliore performance...Mi hanno fregato il freddo, l'oggettiva paura di essere in un luogo particolare (e particolarmente brutto) e la radice di Brunner e Bremec...Ho fatto un casino, li ho confusi più volte. In genere mi incazzo, ma stavolta no. So di aver raccontato una vittoria e tanto mi basta. Il telefono non prende in sala stampa: uno scantinato. C'è un bar, una gentile signora mi offre un caffè caldo. Chiedo : "Quanto devo". Nfanient , risponde. Arrivano il presidente, il mister e Colombaretti. Felici per un qualcosa che non s'aspettavano. E neanche io mi aspettavo di tornare felice, sollevato ed entusiasta. Avellino est e il suo buio non mi fanno alcun effetto, e trovo bellissimo un autogrill poco dopo Lacedonia. Corro a casa, c'è il derby e voglio risentirmi un pochino. Senza incazzarmi per Brunner e Bremec....

Provinciali e no

di Lobanowski 2

Domenica 15 febbraio, Juve Stabia-Foggia 2-3


Questa città è ancora provincia. Periferia meridionale, feudo, di un impero calcistico che ha altrove le sue capitali. Cerco di convincermi del contrario, e agisco come se ne fossi convinto. E dalla mia azione scaturisce il convincimento, come un drago nordico che si avvinghia alla sua coda rugosa. Ma dal salumiere il marito della signora allampanata parla di una partita imperdibile, di una domenica infuocata. Lei gli chiede del Foggia, azzarda, ma lui fa spallucce, si ritrae, quasi indignato. Inter-Milan, dice, domani c’è il derby della Madonnina. Google Maps fissa in 760 chilometri la distanza tra via Zuppetta e il centro di Milano. Procedi in direzione sudovest da corso Giuseppe Garibaldi verso via Luciano Mele. 7 ore e 5 minuti. E pochi secondi per accendere la bagarre al banco. I due tizi di mezza età sorridono, prima di schierarsi, di infervorarsi. Milanisti contro juventini, che si limiteranno a gufare. I bambini a scuola sono tutti interisti, dice Ceska. È un classico: i bambini salgono sul carro del vincitore, imitano gli adulti. Fuori il mercato del sabato è quasi un ricordo, la sera è alta. Possibile che nessuno abbia risposto all’imbeccata del signore gobbo con un sonoro: Non mi interessa, sono di Foggia e tifo per il Foggia? Solo per il Foggia. Pazzesco. Senza contare che questi hanno continuato a tifare Inter, Milan e Juventus anche quando il Foggia calcio viveva i suoi anni eroici. E poi vengono a parlare a me di Zeman e calcio totale. Indecenti, sono esseri indecenti.

Non ho ben capito perché non si gioca a Castellammare di Stabia, ma questo stadio che snocciola le gradinate di una dignitosissima tribuna centrale man mano che la telecamera allarga il raggio d’azione, non sembra quello di Sant’Antonio Abate. Zitti, state zitti, sentiamo. Il mister è a centrocampo, l’inviato di Conto Tv gli porge le domande di prassi, quelle banali sulle intenzioni della squadra. Come se quello dovesse rispondere – da un momento all’altro – che non ha alcuna voglia di vincerla, la partita, e che preferirebbe starsene a casa a vedere la Lambertucci che cura il mal di schiena. Risponde che si, qualcosa è da rivedere ma c’è gran voglia di stare bene. E l’accento è inconfondibilmente nordico. Troppo. Ci guardiamo stupiti, l’ansia da sottile pungolo si fa pensante lamina: Ma di dov’è l’allenatore della Juve Stabia? Fingiamo di non aver capito, ci esercitiamo in fintotontismo. Lo zoom indietreggia ancora. Ci saranno venti file di gradini, in quella tribuna. Senza contare quelle sotto. E le poltroncine. Sicuro non è lo stadio del Sant’Antonio Abate. Ergo: abbiamo sbagliato partita. Il cognome in sovrimpressione elimina ogni dubbio: è l’allenatore del Padova, quello sullo schermo. Abbiamo comprato un’altra cosa. Ci toccherà vedere il Verona impegnato all’ “Euganeo”. Il panico diventa più gelato del vento. E si che fuori la temperatura lambisce lo zero. Il più su di giri di tutti prende a premere tasti a caso sul telecomando, guidato da una follia incipiente. Scopriamo, affascinati, che Conto Tv possiede anche una rete 2. E, avvinti come l’edera, anche una 3. Qui è in onda un campetto in erba sintetica, senza tribuna, ma con un elegante reticolato a dividere il dentro dal fuori, con perizia adagiato a fungere da limite estremo di un parcheggio per mezzi pesanti: ci sono due pullman gran turismo e un camion dei vigili del fuoco. Mi sa che è il nostro. La speranza cresce al crescere del brullo paesaggio. E più il paesaggio è brullo, più speriamo. Poi una tuta rossonera impalla il cameraman: prolungato sospiro di sollievo. Non avremmo cambiato il nostro spelacchiato rimasuglio di quarta serie per nessun polifunzionale centro sportivo dell’opulento Nord-Est. Garantito.

