27/04/09

Immoralità

di Lobanowski 2

Domenica 26 aprile, Paganese-Foggia 0-0

I sogni non costano niente, sò come la speranza ma mai abbastanza realmente.

Cosa m’aspetto, non lo so. Vorrei una squadra sconsiderata, grintosa, che a testa bassa buchi la muraglia paganese. Vorrei l’anima dei miei giocatori, su un piatto di ceramica grezza. La determinazione, la concentrazione, il carattere. Più che la tecnica. Non siamo a novembre, fortunatamente, non dobbiamo sbucciarci le ginocchia sul metodo, sugli schemi, sul bel gesto. Gioco o non gioco, oggi m’aspetto una battaglia. Mentre una parte di me si cruccia che la Paganese non sia già salva. È un difetto, un pezzo di serie dell’Italianità, probabilmente. Non mi va di barare, sono allergico a certe cose, nella vita e nello sport. Nello sport e, di conseguenza, nella vita. Eppure, quando Antonio m’ha detto: “Foggia e Paganese sono due società dai rapporti stretti e cordiali”, quella parte di me ha socchiuso gli occhi. Se oggi vinciamo 3 a 0, quel famoso 3 a 0 che non viene mai, magari contro una Paganese rinunciataria, avrò tempo di deludermi. Ma solo dopo il novantesimo. Coraggio, grinta, cattiveria. Ma se dovesse giungere l’aiutino, come a Domenica In, stavolta me lo prenderei. È un po’ come la fila all’Ipercoop. È una domenica immorale, senza principi. Sistemo le sedie, il divano, che ad angolo retto sotto la tv sembra ritagliare lo spazio di un privè. In diretta da Pagani ci sono i paganesi che montano gli striscioni in curva. Una mezza Diana rossa. Le squadre sono già pronte per il via. Sospiro profondamente.

Oggi abbiamo messo il punto. È finita. Addio playoff.

Aspettavano da mesi questo momento, come certi giornalisti attendono il terremoto per contrirsi. Manca un attaccante, Novelli è un poveraccio, Salgado è inguardabile. La disamina tecnica slitta verso il crinale del proto-martirio. Tafazzi insegna dove colpire, dove colpirsi.

Certo è che il Foggia in campo a Pagani smuove le viscere e spinge al vandalismo, al vilipendio, alla violenza gratuita. Finanche al bullismo. Dal banco del bar, guardo Angelo che fissa lo schermo. Sono passati venticinque minuti dal fischio d’inizio. Non abbiamo mai tirato in porta, non ci siamo mai resi pericolosi, non abbiamo sfruttato gli spazi, né fatto nulla per crearne. Il carattere vaticinato è un sogno di gioventù. Questi maledetti sono molli, fiacchi, svogliati. A noialtri basta uno sguardo incrociato per comprendere come andrà a finire. Zero a zero, a meno che un tiraccio paganese non finisca alle spalle di Bremec, che di suo ha già salvato il risultato in un paio d’occasioni. So che Angelo sta per dire che questa è una finale e questa squadra non merita neppure di giocarseli, i playoff. Lo so perché l’ha già detto per Arezzo. Ed io gli ho dato torto. Forse perché lui la partita di Arezzo l’ha vista in tv, come questa, e può comparare le prestazioni. Ad Arezzo non abbiamo giocato come una finale, e sia. Ma, conti alla mano, non lo era. Il pari, che eravamo riusciti ad imporre e difendere in dieci, sfumato a nove dal termine, oggi sarebbe oro colato. Con quel punto, e soprattutto con due in meno ai toscani, oggi saremmo appaiati al quinto posto. Con l’Arezzo che, oltretutto, sta perdendo a Benevento. Persino col pari che invita al reato di Pagani, saremmo nei playoff. Invece. Angelo sbuffa. Poi dice che questa è una finale, puttana la miseria, e non si può giocare così una finale. Stavolta ha ragione, puttana la miseria. E non rispondo.

Oggi abbiamo messo il punto. È finita. Addio playoff.

Immaginiamo cosa diranno i lussuriosi dispensatori di sciagure, i festanti speaker delle catastrofi annunciate. Lo anticipiamo mentre consumiamo aria e polmoni, all’ombra degli alberi spogli, sotto una pioggia sottile e fredda. Ma non abbiamo la forza morale di imporre un cambio di passo, virtuali come siamo. Fossimo al campo, adesso, potremmo afferrare la squadra dal colletto, scuoterla fino a farle perdere i sensi. Tirate fuori le palle, avremmo gridato. E loro ci avrebbero osservato, a metà tra lo spavento e il dovere, come a Potenza. E, per dio, avrebbero dovuto sentire il nostro fiato sul collo. Un messaggio nella bottiglia, a ciascuno di loro: Gioca, mettetici il cuore e gli attributi, come facciamo noi. Altrimenti vi speroniamo il pullman. Invece nulla. L’Osservatorio ha deciso che dobbiamo guardarci in faccia, fissare nello sguardo altrui l’inevitabile impotenza. Sappiamo come finirà. Zero a zero. E non possiamo fare nulla per impedirlo. È frustrante. E lo sarà ancora di più quando dovremo sorbirci le lezioni tecniche degli appassionati improvvisati, buoni solo a fare il controcanto alle sconfitte. O alle mezze sconfitte.

