08/06/09

La fatal Benevento

di Lobanowski 2

Domenica 7 giugno, Benevento-Foggia 2-2

L’attimo

La vista s’offusca, e canto. Spalanco le mani, fisso la porzione di campo sotto di noi, e canto. S’è radunata la celere, dietro la bandierina del calcio d’angolo. Ci sono gli steward, i vigili del fuoco, gli agenti della digos, gli addetti al rettangolo verde. Sono tutti qua sotto. E tutti guardano noi. Io li fisso, sudato, e canto. Di fianco, e poi ai gradoni più in alto, e poi a quelli altissimi, avverto fisicamente la frustata d’un coro che s’espande come un incendio in una prateria di pompe di benzina. Divampa. Sento la schiena umida e tesa, una specie di torpore muscolare sotto le braccia, un totale stato di trance. Alzo la faccia, canto. Spersonalizzato, eppure completamente padrone di me stesso. Esco. Da me, dal coro che mi rimbomba tra le labbra. Sento gli altri. Un’esperienza extracorporea, mentre il canto esplode. Andiamo, andiamo, andiamo a vincere. Andiamo andiamo andiamo a vincere. Come allo Zini, come in mezza Italia. Ci risiamo, penso mentre canto. Ma la realtà mi strappa al pensiero. Uno stadio. Attorno a noi c’è uno stadio. Ammutolito, terrorizzato, attonito. A conti fatti, uno stadio da ventimila persone omologato per quasi diecimila, strapieno. Rimpicciolito. Ridotto a campo, a campetto rionale. E poi neppure più a quello. Tutti gli occhi su di noi, mentre le maglie bianche provano ad imbastire l’attacco che ci porterebbe in finale. Ma non fa niente, non conta. Da sopra a sotto è l’intero settore che sta mandando un messaggio, alto, altissimo, rifinito. Un messaggio che solo un sordo potrebbe ignorare. Stiamo dicendo agli amici d’un tempo beneventani: Buona fortuna, campani. Andate in finale, e poi magari andate anche in B. Ma non provate – mai più – a paragonarvi a noi. Perché non siete noi. Gli occhi s’annacquano. Lo stomaco va in tilt. Ormai è lampante. Piango, come un bambino. Ma non per la finale che non vivrò, neppure per i chilometri che non macinerò. Ma per le facce di quelli che mi stanno attorno. E che piangono. Per lo stesso motivo, mi gioco le palle. Un flash. Foligno, Pistoia, Caserta, Perugia, Lanciano, Potenza, Gallipoli, Arezzo, Benevento, Terni. Un attimo, un frammento per ciascuna. La tribuna guarda e trattiene il fiato. Rinvio del portiere. Triplice fischio. Sospiro di sollievo. Il Santa Colomba urla. Sulla sommità della Sud, spunta il sole.

Rewind

Partiti che sembrano secoli fa. Dal piazzale antistante lo Zaccheria.

