26/10/09

Mi familia

di Lobanowski 2

Domenica 25 ottobre, Reggiana-Foggia 3-4

“Ma, insomma, alla fine quanti siamo?”, “Dodici”. “Quindi 9+3?”, “Si, o 8+4”.
“Ma è uno spreco!”. Certo che lo è, ma che vuoi da me se la gente desiste quando tutti hanno già fatto il biglietto? Angioletto cambia argomento. Si avverte l’eco di un’inversione col freno a mano. “Oh, oh… Nella Reggiana gioca terzino Nardini, che ha giocato a Foggia qualche mese…”. Embé? “Facciamo lo striscione Nardini Indimenticabile Eroe”. Si ricorda il caso Fornaciari. Fuori dall’autogrill c’è Hot Stuff. Non s’è ancora capito se fa caldo o fa freddo. Il Conte mi fissa con occhi appuntiti. È tardissimo, sancisce. Effettivamente. L’ora solare nuovamente in vigore, la partenza prevista alle 6 che sono le 7. Chiacchiere. Sono le otto passate. Siamo appena entrati in autostrada. Oggi la A14 è zona d’esame. C’è qualcuno che da diversi anni ha perso l’abitudine a viaggiare in massa ed oggi vuole prendersi la sua rivincita sulla storia. Lo si nota dalla sicumera di certe sciarpette al vento. Non si fa, non si dovrebbe. Esagerano, questi. C’è persino la delegazione, la carovana scortata che perde pezzi. I nostri schierano alcuni furgoni già ad Ancona. Uno smarrito dietro, nei buchi neri delle troppe soste per pisciare fuori il Long John. Noi e i golfisti. Al santuario attendiamo gli altri per due orazioni e prendere la rincorsa. Inseguire o essere inseguiti, la vita è sommatoria di punti di vista. La strada scivola lenta e veloce. Contatto telefonico continuo, vecchia compilation nelle orecchie. Non sono riuscito a masterizzare quella con Reggaemilia. La mi familia, la mi familia. L’intera carovana è un elastico sparato sull’Adriatica. Enzo mi ha detto che dobbiamo parlare di questa storia dei dodici, che così non va. Anche a noi – in quattro in macchina – manca il clima ridondante del furgone. Ma è andata così, non ripetiamo sempre gli stessi fatti.

