08/12/11

Nei panni di Casillo

Ieri siamo rimasti fuori. Al bar. Si diceva: “Meglio sette euro di birre”.
Meglio. Non tanto per lo spettacolo – che sapevamo scadente – di un Foggia-Benevento di Coppa Italia. Fosse per quello, per lo spettacolo, rimarremmo al bar anche durante le sfide di campionato. La Peroni, a differenza di Tomi e Gigliotti, non tradisce mai. E neppure perché il segnale della nostra contestazione alla squadra e alla dirigenza doveva arrivare durante una partita tanto inutile. Ben altre sono le gare dove far valere il nostro silenzio. La nostra assenza. Altro è il punto. E provo a spiegarlo facendo un salto di immedesimazione. E, specifico prima di suscitare allarmismi, è un parere del tutto personale.
Un passo indietro e una reincarnazione.
Nei panni di Casillo, alla vigilia di questo sfibrante turno infrasettimanale, mi sarei guardato allo specchio di casa. O nello specchio fittizio dei miei collaboratori più fidati. Quei tre o quattro che mi sono rimasti. Avrei abbozzato un consuntivo di mezza stagione. Mi sarei detto: la squadra è reduce da una delle più cocenti sconfitte della sua storia recente. Non tanto per i parametri assurdi e assodati della classifica, per i valori d’equipe, per la consistenza dell’avversario in questa stagione specifica. Quanto per il nome. Lumezzane, dio santo! Basta nominarlo per sentirsi moralmente alla frutta. Due a zero per loro, nell’anno che avevo garantito essere quello della risalita in volata. Risalita che da queste parti attendono con indefessa pazienza e immutabile fiducia da tredici stagioni. Lumezzane. Senza contare che la sconfitta ha sprofondato la squadra nel baratro della zona play-out, sprofondo che – a onor del vero – quando c’erano i miei otto predecessori era stato centrato una volta soltanto in quattro campionati. Tre dei quali finiti agli spareggi promozione.
Questo dato mi avrebbe invitato alla cautela. Ma, di più e oltre, allargando lo sguardo sul contesto sentimentale, che poi è l’anima di quel che rimane del calcio, soldi a parte, avrei individuato altri nei. Estesi ed anti-estetici. I giocatori hanno la cresta troppo alta. E va bene che in città, da qualche tempo, nessuno li aspetta più davanti ai ristoranti o ai locali dove fanno la bella vita – per quel che può considerarsi la bella vita di un calciatore di Lega pro in una città di provincia – ma neanche è bello che uno come Gigliotti si permetta di zittire il pubblico, uno come Tomi di rispondere per le rime ai tifosi fuorisede. Per non dire di quell’altro, del barese, che ho reintegrato dopo che – solo un paio di anni fa – aveva garantito la guerra a questa gente e a questa città. Insomma, non sono bei gesti. La piazza è surriscaldata. E, io nei panni di Casillo, so anche quanto poco feeling ci sia tra noi. Mi accusano di aver gettato fumo negli occhi, di aver approfittato del calcio per tornare a fare i miei affari di sempre, di aver trattato con astio e presunzione il rapporto con la tifoseria, di nutrire nei confronti di questa città un secolare spirito di rivalsa. Quasi di vendetta. Sono volate parole grosse, e non solo. E questa è una piazza passionale e vanitosa, che non ha complessi nei confronti di nessuno e campa di calcio. Mentre attorno lo sfacelo e la dissoluzione sociale stanno portando ad una crisi valoriale senza precedenti. Qualche giorno fa Il Sole 24 ore ha posizionato la provincia di Foggia al centosettesimo posto su centosette. Ultima, per tenore di vita. E la gente che soffre del precariato e degli espedienti è la stessa alla quale chiedo 15 euro per un biglietto di curva. Salvo poi lamentarmi che non corra a vedere il Sorrento.