Distesa di macchine. Dubbi, rassicurazioni, problemi da risolvere. C’è la Nord, c’è la Sud. Ci siamo noi, con i nostri quattro mezzi pieni, i nostri emigranti, le nostre aste piccole, il nostro vodkalemon in quattro bottiglie di plastica. Si esce da Foggia in carovana, con l’imperativo che non si dimentica: O tutti o nessuno. Che tradotto vorrebbe dire: O con la voce sugli spalti, o con quel che capita nel parcheggio. Una lieve scossa di tensione attraversa il serpente di macchine. All’ultimo semaforo, si mischiano le onde stereofoniche. A Candela imbocchiamo l’autostrada. Al casello, 40 chilometri appena, è già sosta. Si piscia ai margini della strada, ma c’è chi mangia, chi beve, chi fuma. Sembra una scampagnata, e chi passa saluta con qualche assestato colpo di clacson. D’un tratto, ci conosciamo tutti. Ogni viso è familiare. Della partita non parla nessuno. Si va a pareggiare, lo sanno anche le pietre. Con Angelo, altro reduce da Cremona, in settimana si scherzava: probabilmente vinceremo a Benevento, solo perché questa è una squadra di sadici, e per amarla devi amare il dolore. Vinceremo a Benevento per poi perdere a Crotone. O ad Arezzo. E ci renderemo più lungo il ritorno muto. Vincere una battaglia per perdere la guerra. È nelle corde di questa squadra. Ci può stare. Il 2 lo quotano 4,15. Autostrada. L’uscita consigliata è quella di Grottaminarda. Antonio, che è già in centro a Benevento, smentisce le voci di un carognesco prefiltraggio poliziesco al casello. Riferisce, piuttosto, di un mare di bandiere giallorosse e di una festa già in corso. Riferisco da abitacolo ad abitacolo. Zio Franco, che è in macchina con Lello, smadonna. Tre euro di pedaggio. Statale. Le macchine si arenano ai margini di un parcheggio da sala ricevimenti. I conducenti e i passeggeri scendono a sgranchirsi le gambe, le braccia, la schiena. Qualcuno tira fuori gli zaini per la seconda Stazione di Posta, ma una voce rimbomba da cofano a cofano: Via, via, via… Andare. E, tra chi è più rapido e chi si attarda, la carovana si sfilaccia. Un nove posti ci segue fino ad uno sprofondo, poi decide di fare inversione e prendere il comando delle operazioni. Si va verso Avellino. Il cartello ci comunica che mancano 22 chilometri alla meta. 11 a San Giorgio, dove siamo stati a Pasqua, a festeggiare il pari in campionato. Ma ho il vago presentimento che non ripeteremo l’esperimento, oggi.

Una rotonda, un’inversione, il Ponticello del Milledue, i palazzoni a destra e a sinistra, una seconda rotonda, ancora un’inversione, direzione Centro, poi Ospedale, poi Pallone. Dev’essere di qua, senz’altro. Ma è transennato. Presto fatto. Un barbatrucco e scompare l’impedimento. Con la sola imposizione dello sguardo, scompare pure l’unico carabiniere a guardia del defender. Ha la faccia di uno che dice: Mi faccio i cazzi miei, tanto oggi va così. Nel parcheggio contiamo una macchina dispersa. E, manco a dirlo, è quella con le vettovaglie. Il ricongiungimento con il plotone romano. Si stornella. Si cazzeggia. Non c’è tensione nell’aria, le mamme a casa possono rasserenarsi. La macchina di Nicola viene telecomandata nel parcheggio. Accoglienza da star: Merde siete e Merde resterete! Si ride, si sventola. Quattro passi e si beve pure. La questione dei biglietti sembra risolta, ma comunque restiamo all’erta. In servizio effettivo permanente. Jordan è già dentro, ci vede e litiga alle porte per uscire. Perdiamo la cognizione del tempo e siamo fra gli ultimi a varcare i cancelli. C’è un mare di gente, sopra e sotto. Ci posizioniamo sulla pezza. È la prima volta che accade e va bene così, anche se siamo defilati. Lo stadio è pieno. L’adrenalina sale. Gira voce che qualcuno in gradinata si sia coperto d’infamia, ma è tempo di compattarci. Di scaldare i motori.

La Sud beneventana alza ed abbassa i cartoncini gialli, rossi e bianchi. C’è una scritta, in mezzo, ma risulta di difficile comprensione. Non sfugge. Non si capisce, Ma come cazzo scrivete. Piovono fischi. L’amicizia di un tempo vacilla. Poi implode. La partita inizia. E non abbiamo ancora messo a punto il sincrono col centro del settore, che il Benevento passa. Diranno le cronache che sono passati quattro minuti appena. Il boato. A chiunque si spezzerebbero le gambe. Ma noi siamo qui per noi. E dobbiamo fare la nostra parte, comunque. Dalla tribuna ci fanno gestacci e qualche bottiglietta d’acqua raggiunge gli amici per rinfrescare il clima rovente. I Mods, in gradinata, si coprono con un bandierone. E sotto di esso, provvedono a cambiarsi d’abito. Coordinano i loro corpi come fossero tasselli di un vessillo. Poi tirano giù il bandierone, e si spostano. Non so dire se mi piace questo modo di fare tifo. Sopra di noi, qualcuno ha da ridire con gli sbandieratori. Capiamo che siamo in piena periferia, ma sono loro quelli che devono farsene una ragione. Siamo qui per noi. Bremec sventa il raddoppio, poi è Troianello ad avere sulla testa la palla del pari. E la porta spalancata di fronte. Ma fallisce, anche se il settore vive il quasi-pari come una schioppettata. Alla fine del tempo ci rendiamo conto che hanno staccato l’acqua nei bagni. Fa un caldo umido terrificante, siamo disidratati e madidi di sudore. E questi vorrebbero costringerci a comprare bottigliette d’acqua a 1,50 euro. Carne da macello. Fottetevi, voi e l’acqua. Il coro è già un classico: Noi non siamo Napoletani! Napoli – aveva ragione Pino Daniele – è una specie di concetto mistico, un cassonetto per la raccolta differenziata dei nostri istinti più neri. Tutto quello che sembra fantastico, esiste e sta in America. Tutto ciò che è ripugnante, dentro e fuori l’essere umano, è a Napoli. Funziona così, più o meno, il meccanismo.