Zero a zero. Con l’Arezzo sconfitto a Benevento e la Cavese caduta a Taranto. Costretti a crederci. Perché a due punti dal traguardo, con tre partite da giocare, non si può fare finta di niente. Non si può guardare dall’altra parte e fingere che la cosa non ci riguardi. Una settimana da scalare come un angolo acuto che si protrae nello spazio. Ancora riti, gestualità e sbuffi di fumo. Domenica saremo di nuovo uno accanto all’altro, a lanciare il terzultimo assalto alla speranza.

Basta un niente e tutto salta, Tutto tende all'essere distrutto, Tutto cambia.
Una fenice risorge dalla cenere, Torna al fuoco per quanto tu la possa uccidere.

21/04/09

Doppio Taranto

di Lobanowski 2

Domenica 19 aprile, Foggia-Taranto 2-0

I walk a lonely road, The only one that I have ever known, Don't know where it goes, But it's home to me and I walk alone
. Non so perché mi tornino in mente in Green Day. Dev’essere dovuto al sonno. Cinque ore e mezzo di riposo sono blande per una domenica mattina. Ma il sole è metaforicamente già alto e la luce – anch’essa metaforica – inonda la stanza. Non c’è da perder tempo. I walk this empty street, On the Boulevard of Broken Dreams, Where the city sleeps and I'm the only one and I walk alone. Devo averla sentita in macchina stanotte, o da qualche parte ieri sera. Come che sia, non è un bel segnale. Qui di sogni da coltivare ce n’è un gran bisogno. “Io ho scoperto che non potrò esserci all’andata dei play-off”, fa Daniele. Facce deluse, mormorii di disapprovazione, cazzo. “Ma tu come fai a sapere che ci saremo ai play-off?”, provo a domandare, così, più per saggiare il terreno che per altro. Ignorano l’eventualità, mi bypassano. Provo a spiegare ciò che già sanno tutti. Fosse per me, vivrei in un eterno girone meridionale di terza serie. Ma giacché continuerebbero a proibirci tutte le trasferte più sfiziose, allora tanto vale provare Vicenza, Brescia, Grosseto. Senza contare che le quattro partite dei play-off allungherebbero di gran lunga il divertimento, allontanando di quattro settimane il tedio estivo. È deciso, si va ai play-off. Il tempo di svuotare i cicchetti. My shadow's the only one that walks beside me, My shallow heart's the only thing that's beating.

“Siamo undici!”. L’urlo ossessivo di Benevento risuona anche al chiosco, mentre il tempo volge al brutto e la pioggia comincia a infastidire. Ma stavolta siamo di più. C’è Valerio, che è sceso da Modena. C’è anche Juan, che ha concluso il suo giro di consegne. L’abbiamo adocchiato mezz’ora fa, ci è sfrecciato accanto senza neppure salutarci. Aveva fretta di arrivare, aveva fretta di aspettare. Lo raggiungiamo e ci offre un giro di amari. Solo il giubbino inganna la sua mise da pasticcere. Pare siano sbarcati dei tarantini, in città. È una leggenda metropolitana, come quando si narrava dei due napoletani uccisi a corso Giannone, quindici anni orsono. Solo che allora la notizia la diede Teleblu e stavolta anche il popolo è più cauto nell’accettarla. Di sicuro c’è che Antonio mi telefona per ragguagliarmi sugli screzi tra giornalisti in sala stampa. L’acredine coi tarantini è forte, e ci sono certamente anche strascichi dalla gara d’andata. Un tempo non era così. Diciamo che non sussisteva nessun motivo di confronto, regnava l’indifferenza. Ma un tempo eravamo amici dei leccesi e dei beneventani. E, lo dice anche il Maestro, “il tempo cambia molte cose nella vita”.

Solito posto, solito schieramento. Entriamo che il lanciacori sta facendo alzare tutti. Scuotersi, che la partita va ad iniziare. Sguardo circolare, rotatorio. La curva è quasi piena, nonostante la pioggia e la diretta su Puglia Channel. Il resto dello stadio, non so. Non lo guardo quasi mai. Il Corriere parlerà di duemila paganti. Che non è malaccio per la situazione miserevole in cui versa il nostro calcio. E non parlo del calcio foggiano. Di fronte a noi, la curva vuota fa tristezza. Le squadre entrano in campo, le mani si alzano, le bandiere si fissano al vento. Noi siamo qua, Sempre con te. Il Foggia attacca sotto la nostra porta. Uno striscione della gradinata ricorda le vittime del terremoto. Uno, dietro di noi, ci racconta del gemellaggio tra gli aquilani e i baresi. I commenti sono sfuggevoli. Piove con maggiore insistenza, una pioggia fitta e fredda. Cappucci e t-shirt convivono, metafora dei capricci del clima. In basso è più divertente non capire. Sommersi dalla voce sfilacciata della curva, che si fa alta quando i nostri premono. Ma non c’è verso di sbloccare. Anzi, è il Taranto a sfiorare la rete. Io sono sereno. Non ci succederà nulla. E, Green Day a parte, non ho i tristi presagi della sfida col Perugia.