Oggi niente piazza di paese, niente cucuzzolo domenicale, niente aperitivo. Giuseppe ha raccolto 4 euro cadauno di extra scialando su quella che riteneva essere una trasferta da 35 euro (biglietto escluso). E che si è rivelata una catastrofe finanziaria degna di un Venerdì nero di Borsa. Due bottiglie di Borghetti giacciono inermi e desolatamente vuote in un anonimo spiazzo di campagna. E secondo Nicola è meglio, molto meglio che sia andata così. Fatto sta che nel portabagagli resistono due teglie di lasagna, frutto del lavoro e della paziente perizia della genitrice del pilota. Uno sguardo all’orologio. Gli altri sono già nel parcheggio del Giglio. Non è il caso di pensare alla gola. Carosello all’Agip, e muso rivolto a Reggio. Mancano meno di dieci chilometri. Andiamo. Dello stadio – che molti garantiscono essere bello, ma la cosa non mi convince affatto – si intravedono i fari. Arriviamo al nostro spiazzo. Uno sguardo ai dintorni. C’è tanta gente. In ogni capannello, i volti di quelli che a Foggia non vivono più da tempo. L’affetto non sembra conoscere crisi. Il nostro furgone è già fermo. Mattia fa i giri su se stesso, come una dama del Settecento. Gli mancano gli sbuffi alle maniche e la gonna con le ossa di balena. La vestizione dell’eroe. La voce di un signore ci distrae da quella vista macabra: “Dove avete fatto i biglietti?”, “A Foggia”, “Aaaah”.
Biglietto e documento, Angioletto che posa per il suo pubblico televisivo, un doveroso tributo a Fabrizio Corona, il sottopasso, la scritta degli Ultras Cesena, il metal detector, il tornello che sputtana i nomi e i cognomi al resto della fila. Emergiamo a rivedere il cielo (e le mongolfiere) che le squadre sono già in campo. Il tempo di sistemare la pezza e assemblarci. Male, molto male. Sembriamo una costruzione Ikea malfatta. Lunghi, sfilacciati. La presenza dei tanti emigrati, poi, attorno a noi, non facilita le cose. Ovunque ci sono saluti, abbracci, chiacchiere da salone di barbiere, o da caffetteria del centro. Per un quarto d’ora buono. Dalla balaustra si evitano i cori secchi al minimo. Forza Foggia, Vinci per noi. Carburiamo lentamente. Di fronte, la curva reggiana non mi fa un brutto effetto. Sono in buon numero e i loro battimani sono belli. Non cantano, però, o cantano poco. Troppo poco. A parer mio, però, risultano quasi più convincenti dei cosentini. E infinitamente più dei ternani. Il Foggia passa. Il sostegno discontinuo di quelli del loggione si scarica nel boato di esultanza. E quando la Reggiana pareggia, diventa difficile riprendere. Ma poco alla volta cresciamo. Ci sistemiamo un po’ meglio: piazziamo Angioletto ai piani alti, accorciamo la linea di centro-gradone smistando Davide e Daniele al piano di sotto, spostiamo l’asse del coro a destra, riequilibrandoci. Enzo esce per infortunio. In campo, segnamo su rigore. Salgado la piazza centrale, il portiere salta come un gatto e – chiaramente – non la prende. Noi stiamo cantando ancora. Mai provata la sensazione di cantare su un penalty in luogo dell’Oooooo. Mi piace. Evoluzioni di stile.

L’intervallo ci coglie increduli, ma il bello deve ancora venire. Perché nella ripresa siamo più compatti, e il risultato è nelle orecchie di tutti. Poi Salgado inventa una serpentina che ci tiene col fiato sospeso. Quando la rete si gonfia, il settore viene giù. Quando realizza il quarto in rovesciata, rischia di esplodere. Incredulità. Stupore. Per diversi attimi ci siamo guardati attorno, prima di esultare. Incapaci di crederci. Adesso ogni coro è potente e corale, liberatorio. Il Conte torna dalla sua passeggiata ai margini del settore. Ce l’ha coi ragazzini in divisa granata – tanti – seduti in tribuna. Sostiene, fissato come certi vecchi pazzi alla posta, che dovrebbero applaudirci per la lezione di tifo che gli stiamo dando. Mattia è ormai in canottiera e la gente se lo rimpalla tra le file come una pestilenza. Il terzo gol reggiano è su rigore. Guardo il display del cellulare. Mancano 20 e passa minuti. Non me ne convinco, e chiedo lumi ad Angioletto. “Meno di dieci”, dice. Propendo per la sua ipotesi, che entrambi sappiamo falsa quanto la giustificazione di Marrazzo. Sosteniamo con le ugole, le braccia e le mani l’assedio granata. Triplice fischio. Liberazione. Non ci credo. È finito il mio incantesimo al contrario. Tra i miei compari c’è chi non vinceva fuori casa da Novara. Io a Novara non c’ero, e per ritrovare una mia vittoria si deve tornare a Tivoli. Me la godo. Vedo lo sguardo di un giocatore del Foggia mentre gli viene restituita la maglia che aveva offerto al pubblico. Mentre dall’alto cantiamo Il Foggia siamo noi. Umanamente – lo ammetto – un po’ mi spiace, ma andassero a farsi fottere! Non dimenticassero quel che ci hanno fatto subire a Terni e a Cosenza. E poi è vero che il Foggia siamo noi. Chi può dire il contrario? Tirate fuori le palle! La gente attorno prova ad aprire un dibattito: “Ma che volete da loro?”. Non ho fiato, forza, voce, per ricominciare tutto da capo. Adesso, per molti, questo è di nuovo uno squadrone da play-off… E pensare che meno di quindici giorni fa chiedevano il fallimento e la serie D. Volubili. Come i pescaresi che adesso in trasferta vanno in massa e fanno i duri. Puah! Fatto sta che i giocatori non capiscono, o fingono di non capire. Beh, è dura comprendere la psicologia di gente che ti acclama dopo il 4-1 subito a Terni e ti bastona dopo un 4-3 rifilato alla Reggiana. Dura un po’ meno, magari, se consideriamo che in mezzo ci sono state Ravenna, Marcianise e Cosenza. Unico appunto: magari certe cose andrebbero pianificate prima e meglio, per evitare di essere presi per passionali che decidono sul momento. O, peggio ancora, per psicopatici. Comunque, sono certo che i giocatori in pullman non avranno pianto. “Buonasera – fa Enzo passando accanto agli ultimi due steward – da che parte per il rinfresco?”. Quelli si guardano stupiti. “Perché, non offrite il rinfresco?”. Mattia sopraggiunge: “Chiedo scusa… Per farsi una doccia?”. Giuseppe sta litigando per un accendino, invoca la giustizia proletaria. Accanto allo stadio c’è un centro commerciale e oggi è giorno di primarie del PD. Non è più tempo per simili anacronismi. Quello glielo dice in dialetto: “Qui siamo in democrazia!”. L’accendino è perso per sempre. “Arrivederci, ma il servizio non è stato all’altezza”.

