31/05/10

Il tributo

di Lobanowski 2

Domenica 30 maggio, Foggia-Pescina 1-2

Volevate le lacrime. Gli dei imponevano sacrifici umani: un cuore violato sul piatto d’argento. Dopo undici anni tra terza e quarta categoria, all’ennesimo traguardo fallito, come se ce ne fosse ancora bisogno. Divinità ingorde, beffarde, sfacciate.
Non dovevano fare due gol. Non dovevano vincere con due gol di scarto, quelli dell’Avezzano.
E quando 2-0 è stato, il “Vergognatevi!” ha aperto la danza mistica.

In poltrona, in centralissima, dove ben vestiti padri di famiglia se la stavano prendendo coi dodici tifosi abruzzesi presenti e le famiglie dei calciatori, in tanti – tutti, forse – hanno aguzzato lo sguardo, allungandolo verso l’angolo della Sud. Dove la folla premeva e quella porta non cadeva.
“Siiii!”, sono certo abbiano urlato. “Sfasciate tutto!”.
La delega in bianco, la voglia di cedere agli altri l’amaro calice e di veder fare, piuttosto che agire. E giudicare, giudicare, finché non duole la lingua.

Ho visto lo sguardo dei giocatori. Cazzo, se qua si passa dalle vuote minacce alle vie di fatto, siamo fottuti. E attorno il formicaio. Girone B, serie C1. Quello che siamo. Ho visto lo sguardo dell’arbitro, senza la personalità necessaria per intervenire nel dibattito dei fatti. Nel trambusto qualcuno chiedeva di attendere i 20 minuti che ancora mancavano. Poi, nel caso. Io dico: quando la rabbia sfonda gli argini della consuetudine, allora deve scorrere fino in fondo. Perché qui non si tratta di una vittoria o di una sconfitta. Di sconfitte è lastricato il nostro presente. Qui si tratta d’essere scaraventati all’inferno per procura: per mezzo di undici mercenari molli e demotivati, incapaci di un sussulto di dignità, di onorare quella maglia per cui altri fanno sacrifici non retribuiti. Vedere il terrore stamparsi laddove c’era il sorriso distante della circostanza è stato un primo passo. Poi l’arbitro ha fatto ricominciare e, di fatto, ha smesso di arbitrare. E quei pagliacci ci hanno messo una decina di minuti a confezionare il gol che ci ha tenuti in Prima divisione. In C1, in pratica. Girone B. Quello che siamo.

In poltona, in centralissima, ma anche in gradinata e in Sud, si è tornati ad incitare. L’amore è grande, la memoria cede il passo. I ben vestiti padri di famiglia, impegnati ad augurare tumori agli abruzzesi, adesso si stanno rasserenando. Il collo si fa meno rosso, la pressione si quieta. L’arbitro fischia, siamo salvi, si ricompongono. E a sera sono pronti a puntare il dito.

La squadra si è salvata, la curva è retrocessa.
Quello spettacolo indegno, indecoroso.
La curva è lo specchio dell’inciviltà di questa città.

E via di questo passo.

Sono gli stessi che incitano a contestare, a dare una lezione a questo o a quello, come se gli ultras fossero dei sicari a gettoni. E che se non lo fai, se non contesti quello e questo, sono pronti a tacciarti di viltà. O, peggio, di collaborazionismo con la società. Loro si, sanno chi è sul libro paga dei dirigenti.
Quelli che dicono sempre che in altri tempi non era così. Ed è come se inserissero il bancomat nel posse della loro inconcludenza. Per vidimare l’assenza di passato non c’è metodo migliore. Più o meno come quelli che esordiscono “io non sono razzista”. In un passato atemporale e mitologico come le boscaglie di Tolkien, c’erano botte – a cui immancabilmente hanno partecipato in ruoli strategici – e c’era la saggezza. Pane e companatico. Oggi Foggia si è corrotta.
Sono quelli che “lo spettacolo della curva” è fuori discussione. Che prima d’ogni partita guardano le curve come se gli fosse dovuto qualcosa.
Che fanno una Avezzano ogni due anni e riprendono i cori coi telefonini, come se fossero fuori dal villaggio vacanze in Kenya o stessero allungando la fotocamera tra le sbarre del bioparco. E poi caricano il video su You tube. E scrivono che “siamo GRANDI”. E mettono tre/cinque/sette esclamativi. E che come noi non c’è nessuno. E usano l’aggettivo mitico. E danno degli zingari ai loro omologhi pescaresi, dei pesciaioli ai barlettani, dei contadini agli avellinesi.
Sono il tipo che dopo Foggia-Spal mi ha detto “Bruciala quella scarpetta”, che a sua volta è il clone visivo del ciccione che ci chiese di togliere la bandiera dopo Avellino, entrambi nipoti d’indole dei vecchi di “Ancora appesso al Foggia” al ritorno da Ancona. Serie A.

