30/08/10

Ragazzi fuori

Vasto, domenica 29 agosto, Foggia-Lucchese 2-3

Anche lì dove sei ora ti immaginiamo così, con gli occhi sognanti e le braccia al cielo.

La macchina ha sete, Enzo ha fame. L’autogrill prende forma come un’oasi. Il benzinaio ci saluta con solerte cordialità. Chiede di zio Zeman – come se l’avessimo scritto in faccia – appura se lo si vede in giro per la bomboniera, se ha preso casa in affitto, dove compra le sigarette e se ha il contratto ad equo canone. Giuseppe risponde come il coro di una tragedia greca. Poi, a quanto pare, dall’ingresso sfila una dea balneare. L’insolito silenzio stupefatto dell’intero impianto non mi distoglie dalle manopole dello stereo e, in soldoni, me la perdo. Enzo ritorna senza il suo tramezzino, ma egualmente soddisfatto. Il benzinaio riaggancia la pompa al distributore e ci saluta con un vivace vaticinio: “Ragazzi, forza il Foggia e forza il cianno!”. Nel secondo caso, lascia aperti dubbi su un’eventuale istigazione allo stupro che non farebbe onore alla sua stazza da omone gentile. Di nuovo in carreggiata, rinfrancati. La musica riprende possesso dell’abitacolo. Cristina D’Avena, Ciurma! Andiamo tutti all’arrembaggio, “Bella, alza”; Max Pezzali e i suoi cumuli di roba e di spade, “Finalmente!”; Loredana Bertè E la luna bussò, “Finalmente!”. I Matia Bazar. Niente. Ci avviciniamo. Partita a porte chiuse e in campo neutro. Il primo provvedimento è “colpa” di quei “facinorosi” che tentarono l’invasione di campo contro il Pescina, nel ritorno play-out. Quelli che spaventarono l’arbitro fino a fargli ingoiare il fischietto, che all’epoca – nel tardo evo medio degli otto soci e di Ugolotti – furono osannati dalla piazza come salvatori della patria e che oggi, nel Rinascimento Zemanian-casilliano, sono tornati al naturale status di vandali da isolare, raccomandati che hanno strappato ai bravi tifosi – quelli “veri” di cui parla Maroni – la gioia di gustarsi due belle partite casalinghe. Sic transit gloria mundi. E lasciamo perdere che tanto i buoni non le avrebbero viste comunque allo Zaccheria, le due partite, perché il manto erboso è stato arso dal mega-palco e dal pubblico del concerto di Ramazzotti. “Foggia capitale del calcio e della musica”, titolò qualcuno all’epoca dello scempio. Ab uno disce omnis.

Stavolta proviamo Vasto Nord. In fondo, le uscite autostradali sono come le caramelle alla frutta. Vanno assaggiate e comparate continuamente. Immancabilmente, si rivela un chiovo. C’è da ripiegare a gomito lungo 14 chilometri di statale per arrivare ad un centro che appare quanto meno aleatorio. Manca anche il mare. Meglio Vasto Sud. Poi, all’improvviso, una tribuna arabeggiante ci lascia intendere d’essere arrivati. Parcheggiamo. Manca un’ora al via. Abbiamo tutto il tempo di trovare un bar fornito e poco costoso. Magari prima ci concediamo un salto ai cancelli della curva, da dove entreranno gli accreditati. Una svolta, e il cuore ci si riempie di giubilo: tra giornalisti, cameraman, tecnici, aiuti tecnici, fotografi, commentatori ed esperti, c’è una moltitudine formicolante, pulsante di rinnovato entusiasmo. È confortante sapere che l’Unione Sportiva potrà contare sempre su questo zoccolo duro di affezionati pulitori del mare. In fondo, sono lo specchio e l’anima del nostro affascinante sistema meritocratico. Tra di loro ci sono talenti eccelsi: c’è gente che sa accendere un computer, battere a macchina, finanche digitare indirizzi di siti internet. Roba mica da ridere. Li guardiamo muoversi verso le transenne e l’ingresso, e penso che in fondo siano anche pochi. Pochi, per essere il fiore della nazione. Tiriamo dritto verso un bar-tabacchi già sperimentato col Giulianova. Tra gli accreditati c’è chi ci guarda con una certa incuriosita sufficienza. Probabilmente credono che siamo qui per tentare un’imbucata, o per mendicare un ingresso a sbafo. Guai a dire al topo che il formaggio può non essere attraente! Noi puntiamo solo a 4 Peroni grandi e scaliamo la salita. Una pattuglia della volante annuncia e precede il pullman della Lucchese. “Tre ve ne prendete”, è il gesto mimato con le dita. I giocatori, cuffie nelle orecchie, lo scambiano per un saluto nazionalista ortodosso. Basiscono. Anche noi, quando la saracinesca del bar ci accoglie chiusa a doppia mandata. Comincia l’odissea. Circumnavighiamo gli isolati come turisti giapponesi a Ferragosto. I poliziotti ci guardano. Vorrebbero chiederci: “Ma che cazzo cercate?”, ma sono timidi e introversi, e finiscono col tenersi il dubbio dentro. E il dubbio li corrode finché, alle 16 in punto, dalla piazza non ascendono all’impianto le altre macchine e i furgoni. “Ma quante ne dovete giocare qui a Vasto?”, esternano con malcelato disappunto. “E dovete venire per forza?”. Per forza: il Foggia è una specie di reliquia, ed oggi fa bella mostra di se in una chiesa chiusa al pubblico (ed aperta ai soli ministri del culto). Ma questo non deve distoglierci dal nostro impegno di fedeli pellegrini.