Cronache di Fano

E così s’è fatta sera. Un ultimo brindisi all’autogrill, a due passi da Bologna. Valerio s’è perso. Doveva scendere a Modena. E doveva scenderci in treno, oltretutto. Sabrina mi offre generosamente parte della sua Ceres, il bagno ricalca atmosfere da giungla alle pareti. Ci sono i tifosi di una squadra gialla. C’è anche una rossa che tutti hanno notato. Un plauso ai lavavetri extraterritoriali. Via. Una tirata verso il mare. Uscita Fano, direzione stazione. Bisogna mollare Angioletto. Bisogna mollarlo a Manu, ad Aurelio, ai suoi doveri. Devono ripartire, nuovamente emigranti. Si addensano abbracci e baci da straziante saluto, all’orizzonte. Ma prima, ci sono le due teglie di lasagna. Il baretto sulla piazza è aperto alle otto e mezza. È un evento straordinario, ci dicono. Uno strappo figlio del destino, evidentemente. Qualcuno deve aver visto la stessa stella cadente che ho visto io, e deve aver chiesto un bar aperto a Fano. I sospetti di addensano su Giuseppe, che corre a constatare quanto una Moretti grande costi 3 euro, in queste lande così simili a Tolentino, la prima sosta di questa new age. Tra qualche giorno il gruppo compirà un anno. È molto più grande di Aurelio, ma tra qualche anno potranno giocare assieme. Non un anno dall’inizio, certo, altrimenti saremmo già nel secondo, ma uno dalla prima volta della pezza. Ci eravamo ripromessi cinque trasferte di prova, per testarci. Nessuno ci sperava più di tanto, però. Invece, tra qualche giorno potremo brindare ancora. Angioletto brinderà in chat, che vuoi che sia la fisicità della presenza? Un dettaglio, niente più. Non pensiamoci. La piazza è vuota, un bambino gioca con la palla e non ci coinvolge. Bastardo. Tempo di andare. Abbracci e baci. Il momento straziante del commiato si limita il più possibile all’antiretorica: “Ci vediamo a Ferrara”. 13 dicembre. Mancano due mesi. Passeranno.

