29/05/09

L'attesa autoprodotta

di Lobanowski 2

Brucia e non passa. Una vampa statica, che non consuma corde, filari d’alberi o di pneumatici, che rimane tra i piedi. Che ingombra. Che non sai che farne.
Così fa il tempo, da sempre ingannatore delle genti.
Brucia e non passa. Brucia senza passare.
Settimana di passione. E c’eravamo preparati con la sintassi, fatti largo a suon di definizioni scudisciate tra i rami della foresta incognita. Ma un conto è dire – dirlo – un conto è vivere – viverlo. Quando parte la prevendita? Dove si fanno i biglietti? Ma è vero che si gioca di martedì perché ci sono le elezioni? Tanto a Benevento non ci fanno andare.
Domande, quesiti, affermazioni tolemaiche entusiasmanti. Buone per un’altra volta. Per sguazzare, compunti e compiaciuti, nel pantano autoprodotto dell’eterna vigilia.

Lunedì sera le mani fremono. Allora tiriamo fuori l’armamentario per intero: le due oblique, la bianca-rossonera-bianca a bande verticali, la Jolly. E tutta la batteria di bandiere detenute. E lo scotch, il nastro isolante, quanto basta ad avvolgere stoffa ed aste, a fissare colori su sempre nuovi ed intercambiabili supporti. Cernita di quel che manca, di quel che servirebbe. Si vagliano i potremmo fare.
Abbiamo saputo della coreografia. Dovremo apparire alle porte della Sud alle 12:30.
Nel frattempo, non resta di meglio da fare che una sbandierata lungo via Mario Pagano, che rimane pur sempre una traversa di corso Roma. Le luci del quartiere sono smorzate. Un signore al balcone.
“Non stiamo più nei panni”, dico. “Eh, vedo”, risponde.

Senza contare che siamo al primo anniversario di Cremona. L’abbiamo commemorato come si deve, col minutaggio dei caselli nel quadrante dei ricordi.

La prelazione per gli abbonati dovrebbe garantirmi tranquillità. Guido è stato ai botteghini martedì mattina e c’erano dieci persone. Lello passa da casa che sono le quattro e fa un caldo geometrico. Come per rievocare. Due piccoli agglomerati in fila. Rispettivamente Curve e Tribuna Est. Voci sommesse e paragoni: l’anno scorso, per l’andata con la Cremonese, la fila arrivava lì. Un dito indica. Alcune teste si girano. Caspita, lunga. Vado avanti, provo a seguire le operazioni dell’impiegato nel suo gabbiotto di cemento. Origlio, ma senza volontà, il discorso di due giovani in prima linea. “Ti ricordi con la Cavese? La fila arrivava al marciapiede di fronte”. La testa va all’indietro, come la Carrà. Torno al mio posto. Alle spalle di Lello c’è un signore solitario, che ha parcheggiato la macchina a meno di un metro. Che, a ben pensarci, avrebbe potuto fare la fila direttamente dall’abitacolo. Dietro di lui, tre ragazzi nuovi, appena arrivati. E, come per un rito benaugurale, appena si posizionano, si lanciano nell’amarcord come fiori nello stagno. “Ti ricordi Foggia-Avellino? La fila arrivava al bar”. L’Età dell’Oro delle file allo “Zaccheria” tende a riavvolgersi su sé stessa come un nastro trasportatore. Decido di imbastire un ragionamento, di far partire una chiacchiera a caso, pur di evitare di ascoltare della fila di quel Foggia-Juventus che si trasformò nella più gigantesca rissa amichevole della storia. Di ascoltare ancora quella storia. O di essere costretto a raccontarla. Così viro sui limiti del calcio moderno: Nome, cognome, lettore ottico per i dati supplementari, e tutto questo tempo perso per sole venti persone da sbrigare. Assurdo. Un tempo non era così. Ma non sembrano interessati. Tutti puntano l’obiettivo, nessuno annuisce neppure. La fila per la Tribuna Est, in ossequio al trasformismo di questi giorni di campagna elettorale, diventa improvvisamente valida anche per le Curve. E la nostra si spezza in due. A ridosso del giovanotto al lavoro, scopriamo che le casse sono a corto di spiccioli per il resto. Che il biglietto – che costa 10,00 – con la prevendita del 10% viene 11,50.
Ma che razza di prevendita se siamo al botteghino? Non esiste, come concetto morale, che il botteghino dello stadio si avvalga della prevendita. È ovvio che quel pre non vuol dire letteralmente prima (altrimenti ogni biglietteria farebbe prevendita). Ma segnala il servizio improprio: il bar, la ricevitoria, l’erboristeria fanno prevendita. Non lo stadio. E poi: che razza di 10% su 10 euri fa 1 euro e 50 centesimi?
Rumoreggia, la plebe. Nome, cognome e data di nascita. Sono ad un passo dal traguardo. Sento la richiesta ripetuta ossessivamente, compulsivamente, meccanicamente, dall’interno del gabbiotto. Come ad un posto di blocco della polizia, ad una dogana. È incredibile pensare a come cambiano certe cose. E a quanto in fretta ci si abitui. A come certe domande riconducano a certi ambiti. Ed a come gli ambiti, senza averne la precisa percezione del mutamento, mutino. E ce li ritroviamo qui, mutati, tra i piedi. Ormai ci siamo.
Un vecchietto arriva sferragliando in bici. Si incuriosisce. Rallenta. Poi si ferma. Approfitta del primo sguardo benevolo che gli giunge dalla fila, in costante ricomposizione. E affonda la domanda: “Che c’è una partita?”.

