29/04/10

Topazio libero

24/04/10

Tre mesi per una firma

(La nuova frontiera della caccia alle streghe)

Cerca di stare in gruppo / La tranquillità è importante / Ma la libertà è tutto.



Succede in questo strano Paese che di primo mattino degli agenti della squadra mobile possano bussare alla porta della tua casa e, di punto in bianco, condurti in carcere con l’accusa di aver saltato qualche firma durante un trascorso periodo di diffida. Succede. È successo. A Foggia. Topazio è uno di noi, uno come noi, un nostro fratello di curva e di vita. Negli anni scorsi sottoposto a Daspo e costretto per lunghe domeniche/mercoledì/lunedì, a recarsi in questura per adempiere all’obbligo di firma durante le partite dell’Us Foggia. Oggi condannato e chiamato a scontare tre mesi di reclusione in virtù di uno strano concetto di giustizia commutativa.

Non saranno molti quelli che troveranno il coraggio di accusarci di qualunquismo a basso costo, di populismo, se ci permettiamo di portare agli occhi di chi legge una realtà di fatto, sgradevole quanto concreta: in questo Paese di piduisti stragisti a piede libero, di mafiosi prescritti, di assassini recidivi, di stupratori seriali e di pedofili tutelati, di ricattatori, corruttori e concussi, in questo momento un ragazzo di trent’anni è chiuso in una cella perché ha commesso l’imperdonabile reato di non recarsi a firmare in questura un provvedimento che gli precludeva l’accesso agli impianti sportivi.

Assurdo, direte voi. Assurdo, certo. Indegno, infame, criminale. Perché ancor più che la sproporzione tra imputazione e pena (pena definitiva, che dovrà quindi essere scontata per intero) fa impressione la selettività, la precisione maniacale con la quale il colpo è stato inferto. Perché l’accusa reale – per chi non se ne fosse accorto – è, nel caso di Topazio, quella d’essersi ostinato a voler perseguire con la maggiore coerenza possibile il proprio stile di vita, le proprie scelte. Topazio è un ultras, che con dignità ha pagato le lunghe limitazioni del passato e che con altrettanta dignità sta pagando questa sua sproporzionata colpa. Ed è questo il suo vero reato: essere la disfunzione nell’ingranaggio, la nota dissonante in questo splendido mondo dorato del calcio fatto di televisioni, prefiltraggi, tornelli, steward, schedature, trasferte vietate, tessere fedeltà. Un mondo che, garantiscono questori e prefetti, Osservatori e Casms, senza gli ultras sarebbe un paradiso. E finirebbe di vendersi l’anima.

La mostrificazione dell’ultras sta passando il segno; l’isteria dei media, la psicosi delle istituzioni, perennemente alla ricerca di nuovi nemici, intenti nella loro neutralizzazione, sta partorendo i propri frutti avariati. Rendendo grottesca la realtà: se Topazio è dentro per una firma mancata, a breve le porte delle galere sovraffollate potranno spalancarsi anche per chi accende una torcia sugli spalti o persegue l’assurdo piano di popolare i settori di voce e colori.

Noi, che con tutta la fatica della quotidianità e delle sue mille contraddizioni, ci sentiamo di essere in tutto e per tutto simili al nostro compagno negli ideali, e complici nell’indignazione, non possiamo fare altro che mobilitarci per rendere visibile alle anime belle di questo Paese alla rovescia la natura profondamente folle di questo provvedimento e delle norme che lo sovrintendono. Affinché chi viaggia a fari spenti possa, quanto meno, aprire gli occhi.

E per ribadire, anche se suona retorica, che la loro repressione assurda può far aumentare il nostro disprezzo, ma mai smorzare la nostra passione.

TOPAZIO LIBERO!