12/10/09

La linea del novantesimo

di Lobanowski 2

Sissignori, io affermo che Waterloo consacrò Napoleone più delle tante vittorie, delle quali infatti non ricordo né date, né luoghi. Quanto a voi, maestà, avete oggi dimostrato che il vostro modo di perdere è, senza dubbio alcuno, davvero… imperiale. (Wu Ming)

Giuseppe mi scrive: Ma non pensi sia esagerato partire alle sette?
Io non devo pensare, rispondo. Io sono un soldato.
Soldato della vera fede, sanfedista d’altra specie. Vado incontro al destino, anche quando è prevedibile più di una fetta biscottata a colazione. La sveglia rumoreggia che fuori è ancora buio. La strada è quella che punta a Sud. Anomalie del girone B, la cosa sembra strana. Non scendiamo da gennaio. Direzione Potenza. Si punta sulla carovana. I furgoni precedono le nostre due macchine. E ci sfuggono dopo meno di un quarto d’ora di marcia. La prima sosta è in aperta campagna. Il Conte fa il botanico, l’umore – come al solito – è alto. Non ci sfiora l’idea di come abbiamo abbandonato lo Zaccheria sette giorni fa: i cori contro la società, le critiche sempre più aperte all’impegno (oltre che alla qualità) dei ragazzi. Se ne parla incidentalmente. A Cosenza fa freddo e piove, dicono gli oracoli. Abbiamo le prime felpe della stagione, ci sentiamo in una botte di ferro. I segnali che indicano la Salerno-Reggio. Proseguiamo per Brienza, paese natale di Mario Pagano. Non possiamo non fermarci. Il viale che porta al castello è coperto da una coltre di nubi grigie. Pioviggina. Ci ripariamo in un bar. La signora al banco ci narra delle vicende dell’illustre cittadino mentre raccatta bicchierini di vetro, poi – dinanzi allo sfoggio di erudizione del nostro autista – si rifiuta di venderci una bottiglia di Borghetti. Il suo collega a cinquanta metri è più malleabile. Tre ragazzine completano tre vasconi del viale nel tempo della contrattazione. Spunta il sole e l’autostrada senza pedaggio comincia a scorrerci sotto le gomme con una serie di strani zig-zag. Notizie dagli altri: sono a Sibari, o giù di lì. Altri cinquanta chilometri e saremo nuovamente un convoglio unitario. Si ammazza il tempo raccontando di quella volta che Delio Rossi fu inseguito – con tutta la sua nidiata di svogliati campioncini – da Ancona fino alle porte della tribuna. Strani presagi, mentre le montagne disegnano un orizzonte ispirato. All’autogrill di Tarsia c’è l’intero plotone di foggiani al seguito. Sette furgoni e le nostre due macchine. Un’ottantina scarsa di elementi. Un tempo badavo molto ai numeri, agli esodi, alle svariate invasioni. Oggi non mi sento di criticare più di tanto chi è restato a casa. O, meglio, non mi preoccupo di loro, non li detesto e non li invidio. Come Enrico d’Inghilterra sul campo di Azincourt, “Se è destino che si muoia, allora siamo già in numero più che sufficiente”. Una volante della polizia ci attende allo svincolo per Rende. Scortati. Transitiamo per una indefinibile periferia. Un cancello aperto accoglie i veicoli. La caserma. C’ero già stato nel 1995, e non sembra cambiato niente. Mi lascio assalire dalla nostalgia mentre un operatore videoriprende le perquisizioni dei mezzi. Via tutte le aste dalle bandiere. Una domanda a mezz’aria: “Ma come si sventola così?”. La più classica delle risposte: “Non dipende da me, sono disposizioni e ci atteniamo. Però – si sente di aggiungere il milite – non appena finita la partita ve le restituiamo”. Sguardi perplessi. Ha smesso di piovere, il cielo è grigio, l’aria è afosa. Il San Vito è vecchio decrepito: uno stadio malmesso, monumento esso stesso di un calcio oratoriale spazzato via dal tempo implacabile. La polizia fa filtro nelle due vie d’accesso al settore. C’è un tornello. Ci sono due steward.