La Tourtel che mi giunge tra le mani emana un odore di pomodori. Come quando mio nonno, alle prime luci dell’alba, saliva sul terrazzo condominiale per fare la salsa. “È analcolica”, ha detto qualcuno al banco, con punte di spavento nella voce. L’ha rovesciata indietro al primo assaggio, sulle file posteriori. Mi è arrivata dopo una specie di catena umana, di quelle che si organizzano nei cantieri. Ne ho buttato giù due sorsi per accompagnare una sigaretta. Dall’imbocco della Sud si vedono le teste dei giocatori in campo. Hanno ricominciato. Ascendiamo. E quando il Foggia passa, su rovesciata di Salgado, il boato si trasforma nel più desiderato, ambito, tirato dei cori: Che confusione, Sarà perché ti amo. Canto e mi accorgo che in tanti indicano la tribuna stampa, come si fa da sempre quando il nemico è oltre lo schermo, contenuto nell’obiettivo di una telecamera in rec. È un’emozione, Che sale piano piano. Stingimi forte, E stammi più vicino, E chi non salta, è sporco tarantino. Bellissimo, sentito, commovente. Ripensiamo ai colleghi, ai nostri omonimi. E per poco non parte da noi un coro che ricorda la diossina. Potenza del politicamente scorretto e dell’aggregazione da curva. Ieri eravamo in piazza Garibaldi, a Taranto, a stringerci attorno alla città violata; oggi balliamo sulle sue rovine. Verrebbe da tracciare qualche distinzione, che il mondo è pieno di moralisti, di esperti, di tuttologi benpensanti. Sabato, all’Olimpico di Torino, i cori razzisti nei confronti di Balotelli sono stati scanditi da migliaia di persone. In sede d’analisi, i due opposti si contendono il prime-time televisivo: quelli che sminuiscono, perché sminuire è il loro sporco mestiere, e parlano di semplice sfogo semibestiale, di logica dei ruoli, di scherzo di pessimo gusto. Ed allontanano, allarmati, i sospetti di razzismo dal “civile pubblico torinese”. Dall’altra, quelli che tutto amplificano. Perché amplificare è il loro sporco mestiere. E nella loro disamina scandalizzata, la curva diventa il luogo del privilegio, dell’abuso, la serra libera dove tutto è concesso e nulla è etico. Lo sfogatoio legalizzato, panem et circenses. E, di bocca in bocca, al secondo passaggio siamo già all’invocazione di pene più pesanti e sicure, all’idea dello stato d’emergenza. Come se questo Paese non riuscisse a giudicarsi se non giudicando le sue curve. A Torino, come a Milano o a Roma, c’è la società su quei gradoni. Sezionata, come durante un’autopsia. C’entrano gli istinti, certo, c’entra il senso titanico di rottura d’una correttezza che è feticcio inapplicato. C’entra il razzismo e la sottovalutazione dello stesso. Da parte dei media, delle società, dei razzisti stessi. Perché non si sveglia il cane che dorme. E di razzismo ci si guarda bene dal parlarne nei casi di ordinaria violenza, di recrudescenza. Mentre diventa la prima ipotesi plausibile, se non l’unica, quando si discute di stadi. Come se il dentro e il fuori fossero due cose diverse. Come se l’accusa al recinto non riguardasse il resto del mondo, che deve rimanere incontaminato per ispirare brutte poesie alle anime belle. Razzista io che grido “nomade!” ai pescaresi? Razzista la mia dolce metà, che all’Opera Nomadi presta servizio? Ma si, liberi di crederci. Tanto ormai ci si capisce tra pochi. Se i tarantini avessero sentito il nostro “Solo la, Solo la, Solo la diossina, Voi c’avete, Solo la diossina”, avrebbero fatto un ghigno. E c’avrebbero risposto cantando che siamo dei colerosi, degli appestati, dei contadini. Come tra qualche domenica canteremo agli aquilani, gemellati coi baresi, che sono dei terremotati. I peggiori istinti, certo. Ma anche la voglia di farla finita col lutto e il suo culto. E la gabbia solidale. Perché il cinismo rovescia i termini dell’imposizione in una strana libertà criminale. Goliardica, nel senso più feroce e liberatorio del termine. Stasera telefono a Bachtin e gli sottopongo questa mia lettura degli eventi. Vediamo che mi dice.

