30/03/09

Come il sole a mezzogiorno

di Lobanowski 2

Domenica 29 marzo, Arezzo-Foggia 1-0

Qui non piove, ma le previsioni danno pioggia su tutto il versante tirrenico. Non me la bevo: i metereologi e le loro diavolerie stanno ostacolando i miei piani. Vogliono, per qualche ragione che mi sfugge, vedermi bardato all’invernale ancora a lungo. Impedirmi di sfoggiare la t-shirt. Le lancette sono dolorosamente scivolate avanti di sessanta minuti e, nonostante il bilancio di un sabato sera tutto sommato quieto, il deficit di sonno si fa sentire. Il furgone noleggiato spunta da corso Roma come un vecchio amico. Ci contiamo come in gita scolastica: uno, due, tre, nove. Un breve resoconto delle bandiere e della strumentazione da viaggio. Ci muoviamo, con soli sette minuti di ritardo sull’orario prefissato. Nella più ottimistica delle previsioni.
Alle 6, che poi sarebbero le 5, è ancora buio. Il clima è sonnolente e chi trova la posizione, crolla. Al ponte di Lucera, dormono già in due. E il numero tenderà ad aumentare nei primissimi chilometri di questa spedizione della speranza. Ho lavorato di fantasia lungo tutta la dorsale della settimana appena passata; ho elaborato e rielaborato il momento: immagino il gol del Foggia, l’intero settore che viene giù, il più liberatorio dei putiferi. E sento la pelle d’oca incombere. Devo scuotermi per evitare di perdermi quel sentiero parallelo, di avventarmi/annientarmi in quell’universo onirico. Il cielo tende a rischiararsi, la campagna attorno assume tonalità sempre più definite. Lo stereo a cassette è una mannaia sui nostri progetti musicali e, tra Volturara e Indiprete, le curve ascendenti impediscono all’onda sonora di stabilizzarsi. Questa strada ci è familiare. Se i nostri piani saranno rispettati, alle dieci avremo Roma sottomano. Il primo tratto è di Giuseppe e la velocità di crociera è considerevole. In meno di due ore manteniamo fede alla nostra sosta a Venafro. Ci sono 21 cornetti nel bagagliaio. Peppone ne chiede uno “con la confettura”, e tutti si svegliano in una nuvola di buonumore. Solito bar per il solito giro di caffè, solito bagno per i primi stimoli primari, solito spaccio di mozzarelle di bufala. I manifesti annunciano che è in corso il primo campionato di karaoke, mentre s’è da poco disputato il match di calcio a cinque tra Scarabeo e Real Adriatica. Chissà l’Osservatorio. Noi abbiamo pagato – in anticipo, circuito TicketOne – 13,20 euro comprensivi di prevendita per un tagliando nominale. Il barista ci chiede a quale manifestazione siamo diretti. Rispondiamo che no, che stavolta andiamo a guadagnarci il diritto di insistere. Fa due conti e ci saluta: “Ci vediamo alle nove”. All’imbocco del paese c’è un circo di palese sottomarca. La guida passa a Jordan.

Badia al Pino è un autogrill in tutto simile agli altri che lo precedono. E a quelli che lo seguono. Qualcuno ci ha detto che è meglio evitare di fermarsi lì, che la Stradale potrebbe creare problemi. Noi abbiamo deciso che, in ogni caso, vale la pena rischiare. Abbiamo messo la freccia a destra. Ci sono diversi furgoni, dentro. Pensiamo a qualche tifoseria in transito. Poco prima gli stabiesi diretti a Pistoia ci sono sfrecciati accanto. Prevarrà la cavalleria, il muto patto che ci stringe a quel ragazzo, Gabriele o Gabbo che dir si voglia, e alla sua morte assurda. Che poi, andando a stringere, con Gabbo non condividevamo nulla, se non questa assurda voglia di macinare chilometri. E tanto basta. Parcheggiamo e, non senza sorpresa, scopriamo che quelli che sostano sulla piazzola sono foggiani come noi. È un luogo tetro, Badia al Pino, reso ancor più funereo dalla pioggia sottile e dal cielo carico di nuvole nere. Due passi a piedi in direzione dell’uscita. Non c’è alcun altare spontaneo, nessun luogo della memoria. La memoria è, a prescindere, invisibile. Uno sguardo dall’altra parte della carreggiata. Cazzo. L’autogrill che ci sta di fronte, quello da dove hanno sparato, è vicinissimo. Ha mirato, ci mancherebbe altro. Ha sparato per colpire, altro che. Le macchine sfrecciano nei due sensi di marcia. Un pensiero alla famiglia, agli amici. Un brivido gelato in un rapido processo di immedesimazione. Muoversi, allontanarsi in fretta da quel posto. Fossi cristiano, ci starebbe un segno della croce. Ma non lo sono, e provo imbarazzo al commiato dall’asfalto.

Il cartello “Tifosi ospiti” indica dritto. Ci conduce ad un incrocio, ci porta a destra, poi a sinistra, poi ancora dritto. Lo perdiamo, lo ritroviamo. E sbuchiamo sulla tangenziale. Una freccia ancora a destra. Altro slalom tra le vie della periferia. Poi uno stradone. Un secondo. Un terzo. Il decreto parla chiaro: bisogna evitare i contatti tra le opposte tifoserie. Anche se le due tifoserie in questione non hanno mai avuto contatti in vita loro. E, semmai dovessero avercene, dubito che si riconoscerebbero. Fatto sta che la legge è legge. Quando giungiamo sul piazzale, capiamo che al punto di partenza eravamo alle spalle dello stadio, e che abbiamo circumnavigato il globo prima di spuntare dall’altra parte. Ci sarà la lobby dei benzinai, dietro. Al primo controllo si va con biglietto e documento d’identità alla mano, come all’imbarco in aeroporto. Apro la mia carta d’identità. Lo steward mi guarda a lungo, per carpire eventuali differenze. Penso che sia stato un bene non portare la patente, dove spicca una foto dei miei anni da capellone, interrotti bruscamente dalla calvizie frontale. Il secondo omino che m’accoglie ha il metaldetector. Suona tutto. Fibbia, cellulare, mazzo di chiavi, digitale, monetine. Ma quello ha una faccia bonaria e dice: “Vai, vai”. Sembra finita. Invece, dietro l’angolo, spunta il tornello. Alto e becero, come una Vergine di Norimberga; strumento di tortura che mi causa claustrofobia. Uno per volta. Il terzo omino di questa storia ci sussurra, con marcata cadenza toscana: “Ragazzi, non li mettete i tornelli… Sono soldi buttati”. Con noi sfondi una porta aperta, amico. Dentro.