Aspettiamo che i due piloti tornino dal parcheggio. La nostra jolly roger è rimasta com’era, attaccata all’asta con determinata ostinazione. Sfuggita al frugare, è disinvoltamente passata aldilà del cancello. Chiedo: “Ma come avete fatto?”, “Semplice – è la risposta – sventolando”. Mi viene in mente Fantozzi e la sua radiolina. Il posto più sicuro per chi nasconde è sotto il naso di chi cerca. Abbiamo uno spicchio di curva, speculare a quello dei padroni di casa. Sono divisi, dall’altra parte: un buon gruppo sopra il generico striscione Curva Sud, uno piccolo ma compatto sullo striscione Brigate. Un tempo gli ospiti si accomodavano in un angolo alto della gradinata. Fa caldo. Si appendono le pezze. Mancano dieci minuti all’inizio. C’è una specie di sospesa indifferenza nell’aria. È ben lungi dall’essere una bolgia, questo stadio. Un tempo era diverso, ma adesso non c’è più tempo per rimpiangere il tempo andato. Ci compattiamo, ma sembriamo sfilacciati. Dobbiamo sostenere i ragazzi, sperando in un’insperata riscossa. Ma soprattutto siamo qui per noi. E partiamo in sordina. “Tu devi gridare, non cantare!”, urla Angioletto, dal volto contratto e per niente addolcito dalla paternità. Il Conte dopo un po’ si preoccupa, e comincia a guardarsi attorno. Poi annuncia: “Non è a me”. E urla il solito: “Diamogli una lezione di tifo!”. Squadre in campo. Quel che accade in campo non è degno di interesse. Di solito, lo si intravede appena. Ma stavolta non c’è bisogno di un esperto per notare che i nostri sono più pietosi del solito. In macchina con noi sono venuti un paio di Nocivi. Abbiamo parlato anche di questo: di come probabilmente la questione societaria abbia shermato l’incapacità dei ragazzi, finendo per sottrarli alle contestazioni che meriterebbero. Oggi sembra chiaro che è così. Dopo il consueto quarto d’ora, prendiamo un gol ridicolo. Noi cantiamo, alziamo i decibel. A volte sembra un gioco: cantare a squarciagola nelle situazioni disperate per dimostrare mentalità o chissà cos’altro… Potrebbe quasi sembrare, ad occhio estraneo, una specie di goduria rovesciata, un piacere perverso nell’atto del protomartirio. Non è così, ed è dura da morire. Un decennio tra terza e quarta categoria, unito all’amore profondo per la quella maglia e i suoi colori, provocano fitte lancinanti ad ogni rete subita. Ma siamo qui per dimostrare che non ci arrendiamo. E allora svolgiamo il compito a dovere. Incassiamo il secondo e il terzo. La partita è chiusa alla mezz’ora, o giù di lì. Fa male, altroché. Ma siamo a Cosenza, a 400 chilometri da casa. In ottanta. Rappresentiamo Foggia, non possiamo metterci a fare capricci come bimbi viziati. Con la squadra, la società, ci sarà modo di discutere. Ma qui si incita fino al novantesimo. Il malumore è nerissimo. Il caldo, apertamente africano. In bagno, alla fine del tempo, volano battute amare e ciniche. “Mario, ti va bene il pareggio?”, “Neanche per sogno, questa la dobbiamo vincere”. Mi chiama Antonio dalla cabina: ridere o piangere per questa squadra senza spina dorsale? Impossibile dirlo su due piedi. Ho visto io stesso uno dei nostri difendere palla sulla linea di fondo, a mezzo metro dalla bandierina; chiamare a sé, palla al piede, un difensore rossoblu; alzarsi il pallone, come a preannunciare un gioco di prestigio, una magia. E al secondo palleggio indisturbato, osservare il pallone uscire fuori. Nella ripresa prendiamo anche il quarto. È una disfatta. Non ci resta che usare l’ironia. Andiamo, andiamo, andiamo a vincere. E attendere la fine. Che pure arriva. I nostri pensano di venirci a salutare. Il nostro è uno di quei gesti che – nel suo piccolo – fa la microstoria di questa stagione: tutti di spalle. Meritiamo di più! Sbircio i giocatori chinare il capo, tristi come bambini. Ma davvero pensavano ad una benevolenza infinita? Mi torna alla mente l’inseguimento al pullman di Delio Rossi. Mi torna in mente Sanò. Uno mi guarda dal gradone di sotto: “Se ne sono andati?”. Si, si, puoi girarti. All’uscita prevalgono le note di Lupin. Poi è una serpentina tra le vie. Tifosi cosentini ci passeggiano accanto. Non fanno in tempo a sfotterci che rimangono sfottuti: quattro, quattro, ripetiamo con le dita. Loro non capiscono. Il blindato della polizia ci accompagna fino all’uscita della città. Non abbiamo ripreso le aste. Lo Stato ha disilluso una formale promessa. Faremo formale protesta.

