30/12/10

Consuntivo malinconico

Mio padre mi sorride complice, dall’altro lato del tavolo: “Hai visto Fratena?”. Usa lo stesso tono con cui, da bambino, mi chiedeva retoricamente: “Meh, sei contento mo?”. Quando dava per scontato che lo fossi.
Il giro sulle macchine a scontro della villa.
Il grande sogno domenicale mio e di mio cugino Guido.
Alla fine della giostra, ritornato sulla terra, la voce di mio padre incombeva implacabile: “Meh, sei contento mo?”. Era un’apertura, certo, ma soprattutto una chiusura di credito. Della serie: hai fatto quello che volevi, adesso ti spegni. E non rompi le palle con ‘sti capricci da fighetto. Capisco l’antifona di allora.
Nel presente di questo pranzo non so come interpretarlo. “Hai visto Fratena?”, “Sei contento mo?”. “La smetti di rompere una buona volta?”. Fabio Fratena, il Buitre di Capitanata, il nostro numero 7 negli anni che furono. Negli anni eroici. L’unico idolo che abbia mai avuto.
Si, certo, cerco di cancellare l’infatuazione – che era mia ed era collettiva, a parziale discolpa – per quell’essere immondo che risponde al nome di Beppe Signori. È rossonero, cantavamo come degli idioti all’Olimpico, mentre quello ci pugnalava alle spalle ed esultava sotto la Nord. Basta, finito, cancellato. Mi dissi, in un amen. Fabio Fratena, il biondo, non l’avrebbe mai fatto. Altra tempra di persona, altro calcio.
Finì la sua carriera in un sabato di Pasqua, in quel di Caserta. Tornò da nobile comparsa nella prima serie B di Zeman, quella con la Pasta Delverde sulle maglie. A godersi un traguardo che più di ogni altro aveva meritato. È tornato ancora nell’intervallo di Foggia-Cavese, insieme ad altri ex, appositamente per festeggiare i 90 anni dell’Unione Sportiva.
Mio padre mi sorride. “Insomma, hai visto Fratena?”. È come riportare indietro gli orologi, riscoprire tra le nostre strade differenti e reciprocamente incomprensibili – i diversi, opposti modi di essere tifosi di una squadra, di una maglia – un preciso punto in comune, quella scintilla primordiale di complicità che ci rende, nonostante tutto, simili. A me non viene da ricambiare il sorriso. E non certo perché non voglia anch’io sentirmi parte di quel tutto. Non sono mica uno snob. Si, papà è un tifoso da salotto, ormai, capace di ingoiarsi d’un fiato le tre ore di insulsa diretta di Telefoggia, le cronache di Mario Schena su Teleblu, finanche la replica delle nove e mezza, e poi Baldassarre, Marsico, quello di Gercap. Ma di tornare allo stadio, no, non vuol saperne. Io ho le mie chiacchiere da ultrà. Le trasferte, i chilometri, i cori, senza saper riconoscere i giocatori, né volerlo; non ricordando interi quarti d’ora di partita. A volte, allo stadio, mi capita di concentrarmi su quanto avviene in campo. Di concentrarmi sul serio, come quando si studia Storia Bizantina. In quei minuti, decido che devo avere un’impressione, un parere, che mi servirà a dimostrare a mio padre che seguo, partecipo, comprendo. È un’usanza antica, di quelle che si trascinano compulsivamente. Come l’abitudine di ricordare a memoria i numeri estratti sulla ruota di Bari per dettarli poi a nonno Antonio, in un’epoca pre-Televideo. E quando mi accorsi che continuavo a farlo anche anni dopo che nonno se n’era andato, mi spaventai dinanzi alle certezze del cervello, inossidabili nonostante le perdite del presente.
Ma stiamo divagando.
Tornando sul punto: no, avrei voluto rispondere, non ho visto Fratena. Non ho neppure fatto caso che ci fosse. Ero giù, alla ricerca di un liquore clandestino, e mi sono compiaciuto quando ho sentito esplodere una cipolla, da qualche parte. Sotto l’albero c’è una multa in più, continuavo a cantare con gli altri. Indicavo la tribuna, dove immaginavo con soddisfazione il masticamento amaro di Pasquale Casillo. E gli altri spettatori della curva ci puntavano, ci chiedevano di smetterla con quelle canzonacce, che così stavamo rovinando tutto. Gridavano “Zeman Zeman” come a esorcizzare la nostra stessa presenza, ma senza gli ultras nessun coro può ambire a durare. E l’altoparlante della tribuna gracchiava qualcosa. No, non ho sentito il nome di Fabio Fratena. Non ne ho sentito nessuno. Perché a un certo punto è nato il solito faccia a faccia. Quei tifosi che di lato ci insultavano, perché la contestazione alla dirigenza, i cori contro Maroni e la Tessera, dal loro punto di vista, stavano stravolgendo le abitudini dello Zaccheria, rendendolo di botto un serbatoio di tensioni inesplose. E non quel catino infernale che dovrebbe essere. Anche nel giorno della gran festa. E, probabilmente mentre il mio idolo sfilava a centrocampo, io attaccavo a testa bassa.
Il solito concetto, ripetuto nei mesi fino a perdere ogni pretesa d’immanenza: caro il mio tesserato, quando Casillo ti ha ricattato promettendoti un posto di curva in cambio di una schedatura, sapevi benissimo a cosa andavi incontro. Quando hai risposto di “si” al sondaggio anti-ultras di Maroni, sapevi che ci avresti inferto un colpo probabilmente mortale. Ora che vuoi? Perché vorresti che sospendessimo tutto, che soffocassimo noi stessi, per il bene dei giocatori, dell’allenatore famoso e della dirigenza? E gli sguardi si fanno astiosi, perplessi. Divisi. Come gli abitanti di Berlino negli anni Sessanta, da un muro invisibile.
Un po’ come con mio padre, a cui non so spiegare perché non ho visto Fratena e no, non sono affatto contento mo. Ci hanno gridato “Fuori! Fuori!”. Siamo il sale di troppo che guasta la minestra. Altro che scintilla primordiale, altro che spirito comune, altro che complicità, parti differenti del tutto. Maroni, Casillo, chi per loro, hanno smascherato l’indole di questa gente. E mi hanno tolto quel gusto di sentirmi uno della comunità. Quella forza che oltrepassa i ruoli che ci siamo scelti. La foggianità, che poi a Natale sembra ancora più evidente, quasi lampante. Ora è la diffidenza a farla da padrone, mista all’entusiasmo artefatto di una piazza ansiosa di rivivere i fasti del passato. A prezzo d’estinzione. Siamo stati sfortunati.
Ma certe volte, non lo nego, vorrei tornare a quelle domeniche di fine anni Ottanta, quando a casa di nonna si parlava della partita. E ne parlava Nicola, che era un ultrà ed era stato a Licata e a Giarre, ma anche papà, il ragazzo di Paola, zia Anna, che era una semplice osservatrice. Pezzi diversi di un ingranaggio collettivo, che era la passione per la maglia, per la città, prima che Maglia e Città prendessero la maiuscola e fossero convertite in codice. Ecco. Avrei voluto rispondere a mio padre: “Certo che l’ho visto Fabio Fratena”. E risentirmi bambino, per l’intero spazio della risposta. Invece di ammettere a me stesso che qualcosa si è rotto. E difficilmente riusciremo a farlo riparare.

