24/10/10

Il giorno dell’immaginazione

Sabato 22 ottobre, Atletico Roma-Foggia 3-3

La sicurezza e lo spirito dei tempi

Un rettangolo di carta di basso lignaggio; carta plebea e vagamente filigranata, color bianco sporco con tristi motivetti marroni, tipo video di Peter Gabriel. Il timbro della Siae sulla cucitura, la dicitura “Intero – 1° posto, prevendita: 0698764”. Lo spettatore è tenuto a conservare il biglietto nel luogo della manifestazione e nelle immediate adiacenze. Peccato.
Peccato non poterlo portare in giro per mostre e vernissage. Perché questo tagliando è un’opera d’arte. Magari non un capolavoro, ma neppure il semplice pezzo di carta che vogliono farci credere (quelli che in vita non hanno apprezzato né Van Gogh né Ivan Graziani). È la prova tangibile – la metafora, direbbero i critici letterari – dell’inutilità. Incarna lo Spirito dei tempi. La carta igienica del sistema Maroni. Ne ho raccolti un paio da terra. Tra qualche anno avranno un valore inestimabile. Me li rivenderò su Ebay in tempi ancor più cupi, se proprio Sotheby’s non apprezza.

Fiumi di parole sulla sicurezza, la violenza, l’incubo uligano d’oltre Adriatico. Migliaia, decine di migliaia di sillabe pronunciate da questori, prefetti, ispettori, agenti di campo, presidenti, steward. Migliaia di euro per ammodernare gli impianti sul modello carcerario più avanzato, altrettanti per tentare di mettere in pratica i decreti ministeriali, per fingersi tedescamente efficienti.
E poi, un bel sabato di ottobre, tutti al botteghino, a quaranta minuti dal fischio d’inizio, a premersi l’uno sull’altro, a spingersi, a vedere la fila crescere a dismisura, disorganizzarsi a dovere, a rischiare d’abbattere un reticolato, voltare l’angolo, snodarsi. E tra le urla dei tifosi dell’Atletico e di quelli del Foggia, nella divisione sostanziale e sostanzialmente inutile tra tesserati (dove sono le vostre corsie preferenziali, amici?) e non, tra romanisti e laziali zemaniani, nel melting pot delle 14,30, rivivere le scene del 1984, e tornare per un attimo a stringere la mano di papà intento a litigare con quei pezzi di merda che non aprivano mai più di una porta. A risentirne quasi l’odore di Denim e Nazionali senza filtro sulle mani. Non ricordo chi fosse il ministro degli Interni nel 1984, ma di sicuro non pensava agli stadi. Faceva riunioni col cappuccio, magari, organizzava stragi di Stato, insabbiava e si lasciava corrompere, probabilmente, ma allo stadio si andava liberamente, rudemente, senza ammortizzatori. Era un’esperienza adulta. E qui, ora, è lo stesso. E non possiamo rallegrarcene a dovere. Perché bisognerebbe fingere che in mezzo non ci sia stata la retorica scassa-cazzi pluriannuale sugli ultras e la Tessera. Fingere che non abbiano fatto degli stadi quel che ne hanno invece fatto. Il cassiere sarà felice, penso, ma con che faccia si va in giro a dire che è normale avere problemi dinanzi a 4mila spettatori quando di solito se ne fanno 500? Allora perché mai questa cavolo di squadra gioca al Flaminio, se non ha che 500 affezionati sostenitori? Perché non se ne torna nel quartiere, se mai ne ha avuto uno? Per tutto questo, quando quel poveraccio (o quella poveraccia, non lo so perché non sono mai arrivato a vederne la luce in fondo al tabernacolo) impegnato a battere i nominativi di tutti i presenti nella sua tomba-unico sportello aperto, mentre in coda selvaggia si sta coi soldi contati e i documenti come allo sbarco ad Ellis Island; insomma, quando l’addetto/a ha annunciato che era finita la carta per stampare i tagliandi e bisognava ripiegare su alcune riserve in attesa da quando Cindy Lauper cantava a Deejay television, la risata collettiva ha rischiato seriamente di ammazzarli. Se non fosse che la gente era troppo nervosetta, in quel budello da sardine, per poter sorridere della sceneggiata. Che per noi era cominciata lunedì. Biglietti in vendita, disponibili presso i punti vendita autorizzati, recitava la nota. La solita sfilza di domande incompetenti – “Ma si può andare nel settore ospiti?”, “Ma ci vuole la Tessera?” – poi il primo nascente segnale di allarme: “Hanno bloccato la vendita dei settori per non tesserati”. “Ma come, - ci chiedevamo – che vuol dire? La trasferta è libera, non ha limitazioni territoriali. Cos’è questa, la nuova frontiera della lotta ai refrattari?”. Ecco, se avessimo trovato i nostri bravi tagliandi nella settimana foggiana, se nessuno avesse esercitato le sue geniali pressioni demotivanti sul tizio di viale Ofanto, a quest’ora non sarei qui. Non perderei tempo e non farei massa. Ergo: non ne farei neppure perdere. È quello che spiego ai miei vicini, romani, foggiani e oriundi. E a cadenze precise qualcuno urla qualcosa su Maroni o sulla sua genitrice. Gente comune, eh, mica facinorosi alla Ivan di Belgrado. Nel 1984 nessuno pensava alle mamme dei ministri, mentre si era in fila al cancello dello Zaccheria. Era un mondo adulto: esisteva una sorta di patto di reciproca indifferenza che, a conti fatti, salvava l’onore di tutti. Si sbagliava da professionisti.