Una quarantina. Ci disponiamo sotto un muro. Lo striscione recita Ci siamo ma non ci tesseriamo. Cantiamo Ma che bello è stare insieme a te, tesserati mai, tesserati mai, sempre in mezzo ai guai. E dalla villa, dall’ingresso di curva, fanno capolino teste incuriosite. Diventiamo l’attrazione, lo spettacolo vero. Così è sempre stato, la strada non fa che amplificare la nostra meravigliosa anomalia. Passiamo il posto di blocco per rifornirci di birre. È stato segnalato un gelataio dalla preziosa scorta di 0,66 a 2 euro. Prezzo competitivo per la riviera. Ma prima di giungere al suo esercizio, i nostri occhi si riempiono di strazio e pena: con la faccia tipica dei profughi, le loro povere cose tra le braccia, i bambini tenuti per mano, una quindicina di buoni tifosi è appena stata rastrellata dalla Gestapo in una soffitta del palazzone prospiciente lo stadio. Avevano tentato la fortuna giocando con la sorte. Pensavano forse di raggiungere il terrazzo e godersi un pomeriggio di calcio giocato nonostante i divieti. Invece, forse una crudele soffiata degli ariani condomini, forse il fiuto delle guardie, ha infranto i loro sogni. “Dove li porteranno, adesso?”, ci si chiede costernati. “E chi lo sa”. Birkenau, o forse Dachau. Preghiamo per loro, mentre altri miliziani sbucano dai cortili e dagli altri accessi al palazzone. Mancano i cani. È in corso un rastrellamento. Niente di strano, la deportazione è la spina dorsale del calcio moderno. Proviamo a dimenticare (anche se i loro sguardi ci restano in mente) e omaggiamo il gelataio. Un avventore ci mette in guardia: “Dovete essere sportivi: mai confondere una partita con le botte”. Giusto. Partita con partita. Botte con botte. Torniamo ai nostri cori. Non si levano fiamme dagli attici, dalle scalinate, dai cantieri. Probabilmente la sete di sangue dei rastrellatori s’è placata con la semplice deportazione. Alè, alè, alè il Foggia alè.

Dall’interno s’alzano mormorii. I nostri seri professionisti patentati fanno partire anche qualche “Forza Foggia”, giusto per far capire ai colleghi lucchesi chi è che comanda. Perdono parte di quello smalto che concede l’accredito, certo, ma quello non è mai stato troppo. E neppure sufficiente. Partono telefonate. Girano voci incontrollate. Noi eseguiamo il repertorio, ci divertiamo. Un bambino ci fissa sorridente e se la ride proprio di gusto quando gli facciamo sapere che Rispettiamo solo i pompieri. Alza lo sguardo sul papà che ricambia. Alcune ragazzine sorridono, i ragazzini che le accompagnano sono costretti a seguire i cori per dimostrare chissà che. Evidentemente non siamo mostri inavvicinabili. Qualche elemento s’aggiunge al gruppo e canta, finalmente disinibito nonostante l’apparente nonsense di gridare a squarciagola contro un muro di cinta. Forza Foggia, Vinci per noi. Il coro secco esplode sul muro del palazzo. Esplosione controllata, eco di rimando. Bello. Poi un boato di delusione, i telefonini che trillano o eseguono mazurke e wakawaka, un tale che si affaccia al parapetto, annunciano il vantaggio ospite. Fa niente. Di questa partitella non ce ne frega un cazzo. E puntuale giunge il 2-0. Ok, ci siamo. Bentornato Zeman. Antonio mi chiama. Sento tra i sobbalzi e le urla: “La Lucchese meritava di farne anche di più… il fuorigioco a centrocampo… non si difendono”. Bentornato Zeman. Non si fanno drammi, e ci mancherebbe. Tra tessere e spaccature, abbiamo ben altri problemi. Qualcuno pensa finanche che una bella sconfitta potrebbe bloccare questo delirio di nuova affezione, sbarrare l’accesso ai fedeli dell’ultimo momento. Ma non certo perché vogliamo rimanere soli: noi siamo quel che siamo, aldilà del numero. Però cantare davanti ad un muro non è la stessa cosa, se ci fai l’abitudine. Quindi: meno abbonati, meno tessere. Male non può fare. Nella ripresa il nostro copione non cambia. Forza vecchio cuore rossonero scoppia nell’aria. Sembra, dalla partecipazione dei nostri esperti, che il Foggia stia attaccando all’arma bianca. La polizia smette di muovere su e giù le proprie volanti, si blocca in un angolo, non teme più colpi di testa: di questa partitella, d’altronde… Si fuma, si canta, si beve. Il Foggia segna, poi segna ancora. L’esultanza in strada è un momento da incorniciare. Tornano le voci incontrollate: stiamo dominando, fallendo l’impossibile. “Ma tu che ne sai?”, “Lo so, lo so”, e strizza l’occhio malamente come a sottolineare i suoi superpoteri. Bah. Fatto sta che a pochi dalla fine la Lucchese si impone, di misura e su rigore. E buona parte della Foggia “sportiva” si schianta sulla dura terra: “Ma dove volete che andiamo con questa squadra?”. Facile: Senza tessera, ovunque ti seguirem, ovunque ti sosterrem, senza tessera.

28/08/10

CHI CI SCHEDA NON CI MERITA (reprise)