Una volta mio padre, in compagnia di Mimmo il meccanico, proprio davanti al portone di casa, cercava di spiegare ad un ragazzo africano, di quelli che volgarmente si chiamavano Vu’cumprà, che Mussolini è stato il più grande politico che l’Italia abbuia mai avuto. Quello annuiva, fintamente interessato. Mio padre non è un razzista, sia chiaro. Ma un fascista, si, per sua stessa ammissione. E il secondo termine porta a spiacevolissime conseguenze. A mio padre i neri dell’Africa nera stanno simpatici. Perché sono lavoratori, dice. Perché non si ubriacano, non danno fastidio alle donne e si fanno i fatti loro. In tanti la pensano così, e perdono le giornate ad allontanare le accuse di razzismo perdendosi in sottili distinzioni etnografiche tra albanesi, polacchi, rumeni e marocchini. A loro favore, portano esempi mediatici, racconti di terza tacca ed enumerano il numero di neri che loro stessi conoscono e frequentano. “Ho un sacco di amici neri”, ripetono. Come se l’amicizia fosse un dovere d’ospitalità a cui il nero deve sottoporsi. E senza riuscire a distinguere un nero dall’altro. Non sono razzisti, per carità. Perché, lo dicono tutti, essere razzisti è sintomo d’ignoranza. È una brutta cosa. E loro, che non sono ignoranti, le brutte cose non le fanno. In realtà, la giustificazione è peggio della premessa. Malcolm X, che non era un fesso qualsiasi, parlava dei “neri da giardino” per indicare quella variopinta genia di ospiti di cui l’uomo bianco gradiva circondarsi. Gente che risponde agli input delle aspettative. I neri sono lavoratori e si fanno i cazzi loro, dicono i non-razzisti di casa nostra. E così dev’essere, sempre. Una caratteristica immutabile che somigli al cliché. Pena, la fine della tolleranza ipotetica. Balotelli è antipatico, riferiscono, sta sul cazzo a tutti. Ergo: ha smesso di essere un nero da giardino. Non va bene affatto. Non può permetterselo. Deve ricordarsi di essere sub-judice, debitore della bontà dei bianchi. Che possono smettere d’essergli amici e farglielo ricordare. È questo il significato del sabato torinese. Volete che una cosa del genere riguardi solo le curve degli stadi?

Il 2-0 del Foggia è un gol fantasma, ma va bene così. Ultimamente la sorte sta soffiando nelle vele del sogno. A partita finita, mi rendo conto che non mangio da un giorno e mezzo. Ma prima d’addentare il meritato panino, apro Facebook. E saluto i compagni di Taranto. Guardateci le spalle, è il messaggio. La vita è fatta di priorità.

14/04/09

Dalla strega in carovana

di Lobanowski 2

Sabato 11 aprile, Benevento-Foggia 1-1

Il fetido cortile ricomincia a miagolare, l’umore è quello tipico del sabato invernale.
Fuori tempo massimo. Ad alzare lo sguardo al cielo si annusa l’incipiente beltempo. Oggi mostriamo la maglia, ne sono quasi certo. Siamo a Pasqua. Il giorno che per i cristiani anticipa la Resurrezione. Alte le Rossonere. Sono scesi da Torino, da Bologna, da Roma, i pirati. Gli altri si fanno sentire telefonicamente, da Modena, da Napoli. Saremo tanti. Anche troppi, secondo Fabio. “Meglio quando siamo tra intimi”, mi confida, navigato com’è alle trasferte da cento elementi scelti. Condivido. Ma Foggia è città terrestre, vissuta di passaggio. Gli stanziali, qui tra le vecchie mura, se vogliono studiare architettura o anche solo evitare di vivere coi genitori fino a 35 anni, evaporano. Ascendono ai cieli della Repubblica. E quando ritornano, alle feste comandate, la festa è ininterrotta.
Giù in strada per fortuna, sono ancora tutti vivi, l’oroscopo pronostica sviluppi decisivi.
C’è Daniele che s’è disperso, come un alpinista sulla Cordigliera. Il nostro bar è aperto dalle undici. Patrizio ha riempito il muletto. Negroni fatto in casa, miscela terrifica tipica del weekend, Borghetti nei bicchierini di plastica, Amaro Lucano incalzante. Siamo in ritardo sulla tabella di marcia. Facciamo conto si tratti di una sosta, a 95 chilometri dalla meta. L’autoinganno gentile. L’ultimo autogrill, tra le pareti amiche. Non ci contiamo. Benevento è una di quelle trasferte fuori porta che attirano, evocano, sublimano il senso d’appartenenza. Carovana di macchine. Prima tre, poi quattro, poi cinque. E il tasso alcolico sale. Le bandiere, fedeli compagne di viaggio, arrotolate alle aste nell’abitacolo della monovolume di Jordan. Spettacolo. Andiamo in scena al “Santa Colomba”. Andiamo a conquistarci un pezzo di play-off. A rimirar le stelle.
Guidiamo allegramente, è quasi l’ora delle streghe, c’è un’aria formidabile le stelle sono accese.