Il circo di Zeman

Alla fine della giostra, riemergo dalla calca. Ammaccato, ma vivo. C’è chi mantiene la fila. Un paio di bustoni di Nastro Azzurro e Peroni da 0,66, e ci si accampa. Si tira fiato, mi accendo una sigaretta. E per la prima volta da quando abbiamo parcheggiato il furgone, provo a mettere in fila le sensazioni. Vedo. Il Flaminio da fuori è un signor impianto. Osservo: “Cristo santo!”. Servirebbe l’abilità di uno scrittore specializzato in pellegrinaggi, riti sacri collettivi, roba da Paoline così, per spiegare quel che brulica sul piazzale. Il meglio, il peggio, il banale. Centinaia di teste a zonzo, formiche indecise, a spasso: muoversi, orientarsi, affondare, riemergere. Catturare emozioni. È un grande evento folk. È la Fiera di Santa Caterina, ma non quella di adesso e neppure quella di via Galliani. È la Fiera di Corso Giannone, o l’Embell Riva. Un circo in cui tutto si mescola, e l’evento fa da pura quinta scenografica. Come i venditori d’acqua e noccioline a Vermicino. Sedicenni bardati di sciarpe comprate al chiosco; accenti della provincia, foggiani di stanza a Roma, abitanti della Capitale in cerca di brividi altrui, o di ricordi a basso costo. Non ci credo. È tutto così surreale che riesco ad immaginare nani e draghi alati. Ogni tanto lo sguardo di qualche ultras sembra chiedere soccorso e conforto: si muovono spaesati, questi briganti da migliaia di chilometri a stagione. Non riescono a spiegarsi cosa stia accadendo. Mi volto e vedo Balbo. Abel Balbo. è con due amici, attende i biglietti, come noi tutti. Stappo una birra grande con l’accendino, accendo una Lucky strike di Angioletto. Pare ci sia Previti, e pure Bobo Craxi. I vip: un’ipotesi che non avevo contemplato, eppure di cose brutte brutte ne penso di continuo. Lo dico, e un codazzo di individui taglia la strada. Da destra a sinistra. Dall’entusiasmo, dev’essere come minimo un Casillo. Invece è Venditti. Antonello Venditti. Dalla fila, in fondo alla mia visuale, uno gli grida “Romanista di merda!”. Ma quello ride, felice di essere ancora riconosciuto, di vivere ancora nello strapaese dei balocchi. Foto col cantante, bandiere, svariati “Forza Foggia!” e anche qualche suocera al telefono. Altri draghi spiegano le ali sulla piazzaforte romana, mentre improvvisati organizzatori d’eventi provano a depistare per alleggerire il caos: “I foggiani non tesserati possono andare a fare il biglietto in Curva Sud. Pagano direttamente alle porte”. Come all’oratorio. Un altro pensiero sentito al Ministro e alla sua mamma. E vediamo Gigi Di Biagio. Sembra la notte degli Oscar. Manca il red carpet. Vaga, Gigi, fissando il cellulare. “Ohi, Gigi, ma oggi per chi tifi?”, lui sorride. Enzo bada al concreto: “Gigi, perché non ci offri una birra?”. Quello guarda la busta ancora piena, “Certo, – dice premuroso – potrebbero non bastarvi. Andiamo al chiosco”. Solo che il chiosco ha una fila di ben due persone e Gigi si annoia ad aspettare, così mette mano al portafogli, afferra 2 banconote da 10 e dice: “Ve le offro, ma me ne vado”. Non so perché, riusciamo a fare a meno della sua compagnia, mentre ridiamo come idioti. Adesso perfettamente in linea col carnevale. Pagliacci. Pensiamo: “E se andassimo a caccia di grandi ex?”. Si propone un tariffario: da Signori pretendiamo almeno una cinquanta, Codispoti e List sono dispensati. Pagaci, pagaci, pagaci da bere, [nome giocatore], pagaci da bere!