Ciurma Nemica – Foggia

19/04/10

Dancing to Portogruaro

Antefatto aereo

“Portogruaro”, di solito dice uno. “Scusa la mia ignoranza, ma dov’è?”, risponde subito l’altro. “Tra Venezia e Trieste”. Nelle Venezie, per gli aulici colti dall’istinto di dissimulare. Ci andate in treno? No, in furgone. Ma una voce fa capolino: pare che una tra Darwin e Skybridge sia interessata ad allestire un charter dal Gino Lisa. In aereo? Ma neanche per sogno! Neanche in Russia! Neanche in Uefa! Se togli il viaggio, che resta? E poi – osservano occhiuti i contestatori – qua mi sa che, stando alle prime notizie, bisognerebbe viaggiare con la squadra e lo staff. No, no, no. Indicibile promisquità. Ci manteniamo sul classico, anche se il paesello non è dietro l’angolo e le spese lievitano. Blocchiamo un bel sette posti, ma una smorfia compiaciuta si dipinge sul volto: il Foggia che viaggia in aereo. Penso sia la prima volta in assoluto. Pure ai tempi dell’anglo-italiano saranno andati in pullman. Poi erutta un vulcano. Il Eyja-fjalla-joekull. Cenere e lapilli, dal buco del mondo in Islanda, si rovesciano sul Regno Unito, l’Irlanda, la Scandinavia. Una nube abrasiva attenta al traffico aereo di un continente. Gli aeroporti di mezza Europa chiudono già da mercoledì. Ma la nube – in quanto tale – si sposta coi venti. E sabato, dopo Germania, Francia, Spagna, dopo le ansie e le paure di Flaviana per il suo viaggio a Lisbona, chiudono anche le piste del Nord Italia. Trieste compresa. È ironico e globalizzato al cotempo. Novant’anni di storia, e quando si è deciso di spiccare il volo verso il futuro, l’ultima parola spetta a un vulcano islandese. Che si chiama Eyja-fjalla-joekull, oltretutto.

Domenica 18 aprile, Portosummaga-Foggia 1-1

La sveglia interrompe un sonno ristoratore, circolare, completo. Sono le 2:15. Il buio invade la stanza dalle imposte lasciate aperte. Caffè e sigaretta. Ceska mi apre onirica e mi consegna una teglia di pasta al forno. La movida sciama tra le vie del centro storico. Io, sciarpetta al collo e teglia a due mani, sono un estraneo. Felice di esserlo. Il Ford Galaxy è parcheggiato fuori dalla sede. Ha una linea aggressiva, pescesca, gli interni puzzano di pelle, la radica impreziosisce i dettagli. In una parola: è ciaciacco. Ma legge gli mp3. Si fa strada l’ipotesi di fare la statale fino a Pineto, a Roseto, a Pescara, boh, almeno a Vasto. Nicola mi porge la sua doppia compilation dance anni Novanta. Carichiamo il baule di pezze, bandiere e arance della salute, gentile dono di Daniele, bloccato dal lavoro. Partiamo. Ed è subito nebbia. Velieri all’orizzonte, sentore d’arrembaggi improvvisi. Schegge di sonno in seconda linea. L’autostrada. Il mare si intuisce appena, l’andatura è buona, non ci sono soste. Non troppe, almeno. L’appuntamento è a Bologna. Angioletto e Davide ci hanno inspiegabilmente convinti a sbucare su via della Corticella per completare il quadretto di lontananza. Nella immaginifica tabella di marcia dovremo sbucare ad Arcoveggio non più tardi delle 10, per avere qualche possibilità di farla franca nel traffico del capoluogo. I'm Blue da ba dee da ba daa. I cassetti dell’ipotalamo si aprono per dissotterrare perle d’epoca, dimenticate come la più alta civiltà dei sumeri. E mancano venti minuti alle 9 quando entriamo in orbita. Angioletto viene buttato giù dal letto. Muoversi! Siamo in anticipo, il che è sempre un bene (per qualche oscuro motivo che sfugge sempre più spesso), ma un male per il fegato. I due esuli sono a centro strada, si sbracciano. Li raggiungiamo. Saluti e baci, “Mo ti faccio vedere la Bolognina, il luogo dove Occhetto…”, “Zitto, zitto, ho capito, evitiamo di parlarne”. In sette, nerovestiti, alle porte del luogo dove il Pci morì suicida. Ironico. Il bancone del bar è un luogo atemporale, ma non nel senso canonico. Ho due ore di sonno e sento la stanchezza come se viaggiassi da dieci ore, da quindici o da sempre. E incontrare Angioletto, con le sue “nius” in un tale stato psicofisico è deleterio. Nelle stanze da Bar Aurora di wuminghiana memoria, giocano a biliardo e bussano a tressette. C’è tanta gente e tanta altra ne arriva. “Questi si sono prenotati alle 6”, pensa e dice il Conte, incredulo, mentre li osserva con fare cupo da maniaco. Giuseppe si sofferma sulle statistiche del torneo di tarocchino, che presto – ne siamo certi – aggiungerà alla sua mortifera contabilità da Marzotto del 61/62. Nicola si aggrega a quelli che guardano il gran premio. Un sorso di cappuccino e abbandoniamo quel luogo sconsacrato. All’autogrill c’è tanta polizia. Roba di bolognesi che salgono in Friuli. Un benzinaio ci saluta: “Siete tifosi anche voi?”, “In un certo senso”, “Di che?”, “Foggia”, e quello: “Foggia e?”. Angioletto, spiazzato da cotanta involontaria ironia, allarga le braccia: “E bast!”. “Dove andate?”, “Nelle Venezie”. Per l’appunto. Dissimulazione. Ma mancano due ore di viaggio. E sono da poco passate le 10. Il Borghetti nuovo e quello vecchio necessitano di un luogo di decantazione. Scegliamo Cento, come avremmo potuto scegliere Cinquanta. È giorno di mercato. Passeggiamo come turisti tra bastioni e bancarelle e a me tornano alla mente le ore di Pizzighettone, quelle che precedettero la catastrofe. È una mattinata amarcord, a ben pensarci. Alla Snai suggeriamo caldamente il 2 del Foggia. Si gioca contro la capolista e dobbiamo fare a meno di sei titolari, garantisce Teleradioerre. Ma ciò nonostante “Mettete il due al Foggia” suona più come un imperativo che come un disinteressato consiglio. “L’altra mattina ho visto una partita del campionato giapponese. Lo sapete che l’Osaka c’ha gli ultras che si chiamano Brigate?”. Mattia vorrebbe acquistare un cappello sovietico. Lo invogliamo a desistere. La campagna emiliana è costellata di capannoni inustriali. Torniamo sull’A4, e il Conte al volante indossa occhiali fashion. In meno di due ore siamo a Portogruaro. Ed anche qui è la memoria a fare salti. Ci siamo stati ad agosto, sulla strada per Trieste. Abbiamo passato un intero pomeriggio ai mulini, tra il rumore dell’acqua e una interminabile gara d’assaggio di vini bianchi e spritz. E subentra la malinconia nuova: sembra ieri che andavamo incontro alla prima di Coppa, eppure questa è l’ultima trasferta della stagione. Di già. Un epicureo Mattia si fa saggio e ci riprende: “E cazzo, ma godetevele le cose!”. Gruppi di compatrioti fuori dai bar lungo la strada del settore ospiti. Saluti e insulti. C’è chi ha inrociato quelli del Celano Olimpia diretti a Gradisca e chi i fanesi che puntavano Bassano. C’è vita, ancora.