21/12/10

Grenoble. Resoconto di un viaggio.

Grenoble, 16-18 dicembre

Il nero di Troia e il vino dell’Isere; la soppressata di Faeto, il salame delle Alpi, i formaggi e il caciocavallo, sul tavolo comune, mentre tra le mani sfilano fotografie, si mescolano idiomi, si arrancano spiegazioni. A dire che quella è Cremona, nel giorno dei playoff e qui sono loro a Rennes. Brindisi e abbracci, quando bussano alla porta e giungono amici che non vediamo da luglio. Da Casalecchio. È la prima volta in Francia, la prima volta che guardiamo questa amicizia dall’interno. Tanta voglia di conoscere, di conoscerci meglio. Per giungere a destinazione abbiamo marciato lungo l’Adriatica stretta nella morsa, a 30 all’ora dietro i mezzi spargisale. Dieci ore di cammino per la colazione alla Bolognina, dove ci scambiano per una compagnia teatrale o, tutt’al più, cinematografica. Pagliacci. La strada per Torino, le tristi Langhe di pianura, l’esoso Frejus. E poi, finalmente, la France. In alto i bicchieri, e la casa si riempie di fumo e racconti, mescolati l’uno all’altro in un’unica splendida cacofonia. Fuori, il freddo non è così glaciale come ce l’aspettavamo. I giacconi da neve d’alta quota restano negli zaini, a ricordarci i colbacchi di Totò e Peppino. Possiamo affrontare i marciapiedi, muoverci verso il centro città. Alle nostre spalle scorre il Donc. Silenziosamente. Le case sono moderne in questa zona. In Place Notre Dame si aprono le porte del Centenaire. Calore improvviso. Altre strette di mano, altri abbracci. È il loro feudo. La loro base. Il loro chiosco di Salvatore. Birra e Chartreuse, che sembra assenzio. 55°. L’ideale per affrontare la prima serata grenoblese. Per sentirci a casa. In pochi minuti siamo sparsi per il locale, come se lo conoscessimo da sempre. Sono incredibili queste alchimie. Intuire un’affinità, approfondirla, viverla, e scoprire che – per quanti chilometri possano dividerci – c’è un’idea che è quasi un ideale, un misto di valori e cultura di strada, che supera le barriere, finanche quelle nazionali, ed unisce, accomuna. Fa somigliare questa piazza del centro di Grenoble in una proiezione della nostra via Pagano. Ultras. Una parola che oggi come ieri ispira nei benpensanti un sordo timore dettato dall’ignoranza; che nel presente italiano è nel mirino di una crociata ministeriale dai rari precedenti, destinata a fare da scuola al resto della società attiva, sempre più intontita dai media della paura. Ma che da queste parti è ancora il nome invidiato di uno straordinario movimento giovanile. È aggregazione, socialità, valori. E condividere simili principi rende uomini (e donne) più completi. Capaci di comprendersi senza traduttori. Fuori a fumare, mentre la temperatura vacilla e crolla. Sembra una città tranquilla, questa. Ordinata, pulita, non molto rumorosa. Eppure anche nel grande assembramento metropolitano, fuori dalle mura metaforiche della città, nell’ampia periferia fatta di paesi contigui, ci sono banlieue. C’è il fuoco della rivolta che si somma alla difficile integrazione delle comunità. 40mila italiani, col loro quartiere di pizzerie sul fiume, proprio sotto le linee della teleferica. E un ritorno di machismo, un traviato senso d’appartenenza, nelle generazioni più giovani. In quei nipoti di siciliani che non hanno mai visto la Sicilia. Nell’ortodossia degli algerini di terza generazione. Nelle gang che giocano al Bronx. Ma è una città ricca, Grenoble, industriosa, che offre possibilità e non chiede molto. I ragazzi e le ragazze del Red Kaos annoverano ogni origine, lontani anni luce dal settarismo comunitario. I francesi purosangue e quelli originari di Corato. Sono ultras, e guardano all’Italia. A Genova, a Torino, a Pisa. Alla culla di un movimento che a volte noi stessi sottovalutiamo nella sua reale portata. Quasi quasi ci imbarazziamo a raccontargli della Tessera, dell’oltraggio quasi