Io, che sono il proprietario della società di calcio di questa città, a ventiquattro ore da una sfida di Coppa Italia di C, ste cose le penso. Il disamoramento, la rabbia, la tensione, vengono prima del rendimento. E non è detto che da esso direttamente scaturiscano.
Per tutto questo, e per molto altro ancora, avrei detto a quei quattro collaboratori che ho: che si aprano le porte dello “Zaccheria”, che la Foggia che ama il Foggia venga informata e corra allo stadio a sostenere i suoi colori, in un anonimo pomeriggio di dicembre. Un atto che non sarebbe stato d’amore, perché a un proprietario non si chiede questo, ma di rispetto. Un risarcimento minimo e parziale per chi, anche stavolta, ha creduto e seguito. Ottenendo in cambio un pugno di promesse. Senza contare, egoisticamente, che sarebbe stato un bel colpo ai miei tanti detrattori. In molti avrebbero detto: “Hai visto Casillo, ha fatto il gesto?”. Il Foggia, per quanto si vogliano apporre timbri sulle carte o intercedere per le garanzie bancarie, è dei foggiani. Inutile sfidare la fortuna avversa. Questa gente ama e odia con la stessa intensità.
E allora: porte aperte, ingresso libero. O a sottoscrizione simbolica. Uno, due euro. Cosa ho da perdere?, mi sarei chiesto nei panni di Casillo.
Ma io non sono Casillo. Per fortuna. E non ragiono come lui.
Che coi suoi quattro collaboratori si sarà anche incontrato, si, ma per dettare il tariffario. Sette euro per la gradinata, cinque per la curva.
Questa al paese mio si chiama arroganza. Ottusa, cupa, cieca arroganza.
Un disinteresse olimpico per i tifosi, uno schiaffo alla miseria di chi s’arrangia e alle maglie rossonere non vuole rinunciare. Una mossa degna del commerciante di bestiame che abbiamo imparato a conoscere in venti anni di fermo-immagine. E, se mi si permette, anche un gesto di abbacinante miopia dal punto di vista economico.
Così, dopo aver augurato al patron di investire in medicine ogni singolo centesimo del suo grasso introito infrasettimanale (e non solo), abbiamo rispolverato una vecchia massima, che fu dei laziali. Siamo e saremo il dodicesimo uomo in campo solo quando lo decideremo noi.
Nessuno deve permettersi di speculare oltre ragione sulla nostra fede, sui confini dilatati della nostra passione. Nessuno deve darci per scontati, scimmie ammaestrate che urlano, sbraitano e fanno prendere multe, ma che a conti fatti ingrassano sempre e comunque le tasche dei conquistadores. E siamo rimasti fuori, a soffrire in silenzio per quelle maglie che in campo affrontavano una sfida, nell’atmosfera irreale di un antistadio dove persino le urla di incitamento dalle panchine risultavano più massicce di quelle degli spettatori paganti. 159, per la precisione.
Che alla fine viene da chiedere: valeva la pena perdere la faccia per un incasso simile?
Parere personale, ripeto.
Del resto, come diceva De Andrè dei giudici, “Se fossi stato al vostro posto, ma al vostro posto non ci so stare”.