Sia lode alla mezzeria. Alla striscia bianca che divide la carreggiata. Al fascino dei colli, che s’inorgogliscono al nostro passaggio. Una pipì trattenuta diventa una pisciata naturalistica. Alla piazzola di sosta. Il rombo delle macchine che sfrecciano fanno da involontario sottofondo alla campagna verde e gialla. Ai profumi della bella stagione. Penso agli scavi, ai castelli sepolti, agli scenari che vorrei fotografare. Si punta al Sannio, terra eroica e storicamente sottovalutata. Insomma, questa gente fece calare il capo ai romani alle Forche Caudine. Sembra ieri. Imponenti, i monti affiancano l’autostrada. Lode allo svincolo, all’uscita. La carovana è un miracolo della natura, al pari del grano, delle macchie d’olivi. Sono leggero, felice, quasi emozionato.
E sembra un sabato qualunque, un sabato italiano, il peggio sembra essere passato, La notte è un dirigibile che ci porta via, lontano.

La città ci accoglie con un intreccio di soprelevate, che sembra Potenza. È una città tranquilla, Benevento, finanche benestante, secondo alcuni. La Svizzera della Campania. C’era un gemellaggio, un tempo, coi tifosi giallorossi. Poi le cose sono cambiate. La loro amicizia con gli odiatissimi napoletani ha incrinato i rapporti. Anche se non fino al limite della drammaticità. Ci incolonniamo e a destra e a sinistra scorrono lentamente le macchine dei padroni di casa. Ci guardano, qualcuno sorride. La partita va in diretta su Rai Sport Sat, è l’evento clou della giornata di Prima Divisione. Terza contro sesta. Dal finestrino vedo lo stadio. Uno stadio vero, il “Santa Colomba”, un tutt’uno organico, senza rimaneggiamenti e giustapposizioni. Tondeggiante, come un tempo avrei voluto lo “Zaccheria”. Sbagliamo strada e finiamo sotto la curva di casa. Lo notiamo dai murales. Una vigilessa ci richiama alla strada giusta, ci indica il percorso. È gente tranquilla, questa, disponibile fino all’apparente umiltà. Un tornante e ci si apre davanti il parcheggio di una scuola, ricovero delle autovetture e dei furgoni giunti dalla Capitanata. Abbiamo il pallone in macchina, lo stesso di Civitella, ma manca poco all’inizio. E c’è ancora tanto da fare. Ci incamminiamo senza giocare.

Alle porte la celere sembra equilibrata. Del resto, siamo al Sud, dove certi fiscalismi stonano. Angelo spalanca il suo stendardo personale. I poliziotti leggono, traducono, poi sorridono. “Che significa?”, chiede avvinto e incuriosito un superiore nordico. “È un apprezzamento all’organo femminile”, risponde Angelo. Quello ride, ma gli chiede di tagliare le aste. I nostri vessilli passano ancora finemente ripiegati, come cuscini di battaglione. Ma ci areniamo sulle canne da pesca. Troppo grandi, dice un poliziotto grosso con tanto di casco. La trattativa è blanda. Rinunciamo, anche se io provo ancora ad estorcergli qualche malumore: “Le riportiamo in macchina, ma ammetterà che è assurdo”. Gli occhi si incrociano, come a dire: sappiamo entrambi come stanno le cose. Daniele, che è riuscito ad arrivare, brandisce le due canne dirigendosi verso la Digos. “Ce le tenete in macchina?”, chiede, abusando di confidenza. L’agente indica l’erba, Daniele le deposita con cura. Sarà l’ultima volta che le vedremo. Il settore è angolato, sulla destra, verso la tribuna. Chissà perché, m’aspettavo la curva intera. 750 biglietti agli ospiti, il 10% della capienza omologata dello stadio. Saremo mille, preannunciava qualcuno. “Millecinque”, vaticinavano altri. Siamo ottocento, dico, ci sono spazi vuoti ai lati. Ma si capisce subito che sarà una bolgia.

Il minuto di raccoglimento ci coglie mentre stiamo ancora lavorando di scotch. Siamo più di venti, oggi, ed abbiamo una transenna tutta nostra, da sfruttare come base del trapezio, come apice basso dello spicchio. Stavolta l’applauso non parte, e la suggestione è indescrivibile. In basso espongono uno striscione sintatticamente un po’ confuso, ma l’importante è il senso sublimato. Per quel che può contare. Le squadre a centrocampo. Il grido sincopato. Forza Foggia, Vinci per noi. Alto, altissimo. Rimbomba sotto la copertura della tribuna, ritorna. La gente ci guarda, come fossimo noi lo spettacolo. E così è. Forza Foggia la curva è con te. Sciarpe e bandiere, un timido sole, un calore afoso dal basso. Le magliette, come previsto, si moltiplicano all’aumentare della temperatura. Mezzemaniche. Fanno un bell’effetto. In casa e fuori è sempre grande festa. In campo sembra la replica della partita di Arezzo. Il Foggia alza un muro a centrocampo, s’impadronisce del pallino del gioco, ma addormenta la gara, la controlla. È importante non perdere, anche se vincere ci spedirebbe in orbita. Col passare dei minuti, progressivamente, minimalisticamente, i nostri alzano il baricentro. Fino al gol che l’arbitro annulla, lasciando agli opinionisti di curva il dibattito sul perché. Era di spalle, la giacchetta nera, stava indicando il recupero. Termina zero a zero, il primo tempo. Ma sugli spalti, siamo in netto vantaggio. Ci tengo a vincerla, questa seconda sfida. All’andata qualche amico d’amici beneventano sottolineò la buona prestazione dei suoi. “Chi giocava in casa?”, chiesero. Beh, oggi siamo qui per espugnare il “Santa Colomba”. E all’intervallo risulta chiaro che lo stiamo già facendo.