Volubili.

In classe da Capello, poi, si sono raffinati: ostaggio degli ultras, ripetono. Perché lo sentono in tv. Fanno quello che vogliono!, sbraitano. Si credono i padroni. E tutti a fare ramanzine corrette: se quella porta fosse venuta giù, oggi saremmo in C2. O forse peggio. E tutta quella gente della tribuna, non paga d’aver applaudito il Marcianise e l’Andria, avrebbe avuto la scusa adatta per mettere la parola fine sulla noiosa militanza allo Zaccheria. Liberi, finalmente, di restare a casa a godersi i Del Piero, i Ronaldinho, i Milito. Pronti a rimpiangere le mai pervenute famiglie allo stadio mentre insegnano ai loro figli a tuffarsi nella fontana di piazza Cavour per festeggiare il tetto d’Europa dell’Internazionale di Milano.

Volubili e patetici.

Da questa parte della contesa, ho visto esplodere le contraddizioni. Ho visto l’amore passionale, in nessun caso indifferente e abitudinario. Ho visto adulti piangere come bambini, inconsolabili. E ragazzini pronti a sciogliersi in un abbraccio liberatorio. Tra mille sconosciuti. Ho visto la realtà che si spoglia degli orpelli d’occasione. E libera le energie di cui è composta. Il vetro si spacca al punto di massima tensione. Eppure, a guardar bene gli eventi, non sarebbe cambiato niente. Avremmo finito di vedere i Mondiali in tv e in molti sarebbero partiti per il ritiro in Umbia o nel Lazio. Poi il giro di telefonate ci avrebbe comunicato l’esordio. A Milazzo o col Neapolis. E il calendario avrebbe scadenzato i nostri impegni. In C2 come in B. Prima della Coppa Italia di categoria. Del nuovo inizio, come niente fosse. Eppure, Caraccio (il cui nome va ricordato più per il lutto che l’ha colpito subito dopo la partita che non per l’impresa di un gol) è saltato. Sta per colpire. Colpisce. È da ieri che l’immagine mi si ripropone in stato di veglia. Compulsiva, ossessiva, eccola. Quello crossa, Caraccio salta. Colpisce. Colpisce. Io cado.

Gli dei volevano le lacrime.

26/05/10

Non abbassiamo la guardia: libertà per Topazio!

Arroganti coi più deboli e zerbini coi potenti.

Un mese di cella già scontato. Altri due in arrivo. Con poche possibilità d’ottenere quei domiciliari che pare tocchino di diritto a spacciatori ed assassini. Con una procura che interviene solo per chiedere di inasprire ulterioremente la pena. E, subito dopo, l’incertezza, i carichi pendenti, le multe, i cavilli. Ancora giustificazioni da dare, ancora tentativi di arginare, rimandare, sospendere una giustizia punitiva ed assurda. Come se non fossimo già dinanzi al suicidio della logica.