All’ingresso è tempo di dubbi – “Ma quello come la sa sta cosa?” – e di doppi, tripli prefiltraggi. Il nostro settore sembra quello di Manfredonia, anche se è più ferreo e più piccolo. Facce conosciute, facce solite e molti emigrati. Siamo un duecento. Auguri Sergino, dice il nostro piccolo striscione bianco. Il pargolo di Jordan al battesimo, “l’inizio del suo rapporto con le istituzioni ecclesiastiche”, come sottolinea qualcuno. Lungo corridoio per l’ingresso delle squadre. Compatti siamo notevoli. Noi / Vogliamo / Questa / Vittoria. E si capisce che siamo in palla. Le trasferte in culo al mondo ispirano. E Canto per te / Solo per te è un biglietto da visita che dura dieci minuti. Bello. Ci guardiamo l’un l’altro e annuiamo, ci carichiamo, ci esaltiamo. Di fronte c’è una sparuta rappresentanza di tifosi organizzati. Evitiamo i commenti, anche perché ne abbiamo già fatti a sufficienza in macchina: l’idea del deprimente stato del calcio italiano trova la sua realizzazione più compiuta nei fenomeni che i media si ostinano a magnificare. E si parla di Grosseto, Chievo, Cittadella, Sassuolo, dove a squadre costruite per vincere e divertire fanno da contrappunto stadi oratoriali (Verona a parte, ovviamente) semivuoti e zero tradizione. Mentre Salerno sprofonderà dove è già l’Avellino, il Messina, la Casertana, lo Spezia, il Pisa. Meglio non pensarci. Qui nessuno intende criticare quei mille e passa tifosi che oggi sono qui al Mecchi. Brava gente che vive una dimensione pulita e sana della passione sportiva, distante anni luce dalla mia, però, come dire… immaginarli in B fa venire le fitte al pancreas. In ogni caso, il Foggia visto dalla gradinata sembra motivato e senza timori. Aumentano i rimpianti. In questo finale di stagione, pur di evitare l’ultima trasferta a Giulianova o Avezzano, per colpa di quelli che c’erano prima e della corte celeste dei cattivi consiglieri, si è costretti a infilare una grande prestazione dietro l’altra. E che non sempre portano punti. Essere chiamati all’impresa come precondizione della normalità è frustrante. Come essere costretti a salire su un letto a castello di mille pioli per schiacciare un pisolino. Cantiamo, e tanto. I battimani sono belli, rapidi e completi. Gli emigranti partecipano più che in altre occasioni e le bandiere sventolano ininterrotte. Bell’effetto. Il Foggia rischia una volta, poi sfiora il vantaggio in due occasioni. Alla fine del tempo, c’è la possibilità di prendere un po’ di sole. Fa un caldo folle, in questa landa austro-ungarica. A Foggia pare piova dalle prime avvisaglie dell’alba.