Noi siamo quelli che partono.
Che con la squadra ultima in classifica macinano le autostrade e le statali d'Italia, nel nome di una passione. Quelli degli striscioni, quelli dei cori che durano venti minuti, quelli a petto nudo sotto il diluvio. Quelli diffidati per aver acceso una torcia, quelli che pagano cara una giustizia sbilanciata e senza logica. Siamo il colore, il cuore, l'anima di uno sport che ha smarrito se stesso.
Quelli stritolati dai media, mostrificati dai giornali, sbattuti in prima pagina senza controprove e senza riguardi. Quelli che rischiano e cadono senza teli protettivi, senza ammortizzatori.
La prima inquadratura d'ogni derby, il vero prezzo del biglietto, la sostanza degli spalti.
Quelli che cantano con la squadra sotto di 4 reti, quelli che non perdono la vita a scrivere biografie di mercenari, che amano la maglia su ogni altra cosa, che non dipendono dai risultati.
Quelli che ci sono, quelli che ci sono sempre stati.
Un grido di libertà che si fa comunità d'intenti.
Ogni maledetta domenica.
Non siamo il nemico pubblico n.1, anche se è questo quel che raccontano.
Siamo quelli che danno ancora un senso umano a questo spettacolo di lustrini e luci della ribalta, di televisioni e divieti. Siamo quelli dei gruppi, i cani sciolti, i liberi pensieri, che dividono il sonno in un furgone, che occupano gli scompartimenti, che non conoscono stanchezza.
Siamo quelli che non restano seduti. Né sulle tribune, né sui divani.
Il ministro Maroni – e non è il solo – ci vede come l'unico male in un calcio fatto di tanti stadi vuoti e di poche tasche piene, di speculazioni e di diritti tv, di grandi schermi e società fallite.
Ci accetterebbe, ci accetterebbero, se accettassimo di diventare consumatori. Utenti, semplici comparse numerate, schedate, iper-controllate, obbedienti. Ci accetterebbero se ci decidessimo a versare i nostri soldi sulle loro carte di credito prepagate, a fare la fortuna di qualche banca in debito d'ossigeno. A rilasciare i nostri dati alle questure, a farci identificare, analizzare, vivisezionare; a sottoporre le nostre biografie al vaglio dei prefetti, ingoiando di buon grado che qualche nostro fratello diffidato non possa mai più mettere piede in uno stadio. Nel nome di una sicurezza che è solo un paravento per idioti.
Ma siamo noi che non accettiamo.
Oggi anche a Foggia ci chiedono di scendere a patti: o la tessera o niente abbonamento, ci dicono; o la tessera o nessuna trasferta, ribadiscono.
I ricatti non ci sono mai piaciuti.
NON CI ADEGUEREMO E A TUTTI QUELLI CHE ANCORA CREDONO CHE LA PASSIONE POSSA ESSERE PIU' FORTE DEL DENARO E DELLA REPRESSIONE, CHIEDIAMO UNO SFORZO DI DIGNITA': RINUNCIARE AD ABBONARSI, CONTRIBUIRE A FAR FALLIRE UN PROGETTO LIBERTICIDA UNICO IN EUROPA. Una misura talmente delirante che ha spinto finanche uno come Platini a definirla "una schedatura di massa".
E se ancora non vi è chiaro il concetto, provate ad immaginare stadi silenziosi come uno studio televisivo, con 20 telecamere, prefiltraggi, tornelli, 150 steward, e zero socializzazione, zero passione, zero colore. Perché è questo che accettereste, questo che perdereste. Ne vale la pena?

NESSUN ABBONAMENTO - NO ALLA TESSERA DEL TIFOSO


Alcuni Tipi

Non pensarci

Mercoledì 25 agosto, Fano-Foggia 1-2

Facciamo così. Questo sarà un pezzo sdolcinato, probabilmente triste, a tratti malinconico come certi quadri impressionisti col tramonto, i fiorellini bianchi e gli stagni. Ma in un momento come questo, proprio non mi riesce di fare meglio. Accontentiamoci.

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L’altra sera Francesco, che non segue, non sa e di solito non vuol sapere nulla di questi fantasmagorici “mondi paralleli” mi ha chiesto, in sostanza, cosa realmente spinga – in un calcio fatto di veleni, televisioni, repressione, interessi e collusioni – a fare gruppo e andare lì dove ti porta il cuore. Senza possibilità di smentita, ho risposto che è il gruppo stesso. Certo, il Foggia, l’Unione Sportiva 1920. Nessun dubbio: ero tifoso dei Rossoneri prima di essere qualsiasi altra cosa. Ma c’è un’alchimia strana, una specie di adrenalina da banda, che si autoalimenta a chilometri e compagnia. È lo scarto, il volano, la differenza sostanziale. E qui non c’entrano i discorsi su quanto di puro sia rimasto in un mondo corrotto o baggianate simili. È la verità, comunque la si voglia intendere.

Umberto è del 1994. Io non ci voglio neppure pensare a cosa facevo nel ‘94. Mi stavo per diplomare, sentivo le posse, occupavo scuola. La compilation da trasferta corre sull’asfalto. Walter il mago è del 1993, Sogni di rock and roll del ‘91. Tango forse dell’85. Non ci voglio pensare. È la sua prima trasferta in gruppo. Il sole brucia la A14, direzione Nord. Qualche accenno di incolonnamento da rientro, ma tutto sommato si marcia spediti. Fano potrebbe essere l’ultima, dice qualcuno. E il pensiero va ricacciato giù, in fondo. Nella stiva dell’anima. Non si riesce a vivere se ci si concentra sulla morte, e la natura fa il suo corso. Millenni di esperienza umana dimostrano che si alzano piramidi e cattedrali gotiche nonostante la fine sia garantita per tutti. Va bene così. Ci vieteranno Lanciano per inspiegabili questioni d’ordine pubblico, poi blinderanno Barletta e Castellammare. Scorrendo il calendario, se tutto va per il meglio, torneremo a viaggiare il 10 ottobre, in direzione Gela, Sicilia. A meno che non si passi il turno in Coppa. Calcoli, combinazioni, incastri. Vivere la propria passione sta diventando un Risiko su vasta scala. Ma bisogna non pensarci, abbiamo detto: Umberto, alla sua prima trasferta, non merita de profundis. E allora la storia è la solita: strada, Borghetti, sigarette, musica. L’ingresso nel paese, l’arrivo allo stadio, le sciarpe enormi ed invernali.

Una camionetta di carabinieri e svariate macchine. Tipi appiedati con sguardo eccessivamente serio, visto il contesto ancora pienamente vacanziero. “Qui non si parcheggia”, ci intima un tale in borghese (ma che sia sbirro ce l’ha scritto in faccia). Un dito ci indica un altrove ultraterreno, che nelle nostre manovre si trasforma nel cortile di un condominio. Motivi di sicurezza a noi ignoti, evidentemente, ritengono quel posto di gran lunga più affidabile. Un sorriso al pensiero di macchine ospiti parcheggiate a Campo reale. Ma si sa, la logica ha abbandonato queste lande. E poi, non abbiamo mica fatto sopralluoghi preventivi. Magari quello è un residence di foggiani emigrati. Alle porte sono inflessibili. Chi è senza biglietto deve farsi la fila al botteghino. Le forze dell’ordine che sigillano il settore e dividono le due tifoserie, si aprono per far passare gli sprovvisti di tagliando. C’è una fila notevole, per essere fine agosto. Almeno ottanta sono i foggiani. Gli altri sono fanesi. Una fila promiscua, che porta pensieri funesti: Ma perché separare a monte ciò che poi, forzatamente, si fa ricongiungere a valle? Perché, come dice lo spot, schiacciare ciò che nasce morbido? Non si sa, ma ci siamo imposti di non pensare. È così, prendere o lasciare. “Oh, sono in fila… anche a nome degli altri, potreste far sospendere la partita visto che qua ci vuole tempo?”.