mortale subito dal nostro mondo. Un velo di tristezza per quelle curve ormai svuotate di passione, annichilite dalla prepotenza di chi scambia un mandato da parlamentare per il diritto a non portare rispetto. Considerazioni pesanti, che si alternano con originale cadenza alle domande. Siamo incuriositi, realmente, da questa realtà orgogliosa, che sappiamo “schiacciata” tra la gloria antica del Saint Etienne, quella moderna dell’Olimpique Marsiglia e quella contemporanea del Lione. E felici di rispondere ai quesiti che riguardano la nostra realtà, la sua passione. È ora di cena, e la carovana di macchine si dirige fuori città, in altura. Il ristorante è pieno, i nostri amici hanno occupato due sale. I piatti atterrano sulle tavole imbandite, mentre si alzano i cori. Quelli in francese e quelli in italiano. Anche quelli in dialetto. La neve ferma l’idillio. È rovinosa e intensa, come quella che cade da noi una volta ogni tre anni. Dobbiamo abbandonare la postazione, la balconata e le luci della città dall’alto. Tra dieci minuti saremo bloccati dal mondo. Così, torniamo a scendere, tra tornanti già imbiancati che tendono a farci stare all’erta più del dovuto. Qui sono abituati, anche se quest’anno, ci dicono, non ha ancora cominciato a fare sul serio. Atterriamo in un pub. Il centro città è innevato. Si comincia a scivolare. E, di conseguenza, a ridere delle sventure altrui. Sembra prendere vita dal freddo che fa. Non si beve in strada, così dentro la calca è impressionante. I ragazzi ci impediscono di mettere mani ai portafogli, sembra quasi una forma di religione. La loro ospitalità è molto mediterranea. Le nostre gole e i nostri stomaci dimenticano l’elemento acqua. E a notte parliamo ancora: scorriamo le foto delle loro trasferte, della vecchia curva. Scopriamo che sono in rotta con il proprietario del club, un giapponese che a stento ha mai messo piede nello stadio, e che l’avvenieristica struttura del “Des Alpes” ha tolto un bel po’ di quella poesia che c’era in altri tempi. Sono retrocessi dalla Ligue 1 l’anno scorso e quest’anno viaggiano all’ultimo posto della cadetteria. Una crisi pesante, che ha ridotto all’osso gli appassionati. Un canovaccio che a Foggia conosciamo bene. Anche i tifosi, come gli ultras, sembrano non conoscere confini. Il venerdì è il giorno della partita. Si gioca alle 20, contro il Dijon, che per noi è il Digione. Un bicchiere di vin brulé per svegliarsi, e un po’ giochiamo ai turisti. Ma la neve caduta per tutta la notte fa del ponte sull’Isere la location ideale di una battaglia di palle di neve senza esclusione di colpi. Al Centenaire troviamo la fanzine. La curva Ovest saluta gli amici foggiani, c’è scritto. In italiano. C’è anche lo scudetto dell’Uesse, e si parla della nostra città e della sua storia calcistica. Cantiamo e brindiamo, mentre la neve batte sui vetri e inonda le strade. “Ma siamo sicuri che si gioca?”, e tutti rispondono che si, che questa è una zona abituata a certe manifestazioni climatiche, che il terreno è riscaldato. Dicono, e qualcuno tra noi capisce che anche i posti a sedere sono riscaldati e già pregusta il gyser sotto il culo. Riuniti a consesso nel fondo del locale, in commissione mista, studiamo la partita. “Dov’è la Snai?”, chiediamo in francese. Bisogna scommettere sulla rinascita. 