C’ero già stato, in questo stadio. All’Arezzo Wave, una sera d’estate. C’era Kusturica, col suo palco immenso a nascondere la curva dove siamo adesso. E, guardandola per la prima volta adesso, ammetto che aveva le sue buone ragioni. A volte non ci si riflette. E l’esperienza annega le facoltà critiche in un mare di consuetudine. Ma pure ammettendo che il calcio possa essere uno spettacolo, com’è possibile – mi domando – che a qualcuno venga in mente che debba sorbirmelo ad altezza d’uomo, dietro la sagoma del portiere. È come se andassi al cinema e mi obbligassero a sedermi sotto lo schermo con la motivazione che non sono del luogo. I progressisti parlerebbero di “intollerabile caso di intolleranza”, quanto meno. Qui, invece, è tutto normale. Il vento gonfia gli striscioni come vele d’un peschereccio. La Ciurma s’allarga ai romani, ai bolognesi, ai modenesi, ai fiorentini, ai perugini. Gli espatriati, però, da una prima rapida cernita, non sono tanti quanti se ne prevedevano: un centinaio, forse. Noi, da Foggia, saremo altrettanti. Di fronte c’è la curva aretina. È vuota, con qualche sprazzo di teste in basso. Abbiamo ingoiato Gallipoli, e la sua curva a quattro gradini. Ma qui è anche peggio. Contestano la squadra, ed hanno 44 punti; la fischiano all’ingresso e sono in piena zona playoff. Ci scaldiamo, cantiamo.

Il Foggia sembra propositivo. Lello ha invocato un 3-0 senza pensieri, una di quelle prove che rasenti l’orgasmo e torni a casa fischiettando. La squadra attacca, ha pure qualche spazio da sfruttare. Ma non punge. Noi offriamo una prestazione confusa, con rari cori imponenti e poca coordinazione. Il vento impedisce alle bandiere di sventolare. Poi comincia a piovere. I cappucci si inzuppano rapidamente, mentre in campo l’Arezzo fallisce il vantaggio. Viene espulso Lisuzzo per fallo da ultimo uomo. Qualcuno vorrebbe cominciare a piangere alla mezz’ora, per portarsi avanti col lavoro. Ma non è possibile, bisogna crederci ancora. Alla fine del tempo le reti restano inviolate. Nella ripresa, cominciamo a guardare di buon’occhio anche il pari. Non ne sono convinto. Vorrei vincerla, questa partita. Vorrei tornare coi tre punti. Non mi succede da tempo. Invece i minuti scorrono, e facciamo di necessità virtù. “Quanto manca?”, chiedo in giro. “Venti minuti”, mi rispondono. Penso ad un calcio piazzato, ad un lancio che peschi un attaccante isolato, a qualcosa di fortunoso, ad una burgnichiana vittoria in extremis. Tanto più che non sembriamo rischiare. Al minuto 81, poi, uno dei loro fa partire un tiro senza pretese verso l’angolino. Bremec, il nostro estremo catalano, si tuffa sulla destra. Ma non la devia in angolo, tenta di bloccarla. La palla sfugge, resta lì. Il loro attaccante è un nostro ex, Chianese. Uno bravo, uno veloce, uno efficace. Inutile dire come è andata a finire. Il boato è insignificante, più d’uno attorno a me non s’è neppure accorto d’aver preso il gol. Vince anche la Cavese, lo annuncia l’altoparlate. Meno sei, di nuovo. Per molti è finita. Io m’aggrego, con convinzione, al Noi non molleremo mai che parte dal settore.

Saluti a tutti. Poi è di nuovo autostrada. Imperversa Dolcenera. Alla fine, inutile girarci attorno, tutto si riduce alla tua capacità di incassare i colpi. I dardi dell’avversa fortuna. Quando sbarchiamo al solito bar di Venafro, alle 9 come previsto, il barista ci accoglie come vecchi amici. “Avete perso?”, ci chiede. E a noi non va di fingere.

27/03/09

Recensione Corriere

Siamo sul "Corriere dello Sport"

http://www.corrieredellosport.it/Notizie/Calcio/62746/Dal+Foggia+agli+eroi+del+Rugby%3A+i+libri+della+settimana

25/03/09

Il terzo pensiero

di Lobanowski 2

Il regionale delle 13:13 si riempie lentamente. Non è ancora orario di punta, i pendolari propriamente detti sono ancora in ufficio. A Barletta salgono quasi esclusivamente studenti.
Ce ne sono sette, nella mia stessa carrozza. Parlano a voce alta, da posto a posto, scavalcando gli altri passeggeri. Lo stato patrimoniale delle aziende è il loro principale tema di dibattito. Studenti di economia, penso, riprendendo l’Indagine sul calcio di Beha per affrontare le ultime trenta pagine.
Il marcio, il doping finanziario e quello farmaceutico, il calcio-scommesse, s’impossessano dei miei pensieri, mentre il treno scivola tra le stazioni di Trinitapoli e Cerignola Campagna.
Poi una ragazza chiede agli altri, di soprassalto, di Paolo e della sua avventura di sabato. Tutti si scuotono, come percorsi da una frenesia di racconto. Si, risponde un’amica, Paolo c’è stato. Un giovanotto commenta: “…poverino, ha pure perso 4 a 1”. Capisco che stanno parlando di calcio. E gli occhi cominciano a vagare sulle parole stampate con sempre minore attenzione, perché l’udito – che molti sbagliando ritengono secondario nella lettura – è ormai rapito. Paolo è partito da un luogo non meglio specificato del barese per andare a vedere la Roma. La sua Roma. In compagnia di amici juventini, che essendo numericamente maggioritari (e manco a dirlo…), gli hanno imposto di vedere la partita nel settore ospiti. A questo si aggiunga che Paolo ha perso 4-1. E qui viene il bello.
La ragazza che ne sa più di tutti, aggiunge: “Però è rimasto felicissimo. È entusiasta. Ha visto lo stadio, ha visto la Roma, si è emozionato”. E lei stessa ne parla con una specie di tenera ammirazione. Io quasi mi commuovo. Alzo lo sguardo dal libro e decido di guardarmeli, questi giovanotti, di passare in rassegna le facce. Avranno vent’anni.
Stanno parlando di un loro amico che, per la prima volta, ha visto la sua squadra del cuore dal vivo. E si è esaltato per una sonora sconfitta.
Tre pensieri mi si intrecciano, stratiformi ed indistinguibili.
Il primo riguarda il calcio, in sé e per sé. Come diporto, come attività agonistica, come passione coinvolgente. La bellezza di questo stupido, geniale sport di squadra e di spalti. È ancora una delle cose più belle della vita, penso. E lo dico a Beha, che so che concorda. È ancora una cosa meravigliosamente caratterizzante, se porta sette ragazzi a parlarne, a parlare di un assente, in un regionale. Un assente che, in definitiva, non ha fatto altre che vedere una partita di pallone, direbbero i cinici. Senza capire. Perché il calcio, ciò che gli ruota intorno e ne è centro, è come la poesia: o la capisci o la capisci. Non si spiega. E, se si spiega, ci perde.
Il secondo strato del mio pensiero troiano, invece, riguardava direttamente lui, il Paolo.
Ho rivisto in lui, che non conosco, il mio fratellino sfortunato, quello che mio padre non ha portato a sei anni sui gradoni dello “Zaccheria”. E che, in mancanza di ciò, s’è dato al Romanismo. Ed ora tifa una squadra che si allena e scende in campo a 350 chilometri di distanza. Nulla di diverso da un freddo gobbo o da un vittimista interista. Anche se mio fratello non è freddo affatto (vittimista si, almeno un po’).
Tifare per qualcosa che non esiste se non come concetto astratto è triste, in definitiva. Religioso, filosofico. Mio fratello vide l’Olimpico, per la prima volta, in una mattinata d’esate. C’era un raduno dei Testimoni di Geova. Lo impressionò comunque. Per dire del potere del manto erboso.
Il terzo pensiero.
Il terzo pensiero è stato Pasquale De Vincenzo. Centrocampista italiano, di scuola Montevarchi. 81 presenze nel Foggia. E 3 reti. Una delle quali il 10 aprile del 1993. Sabato di pasqua. Al minuto 56, con un tocco sotto, a battere Orsi. La rete del pareggio, dopo quella iniziale di Riedle.
Sedici anni. La mia prima volta all’Olimpico.
E in campo c’era il Foggia.