La ripresa sembra una scalata senza senso. Il fondo breccioso si sfibra sotto i nostri passi ed ognuno di noi sente l’inutilità dello sforzo. La bandiera mi copre la testa come un sudario. Quando la rialzo, il 2-0 beneventano sta animando la Sud. Stringo gli occhi e penso che questo ritorno alla vita non mi piace affatto. Ancora gestacci. C’è da scavare, da scavarsi dentro come trivellatori di profondità, per portare alla luce gemme di orgoglio. Cantare, come se niente fosse. Un’altra stagione sprecata, e usciamo di scena senza neppure quel pareggio preventivato alla vigilia. Il Benevento sfiora il terzo. Sciarpata. Bellissima, nonostante tutto. Ormai le forze sono quelle che sono, il caldo ci ha resi manichini allo spasimo. Restano solo un paio di cose da sottolineare: Che noi siamo il Foggia, tanto per dirne una. Poi Germinale si gira al volo e mette in rete. Inatteso, insperato. Angioletto va in ansia, Enzo chiede cosa sia successo. Animo, e manca ancora un quarto d’ora, anche se nessuno lo sa. Poi Pedrelli, con una botta radiocomandata, mette all’angolino. Due e due. Porca puttana! È Angioletto a dirlo meglio di tutti. Comodi e apparecchiati, già consapevoli della sconfitta, già in defaticamento, nel silenzio di uno stadio che ha cantato per dieci minuti all’inizio e poi più nulla. Adesso, invece, sul pari, costretti a viverla. Fino alla fine. Dannazione, è proprio da Foggia. Questo costringerti ad inseguire, a dover credere senza crederci. Mi guardo attorno. Facce tirate. Chiedo: “Quanto manca?”. Volano numeri. I numeri della speranza. Chi dice dieci, chi dice cinque, chi dice cento. Dal centro parte il preludio al coro. So cosa sta per venire. So che sta per venire giù il settore. Fisso la celere che si schiera sotto di noi. La vista s’offusca, e canto.



Adesso è Pecchia che sotto di noi ci fa l’inchino e finge di togliersi il cappello. Chapeau.
Adesso è Pedrelli che piange; è Novelli che s’aggira come un fantasma a centrocampo.
Adesso sono i corpi solidi dei nostri, ancora nel settore, che s’immergono nel liquido del rimpianto.
Adesso è già domani. E quelli che cantano Mio fratello è Savoiardo.
E noi che apriamo le braccia per il battimani.
Mio fratello è Pavesino.
Ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta.
E quelli di fronte che se ne vanno, e si scopre il ducotone che serviva per la coreografia. Nitido.
Adesso si che si legge.
Adesso, che è tempo di andare. Di ripercorrere a ritroso gli 80 chilometri appena appena sufficienti all’autocoscienza, a quei tortuosi andirivieni tra commozione, fierezza, spirito d’appartenenza. Alla luce docile dei ricordi recenti. E di quelli lunari.
Il corteo, la gente ai balconi, i vetri rotti di una macchina centrata da diversi metri in quell’allevamento ad alta densità che era diventato il parcheggio ospiti. Dentro, fratelli e sorelle della pirateria. Che mettiamo in moto.
Adesso è l’uscita in carovana.
Adesso è il curvone a sinistra, coi beneventani che provano ad irriderci.
Adesso è il cartello che barra Benevento. La statale.
Adesso è la voce che manca, la sete, la fatica, la maglietta che s’appiccica addosso.
Adesso è il telefonino che squilla, è il tentativo di comunicare, è il silenzio.
È Giuseppe che schiaccia il frontalino e fa partire la radio. Sono le note di una canzone di Bon Jovi su Capital, che non c’entra niente con niente. Eppure ci guardiamo. Occhi lucidi, finestrini aperti, volume.