03/12/11

La “guerra” di Coletti


Il reintegro di Coletti – convocato per la sfida di domenica a Lumezzane – oltre ad essere un pericoloso segnale di navigazione a vista, dal punto di vista strettamente tecnico, ed un indizio preoccupante da quello societario (“per Casillo sono un peso”, disse il soggetto all’epoca di Cosenza) è per noi molto più: un vero e proprio schiaffo in faccia.


Un insulto al nostro modo di vivere la passione per la maglia rossonera.

Per i distratti, è bene rinfrescare la memoria. Tommaso Coletti (da Canosa, Bari) è l’uomo che con i suoi gesti e le sue dichiarazioni ha più volte dimostrato il suo reale “attaccamento” ai nostri colori. Quando chiese con insistenza di essere ceduto, accampando presunti dissapori con l’allenatore, e quando finalmente approdò alla corte di Galderisi in quel di Pescara. Quando tornando da ex disse, testualmente, riferendosi alla nostra accoglienza: “È gente questa che non si merita niente, da oggi è guerra”.

Premesso che sarebbe bello vederla, la guerra di Coletti… Ribadiamo il nostro pensiero. Che ai meno distratti dovrebbe essere chiaro. Da sempre.
Noi preferiamo una squadra tecnicamente non dotata, ma che nei novanta minuti e durante la settimana, grondi sudore e sputi sangue, ad una di talenti svogliati, viziati e senza rispetto nei confronti della maglia e della città. Di quello che per noi questo binomio rappresenta.
Arriviamo a dire che è meglio mantenere la dignità e la memoria che svendersi per una salvezza.
Questo è un messaggio che farebbero bene a tenere a mente tanto i dirigenti che il mister.

Il posto di Coletti è a Pescara, a Canosa, o dovunque voglia trovare riparo.
Ma, in ogni caso, distante dalla nostra città.


Curva Nord Foggia

20/11/11

Gigliotti e Bartali

Le immagini slavate, d’un bianco da Zecchino d’oro, sovraesposte e novembrine, ci comunicano una realtà che non ci appartiene più. In diretta. Quella gradinata vuota, quel settore semi-libero, gli alberi spogli, il quartiere che alle spalle della curva s’estende antico e familiare, l’insegna del bar, luminosa, essenziale e franca. E si, in campo il Foggia e la Spal. Ferrara, stadio Mazza. Noi a casa, ormai come da brutta, maroniana abitudine. E Telefoggia col nevischio, perché sul satellite ogni pixel è grande come la testa di Lanzoni. E sembra di giocare a Kick off all’Amiga. Ad un minuto qualsiasi della ripresa, l’arbitro sventola il cartellino rosso sotto il naso di un giocatore in maglia bianco-azzurra. Il Foggia, che fino a quel momento è sembrato un’armata fantasma, può farcela. Lo percepiscono tutti. Qualcuno applaude persino. Il sangue riscalda il pomeriggio. La Spal prende palla, guadagna un angolo e pure un rigore. Uno di loro prende la palla, la mette sul dischetto e segna. Gli sguardi si fanno attoniti, rabbuiati. La rabbia repressa per la solita dannazione esistenziale si sta tramutando in bozzi sul collo e dietro la schiena. Stress. Ma non si fa a tempo a pensare che c’è tempo, che lo schermo diventa nero. Nero. Il simbolo sproporzionato, insensato e brutto di Telefoggia, però, campeggia ancora in basso a destra. Problemi sul collegamento. In undici contro dieci abbiamo appena preso il gol dello svantaggio. E salta la linea. Se il panico dovesse impossessarsi della plebaglia – cioè: se dovessimo cedere al panico – questa città potrebbe vivere un pomeriggio d’ordinaria follia. I secondi passano, lenti, consequenziali. Il nero resta. Quello sgorbio pure. Poi, d’incanto, un’immagine riemerge come il quadro della madonna dal fondale sabbioso dell’etere. Ma non c’è campo verde. Di verde neppure un biliardo. Ma un tipo anzianotto alla cattedra in una classe di bambini, con annessa scolaresca elementare. Una farsesca messinscena squallida d’uno spot. Lo spot di Dotolo mobili, per la precisione. Che ha tutta l’aria di essere una piccola fiction. Ecco: dovendoli individuare dalla Rivolta del pane, quelli sono stati i cinque minuti in cui Foggia è andata più vicina all’insurrezione generale.



Quando l’estenuante spot è finito – dopo aver causato chissà quanti litigi domestici, contrasti condominiali, risse per i parcheggi, ma fortunatamente null’altro – il telecronista ha annunciato che, nel lungo sonno della ragione, il Foggia aveva generato il pareggio. Rigore di Gigliotti. Bene, Gigliotti non lo sa. Ma il suo gol è stato, per la storia di questa città, l’equivalente della vittoria di Bartali al Tour de France del 1948.

25/09/11

No al calcio di Maroni!

Stadi vuoti, prezzi folli, campionati spezzettati per esigenze televisive.
E divieti, sempre più assurdi. Un tempo si limitavano alle partite ad alto rischio. Oggi lasciano fare a prefetti e questori. E ci vietano anche Viareggio e Vercelli.
Senza spiegazioni. Le trasferte sono ormai un ricordo. E per noialtri viene sospesa la libertà di circolazione. Così, dopo aver costretto la gente a casa, Maroni si vanta di aver debellato la violenza.