Il Foggia ha scelto una strada diversa, tortuosa. Controllare il match, senza aggredire. Stordire l’avversario fino all’impotenza, renderlo inconcludente e spingerlo alla disperazione. Poi, magari, colpire. Ma al primo calcio da fermo, una punizione dalla destra, vedo la palla spiovere su Evacuo. Vedo l’attaccante saltare e colpire, con forza e precisione. Il boato dello stadio prende alle spalle. Siamo sotto, e per l’ennesima volta, siamo quasi finiti. Il boato continua, smorzandosi un po’. I giocatori giallorossi si abbracciano. Noi alziamo il coro, riprendendolo da dove era caduto. Finisce la partita, comincia l’epica. Quella che si impossessa dei fusibili invisibili quando la corrente ti soffia contro, il mulinello ti chiama giù, le sabbie mobili ti risucchiano. E tu resisti, in piedi, mentre un ragazzino ci fa il gesto dell’ombrello. In tutta onestà, non ci credo. Non credo recupereremo. Il Benevento è squadra organizzata, con una difesa stabile e solida. Non ci crede quasi nessuno, attorno a me. Ma c’è quella seconda partita, quella degli spalti, da onorare e vincere. E conta quasi più di quella sul campo.

Jordan mi guarda di traverso, con espressione corrucciata: “Senti anche tu ‘sta puzza di bruciato?”. Io annuso, poi annuisco. Si. “Sta prendendo fuoco qualcosa”. Mi guardo attorno. Poi mi viene il sospetto che ad ardere, magari per via di un mozzicone, sia la bandiera che giace sul gradone. Mi volto, comincio ad armeggiare. Mi piego sulle ginocchia, spalle al campo, per distendere la stoffa sospettata, alla ricerca del buco. E la curva mi frana addosso. Assisto, girandomi di scatto, al volo di Mattia e alla cavalcata delle file retrostanti, che passano all’avanguardia. Abbiamo segnato, non ci vuole molto a capirlo. Giuseppe quasi piange. Ripete: “Che cosa ha fatto, che cosa ha fatto”. Parla di Troianello, del gesto che è valso il pari. Una rovesciata, pare. Ma non c’è tempo per questo genere di cose. Devo provare a tenermi in equilibrio, intanto grido, come se del gol avessi avuto sentore. In realtà, l’urlo è legato alla rete che si gonfia, ma tant’è. Cado. Cadono tutti. Il Foggia è sotto il settore. Il boato non finisce più.

Recuperiamo l’auto al parcheggio, avvolti da una litania irripetibile. Un ragazzino allo svincolo si avvicina alle macchine in coda per chiedere di scambiare la propria sciarpetta del Benevento con una delle nostre. Diniego, grazie del pensiero. Pochi chilometri di superstrada ed entriamo a San Giorgio del Sannio, alla ricerca di un bar che individuiamo alla fine della strada principale, dopo un abbozzo di piazza coronata da una struttura palladiana. Otto maglie della Ciurma su dieci presenti. Un signore anziano prende il sole immobile e costringe il nipote a sognare la libertà guardando altrove. Una ragazza al banco. Avanza Antonio il Bolognese: “Ciao, ci servirebbero una scarica di pizzette e svariate birre, a prezzi ultras”. La ragazza risponde strizzando l’occhio. “Me la vedo io”. Ci accomodiamo all’aperto. Dinanzi a noi, la locale sede del Partito della Libertà. Deriva messicana, alla Garcia Marquez. Noialtri, i peones di turno, ci abbandoniamo all’aneddotica. È uno di quei momenti di leggerezza per cui vale la pena fare ogni sforzo. Sabato di Pasqua, relax prefestivo, soddisfazione per il fiato che ancora ci tiene in vita, a 2 punti dalla quinta. I bambini giocano a pochi passi da noi. Un primo coro, a far sorridere chi ci sta attorno. “Anch’io sono stato allo stadio – ci comunica un signore – e questo punto non serve a nessuna delle due squadre”. No, a noi si. È scettico. Secondo giro di Heineken, seconda scarica di pizzette. I cori si moltiplicano. E quando torniamo alle macchine, con la piena luce del Sannio ancora a strapiombo, diventano volanti, urlati dai due abitacoli simultaneamente, mentre ripercorriamo la strada a ritroso. Noi siamo qua, Sempre con te, Unica fede in tutto il mondo intero, Io canterò, Ti sosterrò, Ovunque andrai, Us Foggia. Un anziano si ferma per farci passare. Noi non siamo napoletani! Quello ascolta e ci indica. Un po’ sorride.