Topazio è stato prelevato in casa da agenti della squadra mobile il 23 aprile scorso con l’accusa di aver saltato una firma durante un precedente SCONTATO periodo di diffida. La sua vicenda è semplice quanto stupefacente. Per accanimento, tempistica, irrazionalità. Colpito da daspo nel gennaio del 2003 (nel gennaio 2003 esisteva ancora la Jugoslavia, per intenderci!), individuato come soggetto pericoloso, istigatore, violento, sconta 2 anni con obbligo di firma a cui si aggiunge un altro anno e mezzo per complicanze burocratiche e – badate bene! – uno di diffida PREVENTIVA. Anni, stagioni calcistiche e meteorologiche, passate in questura a firmare. Campionato, coppa e certe amichevoli. Non c’è bisogno di un genio per comprendere che tutto questo basta a stravolgere le abitudini di una vita. Eppure i colpevolisti – plasmati da anni di chiacchiere televisive sulla pericolosità degli ultras – non sono soddisfatti ed incalzano con la solita domanda su cosa abbia fatto di così grave nella partita con l’Andria di quel lontano 2003. Rispondiamo, senza tema di smentita: NIENTE. Non ha fatto proprio niente. Non ha estorto denaro a bisognosi commercianti, non ha trafficato in opere d’arte, non ha depositato in Svizzera il denaro di ingenui investitori, non ha truffato i telespettatori. Men che meno ha ucciso, stuprato, rapinato. Certo, ha ballato con il reparto celere la solita quadriglia a distanza. Nessun ferito e qualche bel ricordo. Moralmente opinabile, certo, ma neppure il più accanito tra i benpensanti sarebbe in grado di giustificare una pena così lunga (7 anni di attenzione). E, peggio ancora, l’aggravio della stessa con la richiesta del carcere. La voglia famelica di magistrati e procuratori, che con tocco impersonale chiedono altri mesi, altri anni, altri euro.

L’impressione – fondata sui fatti – è quella di essere entrati in un meccanismo che si autoalimenta, nel girello dei criceti. Topazio è un criminale. Lo dicono i fatti, dicono magistrati e giornali. Topazio è uno che se l’è cercata, dicono in tanti, troppi, che non lo conoscono ma si ergono a giudici. Topazio è un ultras, diciamo noi. Uno di noi, un fratello dei nostri. Quel che è capitato a lui poteva, potrebbe capitare ad ognuno di noi. E, per come la vediamo noi, il computo delle responsabilità non può che posticiparsi dinanzi al senso d’appartenenza. L’urlo prende forma senza bisogno di motivazioni pratiche, al solo pensiero di veder sottrarre mesi di libertà, di vita, ad un ragazzo di 30 anni. È capacità d’indignazione, senso della misura, percezione dell’ingiustizia. Delle firme saltate non ce ne frega granché. La società nel suo complesso, lo stiamo constatando in queste settimane, non ci sembra particolarmente defraudata. Eppure l’ultras Topazio paga fino in fondo, subendo uno zelo degno di miglior causa. E sia! Ma ogni giorno di cella è un mattone d’infamia, e alla fine solo gli imbecilli potranno far finta di non vedere.

TOPAZIO UNO DI NOI
TOPAZIO LIBERO
LIBERTA’ PER GLI ULTRA’


Ciurma Nemica – Foggia

Noi, attraverso la solidarietà, vogliamo far sentire a Topazio la nostra complice vicinanza. In carcere una lettera, una foto, una rivista, fanno la differenza. Per qualsiasi messaggio da inoltrare, per qualsiasi informazione, potete contattarci all’indirizzo email: topaziolibero@email.it