Beata incoscienza, o rabbia! Ma è mai possibile che esista ancora gente così? Noi siamo qui a consumarci le nocche in assenza di unghie fertili, e questo gironzola per la città ignorando che, dopo una rincorsa che te la raccomando, domenica andiamo ad assaltare la cadetteria… Mi rifiuto di crederci: ma di cosa vive sta gente? Boh, magari di ciclismo… Anche se, a ben pensarci, ha scoccato la domanda mentre su Rai Tre Auro Bulbarelli sta commentando Il Giro all’arrivo. Recito il nome e cognome di mio zio, che ha pensato bene di prenotare quattro abbonamenti a nome suo, invento una data di nascita (che si rivela sbagliata, ovviamente, il calcolo combinatorio non è mica una scemenza), ed ottengo il biglietto. Un piccolo passo per l’umanità.

L’elenco consta di diciassette persone, se non vado errato. La bandiera catalana ondeggia al vento assente. “A che ora inizia la partita?”, “Alle quattro”, “Alle quattro? Ma che cazzo dici?”, “Oh, i playoff cominciano tutti alle quattro”. Qualche secondo per realizzare che non di Foggia-Benevento mi si chiedeva. Ma di un Barcelona-Manchester United che, secondo gli esperti, dovrebbe assegnare la Champion’s. Pensare che l’ho visto nascere, questo Barca. Al Nou Camp, all’epoca del Wisla e dei preliminari. Ne è passato di tempo da Foggia-Barletta di Coppa Italia. Un vodka-lemon e passa la paura.

750 biglietti venduti in tre ore, in quel di Benevento.
Diverse scazzottate nei bar, in quel di Foggia.

20/05/09

Luterano (in risposta a certe considerazioni appropriate)

di Lobanowski 2

Facile parlare di presunzione. Facile, troppo facile, dire che sono io quello che non va. Che non accetta, non si apre, si ghettizza in un fanatismo autoreferenziale e, tra l’altro, immotivato.
Perché non c’ero a Castrovillari e neppure a Sant’Anastasia.
Ma io la vedo diversamente. E uso termini differenti.
Uno su tutti: disciplina. Sono uno disciplinato, io, specie nella pratica della coerenza.
E non vedo perché mai dovrei applicare ad altri soglie di tolleranza che non applico alla mia persona. In altre parole: perché dovrei essere buono e accondiscendente con gli altri, mentre con me sono cattivo ed esigente?

Due anni fa Foggia si imbandierava. C’era la finale playoff ad Avellino e, in casa, avevamo vinto uno a zero. Io scrivevo: “Mi si domanda, da più parti, se sotto sotto sono felice che il Foggia stia lottando per la promozione. Non lo so e quando lo saprò non lo dirò. Di sicuro non correrò ad abbonarmi ad agosto, non farò il mio ritorno sugli spalti a promozione ottenuta. Sarebbe in contraddizione con ciò che sento e che ho sempre teorizzato: se non si è respirata la lava incandescente degli inferi, non si ha il diritto a godere. Neppure del purgatorio”.
C’è un link che vale da prova, questo, datato 11 giugno 2007.
http://illaerte.ilcannocchiale.it/2007/06/11/la_conquista_del_purgatorio.html

Avevo mollato molto prima, per ragioni che non avevano e non hanno nulla a che vedere col gioco del calcio. Mi ero defilato, coltivando nel privato una passione che era stata feroce e mi aveva portato a fare cose di cui mi ero pentito. Non mi divertivo più.
Fatto sta che la trasferta d’Avellino era vietata. Non ci sarei andato comunque, ma non per chissà quali motivi romanzeschi. Ad Avellino c’ero stato altre volte, nella mia prima vita da curvaiolo. Una volta, con l’incoscienza dei 15 anni, persino d’estate, per un’amichevole. Senza scorta, direbbero quelli che di se stessi fanno biografia. No, ad Avellino non ci sarei andato per coerenza.
Gli altri – da Lello a Gianni, che quel campionato e la C2 li avevano seguiti – lo sapevano. Se il Foggia fosse riuscito nell’impresa di tornare in B, non avrei neppure esultato. Non avrei mosso un dito, non avrei fatto trasparire nulla. E l’anno successivo, avrei bucato il grande passo di tornare allo stadio. Perché sentivo che non mi meritavo il posto sul carro dei vincitori. Neppure a cascione. I vincitori erano altri: i miei amici che erano scesi a Paternò, a Gela, a Barcellona Pozzo di Gotto, a Ragusa, a Marsala. Loro si, avrebbero dovuto festeggiarsi.

Si issò la bandiera fuori. Tiziana aveva preparato una torta. Angelo continuava a ripetermi: “Non ci credo, non ce la farai. Dovesse segnare il Foggia, farai come hai sempre fatto, come quella volta in incognita a Tivoli”. No, garantivo. Non ho alcun merito. Non merito alcuna festa. Perché il mio cervello – rimbambito da una coerenza di stampo luterano – ragionava (e ragiona) così. Non come i cattolici, che vanno a confessarsi e lavano le macchie.

Poi Rivaldo, al minuto 90 e passa. E il castello di carte che crolla. Ricordo le facce degli altri. Non passava più. Poi un signore in macchina, di ritorno dallo stadio (dove avevano trasmesso la partita su maxischermo), che vede la nostra/loro bandiera, ancora issata, e ci fa, ironicamente: “Ancora? Perché non la togliete…”. E un secondo, e poi un terzo. Tutti con lo stesso messaggio. Al quarto scatto e per poco non si arriva alle mani. Quello si ferma, litighiamo, ci sfanculiamo.
Cazzo, non posso sopportare che questa gente senza etica, senza principi (luterani o no), debba entrare ed uscire con tanta serenità dalle stanze che a me costano fatica e lacerazioni. Vaffanculo. Li odio gli occasionali. E per occasionali non intendo solo quelli che allo stadio vanno cinque volte in dieci anni, come se andassero a teatro. Occasionali, per me, sono anche quelli incapaci di soffrire come soffro io. Autoreferenziale, ancora una volta. Lo so, ma sto facendo outing. Quindi mi sia concesso.