Quando le squadre rientrano, qualcuno invoca pietà: “Altri dieci minuti”. Ma bisogna scuotersi, essere all’altezza dei nostri che se la stanno giocando, dicono dalla balaustra. Essere all’altezza dei nostri primi 45 minuti, penso io. L’inizio è debole, poi cresciamo. D’improvviso, come per un segnale cerebrale. Il settore canta, sventola, segue. È uno spettacolo. È divertentissimo e, al tempo stesso, molto emozionante. Il calcio d’angolo trova la testa di uno dei nostri. E passiamo in vantaggio, nel nostro momento migliore. C’è una conseguenzialità che fa pensare, come la riscoperta degli Eiffel 65 e le nostre compilation. Per non parlare di Shaggy. Closer than my peeps you are to me, baby. Shorty, you're my angel. Come che sia, il Foggia è avanti. L’impresa di cui avremmo bisogno per evitare l’appendice playout. Per schiacciare un pisolino. E dopo cinque minuti d’incredulità, riprendiamo. Più forte di prima. Fino all’apice: Forza Foggia / Vinci per noi, con tanto di eco che ci riporta indietro il coro. Girano bottiglie d’acqua clandestine, si spaccia Cola. Rischiamo il raddoppio. Poi il sogno si brucia nel fuoco del pari. A dieci dal termine. Risentiamo della botta, mentre l’urlo di gioia – infantile, pulito e per questo distante come un messaggio dei marziani – di quelli di fronte ci riporta sull’amara terra. Cerchiamo di ripartire, e quasi quasi ce la facciamo, come del resto quelli in campo. Ma alla fine è pareggio. Sul campo e solo sul campo, ovviamente. Certe cose, per fortuna, non dipendono dalle disponibilità economiche degli imprenditori locali.