Il Foggia va sotto, pareggia e vince 2-1. Poco altro da aggiungere, quasi nulla da segnalare: l’eurogol di Insigne, che mi ha ricordato quello di Baggio contro di noi al Delle Alpi, l’ottima trentina di ultras fanesi, i poliziotti infiltrati che fanno uno splendido lavoro sotto copertura (!), le battaglie d’acqua (qualche schizzo colpirà il guardalinee, che li reputerà sputi reiterati e volontari, e il suo referto condannerà il Foggia a pagare 5mila euro, uno sproposito che grida vendetta ed apre altre mille discussioni attualmente in corso).

Usciamo. C’è da recuperare mamma Manu, a spasso col suo carrozzino ed Aurelio nella Fano dell’emergenza ultras, e decidere: Marotta o Mondolfo. Eterno dilemma. La prima è sul mare. Una birra, presumiamo, costerà un pandemonio. La seconda è appena sui colli. Ma i 2 chilometri in più spaventano da morire, così si opta per lo sproposito. Il chiosco è a due passi dalla spiaggia, il cielo è grigio, il mare pure. Luna bassa e appena percepibile, musica metal. 4 euro una 0,66. Lo sapevamo. Ma Aurelio gradisce la vista e si diverte a seguire le onde. Decide lui per tutti. “Possiamo accomodarci?”, chiediamo garbatamente. “Si, ma non vi faccio nessuno sconto”, replica la ragazza, una giara tracimante simpatia. Arrivano i primi bicchieri. E il momento perfetto si attualizza. Ancora una volta. Per l’ultima volta? Non pensarci, non pensarci. Ci proviamo, ma la Tessera occupa i nostri pensieri, impregna le nostre parole. Non potrebbe essere altrimenti. È una spada di Damocle sulle teste di noi tutti. Una fottuta spada di Damocle. Ci sono i diritti civili, certo; c’è il business delle banche, sicuro; c’è il calcio malato e devastato dalle tv e dagli interessi, ovvio. Ma ci siamo noi, soprattutto. Il complotto per evitare nuove serate come questa. Insopportabile. Il discorso vira. Abbiamo, inutile negarlo, grossi problemi di comunicazione. Ne parliamo senza sconti: a Foggia, ma anche a Pisa o a Lucca, siamo arrivati presto al faccia a faccia: tifosi contro ultras, singoli contro gruppi. Una polarizzazione, un gusto dello scontro, che lascia perplessi. Non sappiamo neppure quando è cominciata – forse con la contestazione dei “nuovi foggiani” all’Ariston, forse a Vasto in Coppa, forse molto prima – ma al punto dove siamo è difficile frenare l’inerzia della valanga. Certo, i nuovi tifosi che barattano il Foggia per la dignità sono fastidiosi come zanzare killer. Ma non esiste critica senza autocritica, ed anche in casa nostra dobbiamo liberarci da certi equivoci. Da quella voglia di ghetto che tanto ci piace, da quell’esclusività religiosa che porta ad anteporre la fedeltà alla spiegazione. Indubbiamente, sarebbe stato difficile metterci in fila al botteghino per evangelizzare i candidati abbonati – desiderosi di rivivere il sogno di quella che per loro resta Zemanlandia – a non cadere in trappola. Ma uno sforzo maggiore di comunicazione non sarebbe stato fuori luogo. Molti individui, cani sciolti secondo la vulgata, non sono affatto nostri nemici. Non ci definiscono violenti, non rompono l’anima con gli autogrill devastati o saccheggiati, non ci attribuiscono i mali del paese. Non sono nostri nemici. Avremmo dovuto comprendere prima la loro confusione? Il loro sentirsi “soggetti non garantiti”? Probabilmente si. E adesso è maledettamente tardi. Siamo stati scissi con un colpo d’accetta. E tra di noi serpeggia il disorientamento, mischiato ad una allarmante voglia di normalità: che ne sarà dei nostri cori, dei nostri colori, dei nostri chilometri, delle serate da pasquetta come questa? Il dubbio è atroce, le strategie assenti. Rimane una malinconia profonda. Che neppure il secondo e il terzo giro di birre placa.

Ancora non sappiamo – mentre la ragazza simpatia ci fa gentile omaggio di un paio di taglieri di piadina – che la trasferta di Lanciano verrà giudicata “ad alto rischio” e che Casillo ha fatto sapere che la multa verrà fatta ricadere sui tifosi, con l’aumento dei prezzi dei biglietti. Ignoriamo, mentre la sera nasconde il mare, che a casa ci aspettano decine di neo-tifosi virtualmente inferociti, talmente stanchi di “pagare per gli ultras” (!) che – spalleggiando il Casillo-pensiero – potrebbero fare tranquillamente a meno di noi. A meno di noi? E come? Trasformando gli stadi in luoghi della noia e del nulla, trasformandosi definitivamente in utenti passivi legati al carro dello “spettacolo” sportivo di terza serie? È un’ipotesi talmente assurda che, per la prima volta, mi sembra plausibile. Finanche realizzabile. Quarto giro premonitore: siamo forse sul limitare della sconfitta inevitabile e cerchiamo di posticipare l’inarrestabile caduta? Meglio cambiare argomento. Meglio ritualizzare l’iniziazione di Umberto, il classe Novantaquattro alla sua prima trasferta col gruppo. E l’ironia suona evidente: nominiamo cavalieri mentre perdiamo il feudo. Irresponsabili, incoscienti, idealisti. Il nuovo lampo. Angioletto parla di una Pizza Zeman che il buon Giacinto prepara in quel di Fermo, o di Porto San Giorgio, non s’è capito. “Sono meno di 80 chilometri da qui”. Dietro di noi la luna è altissima, domani è un normalissimo giovedì lavorativo, non arriveremo alla pizza prima delle 2 di notte, ma chi se ne frega. Irresponsabili, incoscienti, idealisti.