Le famiglie allo stadio

Muoviamo verso il nostro boccaporto. Alla fine della fatica, c’è stato un errore di calcolo. Sono le 15 passate. E non ho il biglietto. Ma la preoccupazione è un’altra: “Mica ci sono tesserati qui?”, chiediamo al funzionario in giacca. “No, – fa quello spazientito – non ce ne sono”. Bene, entriamo. Mentre da dietro qualcuno sta chiedendo: “Mica entrano anche i tesserati?”, e quello risponde che no, non entrano, ma neppure è bello che li trattiamo come appestati. Peggio, direi, visto che la peste nessuno se la va a cercare con le sue mani. Tecnica sperimentata: Ceska, più bassa, passa i controlli arancioni indicando me che mostro quella cartacea cosa qualsiasi che garantiscono essere il ticket, e nel gioco di rimandi schizza dentro prima che quello possa rendersi conto. Ma l’amico è in gamba e mi blocca. “Guarda che con un biglietto entra una sola persona”, “Certo”, “E allora la ragazza?”, “Quale ragazza?”, “La ragazza mora coi capelli lunghi?”, “Quale ragazza, non c’è nessuna ragazza”, “Come no?”, “No”. Nel regno zemaniano dell’illusione, il ragazzo non si convince d’aver avuto un’allucinazione, mentre io lo rassicuro che sembro uno psichiatra. “Tranquillo, non c’è nessuna ragazza”. Ma il funzionario in giacca, un diverso, sente puzza di imbroglio e non ci sta a farsi gabbare. Arriva di gran carriera, con l’aria di chi dice che non gliela si fa. Ascolta una leggenda arancione che parla di una ragazza mora dai capelli lunghi, annuisce serio, afferra un ragazzo a caso e gli dice: “Fammi vedere il biglietto”. Come se avesse una precisa strategia d’indagine. Quello, stupito, glielo consegna. E il furbacchione può finalmente esclamare: “Questo biglietto è falso, manca il timbro!”. Una risata vi seppellirà. E si che c’era bisogno di grande fantasia per immaginare che quelle cose sarebbero state un biglietto! Penso non se lo augurassero neppure quelle cose stesse! Si, è sabato e si possono fare le fotocopie, ma sarebbe mancato il tempo materiale. E poi… difficilmente si pareggia un’opera d’arte di tal fatta. Il dibattito si sposta sul biglietto, un paio di poliziotti mi contendono la perquisizione, mentre uno steward arancione resta perplesso a ricostruire i suoi ultimi minuti. Passo il primo controllo, gli altri sono già al secondo. Aspetto Giuseppe, che si è attardato, e commetto la strepitosa cazzata di accendermi una sigaretta. Un agente si volta di scatto. Mi riperquisisce. Vuole indagare. Gli stadi devono tornare ad essere luoghi per famiglie non fumatrici. E senza vizi, visto che a Manu sequestrano la bottiglietta d’acqua per Aurelio, 13 mesi e prima trasferta in furgone. “Il bambino, se avrà sete, potrà andare al bar”. Al bar immaginario della sua infanzia, quello con le marmotte che servono bicchieri con gli ombrellini, visto che questo stadio del Sei Nazioni, dentro, è un rudere. Già che c’era poteva consigliare ad Aurelio di bere direttamente la condensa dalle perdite nelle tubature. Il secondo controllo scatena il dibattito. Un ragazzo mai visto indica gli agenti e dice: “È per questo che non ci vado più allo stadio”. Il padre annuisce. Mi fa ancora male sentire queste cose. Avrò modo di dirlo al cameriere del ristorante di Frascati, che più o meno ci fa la stessa confessione. A 22 anni si è rotto il cazzo di sbirri e controlli. Terza perquisizione, poi il gruppo vacanze è accompagnato nei loschi sotterranei cadenti del nostro gioiello del rugby. Quando giungiamo a rivedere il cielo, il Foggia sta perdendo 1-0.

Mediocrità e dintorni

Ma che bello è stare insieme a te. Il settore dove siamo, mi dicono, normalmente è chiuso. Ma non è normale neppure vendere 4mila biglietti. Noi siamo in alto, ultima fila a cantare. Dietro, ma anche sotto, molte facce sconosciute e tanti commenti in romanesco. Studenti e tante ragazze, che non sempre sanno cosa mettersi per simili occasioni. Di lato, in curva, i tesserati. Li vedo intenti a battere le mani. Saranno quattrocento, forse qualcuno in più. Sfilacciati. Angioletto dice di non ripetere l’errore di giudicarli da un solo punto di vista. Esistono gli ultras a questo mondo ed esistono i tifosi, sostiene. È il tifoso a segnare lo scarto che permette di vedere l’ultras, un po’ come nella scala evolutiva della specie. Sarà, ma anche tra di noi i tifosi sono tanti. Con tanti cellulari puntati, alla giapponese. Ogni tanto seguono un battimani, ogni tanto canticchiano qualcosa. Ma nella sostanza, sono sempre gli stessi quelli che si sbracciano e urlano forte. Un signore si aggrega al nostro gruppo. Si sgola, tanto che alla fine gli regaleremmo la maglietta, se ne avessimo. Il Foggia pareggia su mischia da angolo. Noi urliamo che è gol dal cross in mezzo. Alla fine l’arbitro ci asseconda. I cori si fanno anni Novanta e coinvolgono i nostalgici. Il Foggia segna altre due volte. La tribuna esplode, come la gradinata e la curva. Ma quanti ne siamo? Difficile stabilirlo. Mi diverto solo se. Siamo un po’ staccati dal resto dei nostri, e per quanti sforzi si facciano, sembrano vani. Amici, fuori dallo stadio, dicono che non è così, che anzi si è sentito tutto. Ma noi, prima ancora del rigore a favore dell’Atletico che cambia le sorti del match, abbiamo già battezzato come “mediocre” la prova sugli spalti. “Cori secchi, servono cori secchi”, ci esortiamo in bagno all’intervallo. Abbiamo subito il secondo gol su rigore netto, dicono tutti, ma l’espulsione del nostro difensore è esagerata. La ripresa è tesa, emozionante. Noi sbandieriamo e arrivano anche gli agognati cori secchi. Noi vogliamo questa vittoria. L’eco ci conforta, ma ormai abbiamo un’opinione ed è noioso rimettere sempre tutto in discussione. I nostri si difendono, noi facciamo la nostra parte, ma troppe chiazze occasionali restano mute ad osservare il campo. Non va. O, almeno, non va a noi che abbiamo l’occhio allenato. Alla fine l’Atletico pareggia con Baronio, uno che – come dice Lello – gioca da fermo. Ma ormai abbiamo individuato nell’arbitro l’artefice di questo rovescio. Il tabellone dietro di noi dice 3-3. In tribuna ci sono tanti ragazzini. Tra di noi, il solo Aurelio a proprio agio che scappa tra i seggiolini costringendo Manu e Ceska a fantastici placcaggi nel tempio del rugby. Il Foggia attacca. Siamo condizionati da Zeman, questa la vogliamo vincere. Perché la meritiamo. E quando uno dei nostri la mette a giro sul secondo palo, e la palla sfiora il montante, la delusione è autentica. Mi volto a guardare il display. Recita: 91’22”. Sarebbe stato fantastico. Tre a tre. È il risultato finale. Chissà come l’ha presa Venditti. Chissà Bobo Craxi.