24/05/10

Pedagogia e pasquette

di Lobanowski 2

Sabato 22 maggio, Pedagogia

Sabato sera di maggio, diretta Rai, tetto d’Europa. E questa città si scopre interista. Come nel recentissimo passato era stata juventina, milanista, romanista, laziale. Finanche un po’ doriana, agli inizi dei Novanta. Senza dimenticare l’infatuazione borbonica per il Napoli, ai tempi di Giordano, Careca e Stoccarda. Il carro del vincitore sta passando da corso Roma a clacson spiegati; da corso Giannone bandiere al vento; da corso Vittorio Emanuele contromano; si tuffa in piazza Cavour. I ritardatari, quelli che sono diventati interisti al primo gol di Milito, quelli che hanno sciolto le riserve solo al secondo, devono affrettarsi. Ma se si sbrigano, saranno accolti come tutti gli altri. L’opportunismo non ha bisogno di facce conosciute, di file per il ticket. È una democrazia malata. I ragazzini gridano Siamo campioni d’Europa. Sfottono i milanisti che non hanno mai visto, deridono i romanisti. Li guardo. Resto impassibile ma non mi capacito. Sono ragazzini, e questo per me è più grave d’ogni aggettivazione forzata. Perché – per come vedo io le cose – implica un vuoto genitoriale. Quattordici anni e stare sotto alla fontana a festeggiare una gioia virtuale. Vuol dire che nessun padre premuroso ed attento al futuro dei propri pargoli li ha mai presi per mano e trascinati – anche controvoglia – davanti ai cencelli dello Zaccheria, a gridare “Aprite le porte!”. Nessuno li ha accompagnati al chiosco sotto la Sud chiedendo: “Che vuoi, a papà… La Coca cola o l’aranciata?”. Nessuno gli ha fatto salire i gradoni di uno stadio vero, di erba e sangue. FLASHBACK. Gli occhi del bambino vedono quel rettangolo e s’incantano. Il bambino ci ritorna quattordici giorni dopo e già dice: “Ci mettiamo al posto dell’altra volta?”. Perché una tradizione è già nata. Una nuova di zecca. In famiglia c’è un erede, che i cannoni lo annuncino al popolo. Le squadre entrano tra gli applausi e i cori. E papà si avvicina con la faccia alla mia e punta l’indice su quei ragazzi in fila. Che al momento sembra non sia successo niente. Invece è lì che è successo tutto. E la prima maglia bianca, “Chi sono i nostri?”, e il primo gol, il primo abbraccio vero. Lo stadio, la maglia, la città. Nessuno che all’uscita gli ha spiegato che la squadra si critica, ma la maglia no, che se avevi talento facevi l’allenatore e invece qualcosa mi dice che non lo sarai mai. Che nessun calciatore, preparatore, ct o dt ci sottrarrà coi suoi allentanti miliardi alla vita sana del mito working class.
Nessuno gli ha spiegato che esiste un solo amore. Che il calcio è campo emotivo segnato dalla monogamia più integralista. Che, come provo a spiegare ad Ilaria ed Antonella mentre ci sfrecciano attorno macchine imbandierate di nuova fede, non vale l’esempio della moglie mora e dell’amante bionda. La squadra che scegli è un odore infantile. Di solito è il tabacco del palmo della mano di tuo padre che aveva all’epoca l’età che ho io adesso ma sembrava oltremisura adulto. E il dopobarba Denim, e quello strano sapore che hanno il cemento della curva e il fumo che sale. È la mamma, quella maglietta. Non una sposa, non un’avventura, men che meno una escort, una puttana da quattro soldi, da svendere al primo trafficante di carne umana. Ma come spiegarlo a questi due gruppi di quindicenni che si fronteggiano chiedendosi se sia più forte il Principe o “capitan” Zanetti. Non sono mica un addetto ai servizi sociali io e, per giunta, detesto il volontariato e la filantropia. Non tocca certo a me sopperire all’assenza di genitori con le palle, che non hanno saputo o voluto spiegare a sti stronzi coi capelli da stronzi che la squadra non si sceglie, che alla squadra si è assegnati, e che nella vita stare sempre con chi vince fa della vita stessa una fottutissima playstation dove sotto di due reti spegni e riaccendi. Sarai il videogame che giochi, cazzone! Ma per me non esisti.

L’ultima pasquetta

Mentre il furgone riporta la ciurma nel mare…
Occhi crepati ma di sonno non ce n’è…
Bella questa! Alza, alza! (Vutt’ Topà)