1 risultato finale, 1 parziale. E montiamo dibattito sul risultato esatto. Torna in mente una sfida d’altri tempi, nello “Zaccheria” d’altri tempi. Era l’anno della prima serie B con Zeman in panchina. Il Foggia era reduce da diversi rovesci, e in casa si affrontava il Messina. La curva non contestò, decise di sostenere quei ragazzi. E fu la svolta della stagione. Vincemmo 3-1, segnò anche Signori. “Allora è andata, ci giochiamo anche il 3-1 risultato esatto”. Per similitudine. I grenoblesi ridono, non credono alla riscossa. I biancoblu, oltre a essere ultimi, segnano pochissimo. Tre gol sono davvero troppi. Cala la sera. E siamo pronti per muoverci in corteo verso lo stadio. Sotto la fontana della piazza ci incolonniamo. Tra cori e battimani tagliamo la città vecchia, dove l’impressione di estraneità aumenta anziché diminuire. I rari passanti, i commessi e le commesse dietro le vetrine riscaldate, osservano senza partecipazione. Dev’essere dura essere ultras da queste parti. Ma i ragazzi ci credono, e cantano, e battono le mani. Noi accendiamo qualche torcia, ad illuminare la strada. Alziamo gli stendardi. Tesserati mai. Ma che bello è… C’è un parco completamente imbiancato nei dintorni dello stadio, illuminato e futuristico. Accenniamo al progetto di Casillo, scettici. Poi è di nuovo tempo di battaglie. Foggiani vs Grenoblesi, a colpi di assalti all’arma bianca, a corpo a corpo e palle di neve, sotto gli occhi distaccati degli steward. Sono in tanti, qui. C’è anche un reparto anti-ultras, mutuato da Parigi. Sembrano professionali. Superiamo le transenne e ci affacciamo sull’impianto. Un piccolo gioiello proporzionato, da 20mila posti. Ci metto tempo per capire cosa ci sia di diverso dallo stadio di casa mia. Mancano le barriere di divisione tra il campo e gli spalti. Il portiere che si sta allenando è a due passi. Ci spiegano che il Grenoble, non bastasse, è in formazione d’emergenza. Almeno sette indisponibili, e molti primavera. Ci muoviamo in curva, raggiungiamo la squadra. “Dovete vincere”, gridiamo in foggiano. Quelli ci sentono, si girano, ci guardano. Superfluo aggiungere che non capiscono. Poi ci dedichiamo ai bambini-mascotte della scuola: Sosteniamo i primi calci! Le tribune sono semivuote. In curva c’è il bar. Vin brulé e sfilatino, come non facciamo mai a casa. Il banchetto dei Red Kaos sforna fanzine e sciarpe nuove. Il gruppo si rifornisce. Dentro c’è il palchetto per il lanciacori. Lo osserviamo con invidia. È tempo di giocarsela. E la curva, coperta, comincia ad urlare. La tettoia crea un bell’effetto d’insieme, e anche se sono in cento a cantare, si sentono. Eccome. Squadre in campo. Noi, poco avvezzi alle lingue, ci sforziamo di seguire le parole, ma sono i ritornelli quelli che intoniamo in blocco. Il Grenoble, in campo, ci mette l’anima. Una prova d’agonismo che ci coinvolge, acuita dal fatto che c’è finanche qualche giocatore senza nome dietro la maglia. Non professionisti. Poco alla volta ci appassioniamo, e quando il bolide da trenta metri incrocia il sette, esultiamo. Ha segnato un ragazzo che, ci dicono, è l’unico nativo di Grenoble, della banlieue. L’unico al quale si tributa un coro. Finisce il tempo, torniamo al bar. Il primo pronostico si è rivelato fondato. Ma la ripresa riserva altre sorprese. Il ragazzotto di Grenoble segna la sua personale doppietta, poi è il Digione a rifarsi sotto, a colpire una traversa, ad accorciare le distanze e fallire per poco il pari. È una partita divertente. I ragazzi ci omaggiano di uno striscione e un bel paio di cori. Noi ricambiamo, felici e convinti. E sul finale, una botta da fuori si insacca sotto l’incrocio. È il 3-1 risultato esatto. Ci guardiamo in faccia durante la ressa. Peccato che la signora del tabacchino ci abbia detto: “In Francia non si può giocare il risultato esatto”. Fischio finale e squadra sotto la curva. Pazienza, ci accontentiamo dei 60 euro incassati. Vorremmo dire: “Stasera offriamo noi un giro”, ma non ce lo permetterebbero. Così al pub irlandese dove passiamo la serata e parte della nottata (e dove la “sfortunata” Charlotte ha deciso di festeggiare proprio quella sera il suo compleanno!), siamo ancora ospiti. Ospiti allegri di questa realtà pulita e passionale, orgogliosa e giovane, che ci ha restituito un po’ di quell’entusiasmo che in patria, tra trasferte vietate, tessere-fedeltà e presidenti padroni, avevamo perso. Anche per questo, tanto di cappello al Red Kaos. Merci beaucoup. Davvero.