L’anno successivo, che poi sarebbe l’anno scorso, approfittando di un intreccio narrativo, di un caso della vita, sono tornato allo “Zaccheria”. E per poco non mi è venuto da piangere. Ricordo che c’era il Foligno, contro. Ed io non riuscivo a staccare gli occhi dai gradoni. Ripassavo i volti, le posizioni dei gruppi. Quella vita da cui mi ero auto-espulso prima dell’espulsione. Non era ancora ritorno di fiamma. Ma ci ero vicino. Il Foggia vinse 2-0. Poi ci fu la scampagnata di Manfredonia. E mio padre a tavola si aprì come se parlasse ad un tossico: “Guarda – mi disse – che se ci torni, ci ricadi”. Riportai l’aneddoto agli amici. Ridemmo. E mio padre ebbe ragione.
Durante l’interminabile fila ai botteghini per la prima semifinale con la Cremonese, ero dalle due all’altezza del marciapiede del piazzale. Davanti a me, una fila interminabile e aggrovigliata. Di fianco, alcuni esponenti della Nord e della Sud che urlavano frasi di scherno: “Tifosi da playoff! Questo siete!”. Non dimentico la vergogna che ho provato, come i romani alle Forche Caudine: io, preso per un occasionale. E quel che è peggio, la mia etica luterana che dai recessi mi diceva che era giusto, che meritavo totalmente quella piccola/grande umiliazione.
Poi Cremona. I chilometri dell’espiazione.

Per me il Foggia non è tutto. Nessuno, neppure tra i più indemoniati, lo crede realmente quando lo scandisce allo stadio. E non è neppure una fede a punti. Per me il Foggia è una passione bruciante, che sa di passato remoto e di futuro prossimo. Non ho mai perdonato a me stesso d’averla mollata – quella maglia – nell’inferno della C2. Ma non potevo fare altrimenti, perché mancavano dei presupposti. Mancava il gruppo, era svanita la voglia di cazzeggiare. Ma, in realtà, è sempre rimasta dov’era. E se qualcuno pensa che è stato perché non volevo scendere a Castrovillari o a Cosenza, beh, proprio non mi conosce. Anche perché a Cosenza ci ero già stato. E non tanti più di trenta eravamo, pure allora. Così come a Salerno, ma insomma basta! Il punto che volevo evidenziare, in questa prima settimana di passione, al cospetto dei reduci che giocano a tirarsela e degli occasionali che s’atteggiano a inossidabili lastre di fiducia, è che io – con tutti i limiti della soggettività e tra mille contraddizioni – rimango onesto con me stesso e con gli altri. E quando dicevo che non avrei festeggiato perché non lo meritavo, lo credevo. Alla stessa maniera oggi, per pudore, vorrei che fossero altri a non festeggiarmi sotto il naso.

18/05/09

La nostra festa

di Lobanowski 2

Domenica 17 maggio, Foggia-Crotone 1-0

“Fin dal calcio d'inizio Lennox aveva capito in qualche modo che il Notts avrebbe perso, non per una profetica conoscenza della prestazione di ciascun giocatore della squadra di casa, ma perché nemmeno lui, da spettatore, si sentiva in piena forma”.

Così Alan Silltoe, a proposito di una gara interna col Bristol. E il parallelismo regge anche a diversità di esito. Perché anch’io non ho profetiche conoscenze dei miei. Ma alla vista di quella curva strapiena, dei ragazzini e delle ragazzine dotati di vidocellulari e magliettine a righe modello Sonohra sopra, sotto, di lato a noi; di quella gradinata stracolma di gente seduta, anch’io ho avuto la certezza che il Foggia avrebbe vinto. E, come Lennox, non mi sono sentito in piena forma. Ma non perché m’augurassi qualcosa di diverso dalla vittoria. Non fraintendiamo. Conquistare i playoff è il minimo. Senza la doppia sfida di semifinale, senza la finale che tutti auspichiamo, oggi potrebbe essere il nostro ultimo giorno prima delle ferie estive. E non oso neppure pensare a quanto afoso tedio ci separi dal ritiro, dalla prima di Coppa Italia, dalla prima di campionato a fine agosto. Scuoto la testa per rimuovere il pensiero – Delete – mentre m’arrampico fin su alla curva per appendere la pezza. E chiedo “Permesso” agli spettatori già in posizione. M’informo: “Che ore sono?”. Le due meno cinque, mi rispondono. Un sguardo dall’alto in basso: incredibile. Siamo qui con oltre un’ora d’anticipo. E per risalire la Sud devo chiedere permesso. Rimpiango i 500 curvaioli di Foggia-Pistoiese. Rimpiango l’acquaneve e il vento sferzante di Arezzo. Ma tant’è: questa città non è in nulla diversa dalle altre. Il carro del vincitore affascina, seduce, conquista le anime meschine. E quelli che ancora non ci sono saliti sopra, si preparano al grande balzo. Come Fantozzi con l’autobus.

Al covo l’aria è distesa, da ultimo giorno di scuola della regular season, in attesa degli esami di maturità. Un giro di Borghetti a festeggiare i dieci anni di un fidanzamento a cui tengo molto, un excursus tra i trailer di Maccio Capatonda, l’attesa dei dispersi. Fuori issiamo le bandiere. Una comitiva di ragazzini alla pizzeria di fronte non si lascia sfuggire l’occasione, e tira fuori le immancabili fotocamere. Flash. C’è una generazione che si sta giapponesizzando sotto i nostri occhi. A corso Matteotti c’è gente. Sciarpe al collo, sono testimonial dell’occasionalità. E del grande evento. Il colmo sarà dover sgomitare con questa gente per ottenere un tagliando per le semifinali. Rabbia. Saltiamo la sosta al chiosco, perché immaginiamo – a ragione – che la Sud sia già piena. Un gruppo di dodici giovanotti si presenta alle porte e fa un nome, uno soltanto. Come ad una festa di compleanno. Gli steward li lasciano passare. Enzo invece adotta un’altra tattica. Fissa negli occhi lo staccabiglietti esclamando “Buongiorno” con voce sicura, gentile ed affabile. Quello, stupefatto e spiazzato da tanta cortesia (a cui non deve essere abituato), si concentra sulla risposta. E si dimentica di chiedere il conto. Buongiorno. Il primo gradone a ridosso della balaustra è un tappeto di aste e stoffa. Le squadre in campo, lo sventolio, il rimbombo dell’intera curva alle prese con il primo coro. “Scusa, puoi evitare di riprendere con quel coso…”, “Perché?”, “Come perché?”. Bisogna stare con gli occhi aperti, ma questo clima mi ricorda le partite di beneficenza.