Tutto quel che sappiamo, al momento, è che non sappiamo granché, ma come assediati respingiamo il nostro funerale e la fossa comune. Ci difendiamo, passivamente. La radio trasmette la notizia degli atalantini all’assalto di Maroni. Doveva succedere, ne siamo felici, anche se abbiamo sufficiente esperienza per immaginare quanto alte si innalzino – in queste ore – le voci dei tromboni: “Gli ultras hanno fatto un favore a Maroni”. Si, certo. È sport nazionale: contestare chi contesta, naturale sequel all’inazione. Ma tant’è. La pizzeria è chiusa, ma a Fermo c’è ancora un bar aperto. “Incredibile pensare a come il Fano non riuscisse a spazzare in 11 contro 10”, sta dicendo Angioletto, per la ventesima volta. E quando il primo afferra una sedia dal cumulo e la piazza in strada, tutti capiamo che l’attimo perfetto è ricominciato. E non finirà prima di un paio d’ore. Oggi va così, e la stanchezza che pure affiora non è un valido deterrente. Beh, almeno questo è sicuro: non ci prenderanno mai per sfinimento.

23/08/10

Tipi da spiaggia

Domenica 22 agosto, Cavese-Foggia 0-3

Abbiamo visto la partita a Lido del Sole, in una pausa del lavoro.

A ben pensarci, da stamattina non ho visto altro che tipi da spiaggia. Al porto turistico di Rodi Garganico, barche attraccate e stili di bellavita clonati. “Più avanti c’è il locale di Lele Mora”, dicono in tanti, non senza una punta di immotivato orgoglio. Al bar ci squadrano con sufficienza, al tabacchino mi intercetta una cameriera, sospettosamente premurosa che potessi sbagliare porta ed infilarmi nell’attiguo ristorante da 50 euro a pasto. Oggi comincia il campionato. Inorridisco al pensiero di passarlo qui – tra bauli da “tippare” e flycase del concerto di Luca Carboni – tra indigeni e turisti con la testa altrove, ancora saldamente ancorati alla stagione estiva dei profitti e dello sperpero. Alle 16 gioca il Foggia. A Cava dei Tirreni. Questo concetto poco balneare s’infrange contro le rocce come e peggio del mare mosso. In altri tempi, la partita di Cava avrebbe catalizzato un’attenzione spasmodica, da togliere il respiro. Ma da tre anni nessun foggiano mette piede nella Cava, e nessun cavese allo Zaccheria. Hanno vinto o, quanto meno, sono in vantaggio. Venerdì mattina c’era anche stata una mezza apertura, o una distrazione. Si pensava di poter varcare i cancelli del Lamberti. Poi, verso mezzogiorno la disdetta: entrano solo i possessori di Tessera e i residenti. L’US Foggia annuncia, profeticamente (e non si sa in base a quale strana premonizione) che sarà così per tutta la stagione: non solo Cava, Barletta, Castellammare, le trasferte calde; anche per quelle giudicate “libere” – Viareggio, Lanciano, Gela – le Prefetture limiteranno l’accesso ai soli abitanti, oltre che ai tesserati. Un senso di vaga mutilazione, una brutta sensazione. Negative vibrations. Poco vale ricordare, nell’epoca dell’irrazionalità tracimata, che l’iniquo provvedimento della Tessera del tifoso entrerà in vigore domenica 29 agosto, all’apertura del campionato di A. Poco vale. Ormai la legge è un’arma nelle mani delle banche, e si è pronti anche a rispettare una legge che ancora non è tale. E qui il sole scotta, e le prime miss passeggiano sul molo. Teleblu, la tv foggiana che ha vinto la gara per l’assegnazione dei diritti, ha commesso un’infrazione imperdonabile: detiene l’esclusiva ma non ha un canale satellitare. E non può appoggiarsi a nessun altro. I foggiani che abitano fuori dal capoluogo dovranno rassegnarsi, in attesa di contrordini. Angelo chiama da Peschici: neppure quella in chiaro si vede. La gente domanda marzianamente: “Che partita c’è?”. Daniele è al Lido. Giuseppe e Piotrek battono Rodi, bar per bar, casa per casa. Segnale assente. Tranne che per un locale del centro, che però non ci vuole tra i piedi nella fascia oraria dello struscio postprandiale. Inutile insistere. La situazione si sblocca alle 15,15. C’è un posto a Lido del Sole che trasmette il match. Ormai il palco si tiene in piedi da solo. Possiamo andare. E la strana impressione si ripete. In campo, sullo schermo piatto tagliato dal sole, ci sono le gloriose maglie bianche da trasferta. Attorno, la gente è in costume. Sembra Mtv. Ma più profondo di quest’impatto resta il dato: la piazza sta ribollendo. Le inquadrature su Zeman fanno immancabilmente scattare un accenno di coro. Lo capirebbe anche un bambino: l’adorazione per il Boemo – da queste parti icona e simbolo ben prima della sua “crociata” contro il Palazzo e le farmacie – è palpabile. Nell’immediato rischia seriamente di esaurite le scorte di abbonamenti, con conseguente impennata della tesserazione volontaria ed estromissione dagli spalti dei gruppi organizzati. Molto dipende da queste prime partite. Non ce lo siamo nascosti tra noi, specie dopo il pellegrinaggio di massa a Vasto: un paio di sconfitte subito non guasterebbero. Raffredderebbero un po’ l’ambiente, lo renderebbero più realista e meno religiosamente infervorato. Magari se Zeman stecca la prima ci sarà qualche possibilità in più di accedere ai biglietti, la domenica. Certo, siamo ultras e della partita non ce ne frega. Ovvio, chiacchiere. Siamo l’evoluzione esponenziale del tifo da stadio, abbiamo bisogno dei gradoni. Fuori saremmo manifestanti, teddy boys, skinheads, papaboys. Saremmo belli uguale, ma l’ultras è un fenomeno da stadio. Legato a doppio filo con le ritualità da stadio. Senza la chiesa, svanisce il culto. O trasloca nelle catacombe. Quindi, a rigor di logica, dovremmo tifare contro. Tifare Cavese. Ma il solo pensiero rabbuia. Come la morte. Magari teniamoci distanti, occupiamo questa tavolata in seconda fila, ordiniamo birre grandi a 3 euro (Ah, il Gargano…), e dissertiamo del più e del meno, mentre la partita segue il suo corso. Cerchiamo di non farci coinvolgere. È solo uno schermo al plasma, in fondo, che replica la realtà. Non è la realtà. Se poi dovesse segnare la Cavese o il Foggia, beh, affronteremo la cosa sul momento. Il riflesso del sole adombra il campo, il pallone svanisce spesso. La prima tavolata è piegata in avanti, quasi a voler afferrare lo schermo con lo sguardo. Noi ci diciamo che non è mica male Lido del Sole, ce l’aspettavamo più piccola, meno raccolta. E poi il tratto di spiaggia selvaggia fino a Rodi è veramente bello, anche se un po’ sporco. “Ma cosa pensano di pescare quelli a riva?”, “Boh”. “Com’è andata stamattina?”, “Mah, bene, il palco è abbastanza piccolo, due soli mezzi bilici, penso che stanotte prima delle 3 dovremmo aver finito”, “Buono”. Ma gli sguardi fuggono, come evasi in pianura. Ogni tanto qualcuno prova a provocare: “Forza Cava!”, ma davanti ci conoscono, ridono e non ci cascano. Il Foggia gioca. Lo vedono tutti. Anche noi. Cazzo, penso. Ragazzini che non temono la Cava, che aggrediscono e non abbassano la cresta. Siamo reduci da anni di senatori, di gente con esperienza sui campi di terza serie, che se andava a Cava a spazzare e a restituire offese e provocazioni prendeva l’ovazione e strappava lo 0-0. Sarà l’ingenuità, sarà l’incoscienza che aiuta gli audaci, gli inconsapevoli. Che ne sa di Cava uno come Kone, classe 1990, che lotta su ogni pallone e taglia il campo con la forza di un trattore? Che ne sa Laribi, classe 1991? Dovremmo dirglielo? Dirgli degli scontri epici degli anni Ottanta, quando tutto era ancora possibile? E perché mai? È un altro sport, questo. E il Foggia macina azioni, cade spesso in fuorigioco ma fa capire di poter colpire. E colpisce. Goooooool, siiiiiiiii! Prima. Poi ci guardiamo. Il sorriso nasconde l’angoscia: Cristo, siamo tifosi del Foggia con le ali spezzate, che non possono dare vita a quella passione che hanno esternato per anni. Se questi vincono – e questi possono vincere, s’è capito, laddove non s’è mai vinto – domattina ci troveremo le strade imbandierate. E la coda giù ai botteghini. A giugno stavamo morendo ed eravamo 200 in strada, a gridare la nostra rabbia. Adesso siamo più vivi che mai. E negli abbracci di circostanza al carro del vincitore, siamo stati tagliati fuori. Per indole, certo, per nostra rivendicata scelta: ma non possiamo tifare contro la nostra squadra. Meglio affondare – e affonderemo – continuando ad amarla d’un amore diverso, che tradirla. A fine primo tempo, il raddoppio toglie i dubbi residui. Sono felice e sono triste, mi sento scippato, per la seconda volta in vita mia. E non è tanto per la gioia da pochi intimi che si prova a cantare come pazzi mentre si perde 4-0 a Cosenza. Il calcio è sport popolare per antonomasia, figurarsi se mi metto a sponsorizzare i club privè. Ma così, così è ingiusto. È come se un corteo di carnevale sfilasse sotto le finestre di un defunto; come veder zampillare acqua dal pozzo nel giorno della dipartita di chi, a quel pozzo, ha dedicato parte della sua vita. La folla festante delle retrovie rischia seriamente di spazzar via la vecchia armata. E a noi non serve fingere che la cosa non ci interessi. È dilaniante. Pensare che il Foggia vinca 3-0 a Cava dei Tirreni, agevolando il nostro soffocamento, è una di quelle gioie per le quali si può piangere. Di nostalgia.