I will love you, always.

Sempre.

01/06/09

50 cent

di Lobanowski 2

Domenica 31 maggio, Foggia-Benevento 0-0

Rewind

50 centesimi per un imbuto bianco, di quelli piccoli, da salsa. Due bottiglie di vodka, che Patrizio ci fa il prezzo. Il trattamento. Tre bottiglie di Lemonsoda da un litro e mezzo. 3 euro a testa, spicciolo più, spicciolo meno. Quattro bottiglie d’acqua vuote in fila sulla lastra di plexiglass del banco. Operazione remix. L’imbuto si ingolfa di vodka liscia, il livello di liquido trasparente sale, fino ad un terzo della bottiglia. Poi è la volta della limonata. Serrare il tappo, agitare a lungo, chiudere in frigorifero. Non in freezer, che potremmo svegliarci con una brutta sorpresa. In ghiacciaia ci va il Borghetti, quello di sicuro non esplode. La borsa frigo la porta Giuseppe. Ci sarà da attendere, da dare una mano, da ingannare l’attesa. Attenderemo e daremo una mano. E berremo, per ingannare l’attesa. Tra gente col biglietto e gente che dovremo far entrare a viva forza, non saremo meno di venti.

Domani…

E quanta voglia hai di non cantar più! E quanta rabbia hai nel cuore!
Eppure sai che non cambierai mai, il nostro orgoglio non muore! Noi siamo polvere di stelle.


Saltano la selezione solo i Depeche Mode. Per il resto, dai Bull Brigade a Pino Campagna, la musica gonfia le casse e – ricavandosi una sensibile via di fuga – dilaga in strada, si diffonde lungo l’intero marciapiede e quello di fronte, dove i nonni ci indicano sorridenti ai nipotini in triciclo. Tutti alle prese con lo scotch, a srotolare la stoffa delle bandiere, a tirare e provare le aste. Quelle nuove, altissime e sinuose, e quelle vecchie, rozze e tarchiate. Tutti a centro pista a ballare, all’incrocio a rodare, con le macchine che strombazzano: “Che dite, ce la facciamo, ragazzi?”. “No, oggi perdiamo 3 a 1…”, rispondo. Quello se ne va imprecando senza ascoltare il seguito della frase: “…ma vinciamo 4 a 0 a Benevento”. Ci avviamo a mezzogiorno che sembriamo un piccolo plotone sfilacciato. Abbiamo un mezzo appuntamento sotto la Sud, per contribuire alla coreografia. Lungo corso Giannone, gli autisti al volante salutano. “Sai che colletta faremmo oggi se chiedessimo 50 centesimi per ogni colpo di clacson?”. Lello mi ha contattato alle 9:30. Mi ha detto che usciva a prendere un po’ d’aria. In casa non si regge, la tensione gronda dai muri. Jordan ci affianca a due passi dalla meta. Anche lui suona (gratis). “Dove cazzo stai andando?”, chiediamo. “Qua… - risponde, indicando uno spazio disabitato non meglio determinato fuori dall’abitacolo – non ce la facevo a restare a casa”. Il recinto della gabbia-Sud non è presidiato. Ci prefiltriamo da soli. Si, siamo una ventina, e ci accampiamo sulle transenne di sinistra. Il sole è nascosto da grosse nubi nere, ma si muore di caldo. I guardiani del palasport chiacchierano con le porte aperte. Diamo fondo alle bottiglie.