Ne risentiamo. Alla fine del primo tempo ci fanno notare che siamo stati blandi, per nulla carichi. È vero, cazzo. Ma come si fa, in queste condizioni, a concentrarsi. Qua sembra la riproduzione dei panda allo zoo. Le nostre tre file si schiacciano e si mescolano ad una marea di volti inediti, che neanche le Nuove Proposte a Sanremo. Saranno famosi, probabilmente, ma per adesso sono un fastidio indicibile. Fa un caldo mortale. Quello del chioschetto si sorprende della quantità di bottiglie d’acqua che riesce a vendere. Un sorso di minerale, una doccia. Vinciamo uno a zero. Ha segnato Germinale. Ho visto trequarti del gol, finché non ho perso di vista il pallone, ingoiato dalla prima fila. In quell’istante ho fissato il nostro attaccante aprire le braccia e venire sotto di noi. E mi sono girato per costatare lo stato di conservazione di Ceska. Uno sull’altro e tutti giù. Due energumeni afferrano un amico e lo trascinano agli inferi. Quello scalpita, prova ad opporsi, e sferra quattro calci nel vuoto. E il vuoto sono io. Il mio stinco sinistro, per la precisione. Nella ripresa, che si preannuncia mortalmente noiosa sul campo, dovremo riscattarci. Tanto più che abbiamo le t-shirt nuove, oggi. Compattarsi, diventa l’imperativo. Anche a costo di espellere i neofiti. Uno striscione solidarizza con gli Sconvolts Cagliari: Anche repressi combatterete.

Ora siamo decisi. Le notizie-radio riferiscono l’altalena emozionale di Cava. Vince il Pescara, al “Lamberti”. Ma tutto lascia presagire che non corriamo rischi dell’ultimora. Il Crotone ha mollato una presa che già dall’inizio era parsa molle. Chi non salta è cavaiolo. E la curva ingrana la marcia. Adesso ci divertiamo sul serio. Un pensiero immancabile ai tarantini, poi proviamo a coinvolgere il resto dello Zaccheria: Tutto lo stadio. Chi non salta è cavaiolo. Ma quelli in gradinata restano fermi, impassibili, gli occhi sul manto erboso e il suo scialbo divenire apparentemente agonistico. Ci riproviamo: Tutto lo stadio. E ancora: Chi non salta è cavaiolo. Niente. Nessuna risposta. Sembrano inchiodati. Allora le braccia dell’intera Sud indicano quel mare di teste alla destra. E parte il coro che vale una stagione, quello che racchiude in sé l’essenza dell’esserci: Siete sempre un pubblico di merda. Bello, lungo, scandito. Sillaba per sillaba, a conficcarsi nelle cortecce cerebrali di quelle vecchie querce immote. Vaffanculo, se lo sono meritato tutto. E adesso è inutile che scalpitino, che applaudano ironicamente, che inveiscano con rabbia. Merde siete e merde resterete. Ah, gli anni Ottanta… Triplice fischio. È finita. E mi sento sazio come una stufa a cherosene. La squadra sotto di noi, e poi Novelli. Un coro, Mister Mister, che non fa nomi e cognomi, ma che in controluce dimostra a quest’uomo chi siamo – quelli che c’erano e ci credevano mentre i giornalisti si dilettavano a mostrarsi arguti – e chi è. Ci punta l’indice addosso, mentre sfugge agli abbracci degli invasori di campo. Una, due, tre volte. Mi emoziono e non lo nego. Sciolgo la tensione con gli altri: Voglio restare in C, Perché qui è un mondo fantastico. Cantiamo tutti, ridiamo. Prima di sorprenderci assetati. Conviene uscire di corsa, affrettarsi. Ci aspettano un paio di Peroni a testa. E un whiskey per la sera. Festeggiare i playoff, dicono tutti, è da idioti. Foggia, stabiliscono i soliti voltagabbana, deve ambire ad altre soddisfazioni. Sono gli stessi che parlavano di derby quando giocavamo col Manfredonia. E vabbé. Sta di fatto che ci è presa una dannata, insindacabile voglia di festeggiare. E festeggiamo, alla faccia di tutto e di tutti. E se qualcuno si incuriosisce – “Cosa festeggiate?” – non possiamo che rispondere: Noi stessi. E siamo seri. Oltremodo seri.

Flashback. Zio Franco è disperso dalle 10 del mattino. Sente la partita come un parto. Da qualche anno va in tribuna centrale, ma è rimasto un curvaiolo dentro. Ed in tribuna questo spicca più che nel cuore della Sud. Uno che butta il sangue come se dettasse geometrie a centrocampo, che insegue il pallone come un cavallo, sbuffa e nitrisce. Ha promesso: se il Foggia va ai playoff, qualcuno la pagherà. Ce l’ha coi giornalisti, che vivacchiano la partita a pochi metri da lui. Al novantesimo la curva si svuota. Noi stiamo ancora cazzeggiando, intonando cori situazionisti, cinici e disillusi. Qualcuno mi chiama dalle transenne. “Ma non è zio Franco quello?”. Aguzzo lo sguardo alla mia sinistra, fino alla tribuna. C’è un signore pelato, palesemente sovreccitato e sudato, che si sta scagliando contro il convoglio dei giornalisti che – muti! – abbandonano la postazione. Sembra Cavallo Pazzo. Si, rispondo, è lui. Mi raggiungono gli altri. Zio Franco picchia per noi…

Alle 20:30 Mattia chiama in trasmissione. Tenta la supercazzola in diretta. Il giornalista per poco non ci casca. Di voi tutti, oggi, vogliamo ridere.