Avezzano, domenica 23 maggio, Pescina-Foggia 1-2


E la seconda squadra? Conciliare due amori, possedere due madri? Casi limite, da cavillo giurisprudenziale. “Io ho capito benissimo quel che pensi, Francé – fa Angelo dal sedile posteriore – ma è difficile da spiegare”. Lo sguardo si perde fuori dai finestrini. Sulla destra sono alberi, cespugli, a fitta schiera. In lontananza, i monti. Simbruini, sta scritto sul pezzo di cartina che abbiamo, quello scampato alle continue consultazioni. Simbruini. Tre stelle di povertà. Seguiamo il Giro, tagliamo Molise e Abruzzo. Soli soletti, ma a volte è meglio così. Vogliamo godercela, quest’ultima imprevista trasferta, che è stato già una benedizione poterla fare. Ci siamo fermati poco fa, sul ciglio di una statale. Lello, nell’altra macchina, ha un breviario stradale migliore del nostro, si vocifera nell’ambiente. Salire per Roccaraso sarebbe folkloristico, senz’altro. Ma il nostro anticipo non è poi così sostanzioso. Meglio ripiegare. Venafro, che fa strano anche a dirlo. Ci manchiamo da Terni, ma non ci fermiamo. L’abbiamo detto, o così pare. Personalmente mi sento d’essere stato chiaro: “Saltiamo Venafro e saliamo per Sora, ci fermiamo al primo paesello”. Sembravano tutti d’accordo. Sembravano. A Cassino siamo costretti a far intervenire il giudice di pace. Telefonicamente, come nella pubblicità di Bisio. Scrosci di pioggia salutano la tensione. Mancano 25 km a Sora. Decidiamo di fermarci per litigare per bene. Ad Atina-Centro storico piove proprio e i bar sono chiusi. Due anziani si godono la frescura, l’umidità entra nelle ossa e le ossa ringraziano. Il Conte mi accusa di volerlo uccidere per fame. Cosa aveva chiesto, del resto? Un semplice panino, giacché non sempre è vero che I panin ci face mammà. Mattia, affamato e sbraitante, si unisce alla fronda. Il mio dispotismo è sotto accusa. I vecchi reumatici ci indicano un bar in fondo ad una stradina a scendere, “dopo l’ospedale”, che in centro “aprono alle tre”. Un tipo dall’improbabile accento napoletano ci affianca per dirci che sta andando a vedere la partita del Foggia. Riceve i nostri più vivi complimenti e prosegue. Camminiamo sotto la pioggia. L’ospedale non c’è, o se l’abbiamo passato dev’essere una specie di bed&breakfast. Una bandiera dell’Inter ad un balcone. “Non dirglielo a Mattia”, mi fa Lello. Non ci penso proprio. E qui, sulla sinistra, si spalanca il bar. E con esso, il nostro cuore palpitante d’astinenza. Vetri fumè, forse neri. San Marco, c’è scritto in alto. Caratteri da liberty, sembra Parenti serpenti. Cartellonistica all’insegna del gelato passato di moda all’urlo di Tardelli. Poggio le mani, spio dentro. Un nonno sta guardando Pianeta mare a Rete 4. Non ho ancora capito se mi piace Tessa Gelisio, ma propendo per il si. La nonna sta liberando il bancone. E il bancone si intuisce. Perché il bar San Marco è un bazar per viaggiatori nello spazio e nel tempo: caffè, amari abruzzesi, modernariato in fatto di snack, certo. Ma anche, e forse soprattutto, schiuma da barba, carretti siciliani, pelouche, krapfen sommerse da modellini Bburago. “Siete qui per il Bambin Gesù?”, mi chiede la nonna. “In un certo senso”. Fuori piove. Tutti schierati sotto il balcone. Giuseppe contratta la solita bottiglia di Borghetti. Si risale. La superstrada per Avezzano ci tiene compagnia per altri quaranta minuti. Ne abbiamo 45 di vantaggio sul fischio d’inizio.