Vinciamo. Oggi vinciamo. Il sentore è consistente, il pronostico fiocca a più voci, polisemico e polifonico, come una corale bizantina. Ho un cauto X2 sulla bolletta della Snai, quotato poco più di 1,50. Angelo ha fatto come me, e ci piazziamo in coda all’ammasso di sedie. I primi dieci minuti li perdiamo a discutere d’altro: c’è una giornalista locale che ci ha omaggiati della sua presenza, qualche tempo fa, durante un dibattito sulla questione palestinese. E da qualche ore impazza la ressa sul suo articolo, appena pubblicato su un settimanale free-press, e zeppo di inutilissime osservazioni che non avremmo accettato neppure da un anchorman di fama. Si fa il domenicale per quelli che ancora non sanno, si ricapitola con quelli che conoscono la vicenda. E com’è, come non è, la Juve Stabia segna. E il naufragar è spietato. C’è uno strano rinculo ad ogni rete presa in tv. Un effetto camera d’aria che lascia attoniti ed impotenti. Certo, si può sbraitare contro l’elettrodomestico, e succede. Ed è un bene che nessuno videoriprenda la scena per approntare futuri ricatti. Ci giunge l’eco della curva stabiese. Sui vetri, l’ululato del vento polare. A Pescara hanno finanche rinviato la partita col Marcianise. Tempo da lupi. Sorvolo le teste dei miei compagni: il rituale, alla fin fine, è lo stesso di sempre. Si vinca o si perda. C’è un gruppo, discretamente assortito e amalgamato dalle domeniche vietate, composto da gente che assiste, impreca, s’alza, beve, fuma. Ma, soprattutto, tesse una rete di complicità, di mutuo soccorso conto terzi, di condivisione difficilmente riproducibile altrove. È il potere aggregante del calcio, cari i miei snob di terza tacca. Capita e non si spiega: che, sotto di una rete, ci ritroviamo a parlare con foga di un viaggio a West Belfast, fantasticato per i primi di agosto, in un charter gomito a gomito con pisani e milanisti, o del nostro dream team per Sport Sotto l’Assedio, l’iniziativa di solidarietà alle popolazioni dei campi profughi in Palestina; o dei Mondiali Antirazzisti di luglio, ad ipotizzare scenari di incontri e birre a fiumi coi nostri omologhi baschi, turchi, francesi, irlandesi, di impegno e cazzeggio a targhe alterne, come in centro a Milano. A sette ore da qui. E la scossa elettrica viaggia da cranio a cranio, trascendendo dal motivo che ci sforziamo di far rimanere centrale. È la cosa che ci unisce, anche quando non ci riflettiamo a sufficienza. Come al pari pennellato su punizione, o al raddoppio di rapina. Alla fine del primo tempo siamo in vantaggio. Su binari paralleli: in tele a Sant’Antonio, a Reggio, a Belfast. E, perché no, a Gaza.