Appendice e dedica al nostro piccolo ultras

Nel box in cui veniamo chiusi, vaghiamo. Sembra vagamente Benevento, nel giorno famoso della sconfitta play-off. Pare che anche stavolta vogliano evitare gli incontri. E fanno defluire i tesserati. Pensano che siamo alla guerra civile. Nell’attesa, il protagonista è ancora Aurelio. Lo è stato dall’inizio. Potrà dire d’aver vissuto la sua prima trasferta autentica a 13 mesi. Un lusso riservato solo ai predestinati. Gli ultras tibetani potrebbero selezionarlo come un Lama. Il furgone, gli autogrill, “Date un occhio se vedete i baresi”. Nella sera già invernale lisciamo un’uscita e vaghiamo per 2 ore tra i Castelli, in una delle zone più impervie e selvagge d’Europa. A Frascati ci aspetta il vino d’osteria e la porchetta offerta da Angioletto, che nella vita ha smesso d’essere un individuo e ora altro non è che una funzione: il padre di Aurelio. E una funzione, si sa, non compie gli anni. Né stasera, né giovedì. Altre tavole imbandite, altre bettole spartane, altri terzi tempi ci attendono, mentre noi stessi attendiamo il tempo tenendo alto un coro. Sempre lo stesso: Aurelio non si tessera!

11/10/10

La rampa di Gela

Domenica 10 ottobre, Gela-Foggia 2-1

Il Foggia di Lanciano e di Barletta è roba da tesserati, vissuto in tv con un crescente sentimento di inadeguatezza, di non-appartenenza. Il Foggia del ritorno allo Zaccheria, quello visto e non vissuto col Viareggio, resta materiale da tifosi di gradinata. Quello di Cava e di Castellammare, poi, talmente finto, costruito, appartiene per intero ad un concetto astratto, etereo di “tifoso”. Non è di nessuno.


La traversata


I fari tagliano un buio carico d’acqua. Non piove ancora con decisione, ma i tergicristalli sono all’opera. Tutti a destra, e-eh, tutti a sinistra, alé-alé. Dal buio del circondario – Puglia estrema, Basilicata, forse un pezzo di Campania, forse la taiga russo-siberiana – ritagliamo solo la forma del furgone che ci precede. E quando la carreggiata si piega di lato, la notte rilascia l’immagine di uno degli spettacoli più affascinanti in natura: il convoglio. Sette, otto furgoni intervallati da diverse auto private. La Foggia non tesserata punta a Sud. Biglietti in tasca, quelli della tribuna, costati 20 sudatissimi euro. Ma non omologarsi ha un prezzo, ed intendiamo pagarlo. Le birre passano di mano in mano, sostituiscono i termos di caffè. Davanti, un Johnny Walker da traversata fa meno danni di un Borghetti incontinente. Vorrei restare sveglio il più a lungo possibile. Vorrei vedere la Sicilia dell’interno. Ci lasciamo alle spalle Sala Consilina, e con commozione crescente ammiriamo i lavori statici sulla Salerno-Reggio. Si toccano velocità impensabili, in alcuni tratti si sfiorano i 40 km/h, in altri la carovana diventa la fila dei dieci piccoli indiani. Quando quantifichiamo in 300 e passa i chilometri ancora da percorrere prima di passare al traghetto, affoghiamo il dispiacere del realismo in barrette di Kinder confezione famiglia. Tre ore e mezzo, forse quattro, a sentire Enzo che parla di arancini allo zafferano. Ne parla ininterrottamente da giovedì, ormai, tanto che ho deciso di non prepararmi neppure un panino per non guastarmi la sorpresa. Le luci dell’alba salutano il tratto migliore dell’intera arteria, quello dove le macchine camminano in due diverse corsie (incoscienza pura!) e mostrano le stupefacenti sopraelevate nella loro raggelante bellezza. Si vede il mare, e di fronte la Sicilia, mentre i paesi dell’ultima parte di strada sul continente sono macchie indistinguibili sotto l’asfalto. Le 8 passate quando raggiungiamo l’imbarco di Villa San Giovanni. Stazione marittima, sgranchirsi le gambe. A vederci così, tutti giù dai mezzi, siamo una discreta macchia nera. È faticoso mantenersi coerenti, sopportare l’avversa fortuna, quando cedere sembrerebbe così facile, quasi ovvio, quasi scontato. Invece. Il piacere matto che si prova nel soffrire da stoici e poter mantenere la testa alta, non ha prezzo. E non è uno spot. Sul traghetto si può ascendere ai piani alti. Facciamo le rampe come bambini in estasi. E quando il mezzo si muove, sentire il freddo sulla faccia, staccarsi dalla terra ferma e puntarne un’altra, è una sensazione piacevole. Si sta come nostromi a sfidare il vento contrario. E le metafore pioverebbero facili, se volessimo rimanere nel banale. Invece. Bandiera pirata issata sulla balconata. Messina in avvicinamento. Poi di nuovo giù, di nuovo dentro i mezzi, di nuovo lo spettacolo del convoglio. In autostrada fino a Catania, ma la Sicilia che scorre di lato riesce ugualmente a catturare lo sguardo. Ha carattere, quest’isola, anche se il tratto più interessante, ne sono certo perché è l’unico che voglio vivere a occhi sgranati, sarà quello interno, la statale per Caltagirone e Gela. E mica per niente, dopo una nottata passata a far funzionare il lettore cd del Ducato, a riascoltare un balbettante Giuliano Palma e sentir saltare i Bluebeaters, a cantare una versione live di Notte prima degli esami beccata in radio, gli occhi si fanno improvvisamente pesanti. E cado nel vuoto dell’incoscienza proprio nel momento tanto atteso. Lo svincolo. Quando li riapro mancano trenta chilometri alla meta. Mi sono perso tutto. Bevo whiskey attaccandomi alla bottiglia come un ubriacone di lungo corso. Attorno le luci sono limpide, la campagna è arida e gialla e al contempo verde e fresca. Sull’altura, Niscemi. Dietro, nel furgone, c’è vita. Si parla di arancini al ragù e di varianti alle alici. Probabilmente non hanno parlato d’altro durante l’intero viaggio. Mi ricordo di avere fame. Tanta fame. Fame autentica. Il faccione dell’eterno bambino dei Kinder mi sorride ammiccante dalla confezione sul cruscotto: “Cazzo vuoi?”. L’ultimo cartello. Gela.