Ancora sulla Nuova Era (il giorno II della contestazione)

Le parole.

Sono pietre, si dice di solito. Sono importanti, diceva Nanni Moretti. Pazzi squinternati, scemi, scalmanati, delinquenti. Così ieri don Pasquale, nella pittoresca conferenza stampa del dopogara. Delinquenti. Il nodo gordiano: il passaggio progressivo, a piccoli scatti fugaci, minimalista, da un termine all’altro, in una progressione di significato che, nel’economia di un discorso fatto d’un fiato, sembra logica e consequenziale. E che invece nasconde la criminalizzazione di un insieme. Di cosa siamo accusati lo sanno tutti e l’abbiamo già ricapitolato a sufficienza: l’accensione di un petardo e di due fumogeni che hanno causato alla società la bellezza di 3.500 euro di multa dalla Lega. In pochi giorni convulsi, siamo arrivati ad essere delinquenti accusati di “atti di vandalismo”. Come se la nostra principale attività fosse quella di devastare auto, incendiare cassonetti, svaligiare negozi non per fame ma per sfregio. Delle due l’una: o i termini usati hanno ancora un senso, allora la coscienza pubblica dovrebbe insorgere a reclamare una ridefinizione, nonostante l’appeal del nuovo-vecchio imbonitore; oppure davvero il concetto di delinquenza universalmente riconosciuto si è esteso senza preavviso, giungendo a comprendere tutto quanto avversi il portafoglio di don Pasquale Casillo. Portafoglio dal quale prima o poi, ma è parere del tutto personale, tirerà fuori un coniglio.

I soldi.