Spalanchiamo la porta ed usciamo a respirare la gelata. Siamo una ventina, forse di più, coi bicchierini di plastica, le Diana rosse, i dolci di Moffa o ancora la pasta al forno nel piatto. A discettare di Piccolo, che pare sia un nostro giocatore, o di Colombaretti. Idem. È stato dissotterrato, come un simbolo di guerra, il bandierone con la stella gialla in campo rossonero, quello steso a Manfredonia, l’anno scorso, che pesa chili. Alcuni si esercitano a centro strada, altri fanno i conti sulla Cavese, sul Crotone che s’impone a Benevento. Non siamo provincia. Non apparteniamo a nessun impero. Noi, quanto meno. Siamo qualcosa di appena percepibile, un dualismo di forme e di sostanze in continua lotta. La serie C, che dura da dieci anni, ha temprato i fanti di questa città fino a renderli irriducibili, gente sulla quale puoi contare. E, come da copione, ha reso diportisti gli altri, tutti gli altri, che si sono dedicati ai loro soliti amori riflessi e non ricambiati. Servi della gleba, onanisti alle prese con le loro passioni da rotocalco, gente da una partita all’anno, se tutto va bene. Qui, si sa che torneranno a gremire lo “Zaccheria” quando le cose andranno meglio. Come se fosse la squadra a doverli conquistare, affascinare, vincere. Come se fossero così preziosi da dettare i tempi di un assurdo corteggiamento. Quasi che toccasse alla fede rendersi appetibile al fedele. Noi siamo d’altra scuola, e proviamo ad esplicitarlo martellandoci d’appuntamenti, di iniziative, aprendo casse comuni. In vista c’è il pullman per Gallipoli, da autorganizzare anch’esso. Ci pensiamo, e sostiamo ad assaporare lo strano effetto che fa.Una landa desolata, una crosta spopolata. Da via Arpi a piazza Giordano, non c’è nessuno. Incrocio la marea assente in senso contrario: incappo in una coppia di anziani amici che parlano dei campi, in una comitiva di ragazzi che non sa se separarsi o proseguire assieme fino al bar più vicino (e che alla fine prosegue), in due fidanzati che parlano fitto e a bassa voce, all’altezza del Banco di Napoli. Nessun altro. Ore 20:15, e Foggia è una città deserta. Sarà la temperatura, provo a convincermi svoltando in via Matteotti, sarà che domani si lavora di nuovo, ed è sempre un trauma. Ma il pensiero cosciente non s’impone alla superegoica consapevolezza di come stanno le cose: i foggiani affollano i locali, le case, i pub. Occhi sugli schermi al plasma, a prostarsi a Pato, a Ronaldinho, a Ibra. Turpe paganesimo, rimasugli politeisti. Il Foggia ha vinto. 3 a 2, alla fine di una partita in tutto simile a quella di Cava, ma senza il clima da guerra civile. La classifica mostra le crepe che la spaccheranno, da qui a maggio. Noi siamo su una zolla relativamente stabile ed abbiamo ottenuto la prima vittoria esterna. Sebbene in pay-tv. Fa niente, abbiamo di che gioire. Mi specchio trafelato nella vetrina di un negozio, a corso Giannone. Penso che in realtà, come Brecht, non ho alcuna fretta di raggiungere il mio obiettivo. Rallento. Tra un po’ cominceranno a rumoreggiare le finestre. Interisti, milanisti, juventini riprenderanno la carnevalesca danza degli sfottò. I ritardatari si riconoscono dal passo veloce, dalla semi-corsa. Rallento ancora, stavolta con l’intenzione. E il mio incedere pesante, passo dopo passo, diventa una rivendicazione d’appartenenza. Una forma plastica intenta a salmodiare: Non siamo provincia. Di nessun impero.