Si aggregano amici e conoscenti. Tiriamo fuori la prima bottiglia di plastica. Daniele mesce coi bicchieri di plastica trasparenti. Il giro, uno per volta, fino a che tutti hanno tra le mani una dose di liquido giallo e può partire il brindisi. Le aste sono adagiate. “Alla vittoria!”. Primo sorso, refrigerante. Il secondo, di gusto. Enzo s’inerpica sulle transenne e fa partire il primo coro. Se questo è l’effetto, c’è da giurare che alla fine della scorta di mistura saremo stesi a rimirar le stelle. È troppo forte questo amore che provo per te, Foggia tu sei per me. Il terzo sorso svuota il bicchiere. Ottimo, magari un po’ troppo leggero, dice Ceska. “Te l’ho detto che ci siamo andati piano con la vodka”. Poi un dubbio. Lo sguardo che cerca nella borsa frigo: una, due, tre, quattro bottiglie sigillate. Com’è possibile? Un’occhiata agli altri, che cantano arrampicati sulla ferraglia: Il Foggia è tutto per me, Il Foggia è tutto per me. E ancora la voce di Ceska che risale: “Ci siamo andati piano con la vodka”. Un dubbio, tremendo. Un sorso, a mo’ di biopsia. “Uagliù – c’è da dare la notizia, per quanto possa fare male – vi state bevendo limonata a crudo!”. Sgomento. Un delirio scatenato da due sorsi di Lemonsoda. Gli sguardi imbarazzati si rincorrono. “L’avevo detto io”, prova a discolparsi qualcuno. Ma il dato resta. Enzo si siede: “Questa è da scrivere”. E scriviamolo pure. Scriviamo di venti foggiani ubriachi sotto la Sud alle 12 per una miscela analcolica. Oggi l’adrenalina fa più della vodka. E sotto col primo bottiglione.

Siamo belli, non c’è storia. Accampati, come ad una pasquetta, fuori da quella struttura che a tutti ricorda qualcosa di paterno. O di materno. Belli. Lo penso mentre, con Jordan che s’è appena operato al setto nasale e parla come un cinese, mi allontano per andare a recuperare altro gin e vodka. Cantano, quei meravigliosi folli. Sono le 13:30 e vanno avanti da un’ora. Mattia e Guido sventolano. Adoro questa gentaglia. Al ritorno sono fuori dai recinti. Ricacciati indietro dalle impellenze degli steward. In fila con gli altri. E cantano.

E quanta voglia hai di non cantar più! E quanta rabbia hai nel cuore!
Eppure sai che non cambierai mai, il nostro orgoglio non muore! Noi siamo polvere di stelle.


Dentro qualcuno barcolla. Blocco, fare blocco!La curva è carica, e nella mia testa ondeggia. C’è un frastuono giapponese, da coppa Intercontinentale. Un brusio sconclusionato che si fa marea di sillabe. Nicola crolla sotto il sole. Spalla a spalla, ognuno al suo posto. Blocco, fare blocco! Sono le quattro, stanno per cominciare i playoff. Ma non abbiamo alcuna speranza di vederne più di qualche brandello. Mi arrivano lastroni di cartone rosso, per la scenografia. Ne smisto un paio, ne faccio cadere una ventina. Raccolgo, ricadono. Non è cosa. Delego. Di fronte, i beneventani con i palloncini. Non mi va neppure di guardarli. C’è troppo da fare. Squadre in campo, lo intuisco dal frastuono. Cala il bandierone. Il segnale. Tutti coi cartoncini al vento. Un sol levante. Rossonero. Poi la bolgia. Non si capisce granché, è difficile anche seguire il senso logico d’ogni singolo coro. Una confusione che si fa sistema. Mani che battono, pezzi di canzoni nell’aria. Del primo tempo non vedo nulla.

La ripresa non è molto diversa, anche se sono in buona posizione per vedere Mancino sparare alto, prima, e sul portiere in uscita, poi. Uno dall’alto mi dice che, se non faccio smettere di sventolare il bandierone, scende giù lui. Io rispondo che può scendere. Quello ripete il suo concetto. Io ripeto il mio. Non se ne fa nulla. Zero a zero, inevitabile. A fine gara, nel silenzio della Sud che si svuota, sento il primo coro beneventano. Per me, è come se fossero entrati in quel momento. Dedicano un inno ai tifosi del Savoia, loro gemellati. Uno sgarro imperdonabile. Qualche schermaglia verbale, che fingono d’ignorare. E una certezza che si fa carne: domenica ci saranno due partite da vincere. Noi partiremo per vincere la nostra. Dell’altra, in fin dei conti, non saprei che dirvi.

Il Libro