L’alfa e l’omega di tutto. Anche di questo ha parlato. E tanto. Ha ammesso di non aver speso, al momento, ma ha garantito di poterlo fare. Come e quando vorrà. Nel frattempo, ha blaterato del credito infinito che rivendica dalla comunità. E la comunità gli si è stretta attorno per continuare a ringraziarlo, a baciargli i piedi come a certe statue di santi, fino a consumarsi. E nel giorno della contestazione, ha isolato gli ultrà con il colpo di teatro: l’annuncio della costruzione del nuovo stadio. Come chi, sotto di parecchie fiches di credibilità, rilancia alla cieca. Ha chiesto alla stampa, in sostanza, di diventare un sindacato giallo al suo servizio. E a giudicare dalla qualità del contraddittorio, ha fatto una richiesta futile. Superflua. A nessun giornalista locale è mai venuto in mente, fino ad oggi, di scavare sotto il manto di folklore che il ritorno di questo personaggio in Capitanata suscita, per scoprire i reali intenti e il cambiamento avvento nell’orbita amministrativa, economica e finanziaria di questa città sul lastrico, in conseguenza. Pensano al circo, i nostri giornalisti. C’è da scommettere che avrebbero continuato a farlo anche senza sollecitazioni padronali. La città in cui è tornato per – parole sue – rifare i soldi che gli sono stati rubati, è rapita. Sindrome di Stoccolma, direbbero i medici. In balia del proprio rapitore. Che, come certi prestigiatori che usano l’ipnosi, può permettersi di rovesciarle addosso qualunque improperio. Ottenendo in cambio un consenso assoluto, senza se e senza ma. Un’assenza di spirito critico, una foga umorale che è tipica degli appassionati di calcio. Ma che stona con tutto il resto, quando il nuovo signore usa il calcio per giungere ad innalzare cattedrali nel deserto.

La divisione.

Quando si dice, si diceva, “tutti uniti sotto una stessa bandiera”. Lo stadio, i settori popolari, come mitico agente affratellante: il ricco, il povero, il conservatore, il progressista, il colto, l’ignorante. Fianco a fianco. A sventolare la stessa bandiera. Culto retorico dei bei tempi andati. Strapaese. Ma un fondo di verità c’era. È innegabile. La Tessera, di cui mi sto stancando persino di parlare, ha divaricato il comune sentire. Errore di chi sottovaluta per indole non accorgersene sull’attimo. Del resto, quando si affronta una scelta di cittadinanza che avrebbe richiesto le barricate per strada, con il piglio e la leggerezza di chi sceglie un film da Blockbuster, è inevitabile. Adesso è tardi. E quanto visto ieri sugli spalti dello “Zaccheria”, con interi settori che invitavano gli ultras ad andarsene fuori dalle scatole, come fossero l’unica nota dissonante di un idillio per musica e testo, non è che l’inevitabile conseguenza della frattura consumata a luglio. La gente ama i portatori di sogni, che troppe volte coincidono coi venditori di fumo. E la gente degli stadi è la stessa delle urne elettorali. I realisti che si oppongono sono accusati di disfattismo, di essere dei cronici piantagrane. E vengono ignorati, minimizzati, invitati ad accomodarsi lontano dai maestri della New Age. “Si sta realizzando un grande progetto”, dice il pulcinella capopopolo. E, siccome di ogni rosa si immagina il profumo ma non le spine, nel dubbio è meglio bandire gli scettici. Poco conta dire a questa piazza che la realtà parla la lingua dell’inganno. A quelli che gridavano “Fuori! Fuori!” o facevano gestacci poco ne cale. Vogliono sognare con don Pasquale, sognare il sogno di don Pasquale. E si schierano con lui anche quando devono sborsare 30 euro per una gradinata, 15 per una curva; anche quando denuncia e diffida, quando licenzia e offende. È il prezzo da pagare. Il tributo al sogno di tornare grandi. A noi non rimane che aprire gli occhi e considerare i fatti per quelli che sono: non esiste l’unica grande fede che affratella l’ultras e il tifoso, il ricco e il povero. Esistiamo noi, la nostra minoranza assediata (da Maroni, dal patron e dal comune sentire dei cittadini “per bene”). Ed esiste il resto, col proprio approccio alla domenica sportiva. E tra noi e loro, la trincea.

Nota bene per il prossimo futuro.

Nessuno si permetta di accusare noi, il nostro modo oltranzista di amare questa maglia. Perché servirebbe solo da alibi. Gli dei da ringraziare per lo schifo vissuto ieri sono altrove. E non serve alzare il polverone della civiltà da imparare o della dietrologia a buon mercato. Ognuno si assuma le proprie responsabilità. Che quando lo stadio non sarà che un mortorio organizzato, una sala da thé all’aperto, una banca dati vivente di aspiranti all’autopsia, non potrete fare altro che rimpiangere i bei tempi della mitologia classica. E magari approfittarne per farvi un esamino di coscienza e comprendere di quanti ossequiosi si è lastricato il sentiero che porta all’ormai prossima, e quasi attesa, scomparsa del tifo.