06/04/09

Il bivio e i ceci

di Lobanowski 2

Domenica 5 aprile, Foggia-Perugia 2-1

Il bivio. A livello esistenziale, una lacerazione, uno sconquasso, un dilemma da evitare. Nell’esistenza di un tifoso, l’essenza. Ricercata, inseguita, pedinata. Stati d’adrenalina pura, quando ti capita di pensarci e ti si blocca lo stomaco. E l’ansia monta, come una marea di detriti.
Una settimana trascorsa in apnea. A fare le bolle a filo d’acqua.
A galla, oltre la battigia, il contingente di parolai anfibi, intento a traslocare. Da un carro all’altro, per l’ennesima messinscena della Ragione contro il Torto. Laddove il Torto perde. Ed ha torto per questo. È stata una stagione strana, questa, attraversata senza picchi di entusiasmo e senza baratri di delusione cocente. Si è passati con naturalezza dagli insulti di Potenza alla gioia breve di Castellammare, dalla fiducia crescente di Taranto e Cava allo sconforto del doppio pari interno con Foligno e Pistoiese. Un tagadà frigido, coi giornalisti impegnati a fiutare il vento, a provare ad anticiparlo. Anche in questo, senza talento. Arezzo ha rappresentato un punto di svolta.
S’è quasi acquisita, domenica, la certezza che non ce la faremo, che trattasi realmente – così come annunciato da luglio – di stagione di transizione. E in tanti, sopraffatti da questa consapevolezza, si sono dati alla pazza gioia. Una settimana di studi televisivi affollati, di godimento ed estasi, nel più meridionale dei crogioli fintamente dolorosi.
Quell’opinionista sovrappeso ha fatto il pendolo per mesi. Vagonate di letame da scaricare il venerdì e scuse ruffiane da presentare lunedì, alternativamente. Per darsi un tono da esperto. Poi s’è deciso. Ha sparato sulla tifoseria. Su noialtri, nello specifico, che alla fine della gara di Arezzo abbiamo cantato per incitare l’undici sconfitto. Non hanno più le palle di contestare, ha detto, in sintesi. Gli stabiesi, che hanno lasciato la squadra in mutande dopo l’1-0 patito a Pistoia, quelli si che sono cazzuti. Guardano la classifica dallo sprofondo, però. Allora va a finire che cazzuti sono gli aretini, che vanno in cento allo stadio con la squadra quinta e contestano a 44 punti. Ad un passo dai playoff. Contestare. A -6 dal traguardo con sette giornate da disputare. Una follia. Come a seppellire lo sforzo, rompere le righe e andarsene al mare. La diserzione spacciata per coraggio. L’incapacità di soffrire esposta al pubblico h24. Come un atto di arditismo. Adombrando finanche scenari ambigui – retroscena cotti ad arte per il pasto dei dietrologi – per spiegare il mutismo delle curve. Tanto che, a furia di ripeterlo, diventa ingenuo chi non ci crede. Goebbels docet.

Otto ore di sonno pieno. In una settimana ho macinato 2.200 chilometri, tutti rigorosamente su gomma: Arezzo, Bari due volte e, da ultima, Roma, ieri. Il sole copre il vento, ma la giornata è tutto sommato primaverile. Mi sveglio con in mente un big-match di qualche tempo fa. Che poi qualche tempo sono ventuno anni. Il Foggia quinto di Pippo Marchioro, costruito per il grande salto in B, contro il Licata quarto. L’ultima spiaggia, dopo la sconfitta di Campobasso. Aria di resa dei conti. Ecco: quella partita e questa non c’entrano niente. È bene togliere ogni alibi alla similitudine. Perché allora non c’era la pay-tv, non c’era il campionato spezzatino, non c’erano alternative: fischio d’inizio e tutto in novanta minuti, con ventimila persone a soffiare sul rettangolo e un caldo afoso, sempre, anche a novembre. Perdere col Licata significava salutare i sogni di gloria. C’erano ancora quattro o cinque giornate davanti, all’epoca. Oggi è tutto diverso: di fronte il Perugia, che deve ridimensionarsi ed adattarsi ad una inattesa una bagarre salvezza da dieci squadre. E davanti ce ne sono sette, di giornate. Si deve vincere, certo. Ma per il resto, lo scetticismo ha già rotto gli argini. Saremo in duemila, forse anche di meno, allo “Zaccheria”. Fantasma di se stesso. Ci credono, ci crediamo in pochi. Non c’è la stessa epica. Eppure, quella partita mi torna in mente. Mentre, seduto al chiosco, osservo l’arrivo dei primi tifosi. Ci saranno anche i perugini.