“Si parcheggi qua”, dice il pizzardone. E con la sinistra indica, nell’ordine, un vicolo, un muro, un marciapiede, una chiesa. Un qualcosa. “Qua dove?”, prova ad aiutarlo Giuseppe. “Qua”, ripete quello. Ok. C’è il carcere. Pare sia chiuso, ma fa sempre un brutto effetto. Enzo è dentro da un mese, a Foggia, dove invece il penitenziario è in piena attività. Nel parcheggio del settore ospiti parliamo di lui, della sua storia kafkiana. La sua pena esemplare per una firma saltata. Ci raggiunge la “sezione” romana. Dall’interno dell’impianto le casse ci rifilano una complilation di balli di gruppo. La C2 mi alita sul collo. Respingo il pensiero. Sarà l’istinto libertario dell’essere umano, ma qui tutti pisciano sul muretto di cinta della casa circondariale. Pare che per Enzo ci sia una serata in programma in quel di Roma. Magari, pensiamo e diciamo. E poi è tutto un riepilogare sentenze, procedimenti in sospeso, carichi pendenti. Per oggi abbiamo un due aste. Topazio libero, c’è scritto. È la sintesi estrema di quanto pensiamo, speriamo, vogliamo. Un agente in borghese ci consiglia di entrare, che il pullman è in ritardo. “Grazie, aspettiamo ancora un po’”. Qualche caso di etilismo ci cade sotto gli occhi. Siamo in tanti, oggi. In molti hanno atteso questo evento per farsi una pasquetta come si deve. Mattia è benevolo con tutti: “Da, ma perché devi sempre fare le paranoie a tutti?”. È vero, in fondo è un gioco: un gioco il calcio, un gioco la curva. Ma l’uomo non è mai così terribilmente serio come quando gioca, diceva qualcuno. Io, per quel che può contare, condivido. Poco alla volta entrano tutti. Dall’alto del nostro settore vediamo pose plastiche atteggiate in un coro. Entriamo anche noi. Ci piazziamo al centro. Fa un bell’effetto quell’assembramento. Si sorvoli sul resto. C’è da attaccare la pezza. La partita è iniziata. Noi siamo qua sempre con te. Forse è meglio attendere anche l’arrivo del pullman. Unica fede in tutto il mondo intero. Primo gradino, in faccia alle pezze. Secondo, terzo, quarto, quinto, in faccia ad un vetro che è fumè come quello del bar. Sulla sommità, una corona acuminata, come quella che serve a scacciare i piccioni dalle grondaie, dai sottotetti. Anche volendo, stavolta, alla partita non si può neppure gettare un’occhiata distratta. Il primo tempo è nebulosa, è ameba. È una sensazione fantastica. Stai chiuso in un box lungo e stretto, fissi i tuoi colori appesi, e canti mentre percepisci che oltre quei colori qualcuno sta giocando. O, peggio, i tuoi stanno persino vincendo. Saranno passati tre o quattro minuti da quando siamo entrati. Abbiamo appena finito di sistemare tutto, che il boato del gooooool ci fa capire che ci siamo persi qualcosa. 1 a 0 per noi. Mi emancipo al secondo gradone. È uguale al primo. Uno sguardo alla curva di casa. Sono pochi, ma sembrano volenterosi. Non ho capito bene quale sia la questione in ballo tra avezzanesi e Pescina. Mi concentro sul due aste, sulle bandiere, sui cori. Si suda. Adesso fa caldo. Un caldo umido. Non succede niente. O, almeno, così sembra. In realtà il Pescina prende una traversa e il Foggia fa il 2 a 0. L’esultanza parte dall’alto, dove vedono finanche il terreno di gioco, e contagia per pura credulità. Potrebbero esultare ogni cinque minuti, noi ce la berremmo. Come Fantozzi durante la Corazzata Potemkin. Scendiamo a piazzare la pezza, e scopriamo che sotto il vetro c’è un reticolato dove la partita si vede in hd, se solo ci si accontenta del punto d’osservazione dal manto e se non si hanno problemi a restare sdraiati a terra. Giuseppe vede Birindelli passare. “Ti sei fatto vecchio!”. I cantastorie del mondo di sopra ci raccontano che siamo in dieci. O loro sono in dieci. Boh. Cantiamo. In almeno due occasioni il picco è alto, altissimo. Angelo e Antonio mi guardano: non è bello così. Vorrebbero stare sotto 2-0, vorrebbero soffrire come cani, è per quel senso di stocismo che viaggiano. Altro che carro del vincitore. Altro che gli interisti a piazza Cavour. È di simili malati mentali che abbiamo bisogno! Soffrire e appartenere! Questo chiediamo! Invece il primo tempo finisce in gloria. Futile banale gloria. All’intervallo si parla ancora di giurisprudenza. Nella ripresa, spinto dagli elementi, emergo fino a vedere la fascia lontana. Una striscia di campo. Bella storia. I canti sono alti e sembra persino che nell’altra curva (anche se noi in realtà siamo in gradinata) abbiano smesso. Ma forse è impressione. A giudizio di chi la partita l’ha vista, il Foggia disputa un secondo tempo orrendo, senza palle, senza carattere. Prende un gol, rischia un rigore, poi fallisce il terzo. Un ragazzo vola dai piani alti e si fa male. Sviene, o così sembra. Si chiama l’ambulanza, e c’è bisogno di invadere il campo per convincere l’arbitro a tornare negli spogliatoi a comunicare agli infermieri di darsi una mossa. In caso di infarto non si sarebbe salvato, penso mentre guardo i due poliziotti venire verso il settore. Fossi un idealista, aggiungerei: a cosa servono, dunque, i costi dei biglietti sempre più esosi che paghiamo per bazzicare campi sportivi sempre più indecorosi? E a cosa servono tutte quelle leggi restrittive che ciarlano di tornelli, steward, prefiltraggi, controlli, schedature, modello inglese e famiglie allo stadio quando un ragazzo rischia le pelle e non trova supporto se non dai suoi compagni di curva che hanno qualche nozione di pronto soccorso? Una carica sarebbe partita in un niente. E sia. Poi la partita finisce e la squadra viene sotto il settore. Meritiamo di più, cantiamo. Ed è vero, verissimo. I giocatori si guardano. Penso ci giudichino schizofrenici. Ma loro non sono noi. E noi non siamo loro. Per fortuna.