15/02/09

"Meglio il Foggia" su Sport Week


09/02/09

Il trasloco

di Lobanowski 2
Domenica 8 febbraio, Foggia-Foligno 2-2
Domenica. C’è chi rientra dalla diffida e chi giace a letto con la febbre; chi si lascia ingoiare dal traffico e chi è ancora alle prese con l’obbligo di firma. Anemica e atipica, la Ciurma s’avvia all’una, dopo aver fagocitato pistacchi e amari di marca. Una sosta dagli ambulanti polacchi, a piazza Libanese, per trattare sul prezzo d’una canna da pesca. È un consiglio dei doriani, quello di issare i vessilli in cima ai sei metri d’asta flessibile. Lo mettiamo in pratica, ma resta teoria. La contraddizione sembra stridente, ma in effetti il gruppo si perde nei meandri di un disguido. E non va oltre le prove generali, fuori dai cancelli della Sud. Bello l’impatto, anche dalla grande distanza, poi il tempo serve a far si che si regolino i conti. Bisogna temprare il collettivo, come in un altoforno. In campo le squadre fanno riscaldamento. Lello mi annuncia che non ci sarà Burzigotti. Cercano d’affinare il mio sapere tecnico, i compagni. Ma non c’è storia.
A verbale che abbiamo completato il trasloco. Basta alzare lo sguardo, stringere gli occhi e aguzzare la vista per rendersi conto delle leghe in teste umane che, adesso, dividono dove eravamo da dove siamo. Più di dieci metri in linea d’aria, dall’alto della destra al cuore della Sud. Abbiamo mantenuto un certo strabismo, come in elogio all’asimmetria. Ma il richiamo dello sventolare perpetuo, delle vibrazioni oltranziste che si respirano al centro, ci hanno costretto a trasmigrare, come marinai all’ordine di un canto. Sopra, dove eravamo, i cori giungono pesanti e solo i più forti – come spermatozoi – resistono e attecchiscono. Certo, ci siamo interrogati a lungo sul nostro ruolo propulsivo: se cantiamo in dieci, c’è probabilità che diventeremo undici, forse finanche dodici. Ma la curva è divertimento. E cosa c’è di più bello che essere il primo ad innalzare il coro della riscossa non appena la squadra prende il primo gol? Cosa di più epico del continuare, e continuare, e continuare la cantilena, mentre il risultato svanisce, evapora? Ecco: tutto questo sopra non lo si può fare. Ed abbiamo ascoltato gli amici che, da diverse settimane, ci chiedevano di compattare il fronte. Dietro la porta, squadre in campo.
Entrano i folignati. Salutano agitando braccia e mani. I fischi atterrano copiosi sul manto erboso. E rimbalzano. Qualcuno grida. Tanto strepito per dei perfetti sconosciuti. Stendono le pezze, e tutto appare chiaro: Tk, che sta per Teenager Korps, La Ghenga, Urb… Che sta per Ultras Brindisi. Sono gemellati, aquilotti e salentini, ma non c’è dubbio che i pugliesi siano più degli umbri, nel pezzetto di curva Nord destinato agli ospiti. E il primo coro della Sud è tutto per loro. Per i gemellati brindisini. Ci sono anche gli Hooligans Warriors, sigla truculenta che scatena una certa inevitabile ilarità. Volemo una curva nuova, scrivono. Noi, a Foligno, non ci accorgemmo neppure che ne avessero una, di curva. Sta di fatto che bisogna portare rispetto: essere ultras a Foligno non dev’essere cosa facile. E allora, ben vengano gli HWF. Con tutto il peso nel nome.
In campo gli ospiti sembrano farsi pochi scrupoli. Non assomigliano affatto alla squadra inconcludente e lenta vista all’andata. Sono in fase crescente, dicono gli esperti, tanto è vero che domenica scorsa, nel recupero, hanno steso il Gallipoli capolista. Sugli spalti, in virtù della nostra nuova e definitiva posizione, siamo circondati dai canti. È un bell’effetto, per le orecchie stanche di chi percepiva cori solo dal basso in alto. Siamo nella baraonda, e balliamo. La curva è colorata, e partecipiamo con uno sventolio costante al costante sventolio di contorno. E quando passa il Foligno, su botta dell’ex De Paula, siamo i primi – o quasi – a seguitare nel coro. Perché, quando giungono le mazzate dal campo, i cori subiscono lo stesso crollo delle ginocchia colpite a freddo. E c’è bisogno di una buona dose d’indifferenza, più che di passione, per soffiare sul fuoco che si stempera. E farlo tornare al suo regolare calore. Il pareggio è una palla che danza sulla linea dall’altra parte del campo. Lo intuiamo, esultiamo. Siamo carichi. La fila di dietro si diletta in una sorta di pogo, il calore si diffonde anche a febbraio. In molti si liberano delle felpe. Spuntano le t-shirt. Alte le rossonere. Tre, quattro, le conto. Bene così. Al duplice fischio, cantiamo ancora. C’è chi è già senza voce: dopo anni di Daspo, non avere i novanta nella gola è contrattempo naturale.
Nella ripresa, ci crediamo di più. Per due, poi tre volte, l’intera curva sparisce nel gorgo del coro. Ed è emozionante. La squadra attacca sotto di noi, guadagna angoli e metri, sembra aver trovato le giuste contromisure agli umbri. Passa. E l’entusiasmo è contagioso. È un gol chiesto, preteso, ottenuto, nella migliore tradizione del dodicesimo in campo. I brindisini tornano nel mirino, presi per culo per quella loro sconcia presenza. La sciarpata, uno dei momenti di maggiore estasi. Un tizio, in mezzo a noi, si toglie dalla gola la sua tubolare in omaggio al duce. Lo guardiamo, lo riguardiamo. Non è incredibile, ma incomprensibile si. Panta rei. I tre punti sembrano acquisiti. Invece il Foligno torna a farsi sotto, e mette alle corde la nostra difesa. Entra Malonga, il ventenne attaccante del Toro acquistato in settimana. L’oooooooooOOOOOOOOO di attesa è stupidino. Olè. Il ragazzino ha i piedi buoni, e a giudicare da come controlla palla, anche una discreta personalità. Bremec si stende a fare il Given su quella che riteniamo essere l’ultima offensiva furente dei blu. Invece, quando la bufera sembra alle spalle, il Foligno pareggia su rigore. E i giocatori corrono a fare festa sotto i brindisini. Che sarà, sarà, Per sempre ti seguirem, Per sempre ti sosterrem, che sarà, sarà. Funereo, sa di rassegnazione. Avremmo preferito un più abbaiato Fino alla fine, Forza ragazzi, invece ci tocca questo. E poi, con le squadre negli spogliatoi, il pirotecnico gioco di ruolo dei tifosi ospiti che – blindati – gridano “Conigli!” a quelli che, in campo, stanno togliendo gli striscioni. Magie dell’auto-rappresentazione. Del resto, non sono solo hooligans. Sono pure warriors.

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