Dico a Ceska: “Tu hai visto sia il Foggia a Potenza che l’Olimpico quella volta con il Lione”.
Mi precede nel ragionamento, e va a parare dove voglio parare: “Non riesco a legare le due cose. Non sembra vero”.

Appunto. Non sembra vero. Il treno accelera dopo Orta Nova. Ironia della sorte, penso che alla fin fine possa dire di essere stato fortunato.

23/03/09

Una preghiera collettiva, il palo e la frana

di Lobanowski 2

Domenica 22 marzo, Foggia-Marcianise 2-1

È questione di approccio. Di valori. Di educazione.
Non quella che porta i reoconfessi d’omicidio a dire sempre “Buongiorno” e “Buonasera” ai vicini. Ma quella, più sostanziale, derivante dall’esperienza.
Da come guardi il mondo.

Il tifoso tiepido, l’amante occasionale, il passeggiatore da stadio, preferisce la fine all’agonia, il colpo di grazia alla tribolazione, il risveglio di soprassalto alle pieghe dell’incubo.

Antonio mi presenta il conto: “Guarda che sono in tanti quelli che sperano che il Marcianise faccia risultato”. Non ho dubbi al riguardo. Conosco i miei polli.
Tanti, troppi. Perché a 6 punti dai playoff sei appeso ad un filo. A 6 punti basta un passo falso – anche mezzo – per mollare la presa, interrompere l’inseguimento delle coronarie.
E aprire il fronte delle critiche.
In tanti, in troppi, non vedono l’ora di poter dire che l’avevano detto. Dove e quando, poi, sarà solo questione di sfumature da romanzo popolare. Fatto sta che, da marzo, costoro potrebbero dedicarsi alle gite fuori porta, senza quello scomodo assillo del patimento. E non gli sembra vero.

“Questa gente avrebbe mantenuto in vita solo Eluana”, alza il tiro Lello. E non ha affatto torto. A pensarci.

Quando Mancino fa partire un traversone dalla destra, a casaccio, in mezzo all’area, siamo al minuto 90 e rotti. Nel bel mezzo del blando assalto finale. È che sull’1-1, coi fischi già pronti a precipitarsi sul manto erboso, non c’è lucidità che tenga. È tutto perduto, o quasi. Un altro anno di transizione da mettere in soffitta, anonimo e senza picchi emozionali. Al minuto 90 e rotti, quando Mancino mette in mezzo un traversone senza pretese, se non quella di creare quanta più confusione possibile, a cantare siamo rimasti in pochi. Una minoranza suggestiva di quello sparuto gruppo di spettatori che sosta allo “Zaccheria” (che, ironia della sorte e polso dell’intero sistema, fanno di Foggia la prima piazza come numero di spettatori dell’intero girone meridionale della C1). Cantano le prime file, della Sud come della Nord. Cantiamo per non pensare. E perché, fino all’ultimo, abbiamo un dovere sociale da compiere. Quando al minuto 90 e rotti il traversone di Mancino scavalca il portiere e finisce in un angolo rettamente poetico tra incrocio e palo, rimbalzando nel cuore dell’area di rigore, l’intero “Zaccheria” – colmo di brutti presagi e pessime intenzioni – si ammutolisce. La palla vaga, e l’attimo sembra non volerne sapere di finire. Di finire male. Di finire bene. Quando Velardi, al minuto 90 e rotti, mette la sua testa da passante su quella palla vagante, quelli che mi sono attorno – ed io per primo – bloccano il cantico al diaframma. Un grumo di parole ritmate. Quando la rete si gonfia, al minuto 90 e rotti di Foggia-Marcianise, viene giù la curva. Che sembra un gol del Gremio.

Fuori dalla risacca. E, con la Cavese sconfitta in casa e l’Arezzo arenatosi a Foligno, di nuovo alla vita. A tre lunghezze dal primo approdo.

Cose che non si comprendono. Cose che non si possono comprendere, col solo uso del raziocinio.

Non abbiamo fatto niente, eppure è fantastico. Aver rimesso assieme, come frammenti di un mosaico tardo-antico, i pezzi del nostro esistere. Aver ricreato i presupposti per un presupposto: soffrire ancora. Ed è una gioia indescrivibile. Perché poniamo pure che Mancino l’avesse messo alto sulla traversa, quel cross; o che Velardi l’avesse lisciata, quella palla magica. Ora saremmo sereni, colmi come otri di quella delusione tiepida, svogliatamente rassicurati dalla completa assenza di partecipazione all’evento. Sereni, come chi trapassa. O chi assiste al trapasso di una vecchia zia. Invece no. Quando abbiamo capito – intuito magari – che quella tranquilla delusione, quell’estromissione forzosa dalla tensione, stava per realizzarsi, siamo corsi al capezzale della squadra ed abbiamo convocato gli dei laici del calcio per una nuova preghiera collettiva: Dacci, o signore, la possibilità di soffrire ancora. E ancora, e ancora. Fumeremo di meno, mangeremo di meno, porteremo l’immondizia ai bidoni. Ci impegneremo nei fioretti più disparati. Ma ti preghiamo di non lasciarci così, senza un sussulto. Quando la palla è andata dentro, dopo lo spazio della festa tribale, guardandoci negli occhi abbiamo sfamato il nostro lampo nello sguardo dell’altro: trapassato da un lampo. Lo stesso: a 3 punti dall’Arezzo. E domenica si va ad Arezzo. Questo semplice accostamento di elementi è paragonabile ad una punta invisibile che solletica la spina dorsale. Fremito. O gioia! Grazie, signore del calcio. Non vedevo l’ora.

Perché a Cremona c’ero, c’eravamo tutti. Con una delusione che definire “cocente” è alambicco per cronisti. E 800 chilometri da fare, a ritroso, come gamberi feriti. Ma nessuno di noi avrebbe, quel giorno, preferito essere altrove. In spiaggia, al parco, stravaccato dinanzi alla tele. In nessun luogo della Terra, se non allo “Zini”, a prendersi la propria parte di ceffoni. Arezzo è meno lontana, ma è ugualmente una delle trasferte più distanti dalla piana di Capitanata. I segni, i segni si moltiplicano. La sorte ci sfida, carica di presagi. E siamo pronti. Vada come vada, è meglio morire di coltello, da vivi, che nel sonno d’una corsia d’ospedale. Antonio il Bolognese mi chiama che è posseduto dal demone dell’attesa. Non vede l’ora. Gianni, prima di obnubilarsi di Jameson al nostro St.Patrick’s day posticipato, mi confessa che è cominciato il conto alla rovescia. Io ci penso, e mi brucia la fronte.