Sono di fronte. Una trentina, qualcuno in più. In curva Sud si sta divinamente. Occupiamo la nostra fetta, innalziamo una canna da pesca di quattro metri: Jolly Roger e vessillo irlandese, ricordo del fresco contatto con i Boys (e le Girls) in Green. Guardo il terreno. Licata, mi dice la testa. Mi scuoto, allontano lo spettro. Mi muovo tra il primo e il secondo gradone, mi nascondo nel cono d’ombra del corifeo. È come se non volessi vedere, occulto la faccia alla sorte. Poco guerresco, magari, ma istinto di sopravvivenza. “Due a zero per noi, subito”. Perché vorrei muovere su Benevento, sabato, con il patema d’animo sul groppone e non semplicemente per anticipare la Pasquetta. Vorrei la strada spianata. Sei punti non si recuperano facilmente, tanto più che l’Arezzo gioca in casa col Marcianise. X2 sulla bolletta Snai. In fondo, sono quasi convinto che possa non fare risultato. Mi preoccupa la Cavese, che a Potenza potrebbe fare il colpaccio. Intravedo qualche cross, sulla mia sinistra. Niente di che. Il tempo scorre. La curva sostiene, e anche in gradinata c’è gente che incalza col battimani. Passo in rassegna i miei compagni, i pirati della Ciurma. Tesi. Licata. Mi faccio passare la bandiera e non ci penso. Benevento dista un’ora di macchina. Se dovesse andare bene oggi, quel pezzo d’autostrada diventerebbe un piccolo fiume rossonero. Un pellegrinaggio sulla via della speranza. Bellissimo. Dovesse ander male, saremmo in cinquanta. L’ho già detto ai miei, i miei hanno risposto affermativamente. Ad andare ci andremo. E così a Pagani, a Terni. Per dovere di firma, per onorare una stagione che abbiamo disputato – noialtri, sugli spalti – a buoni livelli. Un attaccante in maglia bianca gioca di sponda con la nostra difesa. La palla filtra, come nelle più precise triangolazioni: è solo davanti a Bremec. Guardo in guardalinee, come riflesso condizionato. Ci spero, ma quello rimane immobile, mentre l’attaccante supera il nostro portiere ed insacca. Un’occhiata ai perugini festanti. Licata. Licata e ancora Licata. Gialloblu, quelli, in trenta, in uno spicchio della Nord, a festeggiare un tassello della lunga marcia verso la cadetteria. Segnò La Rosa. Biancorossi questi, a sprofondarci negli inferi dell’inconcludenza. I nostri, sugli spalti, incassano. Come un gancio in pieno petto. Manca il fiato.

All’intervallo sostiamo fuori dalla curva. La bandiera fa capolino al bar. Scoramento, senz’altro. E scarse speranze. Da un paio di rumori scomposti, intuiamo che si è tornati a giocare, ma saliamo con flemma ed entriamo in ritardo. Ai nostri posti. Fino alla fine (che appare prossima anche ai più ottimisti). Poi un calcio di rigore. In tanti non guardano. Pareggiamo. Adesso è ancora peggio. Perché un punto, a certe condizioni, è più malsano di una sconfitta. Perché l’incertezza spinge all’utopia, all’idealismo. Ti porta a credere nei miracoli. Si canta, si spinge, tutti assieme, quegli intimi che siamo. Chiedo a Lello quanto manca. Mi dice “cinque” con una faccia che è tutto un programma. Scopro che è tornato Salgado. La cosa non mi rincuora. Poi, in rispettoso ossequio del più classico canovaccio thriller, il simulatore andino finge di schiantarsi su un difensore in ripiegamento. L’arbitro indica il dischetto. Di nuovo. Non ci credo, non è possibile. È un segno. il dio del calcio vuole che soffra ancora. Lo ringrazio infinitamente. Salgado va dagli undici metri. Parte. Tira. Vedo il portiere intuire. Vedo il portiere parare. La palla alzarsi, sulla destra del fronte. E tre, poi quattro persone volare giù dai gradini superiori, frantumarsi sulle transenne, ostruire la visuale. L’ultimo frame è quella di un omino in rossonero – che mi garantiranno essere Mattioli – che vola verso il pallone. Nell’unico spicchio aperto, fisso la tribuna. E il boato mi arriva addosso. Ha segnato, non so come ma ha segnato. E questo mi basta. E m’avanza. Non devo gridare, la gola è scarica e perdo la voce ogni due giorni, oramai. Meglio stringere gli occhi e rimanere immobile, impassibile. Ma dentro – dentro la testa, dentro lo stomaco – è festa. Mi sono giocato la possibilità di rimanere appeso ad un filo. Ed ora ringrazio Damocle per la sua spada sulla testa. Senza, starei infinitamente peggio.

Attendo Benevento e il suo affluente rossonero. Poi qualche pallone gonfiato dovrà inginocchiarsi sui ceci.

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