“Forza Foggia!” (una signora di Avezzano sull’uscio di un basso)

12/05/10

L'Attacco...

05/05/10

"Juve o Milan? Meglio il Foggia" - Nuova edizione



Nuova copertina, nuovo editore, due capitoli inediti


JUVE O MILAN? MEGLIO IL FOGGIA
Collettivo Lobanowski

Darwin Pastorin
Dimensione: 15x21
Num. Pag. 232
Prezzo: Euro 14,00
ISBN: 978-88-96184-25-7
Immagini: fotografie b/n

Dall’odore acre dei lacrimogeni di Foggia-Varese al catenaccio irriducibile di Pino Caramanno, in quella C1 che sembrava una B2. Dalle speranze di Pippo Marchioro alle scope Pippo nella notte della promozione in B. Dall’Argentina ‘78 alla Real Cosmos. Dai lampi zemaniani alla saggezza di “zio” Tarcisio Burgnich. Fino al sinistro di Rivaldo al “Partenio”, all’esodo dello “Zini”, alle lacrime del “Santa Colomba”. Racconti d’epoca sulla passione per il rito del calcio e l’amore, più o meno clandestino, per una maglia: quella rossonera. E sull’importanza di non cedere all’evidenza. Personalissime storie di calcio privato in cui molti si rivedranno, loro malgrado.
Nell’aprile del 2001, Dennis Tito, miliardario californiano, è volato verso la luna realizzando così il suo sogno: essere il primo turista spaziale della storia dell’umanità. Noi sulla luna ci siamo andati dozzine di volte prima di lui: quando Bresciani bucò Peruzzi e spezzò le ginocchia alla Juventus. Quando Barone fece passare quel pallone più in alto della barriera, in quella primavera trapanese del 1989. Finanche quando Matrone e Di Michele espugnarono il “San Nicola”. La nostra Soyuz è sempre stata il Foggia. Noi sulla luna ci siamo già stati. E ci torneremo. Questo è certo.

“... Il genere calcistico-letterario imperversa nelle librerie, ma, a mio avviso, mancano le novità, le voci nuove, il libro capace di sorprenderti. è facile, piuttosto, trovare il “già letto” ...Ero pronto a rassegnarmi ai tempi e alle mode, in attesa di un miracolo. Di una lettura, di nuovo, capace di sorprendermi. Ed eccola arrivare. Grazie agli autori del “Collettivo Lobanowski” e al loro folgorante lavoro: “Juve o Milan? Meglio il Foggia” ... Con una prosa incalzante, dove, una riga dopo l’altra possiamo trovare un centrocampista, un presidente americano, un famoso telecronista, una cantante alla moda, una ragazza dagli occhi belli, un compagno di banco. Ci voleva, almeno per me, questa boccata di aria pura e nuova. Ci voleva un romanzo così. Ci voleva, per davvero. E in certe sere di mezza luna, confortato dal miagolare dei gatti, leggerò alcune parti del libro all’amico che mi sta sempre al fianco, a quell’argentino capace di mettere insieme Stanlio e Ollio, Obdulio Varela e il figlio di Butch Cassidy: al mio Osvaldo Soriano.
dalla prefazione di Darwin Pastorin


Note sull'Autore: Il Collettivo Lobanowski è un libero patto tra pari che ha scelto l’anonimato perché quel che conta sono le storie. E le storie, quando sono valide, vanno collettivizzate. Appartengono a tutti.

A Foggia si può trovare nelle seguenti librerie: Alfieri, Dante, Sentieri Meridiani, Ubik, Patierno, Universitaria, Universo. A Lucera: Catapano. A Manfredonia: Centofiori, Equilibri, Cartolibreria Tuppi. A San Severo: Notarangelo, Orsa minore. Trinitapoli: Cogito ergo sum. Vieste: Disanti.

Il Libro