Da queste parti se uno assiste ad un sequestro di beni ad un ambulante, e decide di mettersi in mezzo, gli si consiglia di desistere. ”Ma perché ti prendi veleno?”. Se uno batte i pugni sul tavolo perché a Gaza la gente muore sotto le bombe, o raccoglie firme per far abbattere un ecomostro, il saggio adagio è sempre lo stesso: “Perché prendersi veleno?”. Laddove prendersi veleno è spia dei certissimi danni al fegato di chi s’impelaga. Chi non si prende veleno è un fatalista o – come dice lui stesso – un realista; uno che sa, conosce ed ha ingoiato le cose del mondo. L’andazzo generale, contro cui nulla si può. Uno che sa che battersi è inutile, oltre che dannoso. Il guaio, il mio e quello di tanta altra gente che conosco, è che prendersi veleno è anche l’unico modo di cui l’essere umano dispone per dimostrarsi tale. Traducibile in assioma: Vivo, esisto, mi prendo veleno. Grazie al cielo.

Domenica, tutti insieme, ci abbracceremo una nuova questione. Con la stessa voglia di penare ed esplodere. Con la vaga sensazione che, sotto sotto, chi non ci capisce si stia perdendo qualcosa.

16/03/09

La monade ribelle

di Lobanowski 2

Domenica 15 marzo, Sorrento-Foggia 0-0

One, two, three, four ... Can I have a little more? ...Five, six, seven, eight, nine, ten. I love you... Po-po-po-po-po-po...


Fatto sta che ce l’hanno vietata. Mi pare d’essere stato chiaro, al riguardo. D’aver sviscerato i motivi pretestuosi e le ragioni di ordine pubblico che ci costringono a casa. A recitare la nostra parte passiva nella rappresentazione del calcio moderno. Sarà. Ma qualcuno, invincibile nella sua vetusta forma mentis (inadeguata allo spettacolo odierno servito all’ora di pranzo) si chiede ancora perché.

Aggregazione. Questa parola fa paura. Un tempo, quando le strade erano roventi, si era soliti parlare di “adunata sediziosa”. E si dava fondo al codice. Ma era il fine, allora, a far tremare i polsi, a scatenare le ipotesi. Oggi è il mezzo stesso a smuovere le fantasie della società del controllo (e della deresponsabilizzazione dei vertici). Oggi non si teme l’attentato (o la sua preparazione). Oggi l’incontro stesso è percepito come attentato.

“Se viene la Finanza vi multa lo stesso”, dice un ragazzo. Ci multa. Perché Conto Tv ha fatto i conti con le prepagate. Ma non con le comitive, anche occasionali. Sky, che è del mestiere, sa tutelarsi. E ci mancherebbe. Fa contratti ad hoc per i luoghi d’aggregazione. Perché a nessuno salti in mente di partecipare allo spettacolo senza mettere mani al portafoglio. Conto Tv non possiede questi strumenti di oppressione. Non ancora, dico. Un signore anziano parcheggia la sua Uno. Scende: “Che, si vede la partita?”, “Certo, zio, prego”, “Ah, ma c’è folla, magari resto in piedi”, “Ma no, è come allo stadio, tutto sta a farsi largo”. Una persona e mezzo per metro quadro, gli sguardi fissi sul televisore in alto all’angolo. Un danno calcolato per Conto Tv, che tenta di nascondere il fallimento dell’impresa pay-tv per la Prima Divisione. “Si, vabbé, ma se viene la Finanza vi multa lo stesso”.

Una sanzione, una qualsiasi. Per stabilire che il calcio è dei soli acquirenti. Che la partita la si deve vivere in disacerbante solitudine. Monadi, a inseguire una messinscena che non c’è. O, visto che le famiglie non vogliono saperne di tornare laddove non sono mai state (cfr: lo stadio), con moglie e figli. Disinteressati all’evento (che continua a non esserci). Una sorta di colpevolizzazione del tifoso. L’imposizione di un rito ascetico.

Il campo “Italia” del Sorrento è semideserto. Metafora di tutti gli stadi dell’Italia minore, e non solo di quella. Il Sorrento siamo noi, c’è scritto su uno striscione in curva. L’altra è deserta, si gioca in un clima irreale. Lunare. A Castellammare di Stabia non ci sono i cavesi. A Perugia non ci sono i ternani. Il derby si normalizza, diventa una partita (brutta ed anonima) come le altre. È la fine, il capolinea di una passione chiamata curva.

In tanti, ormai succubi del senso di colpa mediaticamente distillato, dicono che un po’ ce la siamo cercata, che l’epoca dei divieti è un concorso di responsabilità. E chi è causa del suo mal. Dicono. Ma sono lontani dal vero. Non hanno compreso che il nocciolo è altrove. E non c’entra niente con lo spingi-spingi delle occasioni di gala. Prendete i napoletani: accusati e condannati a settembre, praticamente scagionati a marzo. Eppure non si torna indietro. Le decisioni, le proibizioni, i limiti restano. Come lasciare in cella un detenuto che il tribunale ha succesivamente ritenuto innocente.

A Perugia non ci sono i ternani, a Castellammare non ci sono i cavesi. E tutto ciò che rende speciale una partita, svanisce, evapora. Saremo sempre bolle di sapone, del resto (cfr: Cockney Rejects).

Dinanzi a tutto questo, cosa dovremmo aggiungere?

Ah, si. È una domenica di sole, la primavera incalza. La Marcegaglia, per battere la crisi, chiede “soldi veri” al governo. Un branco di cani aggredisce ed uccide un bimbo, in Sicilia. In Austria è tutto pronto per il processo a Josef Fritzl, il padre-orco che ha avuto sette figli dalla figlia. In Italia, proseguono quelli per i delitti di Garlasco e Perugia. Marina Ripa di Meana si è sentita male alla “Fattoria” dopo una litigata con Corona, ed è uscita di scena. Il “Grande Fratello” prosegue nell’indifferenza. Negli Usa un provino per modelle si trasforma in mega-rissa da marciapiede. Gli alberi di via della Repubblica hanno messo i primi fiori. L’inviata da bordo campo si chiama Barbara sembra una gran bella figliola. Il commento tecnico è penoso. C’è altro da dire?

Forse che la partita è noiosa. Noiosissima. Sfiorano loro, poi noi. Ma non succede niente. Ci accontentiamo del pari. La Cavese vince. Siamo quasi fuori dai play-out.

In definitiva, abbiamo pagato per uno spettacolo che non c’è stato.