Gela

Estrema periferia. Un traffico da ingorgo, che ci vorrebbe Johnny Stecchino. Clacson che strombazzano. Qualcuno ci saluta dagli abitacoli e dai marciapiede. Noi siamo una specie di pachiderma, di capodoglio in cerca di spiagge grandi abbastanza per permetterci d’arenare. Non chiediamo di meglio. Senza coscienza, sospinti dalla marea, ci ritroviamo dinanzi allo stadio, riconoscibile da una fila di bandiere biancoazzurre sui pennoni. Il parcheggio è nei paraggi. Sono le 13. Undici ore scarse dalla partenza a piazza Libanese. Il fumogeno degli Orange illustra ai passanti il nostro benvenuto. “Fate i bravi”, ci sentiamo dire da dietro. I quattro carabinieri hanno facce da Sedotta e abbandonata. Uno prova a fare l’ostile, quasi l’ordinato. Ma, diciamocela, non è credibile, e la sua mossa si limita a farci parcheggiare tutti nello stesso verso. Un ottimo lavoro. Un altro, faccia da persona per bene, alza la voce nel parlare al telefono: “Ma sono qui, ti dico… Ho capito… Ma ti garantisco che ce li ho davanti”. Viene da sorridere. Evidentemente s’aspettavano solo quei 5 tesserati. E si che siamo nell’era telematica che annuncia l’era dei microchip. Ho fame e allungo l’attesa ripulendo la mia parte di furgone. Il Conte e Davide mi danno una mano. Siamo pronti. Pronti per assaporare uno dei motivi di questa trasferta, i fantasmi evocati da Enzo per una settimana. Puntiamo il primo bar. Una volante ci affianca. Ci accompagna. Chiuso. Allora il ragazzino nel mezzo bianco-blu ci indica un secondo approdo. Puntiamo a quello, con lo stomaco in trepidante attesa. Ma la signora ne ha due solamente, e sono freddi e simili a quelli che si trovano al Pic-nic o al Capriccio. Usciamo, con un principio di sconforto incipiente. E un nuovo carabiniere si intromette nella discussione. “Sentite, ma ci dovete seguire ovunque?”. Quello un po’ ci resta male. Risponde: “No…”. Come a dire: vi stavo solo facendo compagnia. Recuperiamo parlando di cibo. Ci spiega che la Sicilia non è la Puglia, dove tutto si gioca a pranzo. Qui il meglio se lo riservano per la sera. Ci saranno pizze, calzoni e cannoli dopo le 17,30. Quando noi saremo in viaggio, in pratica. Ci lascia soli, come avevamo richiesto. Allevio la delusione con una Moretti. E lo stomaco mi si contorce. La gastrite tipica di queste situazioni di speranza e illusione. Vaghiamo, come dispersi, orfani della nostra guardia del corpo. Una coppia di mezza età ci ferma e ci saluta. Sono di Licata, prima patria di Zeman. Sono venuti apposta. Altri due ci chiedono: “Ma insomma, com’è il mister?”, “Vecchio”, rispondiamo noi. Una nuova macchina si accosta al tavolino dove abbiamo ordinato un altro giro di birre. Sono parenti di un giocatore. Dicono di aver visto Zeman. Ormai la figura dell’allenatore sovrasta ogni altra rappresentazione della nostra squadra. Eppure. Oggi, per quella maglia, abbiamo viaggiato, e tanto. Sentiamo rinascere quell’amore disarcionato dalla Tessera.