Il 15 marzo l’allenatore dell’Arezzo Ugolotti dichiarò: “Abbiamo 6 punti sulla sesta, quel discorso forse è chiuso”. I sesti, manco a dirlo, eravamo noi. Estrapolai, copiaincollai la sua dichiarazione. Ne feci la mia frase personale in Messenger. Oggi noi siamo ai playoff. E Ugolotti è stato esonerato. Alla luce di tutto questo, mi sembra poco importante che l’Arezzo abbia comunque centrato le semifinali. Apro Msn. È ora di fare le pulizie di primavera. Seleziono, cancello. Scrivo: A settembre c’eravamo solo noi. A marzo pure.

11/05/09

A metà della meta

di Lobanowski 2

Domenica 10 maggio, Ternana-Foggia 2-2

Venezia mi ricorda istintivamente Istanbul. Lo cantava il Vate. E decine di impulsi cerebrali a far schizzare i pensieri associativi, le scrollate di testa, i tentativi di pensare ad altro, di invadere la mente di soavi mollezze, non riescono a chetarmi. Terni mi ricorda istintivamente Cremona. Stesso calore afoso, a strozzare l’ossigeno; stesso senso di epidermide in fiamme; stessi volti attorno, che fingono di pensare ad altro. Solo l’umidità è differente. Ma la cappa di piombo, il fiatone, la voglia di non guardare, sono le stesse. Stessi palazzi addosso al mare, stessi tramonti che si perdono nel nulla. Pensare ad altro, guardare altrove. Come una terapia: novanta minuti, poi passa.

Direzione Lucera, dritti a costeggiare la fortezza angioina, Campobasso, svincolo per Isernia, Venafro per la più classica delle soste a mozzarella e caffellatte, San Vittore, autostrada fino ad Orte, Terni. Ma gli strateghi sono arrivati prima di tutti, ed hanno le idee chiare, circa la confusione. Le cartine, due, aperte sul banco. Il furgone fuori, a sbuffare d’impazienza. Lo stato maggiore attorno alle carte, a studiare l’orografia, le asperità del territorio. Dita scorrono sui monti e gli avvallamenti. Come i francesi ad Austerlitz. Conviene l’Adriatica, sento dire. Usciamo a Chieti, tagliamo per L’Aquila. Il dibattito è serrato. Giuseppe propone di risparmiare ulteriormente imboccando l’A14 solo a Termoli. Nicola lo scavalca, asserendo che fino a Vasto la statale è ottima e ben tenuta. Sguardi obliqui. Provo ad inserirmi, ma è deciso. Daniele si fa largo e dice la sua. Indica un punto di partenza, e uno d’arrivo. A giudicare dai movimenti della mano sulle carte, propone di partire da un punto qualsiasi del Subappennino e puntare – mediante un traforo invisibile – direttamente sull’Umbria. Deve essere una specie di druido.

La città che ci lasciamo alle spalle è un avamposto d’estate. Un preludio di bella stagione. Nei suoi palazzi dai muri costellati di facce candidate, si stanno risvegliando i giornalisti, i critici della prima ora, i tiepidi, gli occasionali. Pronti, al contempo, a godere intimamente del passo falso come a invadere le strade, alla stregua dei baresi che hanno festeggiato la serie A in cinquantamila, l’altra sera. Quando allo stadio, per anni, non sono mai stati più d’un migliaio. La statale, non appena incornicia il mare, diventa balneare. Rasentiamo la costa sabbiosa, le famiglie distese al sole, gli arzilli nonnetti che fanno footing. Sembra l’America. E non posso fare a meno di pensare a quanto siano diverse le vite. Quella parte di vita – quanto meno – che ognuno può scegliersi, lontano dai condizionamenti del determinismo. Svincolo, casello, adesivo, biglietto. La sagoma nera della macchina di Giuseppe guida la carovana. Dietro, nel Trafic, dormono i nottambuli. Mattia si sveglia, si carica: Dai che vinciamo, dai che vinciamo, dai che vinciamo. Una specie di preghiera laica. I monti, l’Abruzzo, la figura del Gran Sasso, le cime ancora innevate. Fa strano vederle da qui, dal caldo pressurizzato dell’abitacolo. Che nessuno osi togliersi le scarpe.

Cominciano a piovere le telefonate. I cellulari non smettono di trillare, vibrare, lanciarsi in ardite melodie, sempre più complesse. Stanno scendendo da Bologna, da Firenze, da Torino. Salgono da Roma. È un continuo tentativo d’organizzare, di coordinare, di dare forma all’inevitabile caos. Ben sapendo che è proprio la confusione il fulcro dell’agire. All’ultimo autogrill ci sfila davanti un intero contingente di carabinieri. Al banco del bar, uno di loro continua a fissare la maglietta di Jordan: Manifestazione?, chiede. No, normale esodo di foggiani, la risposta. Passo accanto alla camionetta per raggiungere i bagni. Sento uno dei due agenti chiedere al collega: Dove gioca il Foggia? E l’altro rispondere esattamente. Sono le 13 e puntiamo su Rieti. Vorremmo prendere un aperitivo in santa pace, e tentare di informarci su come stanno le cose: dove sono gli altri, tutti gli altri. La strada provinciale che imbocchiamo si perde nel verde, aprendo squarci di castelli inerpicati e paeselli da presepe. Pittoresca, l’ha definita la nostra mappa. Rieti ha i tre archi nelle mura, come Foggia. Che però non ha le mura. Qualcuno dorme ancora. Ma i bar sono tutti chiusi, non vale la pena sostare. L’ultimo tratto, e per la prima volta sento la tensione afferrarmi la gola. Ci siamo quasi, siamo a due passi dall’obiettivo. Basterà arrivare, e sarà palla al centro. Ci chiama Chiara: “Uscite a Terni Ovest”. Mi chiama Antonio il Bolognese: “Dove dobbiamo uscire?”. Risposta: “A Terni Ovest”.

