24/03/10

Mille volte ancora

di Lobanowski 2

A chi ha scelto uno stile di vita, e mille volte se n'è pentito e mille volte ancora ha ricominciato con più slancio della precedente;
A chi la domenica mattina si alza all'alba e penserà a dormire in un'altra vita;
A chi quando prepara lo zaino scappa un sorriso perchè pregusta i momenti con gli amici;
A chi quando si annoda la sciarpa al collo, ogni volta è come fosse la prima;
A chi vedere il pulman all'orizzonte provoca sempre come una stretta allo stomaco;
A chi da bambino non sognava di fare il calciatore ma voleva solo fare l'ultras;
A chi continuano a ripetere di mettere la testa a posto ma la sua testa è nell'unico posto dove vuole stare;
A chi il lunedì scappa da ridere perchè ripensa al giorno prima;
A chi il martedì comincia a pensare alla prossima partita;
A chi d'estate e come se mancasse l'aria;
A chi canta i cori da solo a casa ...anche sotto la doccia;
A chi una trasferta è meglio di una scopata;
A chi dicono che un donna li farà smettere, ma quella donna deve ancora nascere;
A chi "non importa dove giochi, serie A o serie B" lo pensa veramente;
A chi gli basta guardare negli occhi gli amici per rivivere tutte le avventure passate;
A chi nella buona e nella cattiva sorte;
A chi ci sarebbero ancora mille pensieri da aggiungere fatelo voi....
GRAZIE RAGAZZI..per tutto quello che è stato che sarà.

ULTRAS LIBERI

(Autore anonimo)


Arabia e Turchia sbucano dal sottopasso. E sugli spalti è subito spettacolo. I sauditi sono in netta superiorità numerica ed occupano l'intera curva Sud e parte della gradinata. I turchi sono assiepati nella Nord, dietro il reticolato. C'è un tiepido sole primaverile. L'ideale per sfoggiare i colori della passione. Cartoncini da una parte e dall'altra. Verdi a destra, rossi a sinistra, dove compare anche una torcia. Il fumo si alza lento. Arabia e Turchia sono le prime due squadre a scendere in campo per il durissimo girone E di questo mondiale francese, aperto tre giorni fa dalla sfida tra i padroni di casa e il Brasile. E finita 2-1 per gli ospiti. L'unica partita della storia disputata nell'ingresso. Questa, com'è consuetudine, si svolgerà sul terreno piastrellato della cameretta. C'è grande tensione. Sin dal primissimo pomeriggio – da quel limbo che da queste parti si chiama controra – mi sono messo all'opera. Ho radunato tutti i Vestro, tutti i Postalmarket accatastati nel portagiornali. Forbici e colla, mi sono dato da fare. Quadratini verdi contro quadratini rossi. Turchia in maglia biancorossa, Arabia in tenuta viola. È quanto di più simile al verde sia riuscito a recuperare da Cappetta. Tutti gli altri omini del Subbuteo a fare da cornice di pubblico, ad occupare i tre gradoni in legno che il buon Leonardo mi ha inchiodato. Non esistono tribune centralissime nella mia disposizione dello spazio. Non esistono neppure tribunette. Esistono curve. Il luogo dove la magia di questo sport trova la sua massima realizzazione. L'orizzonte onirico della carta straccia e del fuoco, dei cori e del sudore gratuito. I miei stadi mondiali sono così: al massimo una gradinata contigua al settore. E il massimo impegno per rendere memorabili gli ingressi in campo delle formazioni.

Una volta ho letto una nota, in internet. Diceva: “A chi da bambino non sognava di fare il calciatore ma voleva solo fare l'ultras”. Ho detto, mi sono detto, cazzo... Non possono aver visto nella mia palla di vetro. Non sanno mica di quegli striscioni della Sud ricopiati fedelmente; o di quella volta che i miei foggiani di plastica sfoggiarono un putiferio di coriandoli e fumogeni contro il Casarano, tanto da spingermi a chiedere a mio padre di lasciarmeli fotografare, visto che erano rimasti ancora due flash inutilizzati. Mi rispose di no. O di quella volta che allineai i fiammiferi per dare vita ad una torciata memorabile, e prese fuoco il lembo della tenda, e mia madre giurò che mai più sarebbe uscita lasciandomi solo. Neppure per la processione del Venerdì santo. O di quella passione per i tappi, che non erano il Subbuteo ma avevano lo stessa funzione. Una raccolta indefessa: Acqua Recoaro, Peroni, Raffo, Sanpellegrino con la stella, Prinz, Valfrutta con le bandiere, Heineken, Fanta, Cutolo Rionero, Castelberg. Sei per ogni marca. Una squadra. Otto squadre per ogni serie: A, B, C1 gironi A e B. Ed ogni sestetto un carattere particolare, un'associazione di idee. Dieci anni, forse meno, e quel tavolaccio di legno a fare da terreno agli epici scontri. E i tre immancabili gradoni: tappi in campo, tappi sugli spalti. Una sera d'autunno la birra Dreher conquistò una storica promozione in massima serie perché aveva la tifoseria più bella e colorata di tutti. Nella partita decisiva sfoggiarono, i tappi-tifosi, un bandierone di das. E gli immancabili pezzi di carta in fiamme. Vinsero sugli spalti e, di conseguenza (e solo come conseguenza), vinsero in campo. Il mio era un mondo perfetto.

A chi da bambino non sognava di fare il calciatore ma voleva solo fare l'ultras.