Questioni di metodo

Alle 14 siamo pronti. Ma essere pronti non è mai abbastanza. Ora dei funzionari di polizia ci comunicano che possiamo accomodarci. Nel settore ospiti. Pensiamo di aver capito male. Riteniamo che l’ispettore si sia confuso, abbia usato termini in disuso per colpa dell’abitudine. Ma ci vuole poco per comprendere che così non è, e in un lampo ci ritroviamo immersi fino alle caviglie in una nuova spinosa polemica. La questione è: non possono permettere che cento foggiani prendano posto in tribuna accanto ai tifosi del Gela. Sarebbero costretti a far rispettare la numerazione dei biglietti, a sparpagliarci, a far spostare tanti gelesi. È un cavillo, lo si intuisce a miglia di distanza. Si apre il dibattito, che genera una ventina di sotto-dibattiti. Sanno quanto costi a gente che s’è fatta 800 chilometri rinunciare alla partita. Ma rispondiamo bene. Del resto: abbiamo dovuto rinunciare a tanto, non sarà certo una partita a cambiare le cose. Sembriamo spuntarla, e dopo un quarto d’ora di Porta a Porta, garantiamo di fare blocco. Del resto: non chiedevamo di meglio. O, meglio: non abbiamo mai pensato di fare altro. Ma si deve sempre far credere che anche il respiro sia una concessione. È il gioco dell’autorità (“Vi stiamo trattando bene perché siete amici di questa gente”…). Passiamo un prefiltraggio composto da tabelloni elettorali e scaldiamo la voce. Ma che bello è stare insieme a te, Tesserati mai, tesserati mai, sempre in mezzo ai guai. La fila di gelesi per entrare è lunghissima. Ci guardano tutti. Noi cantiamo, mani al cielo. Un signore dai capelli bianchi sgomita per parlare con un responsabile dell’ordine: “Ma entreranno qui?”, “Pare di si”, “E si può?”, “Oggi si”. Non è tanto per i 20 euro spesi. I soldi non sono mai una questione degna di nota. È il principio. Se la trasferta è libera, se le norme mostrano una crepa, io mi precipito. È ovvio. Non ho voglia, nessuno ha voglia, di farsi estromettere dal proprio habitat. Dentro sento un nuovo funzionario sbraitare con un sottoposto: “Ma tutte queste cazzo di bandiere chi le ha fatte entrare? Adesso mi sentono”. Devo ammettere che sono tanti i funzionari in borghese. Direi troppi, vista la relativa calma e l’inevitabile confusione degli ordini impartiti dall’alto. C’è molta gente. La curva è piena, la tribuna si riempie velocemente. Noi siamo a destra, in un fazzoletto di seggiolini. La gente attorno si è semplicemente spostata, lasciandoci un cuscinetto d’aria. Nessun problema. Invece. In cinque minuti cambia tutto. Di nuovo l’esercito di uomini in borghese cambia idea. E ci comunica che lì non possiamo più stare. È assurdo, semplicemente. Riparte il faccia a faccia. La gente di Gela, che ci aveva tenuto accanto senza problemi, non comprende più. Del resto: noi siamo gli ultras, individui irrazionali e animaleschi, a sentire media e ministri. Comincia a rumoreggiare. Siamo pur sempre invasori in una zona franca, e loro – i legittimi abitanti di quelle lande dello stadio – non vogliono problemi. Si farebbe troppa fatica, anche se sarebbe utilissimo, spiegare a tutti come stanno le cose. Parlare di un decreto inutile, delle contraddizioni che genera, dei fastidi che provoca a tutti. Ma non c’è tempo. Ci invitano a sloggiare. E la tribuna, che ha seguito l’evolversi della vicenda, applaude i carabinieri che fanno il loro ingresso risolutore. Non è colpa loro, hanno semplicemente frainteso. Chi non ha frainteso per niente, invece, ed è responsabile del sommovimento d’animi che crea, blatera. Ci vuole fuori dalla tribuna in un flash. Io parlo con l’ennesimo uomo in borghese. È mancanza di buon senso, inutile lamentarsi dopo. Siamo entrati in pace in un settore pacifico. È solo grazie al loro intervento confusionario che adesso le tanto paventate “teste matte” potrebbero avere buon gioco e venire a galla. Noi non molliamo. Siamo sulla scalinata d’accesso, a due passi dalla rampa per i disabili. Siamo cento, disposti su tre file. Qualcuno in piedi sul muretto, qualcuno sotto, qualcuno in balaustra, ma i più a terra, in un corridoio da cui il campo neppure si intuisce. Ma la posta in palio è sempre la stessa: la dignità. Far capire che non ci pieghiamo alle disposizioni assurde così come non indietreggiamo dinanzi ai decreti folli. Restiamo lì. E cantiamo. Succeda quel che succeda. Ma che bello è stare insieme a te, Tesserati mai, tesserati mai, sempre in mezzo ai guai. I gelesi della tribuna fischiano, ma non li abbiamo lasciati indifferenti. Magari non comprendono fino in fondo, ma vedere cento persone che cantano e sventolano su una scalinata, rifiutando il comodo e vuoto settore ospiti, dopo una notte e una mattinata di viaggio, fa colpo. In tanti ci guardano. Poi, nonostante gli sbirri, prendono coraggio. Anche perché per andare in bagno, o uscire, o andare al bar, bisogna passare da quella rampa. Non ci sono terze vie. Bisogna passare in mezzo a noi. Sventolando in disparte – perché se lo fai nel corridoio becchi sicuro qualcuno – vedo i primi gelesi scendere. Il Foggia, abbiamo arguito, perde già 2-0. Un signore mi si avvicina e rompe il ghiaccio scherzando sulla difesa dell’US. Poi mi dice che a Gela siamo i benvenuti. E si capiva che era quello che voleva dirmi. Che era sceso quasi apposta. Un secondo signore mi stringe la mano: “Benvenuti, ragazzi”. È un cambio d’atteggiamento repentino. In tanti si sentono di farci un gesto di sostegno, di parlare con noi, di sostare qualche secondo in più. Si accorgono che non eravamo noi il problema. Noi ci facciamo sentire, sosteniamo la squadra che – poco alla volta – risentiamo nostra. Vedo persone che mi sfilano accanto con panini ripieni di gelato. Manca ancora un quarto d’ora alla fine del tempo e se esco, Enzo mi sgrida. E il mio fisico deprivato di cibo non è in grado di reggere le umiliazioni. Desisto. All’intervallo, l’intera tribuna si rovescia per le scale. Due battute col funzionario: “Sicché, era fuorilegge sistemarci sulle scale, e ci avete sistemato sulla rampa dei disabili. Ottima mossa”. Poi anch’io vado da Sasà il gelataio, che sembra una divinità indiana a molte braccia. Siamo gomito a gomito coi gelesi al bar, e non potrebbe essere altrimenti (quando si dice la sicurezza!). Mi chiedono perché siamo contro la Tessera. È così che funziona, ed è bellissimo. Spiego, ascoltano, domandano ancora, annuiscono. “A Foggia non ce l’avete questa granita qui, eh?”. Sorrido, e non so perché vorrei rispondere che c’abbiamo i torcinelli. Taccio appena in tempo. La ripresa è bellissima. Non in campo, quello non lo vediamo proprio. Ma tra di noi. Un carabiniere mi chiede perché passo il tempo a guardare la mia bandiera che sventola e non la partita. Vorrei rispondere: “Ma fatti i cazzi tuoi…” (anche qui taccio un attimo prima), ma mi limito ad un enigmatico: “La partita siamo noi”. Quello non capisce, va verso i ragazzi sul muretto, ne chiama uno per dire che così rischia di cadere, lo tocca, quello perde l’equilibrio e cade. Il carabiniere si dilegua tra i colleghi. E faccio festa per quattro giorni al mese, Il calendario per me lo sai non ha sorprese. Il Foggia fa il 2-1. L’arbitro concede 5 minuti di recupero. Fino alla fine, Forza ragazzi! E in quel lasso di tempo, riconosco la mia maglia, la mia squadra. Sconfitta, disperata, bellissima. Perdiamo. La tribuna esplode, noi chiamiamo i nostri sotto la rampa. Poi, tolte le pezze, ci incamminiamo verso l’uscita. E qui succede una cosa inattesa. L’intera tribuna sta applaudendo, ma è rivolta verso di noi. Sta applaudendo noi. Non ci credo. Saluto, salutiamo. Dovrò rielaborarla questa scena, penso, ma sono certo che qualcosa abbiamo lasciato qui, oggi, se una tribuna che due ore prima sosteneva l’intervento degli sbirri, adesso omaggia la nostra passione, il nostro compiuto sacrificio. Sul traghetto, qualche ora dopo, qualcuno ci dirà di aver sentito in radio degli sportivissimi tifosi non tesserati del Foggia. Ribadisco: non siamo santi, non siamo angioletti, ma abbiamo dignità, rispetto e onore da vendere. E non solo noi, ma tanti ultras di questo Paese. È tempo che la gente comune, quella terrorizzata dai media dello scoop, lo comprenda.