Look back, Look back, Atena was black

Dormi sepolto in un campo metano, Non è la rosa non è il gas propano.

Un sole giallo copre la distanza tra la statale e le montagne. La strada è nostra, nostra è la serata. Comincia l’avventura. Nicola reclama il suo abbeveraggio di metano. Giuseppe, su Google, aveva parlato di Castrovillari. “Ma Castrovillari dove?”, “Castrovillari”. Chiediamo ad un motociclista appiedato che fa la guardia ad un drink bar. Gesticola. Ci narra di una rotonda e di 400 metri sulla sinistra. Ringraziamo. E quello, per tutta risposta, incalza: “C’avete un euro? Cinquanta centesimi?”. Prima sbandata in campagna. Ripieghiamo. Un benzinaio ci racconta di una seconda rotonda, e di un chilometro da fare a destra. Ci impelaghiamo nella natura silvestre. Troviamo la Esso. Ma è chiusa. Il Conte, con la felpa raccattata dagli scarti di uno zingaro felice, s’avvicina ad un elettricista e cerca di convincerlo a mettere in funzione il distributore. Quello non sa come spiegargli che la richiesta è assurda. “Che ha detto l’addetto?”, “Non l’ha detto”. Ripieghiamo ancora. Scartiamo l’ipotesi del bar in piazza e sfidiamo il tempo. Il prossimo distributore è a Sala Consilina. I chilometri ascensionali sono tutti in una strada nera a due corsie, immersa nel nero della vegetazione. No surprises dei Radiohead ci fa da ipnotica colonna sonora. Allo svincolo per Potenza, seguiamo la sorte. Una salita, un paio di curvoni, un cartello. Benvenuti ad Atena Lucana. Non ci pensiamo due volte. Parcheggio e bar. Buonasera. Il momento che storicizza le trasferte. Panzerotti e birra. La ragazza che gestisce il bar, popolato da una decina di ultrasettantenni, si incuriosisce: “Ma che ci fate qui?”, “Andiamo a vedere la partita del Foggia”, “E a che ora gioca? Alle otto e mezza?”, “No, ha già giocato”. Resta basita. Tifa Napoli, ci confida. Ne approfittiamo per chiederle se il tappo del Borghetti al San Paolo sia effettivamente azzurro. Nega decisamente. Un’altra leggenda sfatata, siamo come il Cicap. In tv va la Salernitana. Fuori il buio e la curiosità. Girano foto oscene. Mi torna in mente che stasera, alle undici, Espn trasmetterà lo speciale sulla cosiddetta Zemanlandia. Dentro di me spero di trovare mio padre già addormentato. Non accetterei un sorriso modello bei vecchi tempi dopo una giornata come questa.

05/10/09

La contestazione e la viltà

di Lobanowski 2

Il Licata passò in vantaggio con un colpo di testa di La Rosa. E lo Zaccheria esplose. Un boato che precedette di poco gli applausi ai siciliani, che uscivano dal campo increduli, salutando lo sportivissimo pubblico rossonero. Undici anni e guardavo mio padre, che si spellava le mani. E più le batteva, più – inspiegabilmente – pronunciava insulti e bestemmie. A me veniva da piangere. La grande speranza della promozione in B – tessuti, ossa e membra della mia prima familiarità calcistica – svaniva. E tutti attorno a me, mio padre e gli amici, applaudivano i sicari. Trovai il coraggio di scattare. Ma perché applaudite, traditori? Mio padre mi guardò come si guardano i bambini. Mi zittì. Avrei capito da grande.