Il signor S.

Ho visto il signor S. puntare dritto alle transenne. Aveva fretta. Aveva ragione: in fila scomposta, per entrare all’Aragona di Vasto, c’erano almeno duecento persone. Mancavano pochi minuti alle 17, fischio d’inizio di Foggia-Giulianova. Coppa Italia Lega Pro. Erano anni che non lo vedevo. Anzi, adesso che ci penso, non penso d’averlo mai visto. Ai tempi della saletta, mi pare di ricordare, tifava Milan. O Juventus. Di sicuro c’era il divertente siparietto degli sfottò, ma non ricordo se con Gianni, che era milanista, o con Maurizio e Angelo, che erano juventini. Ho seguito il suo passo affrettato. Non mi ha visto. Meglio così. Sarebbe stato imbarazzante. Nel senso: ci saremmo salutati calorosamente con la manina, e la totale mancanza di senso di colpa nel suo sguardo aperto avrebbe riempito di imbarazzo me. Talebano luterano. Ci ripenso: forse ha ragione lui. Certo, mi capita di pensarlo spesso, per tanti ambiti della mia vita. È solo una partita di calcio, mi avrebbe fatto capire il suo saluto, ed oggi avevo proprio voglia di veder giocare al pallone. Come quando con zio Giuseppe andavamo, la domenica mattina, a vedere la Juve San Michele o le sfide epiche sul campo di San Ciro. Il calcio minore, l’unico che piacesse a zio Giuseppe. Ma non è nemmeno questo il punto: il punto è che il campo sportivo, come si chiamava una volta, dovrebbe essere il luogo della libertà. A Foggia, a Milano, a Liverpool. Ovunque. Un appassionato di calcio potrebbe, all’improvviso, avere l’impulso di andare a veder tirare calci ad un pallone. E dovrebbe, ovunque, poterci andare. Così, per puro diporto. Come al cinema, a teatro, ad un concerto. Fare la fila al botteghino, anche dieci minuti prima dell’evento, ed entrare. E godersi la sua passione. Se la sua passione è assistere. Ha ragione lui. Hanno torto gli altri. Quelli che hanno blindato, recintato, militarizzato gli stadi. Quelli che hanno reso l’esercizio della passione più difficile di un tremila siepi ai tempi di Antibo. Dovrebbe essere un piacere vedere il signor S. allungare il passo per guadagnarsi il varco. Invece, visti i tempi, faccio di tutto per evitare il suo sguardo allegro. Perché questo sporco gioco al massacro me lo ha reso antagonista, quasi nemico. Come quei rumeni che, spinti dal bisogno di raggranellare euro, accettano una paga da fame e mi tagliano fuori dal mercato del lavoro. Dovrei prendermela con le alte sfere, certo, ma non riesco a liberarmi di quell’idea di complicità che m’assale. Complici. Collaborazionisti. I rumeni e il signor S. Stessa pasta. Ognuno pensa ai cazzi suoi e gli altri si arrangino. Dovrebbe essermi entrato in testa, dopo trentaquattro primavere. Invece. Invece continuo a pensare che la vita sia fatta di scelte. Tendere alla dignità, a quel minimo di coerenza che siamo sempre pronti a rimproverare come assente negli altri impalpabili, ma che raramente ci sogniamo di applicare alla nostra quotidianità. Una partita di calcio non è niente. Ma è un simbolo. Lo penso mentre vedo scorrere la fila a strattoni. Gente che da due, cinque, dieci anni non metteva piede allo stadio, con la voce pronta ad osannare i nuovi eroi. Capita sempre così. Gente che non s’è mai vista – potrei fare nomi e cognomi, ma non mi va – fototessera alla mano a sottoscrivere i dati della Tessera del tifoso. A collaborare, fingendo innocenza, con quel sistema che sta ratificando la mia fine. La fine del calcio per come lo intendo. Innocenti, deresponsabilizzati. Non è colpa loro, dicono, se c’è qualcosa di sbagliato nel sistema, prendetevela col sistema. Già, come se fosse facile reperire l’indirizzo di casa del Sistema, questo tutto/nulla che annienta il volere soggettivo, che impedisce l’opposizione e la pratica della dignità. Come l’impero di Toni Negri. Senza cascate piramidali. È così. O forse ho torto. Fatto sta che ad un certo punto l’Aragona rossonero è esploso di gioia. Il Foggia aveva segnato. Noi eravamo fuori, ad attendere il resto della compagnia. Ed è stato come essere proiettati in un futuro prossimo venturo, esclusi dal giro, dal gioco, dal palcoscenico che pensavamo c’appartenesse. Pugnalati alle spalle da una manica di assassini anonimi, tutti con delle ottime ragioni private, e nessuno con chiari moventi. Assassini senza colpa, senza rancore, senza odio. Con indirizzi di casa conosciuti eppure intoccabili. Limpidi come bambini appassionati di una girandola.