Cronache da Portogruaro stessa

Ultimi a lasciare il settore, lenti come vesciche sottocutanee, incocciamo contro la crudele osservanza delle leggi della barista. Niente alcolici fino alle 18. Allora posso fare da cicerone: andiamo in centro. Nel gruppo c’è un milite che stasera rischia il mancato rientro, dall’altra parte del Nord Italia, e c’è anche chi fa sondaggi per sapere se rischiare l’1 alla Lazio e incassare svariate migliaia di euro o coprirsi l’ics-due. Ovviamente, il plebiscito dei vigliacchi è per l’assoluta mancanza d’audacia. Sulle scale di una villa abbanonata imbandiamo pasta al forno, taralli e panini. Nella migliore tradizione stilistica meridionale. In tre ci avventuriamo alla ricerca di qualche birra di contrabbando, che otteniamo pedinando un buongustaio locale. Non possiamo rilassarci come vorremmo, perché la fretta ci morde il culo. Però un quarto d’ora, dai, ce lo meritiamo. Troppo. La digos locale ha tutto l’agio di individuarci. Parcheggiano. Scendono in tre, si avvicinano. Nessuno dei nostri dice “’e magnà?”, cosa per lunghi attimi sospetto avverrà. Non sembrano incarognirsi dinanzi alla scena da lessico familiare, piuttosto appaiono curiosi di venire a capo di qualcosa. Ci domandano del furgone, poi accennano ad un drappello di tifosi in stazione. Ma siccome Noi non collaboriam, gli rispondiamo che boh, noi abbiamo fame, mangiamo e ripartiamo. Di nessun altro sappiamo niente. Si, si, fanno quelli, ma il dubbio è altro, ed è atroce. Si appalesa pochi attimi dopo, quando le preoccupazioni soppiantano i pudori da gioco di ruolo: “C’è quel signore un po’ strano in centro, quello vestito elegante, col cappello e il mantello… Sapete se se ne torna con qualcuno?”. Ci viene da ridere. Il livello di tranquillità domenicale dell’opulento Nord-Est da stuscio alle prese con il Supertifoso a piede libero. La quiete monofamiliare del passeggio tra i caffè minacciata dalla libertà d’espressione di un singolo, distinto terrone. Hanno paura che non se ne vada più. Così, in quel preciso istante, ho letto nello sguardo del tutore della legge la certezza che, se fosse rimasto lì così, semplicemente a parlare al telefono, l’intera Portogruaro sarebbe stata pronta a spostarsi, palo dopo palo, palafitta dopo palafitta, in mezzo al mare. Una novella Venezia che, come l’originale, è pronta ad edificarsi per sfuggire ad un pericolo inaffrontabile. Mi sento di tranquillizzarli. Tutto si sistemerà, in un modo o nell’altro.

05/04/10

Il minuto 33

Sabato 3 aprile, Rimini-Foggia 0-1

L’insonne cronico, l’unico che ha fatto la nottata, fissa languido, amorevole. “Ogni volta che ti vedo – confessa ad Enzo – mi passa davanti tutto”. E muove le mani dinanzi al viso per rendere meglio l’idea del nastro che scorre. Penso, pensiamo tutti, che volesse alludere al fatto che basta uno sguardo per capire che stiamo tornando in trasferta. Ed è una cosa bella. Ma l’insensibilità dilaga. “…cioè, ti vedo e capisco che… capisco che…”, “Che stje d for!”, è l’amaro completamento della poesia.
La statale irrompe dai finestrini.
Contro ogni previsione catastrofista, abbiamo aspettato solo 40 minuti l’unico ritardatario. E non era neppure uno dei nostri. Adesso saltiamo il pedaggio. Fino a Vasto, dove dobbiamo mollare una macchina. La dance anni Novanta rimbomba. “Ma abbiamo mai parlato di Lola Ponce?”, “No, mi sa di no, e comunque non a sufficienza”. Sportweek circola tra le linee. Il Conte declama, allieta, riuscendo nell’impresa di modificare a suo piacimento anche la parola scritta e stampata. Accanto a sé, Mattia vive il dramma del biglietto. Qualcosa gli dice d’averlo mollato ad un compagno di viaggio, di aver chiesto la cortesia di tenerglielo, per beffare le insidie del cammino adriatico. Ma tutti negano ostinatamente. “L’hai perso, è inutile che cerchi”. E, siccome stavolta aveva preso persino il documento, alterna attimi di blasfemia a momenti di feroce autocommiserazione. I fratelli arrivano sotto la loro casa fantasma di San Salvo. Guido indica un palazzo dalle fondamenta alla volta celeste, Nicola si diletta con le inversioni, attività che tra tutte lo sollazza. Mattia maledice la sorte. Poi fissa l’intero gruppo con uno sguardo tra l’imperativo e l’implorante: “Chi ce l’ha me lo dasse”, chiede. Ma neppure lui crede più tanto all’ipotesi dello scherzo.
All’autogrill si sceglie un pallone nel cesto, per colmare un vuoto. Più che una ridicola sfera rosa di Hello Kitty, è un amico vero quello che abbraccia. È il suo Wilson, come per Tom Hanks sull’isola deserta. “Signore, chiedo scusa, potrei sapere cosa vi ha detto quel ragazzo che entrato poco fa?”, “Ah, beh, non so… parlava… scemenze”. Ci sono altri foggiani che escono. Non saremo tantissimi a Rimini, quest’oggi. Ma neppure pochissimi. Certo, è sabato, è quasi Pasqua, è una giornata lavorativa. Chi dal Sud deve salire, fa i conti con gli euri. Chi dal Nord è già sceso per le feste, ci pensa due volte prima di risalire. Troppo sbattimento. E da mezzanotte è anche rincarata la benzina. La palla rosa finisce sull’asfalto, tutto il furgone rientra. Eravamo convinti di trovarci sulle affollate strade dell’esodo, siamo partiti alle 7:30 apposta. Invece, l’autostrada è libera e la costa romagnola non è poi così distante. In vista di Ancona l’equipaggio si acquieta. Mattia è “clinicamente morto” e il futuro letto nel fondo del Borghetti non è rassicurante. La terza fila spacca. Due dormono. Il terzo è Guido, che s’incunea tra i sedili e grida: “Abbassa, abbassa, si sente male”. E chi si gira e vede Nicola riverso non pensa ai suoi problemi di comunicazione del telefonino. Pensa ad un malore, e smorza Corona. Cattolica entra nel mirino alle 12:30. Non ha senso proseguire. Non è una pasquetta, anche se può sembrarlo. Usciamo e puntiamo l’interno. Margherite gialle ed aria primaverile. La campagna invoglia. Raggiungiamo Morciano, il primo paese che ci compare davanti. Angioletto ci ha appena comunicato che non sarà al “Neri” prima delle due. Abbiamo un’ora da spendere. Prendiamo in prestito delle sedie dal parco giochi della piazza e ci godiamo il sole. Ci alziamo solo ad applaudire i ciclisti.