Non so di preciso cosa non mi andasse giù di quell’atteggiamento. So che non mi andava, che lo percepivo come ignobile diserzione. E tanto bastava ad accendermi.

Il Giarre s’impose con una partita accorta. Punì la sicumera del Foggia di Peppino Caramanno che faceva esordire Pasquale Padalino. Mancavano poche giornate al termine del campionato. Lo Zaccheria, nuovamente colmo come un uovo, applaudì i gialloblu siciliani. Un pubblico corretto. Correttamente vigliacco, incapace di soffrire con dignità, di esporre il petto al fato avverso senza fingersi in dubbio, senza tentare di saltare dall’altra parte.

Perché l’applauso, il tifo improvviso per la squadra che sta sbancando un sogno, è moto di impazienza, rassegnazione, viltà. È come togliere la faccia dal carro del perdente. All’ultimo momento, sperando che nessuno se ne accorga.

La contestazione. Dopo una settimana passata ad ascoltare gli esperti in dietrologie che accusavano i gruppi organizzati della Sud e della Nord di non voler contestare per paura di perdere chissà quali prebende; dopo una settimana passata a dare retta agli strepiti di quelli che promettevano tempeste; a fingere interesse per quelli che sapevano in anticipo come sarebbe andata a finire, si è materializzata.

Sette giorni. Sono bastati sette giorni. Alla vigilia della trasferta di Terni, qualcuno s’inoltrava nella fitta selva dei pronostici azzardati: Con un po’ d’esperienza, questa squadra può puntare ai playoff. A Terni, a detta di quelli che hanno seguito la partita in tv, abbiamo disputato il miglior primo tempo di questa stagione. Poi il Ravenna, nell’infrasettimanale.

Al 2-1 del Marcianise è stato impossibile arginare il malcontento. Una specie di onda d’urto s’è abbattuta dagli angoli della Sud al centro del settore. Contestazione. E ci sta, anche se bisognerebbe sempre attendere il triplice fischio. Al terzo gol, lo Zaccheria è tornato ad essere oasi di vigliacca sportività: l’applauso. Finanche una specie di boato. E no, non ci sta proprio. A dispetto di quanto sperava mio padre, sono cresciuto, ma non sono maturato così tanto. I gol della squadra avversaria non meritano applausi. Mai. Neppure per dimostrare ai nostri il nostro malcontento. Tutti via. Un impeto di protesta senza obiettivi e alternative. La scossa all’ambiente. Ok, ci sto. Si va sotto la tribuna. E, tra una pineta di mani che innalzano cellulari che videoriprendono, chissà com’è… ci sono solo i gruppi. Quelli delle prebende.

Adesso le chiacchiere della piazza s’inseguono ridondanti: la colpa non è dei ragazzini (che poi tanto ragazzini non sono), la colpa è degli otto soci (che otto non sono più da tre anni). Senza di loro, col Foggia in vendita a costo zero, vedrete che si faranno avanti i veri acquirenti. Don Pasquale Casillo, dice la folla. Questi ci hanno preso per culo fin troppo (e tu lì a far presente che abbiamo centrato i playoff per tre anni di fila), non hanno speso una lira (sebbene Dall’Acqua, Salgado, Campilongo non siano stati proprio investimenti facili), devono andarsene. E far spazio al Tim Burton di turno che manderà in sollucchero questo sportivissimo pubblico occasionale. Salvo poi rivelarsi un pupazzo di pezza. E far esclamare alla folla che ora vuole il fallimento e la serie D, che “…quanto meno all’epoca dei soci abbiamo sfiorato la B”. Corsi e ricorsi di una piazza a cui – gruppi esclusi – la C sta fin troppo larga.

Il Libro