Perché lo spettacolo siamo noi. Tutti noi. E, senza, non c’è tecnica, non c’è giocata che tenga. Che valga il prezzo di un tagliando o della scheda, quanto meno. Noi siamo beoni costretti all’astemia. Ubriaconi che guardano il mondo con gli occhi dolci degli innamorati. E, senza la poesia della bottiglia, scoprono tutte le prosaiche imperfezioni dell’amore. La sinergia tra pay-tv e Osservatorio ci ha mostrato l’Us Foggia – la divinità da cui siamo rapiti – come una squadraccia di C incapace di sbancare Sorrento. Di questo non potremo mai perdonarla.

Verrebbe da condividere la posizione di Vittorio: “Uagliù, fuori c’è la primavera. Basta guardare le partite”. Prenderei il pallone e me ne andrei al parco, se non fosse che, forse, così facendo darei ragione a chi non mi vuole tra i piedi. Ed io adoro dare fastidio.

13/03/09

Mistica dell’età dell’oro

di Lobanowski 2

“Era tra gli uomini più ricchi e potenti non solo di Foggia. Osannato, discusso e temuto. Amico di molti pezzi da novanta della Prima Repubblica. Ora Pasquale, anzi don Pasquale Casillo, torna a casa. Torna in uno dei mulini più grandi d’Europa, le Industrie semolerie e mangimifici che riapre i battenti nell’area industriale di Foggia dopo quindici anni di stop forzato”.

Comincia così l'articolo della Gazzetta (del Mezzogiorno). E non può che finire dove porta il cuore (suddito) di questa landa vassalla (per indole):

“In città il nome di Casillo evoca i fasti del Foggia e di Zemanlandia, il periodo d’oro della serie A, un’epoca che ritorna nei ricordi dei tifosi. Inevitabile pensare che il «ritorno di don Pasquale» possa ora lasciarli indifferenti”.

Il rumore della marea. Crescente. Una preghiera sussurrata da migliaia di voci sulla spianata di un antico monastero. Un cantico notturno. Crescente, di cui basta isolare i brandelli per intuirne il refrain: Piano piano si riprenderà TUTTO; Grande don Pasquale sta città aspetta a te!; Verrà verrà e il Foggia si riprenderà.

Invocazioni di storpi che confidano nel miracolo, di bisognosi bendati, di disperati all’ultima spiaggia. Acqua agli assetati. Che spremono quel che resta delle meningi a stecchetto per formulare con certezza copernicana dicerie da bar. Come per il cattolicesimo delle storie edificanti dei santi, quelle del Cerano per il Borromeo. Favole buone per sopravvivere: Ho sentito dire che in teoria oggi Casillo avrebbe una potenza economica addirittura superiore rispetto a quella che aveva in passato, prima del 1994.
Devoti s’accasciano, spossati dalla lunga, longobarda via francigena della fede pellegrina: Se comincio a sognare, comincio a piangere. Ed innalzano canti blasfemi, testimonial dello straniamento, dello spossessamento dell’Io: Siamo venuti fin qua, Siam venuti fin qua, Per vedere il Foggia di don Pasqual. Privatizzazione della fede.
Osceno, semplicemente osceno.

Il sogno della sudditanza. Che si fa consapevolezza: Se c’è qualche persona che ancora tutt’oggi si ricorda del Foggia anche all’estero lo dobbiamo solo a Casillo e Zeman perché in fondo se non ci fossero stati loro a quest’ora del Foggia non si sapeva neanche l’esistenza.
Rabbiosi poveri Cristi nel tempio della società civile: Date a Don Pasquale quello che è di Don Pasquale! Contestatori dell’Oggi, nel nome del nume tutelare dei Tempi Andati: Via i venditrattori dal Foggia!! Con doppio esclamativo a sottolineare l’infanzia mitica del Popolo Bambino. Ridateci la nostra triade (Casillo, Zeman, Pavone).

Addirittura teologi riflessivi, carichi di quella consapevolezza triste che è propria delle umane minuzie: Com’è facile in Italia per i magistrati distruggere un impero fatto di uomini e donne che lavorano e sono orgogliosi di quello che fanno.
Fino al discorso diretto, che è dei prostrati alla divinità: Spero che Don Pasquale possa riorganizzarsi e ritornare ai fasti di una volta. In bocca al lupo Don Pasquale!
Sacerdoti portano a memoria le massime del profeta, che si fanno coraggio nella certezza del Nuovo Avvento: Ricordate le parole dell'epoca... Mi riprenderò quello che mi avete oggi tolto, detto questo a giugno vedrete il suo ritorno.
E i sudditi già lo acclamano. A sedare i tormenti della vita: Finalmente una bella notizia, non vedo l'ora che arrivi giugno. Balsamo e consolazione. Ad invadere gli ambiti angusti dell’amministrazione, in uno slancio poetico che sa già di teocrazia iraniana. O papalina: Don Pasquale sindaco!

Ho visto cinquantenni rimpiangere, a calde lacrime, il nonnismo delle caserme; nonnetti semiparalizzati ricordare, con rimpianto, le prigioni della Seconda guerra mondiale; vispi vegliardi rammaricarsi del tempo passato (che non tornerà), quando in Belgio si esploravano vene di carbone a dozzine di metri sotto terra. La memoria sarà pure ingranaggio collettivo, ma non per questo le visioni dei singoli smettono d’essere fallaci.

Il ricordo offusca, annebbia, riempie di filamenti la vista come l’alga rossa i bicchieri.

“I foggiani hanno smesso di divertirsi coi soldi miei”. Questo si, lo disse Casillo. In un giorno di calda primavera genovese. Ne aveva dette altre, tante, prima di quello sfogo a “Marassi”. Quando insistenti s’erano fatte le voci sullo smantellamento della prima formazione di A, quella dei vari Signori, Baiano, Shalimov, Rambaudi, Petrescu, e gli furono chieste conferme. “Io non faccio il venditore d’animali – disse, con la malagrazia dell’arricchito – io non vendo, io compro”. Baiano venne sotto la curva, si lacerò la maglia: “Io rimango qui, bastardi!”. Non dimentico. Che difetto.

Mi sono divertito coi soldi di don Pasquale? Non lo saprei dire. So che a fine luglio zio Franco, come sempre, come ai tempi della C1, raccoglieva le quote per l’abbonamento. Rateizzato al Cral delle Ferrovie. Pagavo, pagava mio padre. A fine agosto si ritiravano i blocchetti, con un tagliando mancante, quello della cosiddetta Partita Pro-Foggia. Che, immancabilmente, era un Foggia-Milan, o un Foggia-Juventus. Si faceva la fila, col diritto di prelazione che derivava dagli spintoni e dalla fermezza di tenere una fila. Come il secondo anno di A, visto che per l’intero girone d’andata non valsero gli abbonamenti. In trasferta c’andavo coi soldi miei. Certo, c’è stato qualche treno speciale, ma tutto – dai panini al biglietto d’ingresso al “Delle Alpi” o al “Dorico” – era farina del mio sacco. Precario già allora. Poi, d’incanto, ho smesso di divertirmi coi soldi di don Pasquale? Non lo so, non lo saprei dire. A meno che non vogliate vedermi come Troisi alle prese con i soldi del Belice.