Il parcheggio ospiti è poco distante dallo stadio. Una telefonata dalle adiacenze del settore ci comunica che abbiamo fatto tardi anche oggi. A noi non sembra: manca mezz’ora all’inizio, c’è tutto il tempo di prendere bandiere, bottiglie e striscione. E muoverci. Attraversiamo una strada trafficata, tra l’indifferenza dei gruppi di sbirri ai due incroci. Mah, strano concetto di controllo del territorio. Comunque, a noi va bene così. Angioletto ci viene incontro. È con gli altri del miniplotone bolognese, è arrivato in treno. Affianco Mattia e gli restituisco il biglietto che mi aveva chiesto di custodirgli a Foggia. Mi guarda più sollevato che incazzato: è stato un bel gioco spingerlo ad angosciarsi, deve riconoscerlo. Controlli all’ingresso. Dubbi sulla jolly roger, “Lei comunque si allontani”. Ma è mai possibile, ci si chiede, che questa gente non abbia il minimo senso dell’ironia? Metallo, tubi. Antonio mi ha chiamato annunciandomi la morte di Maurizio Mosca. Adesso sta provando a ricontattarmi perché la nostra assenza gli è balzata agli occhi. Tornelli. Sbuchiamo all’unisono. Chi ci incrocia ci chiede: “Ma dove eravate finiti?”. La notizia della nostra scomparsa ci ha preceduti. Siamo di lato, sulla destra, con la nostra curva. Nothing else matters all’angolo. Prospettiva sul campo che elimina le residue speranze di vedere qualche azione, tra un coro e l’altro, magari mentre si fischia il loro possesso palla. Doppio settore per loro: uno in gradinata, uno nella curva di fronte. Sembrano lontanissimi, i primi quanto i secondi. Tira vento. Ci scaldiamo coi primi cori che ancora manca la Nord. Poi anche loro arrivano. Siamo lunghi, troppo distanti dal cuore. Enzo individua il problema: è in alto, tra i padri di famiglia emigrati che sono venuti per vicinanza geografica. Emigriamo anche noi, verso l’alto, a fare da tappo. Al vento le quattro bandiere. Fisiologiche proteste degli spodestati, affrontate con calma e diplomazia: “Il problema vostro è che siete dei tirchi… Sapete quanto costa il biglietto per la gradinata? Solo 5 euro in più!”. Si allontanano, lasciano un buco, ma non certo un vuoto. Bene così. Si parte in sordina, si cresce rapidamente. Il Foggia è offensivo, il Rimini non s’avvicina. C’è un gol, di cui ci accorgiamo con qualche attimo di ritardo. Non esulto mai quando si segna troppo presto. Sono passati venti minuti appena. Adesso i cori coinvolgono l’intero settore. Siamo più di duecento, e più della metà partiti da Foggia. Al minuto 33, poi, avviene l’episodio determinante. Dalla balaustra gridano che dobbiamo prendere le sciarpe. Fino a ieri la risposta, il nostro modo di partecipare, era nella sbandierata. Oggi, invece, le sciarpe ci sono. Di lana, pesantissime. E il sole di aprile già ci costringe in t-shirt. Eppure, al segnale, scattano. La nostra prima sciarpata, la prima sciarpata della Ciurma. Non sarà un’avventura. Poi le altre s’abbassano, s’agitano. Ma Enzo chiede un supplemento di sforzo. Tenderle, ancora. Fosse per lui, resteremmo così fino alla fine del primo tempo. All’intervallo chiediamo a chi era di sotto: “Com’è venuta?”. Dicono bene. Ci crediamo. In fila al bar blindato, con Mattia che accusa di pedofilia il barista (per un mai appurato rapporto col guardalinee, dove comunque non sembrano esserci minorenni), Angioletto compra dieci Borghetti. La ripresa è un coro prolungato, dilatato, tenuto alto. In campo non succede granché e, poco alla volta, anche i laterali alti del settore pregustano la vittoria e s’uniscono ai canti. Quell’atmosfera tipica da 3 punti in trasferta al Centro-Nord. Gli sguardi sempre più ansiosi, i volti sempre più distesi. Al triplice fischio ci sono gli abbracci, la squadra sotto il settore, le bandiere alte. E prima dell’uscita, il coro al giornalista e il pensiero a mia zia incolpevole. E la riflessione. Il buonumore che dimostriamo è la prova provata di una tesi: il movimento ultras – quell’essere ultras a prescindere – non può che venire dopo l’appartenenza, l’identità. Mentiremmo se dicessimo che saremmo stati così coglioni ed euforici a prescindere. Ultrà del Foggia, non di uno stile. E se pure esistono momenti in cui questo dettaglio va accantonato, in altri appare nella sua pienezza. E non potrebbe essere altrimenti. Ci siamo fatti i nostri bravi chilometri, gli sbattimenti del caso, le bevute e le risate. Saremmo stati lieti di raccontarci un’altra epica avventura, comunque. Ma oggi c’è qualcosa in più: siamo felici perché il Foggia ha vinto. E questo ritorno all’infanzia è parte integrante del gioco a cui ci piace giocare.