10/12/10

Nota triste sulla nuova era

Nell’anno primo dell’Era della Tessera, ironico sarà morire uno per volta, sotto “fuoco amico”.
Come nelle trincee della Guerra Mondiale. Generali imbevuti d’accademia e di cavalleria da tavolo, graduati folli e ideologizzati, cinici per cupidigia, per ingordigia, arrivisti leccaculo, spie. A lanciare l’assalto suicida alle linee nemiche, a muovere uomini verso il fuoco. Col binocolo in mano. E poi i carabinieri in retroguardia, a servire i boss di turno. A scegliere uomini, a metterli al muro, uno ogni dieci, la decimazione. A fucilare italiani per punirli di aver disobbedito all’ordine assurdo di farsi massacrare; a giustiziare codardi veri o presunti. Loro, che in prima linea non c’erano mai stati.
Succede così.
Esagerato.
Di diffida non si muore. Di reato da stadio neppure. Non bisogna piangersi addosso prima del tempo. E sia. Riaffioriamo dall’analogia bellica. E proseguiamo fuor di metafora: qua non bastava Maroni, ci voleva pure Casillo!
Il sogno, il miracolo tante volte invocato al cielo dalla plebe superstiziosa, si è avverato. E lo ha saputo persino Virgin radio. Il processo di beatificazione è cominciato a luglio. E la città s’è stesa come un sudario sotto i piedi del Redivivo.
Sei mesi. Sei mesi dal suo primo intervento in tv. La voce del vecchio padrone che torna dall’Ade ad accampare diritti di successione. Calde lacrime agli occhi dei nostalgici della fu Zemanlandia (sic), l’agorà a dibattere accanitamente sulle picconate e sulle promesse, così simili a smargiassate da non meritare neppure attenzione, dell’antico signore di queste terre. “Riporto Zemàn, riporto Pavone, torniamo in serie A!”. Follie d’inizio estate. E, sotto la crosta dell’apparenza, il preciso piano di una nuova scalata. L’intera città, dalle sue fragili istituzioni in balia dei venti alla più accorta e servile imprenditoria, schiava contenta, rientrava nel piano industriale di rinascita del riconosciuto marpione. Bonapartismo, si direbbe in politica. Cesarismo. Aizzare le folle al suono di un progetto bellicoso, rispolverare il passato, l’epica dell’età dell’oro, e pilotare la massa sognante e feroce (che mai, prima d’allora, sembrava essersi accorta della decadenza in cui era sprofondata) nei fianchi molli delle burocrazie: gli otto soci, certo, ma anche il sindaco, l’Assindustria, e chi più ne ha più ne metta. Una spada di Longino, brandita con schiamazzante puntualità ad ogni scadenza vitale di quel calvario che è stata l’estate 2010 dell’Unione Sportiva. Alla fina l’ha spuntata, e tutti sappiamo come è andata. È rinato il circo equestre: la Gazzetta, il Corriere, il Guerin Sportivo, persino il Manifesto, a sgomitare per osservare da vicino la fecondazione in vitro del dinosauro. Jurassic park sul manto erboso dello Zaccheria. Nani, trapezisti e ballerine alla corte del Boemo, mentre Don Pasquale incassava la concessione quindicennale gratuita dello stadio comunale, estrometteva baristi e venditori abusivi dal tempio, raccattava in giro giovani under 20 (che fruttano denaro a mo’ di bonus dalla Lega per ogni domenica che giocano) per simulare una squadra da donare al Profeta (schermo blindato per ogni accenno di critica tecnico-tattica-filosofica), aumentava a 15 euro i biglietti dei popolari e legava l’abbonamento alla Tessera del tifoso.
Poi ci si sono messe le multe: le bottigliette di plastica che volano in campo a battezzare l’arbitro cornuto, vezzo tipico del tifoso-medio dalla notte dei tempi, ma anche il consueto armamentario degli ultras: dai cori contro quel pezzo di merda di Maroni fino all’accensione di torce, fumogeni, petardi; dallo sventolio di bandiere fuoridimensionate agli schizzi d’acqua sui guardalinee.
Esternò, don Pasquale, dopo la prima multa in quel di Fano.
“Imbecilli”, fece vergare allo scrivano Zingarelli. Provocò la piazza, che compatta gli faceva quadrato attorno, minacciando l’aumento dei prezzi e sollecitando una più attenta e mirata repressione. Come a dire che prima dell’avvento del suo secondo regno, la questura era rimasta colpevolmente con le mani nelle tasche. Ed ora il signorotto sentiva impellente il bisogno di assoldare nuova cavalleria fedele nel feudo lasciato per troppo tempo in balia di incapaci e blandi esecutori.