La carreggiata che percorriamo sembra restringersi al nostro passaggio, come un illusionismo. File di case sulla destra e sulla sinistra, senza traverse, biciclette. Bar aperti, alimentari, un lago. È la strada sbagliata, ne siamo certi. E va bene che siamo in Umbria, ma qui si esagera col bucolico. Cerchiamo la circonvallazione, ma sappiamo già che non la troveremo. Adesso siamo noi a guidare la spedizione. Terni. Il cartello indica il centro. Siamo sbucati in città, cazzo, non è una scelta saggia. Sarà difficile spiegare che non di scelta si è trattato. Siamo in territorio ostile, e vaghiamo. Una freccia verso l’ospedale, un’altra verso la stazione dei carabinieri. Inversione di marcia, mentre il pomeriggio ternano sembra assolato quanto deserto. La voce stadio appare tra dozzine d’altre. Ognuno al suo finestrino, pronto a dare l’allarme, a scattare per difendere il bagaglio a mano. Un cartello indica il parcheggio del settore ospiti. Forse ci siamo. Ma la strada è madre d’esperienza, e per giungere al nostro covo occasionale, c’è da passare attraverso le fauci delle fere. Tribuna Est, la casa dei Freak, un tempo. S’apre sulla nostra sinistra, subito oltre il marciapiede declinante che delimita il vialone. Un ragazzo ci vede e si blocca. Sta per chiamare a raccolta, lo sentiamo. Ma il semaforo è giallo, lampeggia, e noi passiamo. Due bar sulla destra, coi rossoverdi fuori. Circumnavighiamo, fino all’imbocco del settore. Due steward e due poliziotti. Biglietti, chiedono.

Sono teso di tante tensioni in una. Indefinibile, inestricabile, senza appigli. Il furgone nel parcheggio, l’incontro gli altri. Un ragazzo che non conosciamo personalmente, parte della brigata romana, ci mostra la nostra nuova t-shirt. Un precedente assoluto. Ci siamo tutti. E c’è il tornello, unico e solo esemplare della tribunetta. C’avevano provato anche qui, dopo Potenza, a fare il colpaccio: 15 euro per un tagliando di curva. Prevendita esclusa. Poi si sono ricreduti. Uno per volta, e la fila s’allunga. Si intravedono bandiere rossonere, mentre gli addetti indirizzano le macchine nel parcheggio. Teso. Un po’ per la partita, per l’esito in sé: non oso immaginare cosa sarebbe giugno senza calcio; e neppure mi va di pensare a che ritorno mesto s’aprirebbe sul nostro orizzonte prossimo. Ma un po’ di tensione è dovuta anche al contesto. Un anno fa gente di nessun conto mise in giro la voce di una nostra fraterna amicizia coi ternani, amicizia cementata dalla comune passione politica, che ci avrebbe portato nel settore ospiti dello “Zaccheria” a sostenere i compagni. Contro noi stessi, in pratica. Falsità, infamità, piccolezze. I ternani a Foggia esordirono con un Bandiera rossa che doveva, dal loro punto di vista, scavare un solco profondo tra la sinistra Terni e la destra Foggia. Cliché traballanti, validi come stereotipi, ma nulla di più. Fatto sta che sono teso. Perché la cosa potrebbe ripetersi, lacerandoci nell’imbarazzo. Per questo motivo, abbiamo chiesto ad alcuni amici di restare a casa. Non sarebbero, probabilmente, stati in grado di comprendere questo mondo complesso e distante. Biglietto sul sensore, codice a barre del tifoso, dentro. Ma quanti gruppi ci sono a Foggia?, chiede un poliziotto. Tanti, è la risposta. Rampa di scale, dentro.

Il “Liberati” è un effetto ottico. Con la curva interrotta al centro, e tre anelli di cui i due superiori completamente futili, è un sogno delirante. La tribunetta dove siamo, poi, ha lo stesso effetto di un comò in una pompa di benzina. Alta ma digradante, dolce. Tanto dolce da far si che agli ultimi gradini la porta è oscurata per metà dai cartelloni pubblicitari. C’è gente. Non saremo i mille previsti. Probabilmente siamo appena la metà, ma è meglio così. Ci facciamo largo, ci compattiamo. Siamo tanti. E la prima sensazione di fastidio mi avvolge. La cappa, la cappa maledetta. La sento, l’avverto sotto pelle. Ho caldo da morire, e mi dedico alla cura delle bandiere per non pensarci. Pensare ad altro, guardare altrove. Le squadre in campo. Un lungo sospiro a scacciare la tensione, il battimani metallico. La tensione c’è, anche se nessuno ha ancora dato dei comunisti di merda ai ternani. Ed è un motivo di preoccupazione in meno. Un, due, tre, il Foggia passa. Al terzo. Antonio mi dirà che è stato bello sentire il settore. Io resto immobile. Fisso terra. Non ce la faccio a lasciarmi trascinare, ho ancora troppa paura addosso. Sono un innamorato che ha conosciuto la sfiancante durezza dell’illusione, e tenta di non caderci più, di non cascarci a peso morto. Venti minuti e vedo il Foggia raddoppiare. Intorno è il putiferio, ma non ci casco. Un colpo di testa di Salgado, mi dicono, e un miracolo del portiere. Il 3-0 sarebbe stata una mezza ipoteca. Pensiero compulsivo: rimpiangeremo questo momento?