Cronache di piazza Matteotti

Pesaro sembra Fano. E Fano sembra Tolentino. Lunghe disamine socio-politiche hanno appurato che queste, si, sono le lande più felici d’Italia: quelle dal tenore di vita altissimo che si lega ad una quantità di servizi invidiabile. La tranquillità e il benessere. Noi a Pesaro ci siamo andati per depositare il babbo tra le braccia di Manu e del piccolo pirata. Ed approfittare per passarcelo anche noi di mano in mano. Una lieta combriccola con tanto di passeggino e bimbo al seguito. Eppure, la proverbiale tranquillità marchigiana – non il semplice silenzio, il viavai senza clamori – è sembrata discretamente, distintamente ostile. Probabilmente in ogni zona d’Italia si sarebbero spostati per non avere niente a che fare con un gruppo nerovestito che avanza scialando. Ma qui anche le informazioni ci arrivano col contagocce. E non senza un discreto fastidio facciale. “Ma dove va un pesarese quando vuole bere una birra?”, “Beh, al bar”, “Si, certo, ma sono tutti chiusi”, “Provate sulla spiaggia”. C’è una spiaggia a Pesaro? Piazza Matteotti invece raccoglie un bel paio di chioschi. A sinistra sparano 3,50 euro per una Moretti grande. A destra, a meno di dieci metri di distanza, ne chiedono 2,50. Ci buttiamo a destra ed osserviamo Mattia col suo pallone rosa, come i tanti genitori presenti fanno coi bambini. Non ho voce e il dibattito risulta fastidioso. Ancora mondo ultras, ancora contraddizioni e stili, al centro della chiacchiera, mentre la fontana al centro della piazza gorgoglia acqua bianca. Andato via il sole, comincia a fare buio. Un lungo struscio fino al furgone, finanche qualche coro. Non ci lascerà una grande impressione, questa città. Abbiamo quattro ore di autostrada da affrontare. È tempo di saluti, alla prossima, ci vediamo a Portogruaro. Senz’altro. La deviazione verso l’autostrada sembra quella di Ravenna, mentre qualcuno la trova più simile a quella di Pistoia. Un altro paio d’anni così e tutta l’Italia sarà paese.

Il Libro