01/11/09

Oggi va così

di Lobanowski 2

Domenica 1 novembre, Potenza-Foggia 2-1

Potenza dista 108 chilometri. Zio Franco sarebbe partito alle 9. Nove e mezza, toh, giusto per dare un tocco d’esotismo alla cosa. Quando gli ho fatto sapere che sarei passato a chiamarlo alle undici e un quarto, ha finto di gradire. E la finzione era tanto più evidente nelle frasi di circostanza pronunciate a cadenze fisse: “Ma si… che Potenza qua è...”. 108 chilometri. Il percorso lo conosciamo. Scialbo e svogliato peggio di Benevento. Le quattro macchine in sosta Borghetti, il freddo della prima gelata sulla Piana. S’era sparsa la voce che al Viviani avremmo giocato in posticipo serale. Ultima contro terz’ultima, notte del 2 novembre, diretta Raisport. Da brividi solo a pensarci. Invece è una domenica come tante, tediosa proprio per quel suo sapersi banale. Ridondante. D’assoluto relax. Il Foggia che ha sbancato Reggio Emilia ha fatto tornare il rossore su più d’un viso smorto. I segnali di vita di questa squadra hanno, d’un tratto, rivitalizzato l’encefalogramma della piazza. E, nonostante non ci sia stata corsa sfrenata ai cinquecento biglietti del settore ospiti, in tanti si metteranno in viaggio. C’è da scommetterci. Noi ci siamo guardati in faccia: nessuna sosta a Potenza centro, che a nessuno salti in mente l’idea beona di uno struscio in terra pacificata. Nessuna mancanza di rispetto, nessun atteggiamento da bellimbusti in gita. Ci fermeremo dopo Rionero, alla stazione di posta dove già siamo stati l’anno scorso. Quello dei briganti. Bisogna onorare l’impegno da tutti i punti di vista, anche se in tanti mostrano qualche seccatura a muoversi e s’attardano al bancone. Ci disponiamo a Tetris nelle macchine che sono le 12:10. La transe agonistica di zio Franco non gli permetterà di soffocarsi ancora a lungo. È tempo di andare. Via Ascoli, il curvone, una signora al volante che non ha capito in che direzione intende muovere. Superstrada, e sembra sempre più Benevento. Nell’abitacolo si parla poco. Del resto, ci siamo lasciati ieri notte, non ci sono molte novità. Giusto qualche commento estetico su alcune fanciulle di nostra conoscenza. Commenti neppure particolarmente trash. La trasferta abbrutisce, certo, ma questa è una pasquetta svogliata. Quindi, niente di sostanzialmente inedito. “Com’è che hai messo Bob Marley?”, “Beh, sto pezzo è bello”, “Si, ma da te non me l’aspettavo…”. Il paesaggio scorre ai lati colorato d’un rosso-giallo autunnale che sembra Linea Verde. Io attendo con ansia crescente il bagno del bar. 80, 70, 55. “Perché hai messo sto pezzo dei Punkreas?”, “Perché mi piace il ritmo”, “Si, vabbé, ma da te non me l’aspettavo”. Dovrei scriverlo sulla copertina: una compilation da viaggio non è un manifesto esistenziale. Dalla macchina che guida la carovana parte un sms: Ci siamo fermati. Ma ho lasciato il cellulare a casa. Lo leggerò a sera. Freccia, sosta, foto di gruppo. Il dramma: colui che aveva garantito che non avrebbe fatto il biglietto – 15,50 euro, per la cronaca: una rapina a mano armata – e alla fine l’ha fatto tra mille e mille bestemmie, scopre d’averlo lasciato a Foggia. Ci trasformiamo in macabre maschere di Halloween e gli giriamo attorno in un’oscena danza dell’irrisione collettiva. Non ho fame. Gli altri si, a quanto vedo. Ripartiamo, i trenta chilometri al traguardo, Potenza tra i cavalcavia, il vialone per il settore.