Ma aldilà del mio gradimento dinanzi ai 6 gol incassati dalla Samp o dai viola, o agli 8 presi dal Milan, resta il quadro sconfortante di una città senza spina dorsale, che si chiude sulla nostalgia come una gallina sfiancata a covare un uovo presunto. Che, da tempo, è una pietra. O forse non è mai stato null’altro. Una città che vive di e nel passato ed, incapace di fare, invoca il salvatore della patria. Si chiami Chinaglia, Russo, Sensi o Coccimiglio. Ai nuovi padroni occasionali ci si prostituisce per convinzione, senza mai chiedere nulla in cambio: garanzie, progetti, prospettive. Basta la diceria che la mano appartenga ad un Re taumaturgo per riempire la strada di “osanna!” al nuovo venuto. Che, di solito, specula e fugge. Come i capitani d’industria che invocano le gabbie salariali e “investono” nel contratto d’area. Federico II, racconta la leggenda, punì il tradimento della città (che era passata di campo non appena lo Svevo s’era allontanato in Terra Santa) abbattendo le sue mura e lasciandola alla mercé dei conquistatori. Mentre l’Andria, non solo quella calcistica, diveniva Fidelis. Sono passati i secoli, ma l’indole è rimasta.

11/03/09

A Vico Equense domenica c’è il derby (Note su una trasferta vietata)

di Lobanowski 2

Domenica, a Vico Equense, c’è un derby. On dit. Una mia amica è di Vico Equense, ma in tutta onestà non saprei indicare Vico Equense sulla cartina del Golfo di Napoli. Giovanni, che è napoletano, mi aveva consigliato di sbarcare a Piazza Garibaldi, sotto mentite spoglie. E di prendere il trenino. “Quando ci sono le belle giornate – aveva spiegato – la strada per Sorrento diventa impraticabile, perché tutti vanno al mare”. I sorrentini, a Foggia, me li ricordo a stento. Avevano un tricolore, se non erro. Sono stati buoni e tranquilli. Alla fine se ne sono andati. Buoni e tranquilli. Pensavamo di ricambiare la visita in macchina. L’ho detto pure a Giovanni, nonostante gli ingorghi. Magari partendo di buon’ora. Dal finestrone del Lynam’s si vede una traversa di O’Connell street. Per fumare in camera, c’è bisogno di sfruttare gli spifferi. Il vento gelato soffia sui tetti. A duemila chilometri di distanza, arrivano le prime avvisaglie. Ci tengo molto ad andare a Sorrento. Il cellulare mi comunica che questa probabilità, data per semi-certa fino all’altro ieri, è sub judice. “Non ci fanno andare”. Non prendo neppure in considerazione l’allarmismo. È dall’inizio del campionato che i miei compari fanno così. Per ogni trasferta ne inventano una: a Foligno no perché quelli sono gemellati coi brindisini; a Pistoia no perché bisogna passare Frosinone; a Caserta no perché un tempo c’era la Casertana. E poi ci sono i Casalesi. A Perugia no perché più di una volta siamo arrivati alle brutte; a Lanciano no perché rompono le macchine; a Potenza no perché è brutta; a Gallipoli neppure, perché è peggio. Ogni destinazione, un’ipotesi di sciagura. “Guarda che a Sorrento non ci fanno andare”. Annuisco, spengo il cellulare e mi concentro sui tetti obliqui. E su come buttare la sigaretta giù.

Il comunicato, rilanciato dall’Ansa, parla chiaro: “Il divieto di trasferta è stato applicato anche per alcuni incontri di serie minori: Paganese-Taranto, Juve Stabia-Cavese, Real Marcianise-Lanciano, Sorrento-Foggia (prima divisione), Arbus-Torres e Turris-Ischia Isolaverde (dilettanti)”. Ora, aldilà del concetto di “serie inferiore”, su cui ci sarebbe da discutere (e tanto), prevale lo stupore. Ma come? Ma quando? Ma perché? Cosa abbiamo da spartire coi sorrentini? Quali precedenti giustificano una sì drastica decisione? Quelli dallo sguardo complessivo e dall’acuta capacità d’analisi, si sottraggono al panico: “leggete le partite proibite – suggeriscono – e capirete”. I tarantini non andranno a Pagani, i cavesi a Castellammare, i lancianesi a Caserta, gli isolani a Torre del Greco. In sostanza: c’erano troppi incroci pericolosi. Bene. E ci hanno vietato la trasferta, per tutelare la nostra incolumità sull’A16. Ok. Ma hanno vietato anche tutte le altre? Si… E allora? Hanno estirpato l’incrocio multiplo e ci vietano la trasferta perché c’è un incrocio multiplo? Esatto… Ma questa cosa non ha senso. Se avevano paura che ci imbattessimo nei tarantini, nei cavesi o nei lancianesi, perché impegnati in partite a rischio, di cosa hanno paura adesso che tarantini, cavesi e lancianesi, per loro stessa decisione, rimarranno a casa? E se il parametro del divieto s’allarga fino a comprendere gli svincoli autostradali, le tangenziali, le deviazioni, allora si che diventa “a rischio” anche Arezzo o Montebelluna. Senza contare che i baresi, per dirne una, potrebbero andare solo in Basilicata, visto che sono circondati da territori nemici. Potrebbero, tutt’al più, arrivare a Venosa in vagone piombato. Ma chi sorveglierebbe il vagone? Perché possiamo girarci attorno quanto vogliamo, ma il nucleo incandescente di tutto questo affare è il seguente: la volontà dello Stato di impedire ciò che potrebbe, al limite, causare un problema. Una manovra preventiva che, se applicata al resto della convivenza civile, porterebbe all’eliminazione di qualsiasi attività aggregativa, dallo struscio in corso Vittorio alla Marcialonga.

Invece è proprio la selettività dell’eccezione che, oltre a confermare la regola, imbufalisce. In Italia s’invoca sorveglianza, protezione, sicurezza. È il risultato (abbastanza scontato, a dire il vero) di anni e mesi di martellamento tele-istituzionale. Alla fine l’invocazione è fuoriuscita senza bisogno di sforzo: c’è bisogno di maggiore pattugliamento, di maggiore prevenzione, di maggiore e spietata repressione. On dit. Per difendere il cittadino inebetito dai cinesi che falsificano, dai senegalesi che vendono borse, dai nigeriani che spacciano, dai polacchi che si ubriacano, dai rumeni che stuprano. La maggioranza di governo, ignorando gli appelli progressisti della sinistra democratica – che chiedeva più uomini, più mezzi e più soldi per le forze dell’ordine – ha provveduto a liberalizzare il settore della sicurezza fai-da-te, assegnando patentini di autorevolezza e legittimità ad un bel numero di combriccole di folli, di pensionati perdigiorno, di buttafuori, di psicolabili, di patiti di softair e di maestri di arti marziali. Le ronde, signore e signori. L’ultimo ritrovato in materia di controllo sociale. Ronde contro gli stupri, molestatori contro le molestie, impiccioni, guardoni, bulli cinquantenni contro il bullismo adolescenziale. Contrappasso dantesco. Presidieranno vicoli, porti e ascensori. L’ennesimo esempio di deresponsabilizzazione dello Stato: la strada affidata agli steward, come gli stadi. Privatizzazione. Perché i poliziotti sono pochi e l’esercito è impegnato a sorvegliare gli ingressi del metrò.