Il Foggia è tutto per me, Il Foggia è tutto per me, E io lo so, Perché non resto a casa. Dieci minuti, a stabilizzare, equalizzare, risollevare il coro. E tutti negli spogliatoi. Caldo, cappa. Due a zero, in vantaggio all’intervallo. Chi resta sugli spalti parla al cellulare agli amici che sono davanti alla tivù. Venezia mi ricorda Istanbul. Sciarpe e bandiere, si dondola. La Cavese pareggia a Benevento. Finisse così saremmo ai playoff. Vedo dondolare, dondolo, e l’emozione diventa insopportabile. Mi scopro gli occhi gonfi. Poi segna la Ternana. Non è successo niente. Calma, ragazzi, calma. È dura tranquillizzare, col pathos a mille la paura che ti morde il culo. Ma bisogna farlo. Tranquillizzare e distogliere, incitare se è il caso. Incitare per distogliere. Pensate al coro, pensate a cantare. Calcio d’angolo per la Ternana. Spiovente, un colpo di testa, la rete che si gonfia. Non è facile spiegare le facce, se non si è lombrosiani. Ma è la botta più dura ricevuta da un anno a questa parte. Venezia, Venezia… Stomachevole come un gancio all’addome, rincoglionente come una sniffata di colla Artiglio. Grido e non sento la mia voce. Parlo e nessuno si muove, ognuno perso dietro il suo corteo di ricordi. Angioletto è rosso come un reduce da una rissa. Lello è piegato a metà. Risentiamo del cambiamento d’aria. I pellegrini, in alto, s’ammutoliscono, smettono di scimmiottare canzoni. Restiamo in pochi. Noi e i soliti di sempre. Mollare adesso sarebbe impensabile. Ma fa male. Porco Giuda se fa male…

Passano i minuti. Speriamo sia il solito biscotto di fine stagione. In fondo, la Ternana ci ha spianato la strada ai playoff, l’anno scorso. Qualcosa le dobbiamo. Indubbio. Ma non le costava niente, all’epoca. Non s’è mai saputo di uno che per ricambiare ad un pacco di cioccolatini, per quanto pregiati, si fa espiantare un rene. La Ternana, probabilmente, si salverebbe anche a quota 40. Ma noi resteremmo in C1, inoperosi da giugno. E vincevamo 2-0. Ora siamo 2 pari, e nessuno gioca più. Tranne uno sulla fascia destra, uno che continua a saltare un tale che mi dicono essere Colombaretti. Poi un boato, dall’alto in basso, come una frustata. Il Benevento, pare abbia segnato il Benevento. Non mi fido, domando. È vero. Cristo, si. Adesso va bene anche il pari. Adesso si che gradisco un biscotto. Che sarà, sarà, Ovunque ti seguirem… Un conto alla rovescia che sa di sudore freddo e notti sudate. È finita. Abbiamo agganciato la Cavese, siamo in vantaggio per via della classifica avulsa, e bisognerà battere il Crotone, sicuro del suo terzo posto, domenica allo “Zaccheria”. Adesso sembra tutto facile e, mentre la squadra arriva sotto la curva, tutto appare perfetto. La tensione si scioglie in qualche lacrima che reprimo. Sono sudato e probabilmente puzzo di terra bagnata. Guardo in aria. Sospiro. La cappa si sta allontanando.

06/05/09

Zaccheria Acquafan

di Lobanowski 2

Domenica 3 maggio, Foggia-Lanciano 4-1

...Mentre tutto resta uguale tutti insieme a riordinare giornalisti e cameriere radio ed intellettuali che la normalità torni e regni sovrana che a’ serata è juta bona, che macello...

Un boato dall’interno. Il Foggia ha segnato il terzo gol, ma noi stiamo ancora consumando le nostre energie tra il bar improvvisato e la scalinata d’accesso alla Sud. Abbiamo storie da vivisezionare, alla ricerca di posizioni concrete. Qualcosa di utile ad abbozzare un supplemento d’analisi, un brogliaccio per l’agire dei giorni futuri. Un canovaccio per dare un seguito alla rappresentazione della nostra identità di minoranza. Ci passa accanto la gente che scende i gradoni per procacciarsi una birra in bicchiere di plastica o una bottiglietta di minerale. Altra sale, chiacchierando amabilmente col vicino, a maniche corte e senza fretta. È una domenica di puro relax, e allo stadio si sta come all’Acquafan. O sul Lago di Garda, a rimirare le cime dei monti innevati dai natanti.

Col Lanciano non c’è partita. Lo sappiamo, non può essere diversamente. È questione di fame. La squadra inchiodata alla croce al ritorno da Pagani è ancora ad un soffio dalla zona che conta. Un soffio vitale, che sarebbe criminale lasciar deperire. Gli abruzzesi ci hanno rifilato cinque manrovesci all’andata, ma non ci fanno alcuna paura, oggi. Quello è un episodio del passato, del Foggia formato trasferta. Qui, tra le mura amiche, si fissa il rettangolo verde e si origlia la sorte degli altri, come in un format della Endemol. Ad Arezzo sale un Crotone in caduta libera, ma ancora abbastanza vicino al primo posto da farci sperare nel colpaccio. Da farmi chiedere personalmente a Renato di portare le cuffie e di mettersi al nostro fianco, a portata di mano, per aggiornarci su quel pari che tutti auspichiamo. La Cavese gioca con la Ternana. Vincerà, ne siamo certi, inutile fantasticare di mondi paralleli, di strane creature alla Giacobbo. Le bandiere sono tante, oggi, specie nella fascia bassa della Sud. Solo noi ne abbiamo cinque. Siamo giunti allo stadio in corteo, sventolando lungo via Zuppetta, e poi Piazza Libanese. Gli amici hanno cambiato bar. Il ragazzo polacco – Polacco per il semplice fatto che lì, a quell’incrocio, con le bancarelle, si mettono i Polacchi – ci riconosce. Gli indichiamo una canna da pesca da sette metri. Ci chiede quindici euro, a bruciapelo. L’intero fondo cassa, in pratica. No, no, no, fino a dieci ci stiamo, ma quindici è un furto. Scende a 12. Poi cede.