Un poliziotto si mette a fare storie: non possiamo oltrepassare la pattuglia per raggiungere il bar. Dice che lui a Potenza ci vive e c’è una brutta aria. Non ci sembra, ma il fiato speso a discutere è fiato perso. Un paio di colleghi stanno facendo risistemare alcuni furgoncini. Sembrano pignoli. Noi abbiamo l’innocua canna da pesca da far entrare. Nel summit della vigilia s’era detto: vediamo di non entrare a partita iniziata, che ci sarà gente e sarà difficile piazzarci in blocco. Detto, fatto. Il dibattito sulla canna si conclude (felicemente) che l’arbitro ha già fischiato e il settore canta. Le operazioni di montaggio del vessillo prendono altri cinque minuti. Entriamo al decimo. Il bandierone fa il suo porco effetto, ma noi siamo lunghi: disposti su cinque gradoni, intervallati da personaggi silenti intenti a tutt’altre attività sportive. Facciamo del nostro meglio per sistemarci. Il bandierone passa di mano in mano, finché dall’alto qualcuno ci presenta le proprie opinioni al riguardo. Non siamo in gran giornata. Un coro, forse due, da archiviare tra i bei ricordi di questo pomeriggio. Per il resto, è un compitino, una minestra riscaldata alla meglio. Ci sentiamo mal posizionati. Spero finisca presto il primo tempo, per correre ai ripari. E il primo tempo finisce. Non prima d’aver preso l’1-0 su rigore. Quel po’ di partita che domenicalmente si intuisce, al Viviani si intuisce davvero male. Segnano dal dischetto, i rossoblu. Questo lo vediamo bene. Poi il settore scende al bar, e ne approfittiamo per ordinarci un po’. Nella ripresa di solito va meglio. Oggi invece stentiamo ad avviarci: sembriamo divisi, confusionari. Troppa gente attorno è inspiegabilmente attratta dalla partita, dal suo svolgersi. Non mi chiedo il motivo. Piuttosto non capisco perché – quando si ha intenzione di godersi un po’ di calcio di Prima Divisione – immancabilmente ci si piazza tra le prime file, dove la partita si vede peggio e dove, inevitabilmente, si finisce per essere d’intralcio. Dalla balaustra si sprona l’orgoglio delle curve. Altro coro da consegnare ai ricordi. I potentini sventolano. Li ho sentiti mentre entravamo. Mancino, in mezza girata, azzecca l’incrocio dei pali. Il portiere ci arriva e devia in angolo. Sul corner, un terzino intuisce, s’impossessa del pallone, e si fa settanta metri di campo dritto per dritto senza che a nessuno dei nostri venga in mente di stenderlo. Il cross è calibrato, il colpo di testa di quello in mezzo preciso. Prendiamo gol sotto il settore. E ciò che prima era in salita, diventa salita doppia. Il Foggia siamo noi, la la la la lala… Sgonfi. Le prime file ancora reagiscono, cantano ancor prima che qualcuno provi, a quindici dal termine, a raddrizzare le sorti della sfida. Ma c’è poco da fare, oggi è andata così. Dall’alto e dai lati piovono – di tanto in tanto – improvvisi boati, fischi, finanche cori autogestiti sulle genitrici dei calciatori. Dal basso fanno notare quanto sia strano avere fiato per certe cose e non averne per altro. Si continua a incitare, ma al fischio finale è il silenzio la migliore risposta. Umore nero. Giocate senza la maglia, è l’invito corale. Ma il grosso l’abbiamo detto con quei venti secondi di assoluto mutismo. Poco altro da aggiungere.

Per la consueta sosta al ritorno s’era parlato di Melfi. Poi di Rionero. Alla fine ha prevalso la ragione: non sperperiamo denaro inutilmente, basta un caffè al solito posto. E via. La strada vola con leggerezza. “Siamo a sei punti dalla zona playoff”. Nello stereo Canzone dalla fine del mondo. Tutti sembrano gradire, stavolta.

PS: L’amico che aveva dimenticato il biglietto è poi riuscito a vedersela la partita. Ma l’amico in questione è un furbo – hanno detto tutti quelli della spedizione – e nessuno ha mai minimamente creduto alla storia del biglietto smarrito. E neppure al suo triste broncio ruffiano. Eppure, quando abbiamo sollevato la saracinesca della sede per goderci 90° minuto, il biglietto era lì. Proprio lì. Accanto alla cassa. Autentico. Che il Potenza calcio possa pagare pegno. Anche per lo scetticismo che ha circondato un uomo giusto.

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