Ma ciò non ha impedito che lo stadio rimanesse uguale a sé stesso. Uguale a ciò che è sempre stato. A ciò per cui ha fascino. Basta pensare ad una festa di compleanno. D’improvviso uno dalle retrovie si fa spazio ed in onore del festeggiato accende un fumogeno. Invariabilmente uno nella calca a ridere, dirà a mo’ di commento: “E che stai allo stadio?”. Retoricamente, perché è chiaro che lo stadio è il luogo dei fumogeni. Per tutti, da sempre. Ma non per la Lega. Non per la “legge”.
Un capopopolo accorto, attento alla propria gente, alzerebbe lo scudo ed impugnerebbe nuovamente la spada di cui sopra. Rozzi, Anconetani, Viola, l’avrebbero fatto, ai tempi. Avrebbe alzato la voce contro la loggia dei potenti del calcio. Avrebbe attaccato il santuario delle multe assurde e dei provvedimenti disciplinari. Avrebbe disseminato il verbo, coalizzando le società affini. Si sarebbe attaccato al telefono, svegliando di notte presidenti cavesi e nocerini, tarantini e beneventani, per chiamare a raccolta, per dire “Basta!” agli sciocchi cavilli che strozzano il calcio in Lega Pro.
Probabilmente avrebbe fatto anche l’esempio della festa di compleanno.
Perché 18mila euro di multa per cori contro Maroni e colore sugli spalti sono davvero troppi per qualsiasi logica. Avremmo sentito don Pasquale starnazzare per qualcosa di condivisibile. E forse anche la mia generazione, che sperava d’averlo salutato per sempre sedici anni orsono, avrebbe avuto simpatia per la sua causa. Per la crociata dei pezzenti della serie C. Magari non l’avremmo mai detto esplicitamente e in pubblico. Ma una guerriglia mirata al calcio dei divieti e dei soprusi l’avremmo gradita. Altroché.
Invece, il signore che tutti qui chiamano “don” pur non avendo mai preso i voti ecclesiastici (!), ha scelto una differente exit-strategy. Ha aumentato i biglietti della gradinata a 30 euro. 30 euro, 60mila lire, per una partita di terza serie. Decimazione. Anzi no, fucilazione di massa. Rappresaglia. Per punire gli ultras che, orfani (e non certo per colpa loro) della Curva Nord, si sistemano proprio nell’angolo della cosiddetta Tribuna Est.
E la piazza, che avrebbe dovuto insorgere, ammaliata dalle parole del caudillo di San Giuseppe Vesuviano come e peggio dell’equipaggio di Ulisse con le sirene, ha appoggiato incondizionatamente. Dopo annate di fuochi artificiali e poveri animali vivi costretti ad una fuga disperata in campo (i conigli barlettani, i galletti baresi), si è improvvisamente retrodatata educata. Di un’educazione speciale, inglese. I baronetti della minchia hanno detto “Basta!”. Basta con gli ultras e la loro inciviltà. Basta con questi delinquenti mascherati da tifosi. Ne hanno invocato la denuncia (anche con l’ausilio delle telecamere a circuito chiuso), l’arresto, la deportazione, la lapidazione. Tutto, pur di compiacere le ragioni irragionevoli del nuovo signore a costo zero. Uno che vuole fare l’imprenditore senza mettere a conto i normali rischi d’impresa (in questo non diverso da Marchionne, ma lasciamo stare); uno che vuole fare il capopopolo senza popolo. Senza intelligenza. Senza riconoscenza, senza rispetto, nei confronti di chi il Foggia l’ha seguito nelle notti più scure della mezzanotte. “Ma che vuoi che gliene freghi a quello…”, dicono i più avveduti, quelli che la sanno lunga, a mezza bocca. “Quello soldi vuole fare!”. Indubbio. Triste e indubbio.
Così come indubbio è che questo continuo parlare di soldi, questo strapotere dei soldi, questo ritenere i soldi unico valido fine per qualsiasi sacrificio e al contempo unica giustificazione seria per qualsiasi azione, stia smorzando la fiamma di una passione che sembrava inestinguibile.
Anche questo è molto triste. Ma sembra interessi solo ad una minoranza di sudditi.

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