A Vico Equense domenica c’è il derby col Savoia. Il Barletta va a Scafati. La densità abitativa dell’area napoletana è un ostacolo insormontabile per chiunque voglia mettersi in viaggio e non sia Osvaldo Bevilacqua, quello di Sereno Variabile. Lo Stato non se la sente di assumersi responsabilità. E, giacché alcune macchine cariche di sciarpe e aste di bandiere, potrebbero incrociarsi, impedisce a queste di partire. C’est plus facile. È geniale, a pensarci. Ancor più geniale sarebbe eliminare gli incroci. O distruggere le macchine. O chiudere le fabbriche automobilistiche. O, giacché noi tutti potremmo muovere dal porto di Manfredonia e circumnavigare Scilla e Cariddi, diffidarci tutti. A vita.

Di mio sono giunto a una conclusione, da tempo. E cioè: non me ne frega niente di come deve fare lo Stato per garantire sicurezza una volta che esco allo svincolo di Sorrento. Io so che il mio diritto di muovermi è costituzionalmente garantito. Quanto quello di essere sicuro. E allora, come conciliamo?

02/03/09

Canto per te

di Lobanowski 2

Domenica 1 marzo, Gallipoli-Foggia 2-2

Gallipoli sembra vicina, ma è suggestione. La Puglia, questo concetto singolarizzato dopo decenni di Puglie, è lunga e arcigna. Conviene mettersi in viaggio presto. Conveniamo. Quelli che hanno dormito sette ore come quelli che sono ancora in piedi da ieri sera. Presenti a caricare due macchine e inseguire il presentimento che qualcosa di buono possa accadere. Non prendiamo l’autostrada. Il tempo di superare Cerignola e i lenti lavori in corso, e la statale si trasformerà in una comoda quattro corsie dal sapore vagamente vacanziero. Siamo sereni, distesi, riposati. Antonio, alla fine, s’è arreso all’influenza. Paolo ha preso il suo posto in men che non si dica. Allo svincolo di Canne della Battaglia omaggiamo Annibale, il condottiero. S’inalbera una discussione dotta sui recenti studi che avrebbero spostato più a nord, nell’agro di Ascoli, la famosa battaglia. Qualcuno corregge: ad Ascoli ha combattuto Pirro. Giusto, risponde un’eco, Federico Pirro, del tg3. Un correttore di bozze specifica che Federico Pirro non lavora più al tg3 da diverso tempo. Un altro sostiene di vedere sempre Costantino Foschini nel regionale per Bari. Scende sempre a Barletta. Dove gioca oggi il Barletta? La macchina davanti si accosta a fare metano. Le sinapsi, colte da mal di macchina, riposano. Per poco. Il gestore del bar tabacchi ci guarda male. Vorrebbe litigare, sbatterci tutti fuori, chiamare la polizia. Gli siamo antipatici, è un fatto di pelle, lo si nota. Quando chiedo un pacchetto di Diana da dieci, e vede la mia dieci, rifiuta, manco stessi tentando un raggiro: “No, no, no… E che siamo? Qua ognuno viene e prende gli spiccioli…”. Giuseppe, mentre gira il suo caffè, annuisce: “Ha ragione – dice – è uno dei problemi più sentiti nell’odierno dibattito semiologico”. Quello un po’ ci resta, vorrebbe replicare qualcosa a caso, ma Mattia, che sopraggiunge col suo vitreo bicchiere di Borghetti, lo zittisce: “Eh, ma di che parliamo? Di Ontologia?”. Quando abbandoniamo il parcheggio, il volto del tale ci comunica un desiderio di bastonate. Da Bari a Brindisi, 97 chilometri. Non è facile. Si rispolverano i ricordi scolastici, mentre un cd – il solito cd – entra ed esce dal lettore, stoppato ad ogni nuovo discorso. Fumo di mattina, è un dramma da trasferta. E quando arrivo a quella volta che il povero Frino si è fatto protomartire con la lavagna, Brindisi ci corre accanto. Un cartello marrò indica Grecìa. Qualcuno ha aggiunto Merda con lo spray nero. Peccato non aver portato la digitale.

Il Salento. A sentir parlare di Salento. A leggere il 12 sulle magliette rosse con su scritto Salento. Ad affollarsi i pensieri di pizziche e tamburelli, world music e riti pagani cristianizzati a viva forza, di chiese bianche e processioni, di pietra rossa e barocco, di mare e camping, Salento nazione e sistema-Salento, uno, magari uno come me, pure attrezzato di buona fede e pazienza, finisce per detestarlo, il Salento. Il dialetto, la cadenza, gli ulivi e il sole a picco. Insopportabile. Quando chiedi ad un leccese cosa fa il Lecce, quello risponde che il Salento fa zero a zero. Come il Barca è nazionale di Catalogna, insomma, il Lecce è la selecao salentina. Avevamo un gemellaggio coi leccesi, un tempo. Roba vecchia, in disuso come i sommergibili della Flotta del Nord. Adesso non so, non sappiamo. L’altra macchina ha deviato per Squinzano. Noi tiriamo ancora per la capitale, poi svolteremo alla fine delle quattro corsie. Ci si vede in piazza a Galatone. Un’ultima sosta prima del rush finale. Non è durato tanto, in definitiva. Due operai piantano assi di legno. Uno ci rivolge la parola, sorride. Ma l’idioma, ahimé, è incomprensibile. Sorridiamo di rimando. Un signore daltonico ci si avvicina per chiedere se siamo tarantini. È un foggiano, vorrebbe narrarci fantastiche imprese belliche di cui è stato attore, testimone o ascoltatore. Ma tiriamo dritto. Un caffè alla veloce. Poi i campi arsi ai margini della statale. E campanili, di tanto in tanto, affogati nella vegetazione bassa. Cumuli di pietra, arditi accostamenti tra i reperti del passato e le costruzioni residenziali democristiane, case basse da contadini, dormitori per braccianti di un tempo, verde e giallo fino al lampo blu del mare, in fondo. Galatone dista undici chilometri da Gallipoli. Abbiamo qualche chilo di pizza da smaltire. E il vino, il primitivo dolce, se non l’hanno finito nell’altro abitacolo. Una chiesetta rurale, una recita in corso, bambini. Il cartello che indica il centro, la strada sconnessa. Una chiesa. Barocca, manco a dirlo, con tanto di ghirigori sulla facciata. Di pietra rossa, ovviamente, che sembra arancio. Ancora aperta. Di fronte, il torrione basso di un castello, che la didascalia indica come palazzo marchesale. Sembra la piazza principale e parcheggiamo. Gli altri non arrivano. Così sostiamo al bar, dove un avventore ci chiede chi di noi fosse juventino. Anche questa domanda, non merita risposta. In paese, a giudicare dagli adesivi e dalle scritte sui muri, sembra forte la presenza forzanuovista. Gli altri sono giunti, ma non sanno dire dove sono. Mi inoltro in un vicolo. Galatone è il classico centro salentino fatto di muri bianchi, piazzette improvvise e torrioni arditi. La sede di Forza Nuova è a due passi dal municipio. Sbircio dentro, ma è chiusa. Il centro storico non mi convince, non mi appassiona. Continuo a preferire l’Umbia, le Marche. Ma forse è pregiudizio anti-estivo, il mio. Ci ricongiungiamo sotto il monumento ai caduti. Gli altri raccontano delle tette di una barista incontrata sulla strada. Sono esaltatissimi. Saltiamo la pizza, muoviamo su Gallipoli. Manca un’ora e passa al via.