Il Foggia di Lanciano e di Barletta è roba da tesserati, vissuto in tv con un crescente sentimento di inadeguatezza, di non-appartenenza. Il Foggia del ritorno allo Zaccheria, quello visto e non vissuto col Viareggio, resta materiale da tifosi di gradinata. Quello di Cava e di Castellammare, poi, talmente finto, costruito, appartiene per intero ad un concetto astratto, etereo di “tifoso”. Non è di nessuno. Il Foggia di Gela è il nostro. Di nuovo, e per sempre.

PS:

“Fermati! Fermati! Una rosticceria”. “Buonasera, ce ne fa 25”. E così, in quel di Messina, poco dopo le 21, anche il fantasma degli arancini siciliani s’è palesato.

06/10/10

Quindici euro, famiglie tradizionali e ologrammi

Mercoledì 29 settembre

15 euro, prevendita compresa.

Significa che una famiglia-tipo, di quelle usate dai sondaggisti senza scrupoli per vendere merendine del risveglio – mamma-papà-bimbo-bimba – per varcare le soglie acuminate dello Zaccheria domenica, dovrà sborsare 60 euro. Centoventimilalire, come convertono ancora i più anziani e quelli nati negli anni Settanta. Per godersi Zeman, certo. Ma anche la terza categoria italiana e un Viareggio che, con tutto il rispetto, non è poi tutto sto Milan. 60 euro. Significa saltare il pranzo, accodarsi a una fila scomposta, spingere come forsennati cercando di difendere o mettere in salvo la progenie, sbucare all’interno della curva, farsi perquisire, salire e cercare un posto da cui poter vedere e far vedere ai ragazzini gli altri ragazzini in campo, e dopo un’ora e mezzo + intervallo, avere la certezza d’essersi frusciati l’equivalente di tre mesi di abbonamento a Mediaset Premium. Dove spaparanzato in poltrona ti vedi la Serie A, la Champions e persino l’inutilissima Europa League (magari con in più quell’ulteriore tocco di superfluo che è l’hd).