E quel gioco per Commodore 64 inspiegabilmente mai realizzato: un videogame dove non bisognava condurre una squadra alla vittoria, ma dare vita ad un gruppo. Una volta, all'ombra della cattedrale, fuori dalla Giovanni Pascoli, provai a spiegarlo a Romeo, che era il più ultras di tutti per tradizione familiare. Immagina, dicevo. Ti scegli una squadra piccola e parti in dieci, venti. Fai lo striscione, le bandiere. E poi fai le trasferte, le coreografie, gli scontri con le altre tifoserie. Romeo soppesò quelle mie parole. Poi aggiunse: “Non lo faranno mai un gioco così”. Lo so, Romeo, sono troppo banali. O io sono troppo fuori mercato. Non lo so, ma mi piace pensare che sia la prima risposta quella che conta.

01/03/10

Ridursi (a) Reduci (no-no, no-no)

di Lobanowski 2

Tralasciamo il resto.

In questi due anni – due anni vissuti come non avrei scommesso solo qualche tempo fa: anni di trasferte, di furgoni, di adesivi, di battimani, di cori, di sciarpette, di spray, di felpe, di striscioni – ho visto amici, compagni, fratelli porsi in un’ottica completamente nuov; vivere l’evento domenicale non più come l’Evento, ma come la semplice appendice di una settimana d’impegno e passione; avvicinarsi ad una mentalità che non conoscevano, che ignoravano, che respingevano; addentrarsi nel luna park con sempre maggiore entusiasmo, abnegazione, competenza. Per qualcuno di loro è senz’altro un fuoco di paglia, figlio della moda, dice qualche scettico. Sarà. Ma mentre caricavamo la prima macchina di questa esperienza – quella che è sbarcata a Foligno – nessuno avrebbe osato immaginare la costanza che abbiamo oggi. Il tenore dei dibattiti, delle discussioni accese, il livello di partecipazione. Si cresce. E se anche per quei ragazzi non posso mettere la mano sul fuoco – perché con le scommesse non ci so fare, ormai è dato acclarato – direi che per quanto mi riguarda posso abbozzare un primissimo bilancio a seguire. Sono soddisfatto e motivato. Soddisfatto di essere tornato a fare quel che mi è sempre piaciuto fare. Quel che mi fa sentire bene, mi riempie, mi rappresenta. E motivato, perché a 33 anni sono cosciente di sentirmela ancora. Di affrontare il baratro della C2 o l’orrido del Campionato Nazionale Dilettanti. Per la maglia, certo, per l’amore che le ho riversato addosso – amore platonico, un tempo, carnale col maturare dell’età – dagli anni della prima infanzia, quando con orgoglio pronunciavo il nome della squadra della mia città dinanzi a stormi di ragazzini che si perdevano tra Juve, Milan, Inter, Roma. Napoli e persino Sampdoria. Me la sento. Ma lotterò per evitarlo. E non certo perché mi spaventi la prospettiva di scendere a Cassino, a Siracusa o – peggio ancora – di affrontare il Forza e Coraggio o l’Hinterreggio. Ma perché – come corollario alla nostra passione – c’è un prato verde. E i risultati che si susseguono lì, per quanto ininfluenti ai fini della nostra fede e della sua dimostrazione, hanno una diretta incidenza sugli umori, sulla gioia e sul pianto. In fondo, siamo tifosi di una squadra di calcio, sebbene radicalmente legati a tutta una simbologia che trasforma il mezzo in fine. Io, a notte, la classifica di pagina 215 del Televideo la guardo. E due conti me li faccio.

Così stamattina mi sono detto d’essere pronto. Pronto ad ogni circostanza. Ma che un paio di parole andrebbero spese su quelli che hanno già preso a fare la morale del reduce preventivo. Che forse non vedevano l’ora di farla, senza riferimenti in questo sentimento troppo popolare: Meglio la C2, così vengono fuori i buoni, i tosti, i veri duri e puri. Tristezza a palate. Perché anch’io ho occhi e non mi sembrava vero, qualche tempo fa, di vedere tanti ragazzini approssimarsi al cuore della Sud. Allora anelare ad una rigenerazione, che quasi sempre coincide col ritorno al passato, coi vecchi tempi mitizzati nell’Età dell’oro, sembrava un riflesso condizionato. Anch’io di tanto in tanto dico “Meglio le trasferte in 100”, o “in 50”. Ma il mio faro resta sempre quello di unire la crescita qualitativa a quella quantitativa. Vorrei che fossimo 200, in trasferta, ovunque, e cantassimo tutti con intensità. Vorrei che ci sentissimo parte di un movimento, che fossimo uniti, seppure nelle differenze del proprio appartenere. Ecco: questo è il secondo pensierino della mattinata. Io non spero di retrocedere per scremare ancora la curva, perché in palio non c’è un premio ai sopravvissuti, un attestato di validità esistenziale. Non mi gonfiano simili certezze. Non so chi spera di diventare come quell’ultras del Portogruaro che viaggia da solo. Io senza il mio gruppo m’intristisco, senza la mia curva perdo gli stimoli, senza il mio settore in trasferta non avrei motivo d’esistere. Ecco perché. Sono un tifoso del Foggia e intendo salvarmi per questo. Sono un innamorato della mia tifoseria, e per questo confido negli sforzi comuni. Quelli che tifano per se stessi, per dimostrare la propria irriducibilità a fronte del deserto, sinceramente mi lasciano scosso. Come quei militanti che sperano nei licenziamenti per poter dire che l’avevano detto.

Il Libro