16/08/10

Alors on dance

Sabato 14 agosto, L’Aquila-Foggia 1-2

La vigilia, si sa.
A volte la vigilia è l’evento. Meglio dell’evento. Stavolta è dura. Ha il sapore minerale della Zubrobka – vodka polacca giunta ai nostri stomaci italici direttamente dalla italianizzata Breslavia – e l’odore di pareti ospedaliere. Notte al Pronto Soccorso, senza collassi di sorta, ma con svariati colpi di testa e cani che mordono strazzati. Il silenzio è rotto, fuori è ancora estate, ma la Coppa disarciona la tregua non voluta. Posso fumare tranquillamente, godermi il contesto. Ambulanze, guardie giurate. “Ma la cattedrale di Foggia è ancora chiusa?”, “Si, per restauro”, “Ah”. Al mattino gli allibratori quotano basse le assenze. La vigilia tosta lascerà i segni, dicono gli esperti. Invece. Valerio, alle 11, è già pronto all’avventura. Angioletto lo raggiungerà di lì a poco. Noi, sciarpe di lana sotto i 35 gradi della landa, ci incamminiamo che manca un quarto a mezzogiorno. Non si partirà prima dell’una, e possiamo goderci l’ottimismo. L’ottimismo voltagabbana e un po’ paraculo di questa città. Solo pochi mesi fa – prima dell’avvento della Triade – bastava che i passanti scorgessero quei colori, associassero le t-shirt alle gloriose rossonere, perché scattasse – blanda e qualunquista – la cataratta dei commenti di disfatta. “Angor appriss o Foggije?”. Stamane, invece, camminiamo come cavalieri dell’onore tra ali di popolo festante. Avanguardie di un altro sistema solare, direbbe il Vate. “Auguri ragazzi”, ci incoraggiano. E ti viene voglia di prenderli a schiaffi, questi volubili concittadini. Ma l’entusiasmo supera i malumori. Stiamo per ricominciare, per ripartire, e la sola idea dei chilometri da fare pompa felicità, rassoda i muscoli, rinfresca l’aria. Ci siamo tutti. Due macchine pronte, una terza parzialmente occupata ci raggiungerà dalle spiagge, tra qualche ora e più a Nord. L’Aquila, Coppa Italia di Lega Pro. Basta la parola. Basta il pretesto.



Vamos a bailar est avida nueva. L’autogrill di Bucchianico, i furgoni, il labirinto che si popola. “Chi siete?”, “Studenti in gita”. Del resto non c’è un’età per la maturità. E spero di non conoscere mai chi racconta il contrario. Perché mi piace. Sgranchirmi le gambe, salutare tutti – “buongiorno!” – guardare i Marshmellows sugli scaffali, pisciare ai wc al muro, lavarmi la testa, dire che si, lo voglio il caffè, perché no, e poi passare alle birre. Riti che annullano la pigra stagione del nulla. E di nuovo sulla strada. Il convoglio, “una delle meraviglie della natura”, per dirla alla Homer Simpson. L’Abruzzo aspro e montuoso, le strade interne che tagliano i massicci. Esordisce il nuovo Foggia con Zeman in panca, e i più spudorati – dopo quindici anni – rispolverano il termine di Zemanlandia. Termine su tutti offensivo della nostra storia. Ma non è solo quello. È l’impressione motivata, la sensazione pluri-dimostrata in queste settimane di calore improvviso, che la gente abbia deciso – nel nome dei tempi andati – di fare quadrato attorno alla squadra. Di ossequiare i nuovi-vecchi padroni con un bagno di rinnovato calore. Un’effervescenza che ha portato semisconosciuti e juventini riconosciuti e conclamati a mettersi in fila per l’abbonamento e, quel che è peggio, a sottoscrivere la Tessera come atto di fede zemaniano. La società non ne comunica il numero, a Casillo non piace seminare disfattismi, ma di certo si supereranno abbondantemente i 1.800 dell’anno scorso. Con quel che ne conseguirà.