Riportare le famiglie allo stadio era l’imperativo categorico di Maroni, qualche tempo fa. Uno di quegli slogan insensati che tanta presa fanno sull’immaginario collettivo. L’aratro traccia il solco e la spada lo difende. Si, ma da chi? È un problema di confini agrari? E le famiglie allo stadio sono il rimedio a che? Il toccasana a quale disfunzione? Il termine Hooligans, secondo alcune letture, deriva dai pestiferi figli della signora O’Hool, donna-madre irlandese nella Londra dell’Ottocento. In sostanza veniva costruito come O’Hool’s gang, la banda degli O’Hool, che pare fossero il terrore di un intero quartiere. Violenza gratuita, quindi, o motivata dal contesto. Certo. Ma anche tanto cuore di mamma. Una famiglia, in sostanza, gli hooligans. E le famiglie allargate, atipiche, anomale? Che Maroni pensi ai bei genitori biondi del Mulino Bianco e ai biondissimi, obbedienti, quieti figli delle Brioss quando sfodera idilliaci scenari prossimi venturi? E se poi decidono di “tornare” allo stadio le famiglie quacchere, o quelle fricchettone, o i clan scozzesi? Sarebbe un errore di valutazione terribile, un equivoco penoso sottostimare la percentuale delle famiglie non tradizionali di questo paese. Peccare di anti-modernità per un ministro, vivere nel passato. Un bel guaio. Una bella coppia di gay spagnoli con figli adottati a Manila? Pupo con le sue due mogli e i nipoti? Un sultano del Brunei col suo seguito?
Quali famiglie dovrebbero tornare allo stadio, la circolare ministeriale non lo specifica.
Ma si sa, questo è il Paese dove i pluri-divorziati, adulteri, puttanieri e habitué di trans organizza i Family day e parla dal palco alle masse impaurite dalla contemporaneità facendosi dare manforte da diversi ambigui in sottana e in odor di pedofilia. Ovvio che un rappresentante di codesta Repubblica nutra scompensi. Ed inventi una frequentazione passata degli impianti sportivi da parte di un soggetto che mai vi ha messo piede. Storicamente, dico. Le famiglie che dovrebbero “tornare” allo stadio, allo stadio non ci sono mai state. È come chiedere ai pinguini di tornare nella Savana. Basta vedere le foto d’archivio: non c’è traccia di pinguini nella Savana. Lo stadio, il campo sportivo, in quanto luogo potenzialmente pericoloso ma senz’altro sboccato e istintuale, era prerogativa maschile. Ci andava il capo-famiglia e, all’età giusta e sovente contro la sua volontà, quando sentiva la chiamata decideva di prelevare il primogenito, l’erede, il delfino, il più delle volte sottraendolo ai lunghi dopo-pranzo con i nonni e le femmine, per svezzarlo nella culla della mascolinità: la curva. Finché il cucciolo non abbandonava l’esemplare alfa e al campo si avviava con gli altri cuccioli, che nel frattempo avevano assunto le sembianze degli stessi scugnizzi che avevano cacciato i nazisti da Napoli. Ora le cose sono senz’altro cambiate in meglio: le donne ci vanno, eccome, in curva. E fanno anche meglio degli uomini. Ma le famiglie, per come le intende il Ministro, no, non esistono. E mai esisteranno. Specie se poi i presidenti piazzano a 15 euro un tagliando di curva. In tempo di crisi.

Parliamoci chiaro: la C1, o Lega Pro, ha gli anni contati. Tra fallimenti, ripescaggi, pescecani e bilanci in rosso, tra un paio di stagioni la terza categoria non sarà che un ricordo. In più lo scenario penoso degli stadi vuoti acuisce la sensazione di smarrimento: è come se una crew di guastatori si stesse applicando notte e giorno per devastare scientificamente quel che ancora è rimasto in piedi della passione per le proprie squadre locali. Un manipolo di esperti tagliatori di teste, al soldo forse della Lega, forse delle pay-tv, forse della massoneria deviata, costantemente all’opera per aggiungere sempre nuovi ostacoli tra il cittadino-tifoso e la struttura comunale (di cui il cittadino paga acqua, luce, gas e affitto) dove si svolgono le partite. Una perversione degna di miglior causa. A questo punto ci si aspetterebbe un imprenditore illuminato, un patron determinato ad invertire la rotta per non subire passivamente la morte della propria azienda, disposto a fare carte false pur di diventare sabbia nel motore del sistema. Uno che sbaragli la concorrenza abbassando drasticamente i prezzi dei biglietti, regalandoli ai ragazzini, che dica coi fatti: “Riprendetevi il campo sportivo della vostra città, riempitelo dei vostri colori, perché la squadra fa parte della vostra identità”. Uno così, senza proclami e pure giocando al risparmio sui giocatori, meriterebbe stima per il semplice fatto di dare linfa ad una pianta secolare eppure morente. Invece. La C1 è piena di insulsi ologrammi delle serie superiori, che giocano alla managerialità come i bambini della mia epoca giocavano alle biglie in strada. Scimmiottando Moratti o anche Zamparini parlano di diritti tv, personalizzano gli stadi, ammodernano, si avvalgono di una mezza dozzina di addetti stampa (manco fossero cistercensi alle prese con vecchie biblioteche alluvionate o sopravvalutando quel che hanno da comunicare), convocano esperti ad organizzare il merchandising ufficiale. La perfetta new economy del fallimento. Il calcio giocato, quello che dovrebbe interessare alle famiglie, come tassello in un complesso mosaico finanziario; scatola di cartone tra le cinesi scatole di ferro; il tifoso, anche se accompagnato dai genitori, diventa mucca da mungere. Sempre meno sacra. E con sempre meno giri di parole come spiegazione. 15 euro. Quando ce li chiesero a Potenza ci facemmo prendere per pazzi. Entrammo sventolando banconote finte da 50 euro. Quando ce li imposero a Terni srotolammo lo striscione “No al caro prezzi”.

Non è successo molto tempo fa. Anche se sembrano passati decenni. Ne convengo.

Il Libro