Il lungo parcheggio è costeggiato da un parco precario. I furgoni si affiancano, si parcheggiano le auto, spunta un pallone. E nello sventolio di bandiere prelevate dai bagagliai, si pranza al sacco. È l’atmosfera giusta per scambiare due chiacchiere con vecchi amici, un saluto o una battuta coi conoscenti. C’è voglia di portare a casa i tre punti, nella sfida alla capolista, ma anche tanta preoccupazione per il futuro prossimo. Marzo sarà il mese decisivo. Ci accalchiamo all’ingresso. La pezza passa senza problemi, le aste lunghe vengono rispedite al mittente. Non passa la jolly-roger. La vita del tifoso è una metafora della precarietà esistenziale: non si è mai sicuri di niente. Ciò che è legale, o quanto meno tollerato, a Pistoia, può diventare illegale a Potenza o a Gallipoli. E viceversa. È una vita affascinante, senza punti di riferimento fissi. Una specie di sfida al conformismo. Alla tentazione al conformismo, che pure può fare capolino, a una certa età. Entriamo. Saremo trecento. Giovani arrampicatori piazzano le unghie nei vetri per appendere gli striscioni. Uno, grande, ricorda un ragazzo di Cagliari. Noi ci mettiamo più del dovuto a sceglierci un posto. E quando lo individuiamo, ingaggiamo una battaglia col nastro isolante. Una giovane ispettrice della polizia locale sfila sotto il settore. Il campo sportivo ricorda Manfredonia. Una copia in miniatura del “Miramare”. Questi stanno per spiccare il grande salto verso la cadetteria, e al solo pensiero, il groppo ostruisce la gola. Saranno un migliaio, gli spettatori, e il campo si vede come in panchina. Cinque minuti di silenzio. Si sente qualcosa dalla curva dei locali. Poi partiamo anche noi. Canto per te, solo per te, Devi lottare, Dai non mollare, Foggia olè. Si poga come ad un concerto dei Flogging Molly. E lo scherzo finisce con un paio di feriti e qualche sacca di ghiaccio. In campo, il Foggia sembra fare la partita. Il Gallipoli non si fa mai pericoloso. Dalla mia postazione occasionale, vedo il vetro e gli striscioni. Quando l’urlo di incitamento cresce, capisco che sta succedendo qualcosa. Scendo al limitare del campo, ed inquadro uno dei nostri – che scoprirò essere Mancino – temporeggiare solo dinanzi al portiere avversario. Quindi sparare sul ginocchio dell’estremo difensore in uscita. Abbiamo fallito l’impensabile.

Nella ripresa sento, attorno a me, un’attenzione crescente. Mai visto, quest’anno, tanto pathos per l’esito di una partita. Di solito il risultato è l’ultima cosa da cui farsi condizionare. Ma siamo a marzo, e il tempo di cullare i sogni comincia a sgocciolare. La Cavese, in casa con la Paganese, sta facendo bottino pieno. Noi siamo attardati di quattro punti. L’incitamento è spezzettato, sofferente. Il cross che libera al tiro l’attaccante gallipolino a due passi da Bremec, parte da qui. Il boato del “Bianco” mi ricorda Foligno. E la cosa mi infastidisce. Canto per non pensarci, ma la botta è stata forte. A cinque punti dai play-off, con Arezzo e Benevento da affrontare in casa loro, comincia a venir meno l’entusiasmo. E subentra il pilota automatico. Il Foggia non merita di perdere. Prova a sfruttare le fasce. Quando, su azione d’angolo, Troianello si aggiusta il destro, l’intero campetto di Gallipoli trattiene il fiato. Una sospensione di giudizio che prepara al boato. La palla è nel sette, il Foggia ha pareggiato. Tutti sotto il settore, che crolla come un formicaio. È bello, bellissimo. Il tempo di riprenderci. Parte la vocale “e”, intonata all’unisono come fossimo un’immensa trombetta. È il preludio a quella richiesta, Andiamo a vincere, che facciamo ogni volta che raddrizziamo una partita storta e che di solito non si realizza. Il coro è alto, scuote la squadra. Ci sarebbe un rigore, che viene negato. Forse persino l’espulsione del portiere, che ha steso Malonga. Siamo rematori che spingono il galeone verso l’ultimo assalto. 5,50, la quota della Snai. Che, manco a dirlo, mi sono giocato. C’è un corner per loro. Cross. Uno stacca di testa. E di nuovo il boato. Sembra finita. La tristezza è profonda, tanto da rendere difficile la ripartenza. Di fronte, dei temerari si mettono anche ad insultarci. A Gallipoli. La cosa lascia basiti. Salutate la capolista, dicono quelli della curva di casa, che ha cinque gradini e non è neppure piena. Pessimismo e fastidio. Ci crediamo di meno, ma inseriamo nuovamente il pilota automatico. Dobbiamo uscire a testa alta, da Foggia, da questo campetto. Invece Malonga pareggia. E la magia si ripete. Tutti su tutti, e tutti contro la vetrata.

All’uscita mi fermo un minuto per salutare i seguaci di questa rubrica. Seguaci appassionati, costanti, che non sapevo di avere. Ci restituiscono la jolly-roger. E anche il vino, che non siamo riusciti a buttar giù all’ingresso: “Scrivi pure questo, domani!”, mi suggerisce un fan. L’ho scritto. E giacché siamo in tema, aggiungo: non c’è malafede precostituita nel dire che, per quanto apprezziamo l’incertezza (che rende vivace ogni spostamento), non sarebbe male avere dei punti fermi. Nothing else matters significa Nient’altro ha importanza. È una dichiarazione d’amore per la maglia rossonera. Sarebbe interessante capire perché a Potenza e a Perugia non lo si può dire, mentre a Lanciano e a Gallipoli si. Non è polemica precostituita. È che il buonsenso aiuta i rapporti, senz’altro più dell’arbitrio. Per non parlare della povera bandiera angolana, riposta senza un valido perché dopo il divieto di Caserta. O del vessillo piratesco. Ma tant’è.

I campanili persi nel tardo pomeriggio salentino vorticano attorno ai finestrini. Risaliamo una delle Puglie, nel silenzio interrotto da Radio Uno Rai. Nell’altra macchina, ci dicono, dormono già tutti. Tranne il pilota, ci auspichiamo. A Bari viene nominato Zeman. E basta questo, affinché la sonnolenta risalita si trasformi nell’ennesima bagarre. Il sacro nome ancora divide. Il cartello ci comunica che mancano 126 chilometri alla meta. Saranno 126 chilometri di fuoco.

Il Libro