Si lavora di scotch, a rendere solido e stabile il supporto del bandierone di Nicola, quello bianco-rosso-nero-bianco a bande verticali. Ci sono i biglietti a 1 euro per donne e minorenni. Sabrina non accetta il pietismo filo-femminile e paga i suoi 10 bigliettoni, mentre si moltiplicano i sedicenni. La coerenza costa, ma la crisi è crisi. Contraddizioni in seno al popolo, direbbe qualcuno. In vena di amarcord. La fanzine si sofferma sulle ultime tre giornate di campionato, invita a non mollare. E torna il concetto che ogni partita va vissuta come una finale. Ma appena prendiamo posto, il lanciatore di cori urla che si, il dovere è dovere, ma non prendiamola come una finale. In fin dei conti, verrebbe da dire, è il Lanciano. Fatto sta che su questa faccenda delle finali non è stata ancora detta una parola di chiarezza. Di fronte abbiamo una trentina di tifosi ospiti, circondati da striscioni come il volto di una madonna dall’aureola. Fanno gestacci, indicano la Nord, che sembra rispondere. Un saluto a Gerardo, un vecchio cuore rossonero – come dice lo striscione – che è andato ad infoltire la schiera dei tifosi assenti. Poi, tempo quattro cori, il Foggia passa. Riesco ad intravedere l’elevazione e lo stacco. Intuisco quel che è successo poi, sotto di me, irrimediabilmente fuori dalla visuale. Il 2-0 arriva cinque minuti dopo. Risultato in ghiaccio al 25’. Non si regge. Sapevamo e siamo venuti preparati alla sfida interlocutoria, buona per allestire furgoni alla volta di Terni. Ma così è troppo. Non c’è gusto, così. Un signore scende con le buone: “Uagliù – esordisce – io capisco che la bandiera debba stare così, ma almeno cinque minuti di partita me li fate vedere?”. Consultazione. Cinque contati. Come quando, da ragazzini, chiedevi “due patatine” e te ne davano due. Di numero. L’unica è fissare Renato, che di suo ha problemi di connessione radiofonica e quando lo guardiamo risponde a smorfie. Alla fine del tempo, salutato da un applauso liberatorio, pare che l’Arezzo vinca 2-0. O 2-1. Il dibattito è serrato, con voci che rincorrono voci. E, in mezzo, uno che – penitente, con tanto di foglio in vista – chiede di sapere la verità, che sulla bolletta c’ha Gol e Gol.

Quando risaliamo i gradoni e torniamo a vedere il manto erboso, mancano più o meno quindici minuti. Salgado umilia Oshadogan, che ignoravo giocasse ancora. E provo una piccola bolla di solidarietà. Per quel giocatore mai realmente affermatosi, eppure aspro ed intelligente, che con la maglia rossonera non mi dispiaceva affatto. All’epoca in cui ancora riconoscevo i giocatori. Tagliamo la curva da destra. Convergiamo. Sugli spalti c’è tanto colore. Arrivo e m’informo, guardando a terra: “Quali sono le nostre bandiere?”. Una voce ad altezza orecchio risponde: “No, qua sono tutte le nostre”. Lo fisso. Avrà dodici anni. Mi torna in mente Romeo, che alle maestre in seconda media diceva: “Io sto nel Regime Rossonero”. Mi viene da sorridere, penso che Romeo non avrà mai detto a nessun trentenne: “Qua sono tutte le nostre”. O forse si. Annuisco al piccolo sbandieratore. E cerco qualcosa da muovere al vento. Scopro che quello dei cinque minuti è tornato ancora, con fare minaccioso. Aveva le sue ragioni, stavolta. La blanda battaglia simulata del campo, allietata dalla litania della Sud, per poco non ha addormentato sul posto Peppone – in piedi come i cavalli – con l’asta immobile. Una bandiera che non sventola, ma resta fissa al vento come alle cerimonie ufficiali dei capi di Stato, è un ostacolo insormontabile, per la vista. Uno in maglia bianca insacca. Non lo vede nessuno, tanto che dal centro parte un: Tre a zero e tutti a casa che pochi coraggiosi correggono. Il 4-1 è una botta da fuori di Germinale. Mi pare. Stop, triplice fischio. Effettivamente poteva trasformarsi in un odioso/tediosissimo 1-0. Invece, quanto meno, abbiamo intravisto dei gol. Anche se non abbiamo donato un pezzo di cuore alla sofferenza purificatrice, va bene così. L’Arezzo ha vinto, ci dice Renato. Quattro a zero, puttana la miseria. Ma Lello fa capolino. Ha appena telefonato a casa, per sapere della Cavese. E il risultato del Lamberti s’è fatto bianco live sotto gli occhi di Tiziana, che all’apparecchio ha comunicato: “Zero a zero”. La Cavese ha fatto zero a zero in casa. Con la Ternana. Assurdo, splendido. Roba da Voyager. La squadra, la nostra, sotto la curva. Siamo a un punto dai playoff. E domenica i cavesi vanno a Benevento. I vessilli s’agitano all’impazzata. E, senza preavviso alcuno, un rumore, come di pagina che si strappa, di lamina che fa attrito. Una bandiera che crolla dalle altezze. È la nostra, non ho dubbi. E difatti. La canna da pesca ha ceduto, al fischio finale. Si è lacerata, e si sente puzza di bruciato. Autocombustione, implosione. Voleva quindici euro, il polacco…

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