Un bar di cui è sopravvissuta la sola insegna; una casa al passaggio a livello piegata su se stessa, come implosa; le travi a sostenere le facciate di tre palazzi d’epoca. I segni del terremoto sono più che visibili. La disorganizzazione regna sovrana. Ci sono cose più importanti di una partita di calcio a cui pensare, certo. Ma a questo punto, evitiamo di farle disputare, queste partite inutili. Altrimenti: servirebbe qualcosa di più di una semplice coppia di vigili urbani a farci segno con la mano di svoltare a sinistra, di inerpicarci su una salita alla cui sommità non c’è che la strada del ritorno. Il convoglio gira in tondo, circumnaviga i fari dello stadio – di cui si ha sentore ma che non si vede – taglia schiere di villini, compie manovre ardite, inversioni di marcia collettive, intasa il traffico per tenersi contiguo. A vuoto, per almeno venti minuti. Nessun presidio delle forze dell’ordine, nessun cartello. Diversi ragazzini aquilani – con tanto di magliette ultras – a sgranare gli occhi al passaggio, increduli di tanta libertà concessa alla numerosa pattuglia ospite. Un carabiniere ci sbarra la strada. L’ennesima manovra di ripiegamento. Aggiriamo diversi isolati, sbuchiamo al “parcheggio” dopo altri cinque minuti di approssimazione. Quando finalmente scendiamo dalle macchine, il carabiniere di prima – col suo posto di blocco – ce lo ritroviamo di spalle. “Ma come? Ci hai fatto fare il giro ed eravamo arrivati?”. Un piccolo focolaio di tensione. Dentro. “Non serve il documento”. Certo, il primo biglietto dell’epoca del tesseramento dei tifosi non è neppure nominale. Meglio così.

Il settore è in gradinata. Un’invisibile linea invalicabile lo divide in orizzontale. Sopra, in piedi o finanche seduti, videocamere e digitali alla mano, ci sono quelli che di solito non ci sono. Gente per bene, per carità, ma l’impressione è quella di cui sopra: Zeman ha trasformato queste persone, ne ha alimentato la curiosità, ne ha stimolato gli istinti, li ha conquistati col potere del sogno. O della ripetizione dello stesso. Sotto, a torso nudo e in corrispondenza delle pezze, ci sono gli altri. Quelli di Cosenza e di Trieste. Per non dire quelli di Palma Campania, di Battipaglia, di Ragusa. Per carità: siamo contro i giudizi di valore, ognuno della sua vita – ed anche della sua passione – fa quello che vuole, e qua non si guadagnano gradi e denari. È per puro dato statistico che si sottolinea quel che si vede: tra l’alto e il basso, tra la Montagna e la Pianura, la Gironda e il resto, c’è una faglia. I settori ospiti sono due. E forse, dalla prima trasferta con l’obbligo della Tessera, questo fatto diventerà ancora più fisicamente visibile. Da quando sei in C non ti seguono più, è il primo coro che s’alza dai bassifondi. E non è un caso. Si riprende confidenza. Le corde vocali sotto tensione, un colpo di tosse. Un coro breve, uno lungo, uno secco. E poco alla volta, col passare dei minuti, ricarburiamo. Attorno a noi, lo stadio-velodromo aquilano. Una cinquantina di ultras nella curva alla nostra sinistra, tanta gente in tribuna, sole e nuvole in alternanza. Qualche sfottò, il giusto per le dimensioni dei rivali e per finire sulle pagine scandalizzate del Corriere della sera come prima tifoseria ad aver insultato i padroni di casa dal drammatico sisma dell’anno scorso. Ma c’è una rivalità da onorare, senza falsi buonismi e senza sciacallaggi. C’è il passato a testimoniare ciò che il Corriere non sa. E che chi sa, sa. Stop. Passiamo in vantaggio. Botta da fuori, dicono. Io non l’ho visto, e come me diversi dei nostri, impegnati in una fondamentale discussione sull’opportunità di una sciarpata. Un ragazzino viene sotto il settore. Esulta come Giovinco, ma soprattutto esulta. Come se fosse un gol decisivo. Ragazzi dagli entusiasmi facili. Eppure: il centrocampo è tosto, o così sembra: regge, lotta, non demorde. Le sovrapposizioni, quelle, sono le solite di sempre, magari con qualche tossina da smaltire nelle gambe. Col risultato, solito anch’esso, che ci si difende in tre, quando non in due, e con la linea molto alta (anche se non ancora a centrocampo, ma diamo tempo al mister). L’uscita del nostro portiere di testa alla trequarti mi provoca un brivido nella schiena. Uno dal settore richiama l’attenzione del loro estremo difensore: “Portiere, vergognati… quello c’ha 16 anni!”. Cantiamo, che è meglio. Loro pareggiano su calcio piazzato, prendono coraggio. Noi eseguiamo il nostro repertorio. Siamo già in forma.

Nell’intervallo Enzo ci sorprende in bagno a chiacchierare e si fa prendere da una crisi di gelosia. Teme, come Berlusconi coi finiani, che le correnti interne si trasformino in aperta sfida. Teme, probabilmente, che vengano fuori documenti compromettenti riguardanti il concetto di Circo Equestre e le sue declinazioni. Viene calmato. “Stavamo solo parlando del ritorno”. È scettico, non ci crede. Ma si tranquillizza. Fuori, tutti discutono con tutti. Si chiede alla forza pubblica a chi è saltato in mente di far parcheggiare un bel numero di macchine in un improvvisato parcheggio a due chilometri dallo stadio. La risposta è più o meno la solita: “Abbiamo cose più serie a cui pensare, all’Aquila”. Si, ok, ma per quanto tempo andrà avanti questa storia? Riprendiamo le nostre posizioni, e nel secondo tempo il Foggia sembra già una squadra rodata. I più saggi smorzano gli entusiasmi facili: “L’Aquila è una squadra di D ripescata in C2”. Certo, ma qui tutti aspettano da troppo. E, a cavallo del 2-1 per noi, il settore esprime il suo meglio. La suburra coinvolge la città alta in un paio di stornelli seri. Poi, si da il via al cabaret. E lì, in quei dieci minuti passati tra Celentano e balli di gruppo, c’è tutto lo spirito di questa scarpinata estiva. Il piacere infantile, le risate. Gli aquilani si fanno sentire con un coro. Vi vogliamo così. Poi torniamo con lo sguardo al campo: Sospendete la partita! Dura ancora poco. Poi finisce – “E l’anno prossimo veniamo con la squadra buona” – con gli undici già sotto il settore e molti sguardi incuriositi. Quei ragazzi hanno avuto un assaggio del nostro sostegno. Non resta che sperare che lo meritino. Innamorati di questa maglietta, onorati di questa città.

Alors on dance!

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