QUESTO E’ IL CALCIO DELLA TESSERA. Un business senza anima, senza valori: un fiume di denaro finito nelle casse di speculatori e affaristi. Una schedatura di massa senza paragoni in Europa. Una clamorosa limitazione dei diritti.

La tessera ha sporcato una passione. Ha regalato un gioco popolare alle banche e ai questori.
Nell’indifferenza complice di società, media e politicanti, che preferiscono far finta di non vedere.

L’anno scorso il tentativo di isolarci non è andato a buon fine. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Oggi intendiamo continuare a batterci. Contro ogni abuso di Stato, contro la trasformazione della passione in merce. Il silenzio dei primi minuti sarà la nostra ennesima dimostrazione che questo calcio non ci appartiene. E siamo certi che sempre più gente si sta schierando: la battaglia contro la tessera non riguarda solo gli Ultras. Riguarda tutti.

No ai divieti! No alla Tessera del tifoso!
Riprendiamoci la nostra passione!

02/09/11

La passione colpevole

Una passione sempre più difficile da spiegare.
Una passione colpevole, che l’evidenza appiccica al muro. O la realtà al muro dell’evidenza. Non so, fatto sta che un piacere trasverso e sottile spinge gli altri, i seri, a fare incetta di sacchetti di esempi negativi come pietre di fiume da portare in dono per dimostrare le loro mediocri, banali, conformiste ragioni.
Come se un vicino di casa venisse a riempirti lo zerbino di cartacce per provarti che c’è vento. Come se tu non lo sapessi. Come se tu fossi così cieco, così ipnotizzato, così plagiato, da non vedere il bidone esondare. Che ti viene da dire: “Lo so. E allora?”. Allora…
“Ma come fai a seguirli ancora? Cioè… regalare soldi a quel sistema… Cioè…”.
Facce ebeti ed irritanti in cui inciampi per ferrea legge della sorte ripetono questo refrain almeno dieci volte al mese, in discussioni arrancanti, basate sul sentito dire, sull’approssimata conoscenza del fenomeno, che è un mucchio di roba a somma zero.
È troppo facile. Essere visti, vissuti come strani animali continuamente disillusi, ma che invece di vivere gli choc come opportunità per rinsavire continuano, pecore in gregge, topi al suono del pifferaio, a praticare, seguire, finanche ostentare la propria passione.
Quei gradoni, il fascino delle domeniche. Inspiegabile. Irragionevole. Incomprensibile.
E la critica si fa radicale, compita, finanche televisiva. Rimproveri cattolici. Rimproveri socialisti. Facile. Pilatesco. Perché la trasversalità spinge all’incertezza. Dove va questa massa senza arte né parte? Dove va, senza un obiettivo, una coscienza diversa da quella dell’arena romana, un progetto a medio e lungo termine? Come se i partiti, le associazioni, i sindacati dei critici, poi, ne avessero di obiettivi, di coscienze evolute, di progetti. Ma anche la mobilitazione, come il voto, è un atto in delega. E la richiesta di movimento è un cane che annusa nuovi attori referenti.
Come se il bene del Paese dipendesse dalla nostra capacità di agire. E per nostra si intende: il soporifero, addormentato, supino, passivo popolo degli stadi. Incapace di reagire, buono a montare un casino per uno striscione o una bandiera, ma volontariamente immobile dinanzi al concetto di merce e a quello di mercificazione. Come se fossimo utili idioti, sciocchi patentati, accecati. Come se tutto attorno il popolo delle sezioni, degli indignati, dei mercati, dei centri sociali e di documentazione, fosse in fermento. E noi, penosa enclave dell’immobilismo in un Paese attivo. Che non sia così, dovrebbero saperlo. Eppure costoro alzano il labbro superiore, con una certa malcelata acredine dettata da chissà quale presunzione, da una non meglio specificata pratica, come se gli abitanti delle curve fossero un soggetto storico plasmato su caratteri socio-economici specifici e identificabili, ti chiedono: “Non è una contraddizione? No, dico, avere una coscienza sociale e annacquarla in quel carnaio razzista, xenofobo, populista, sessista? E sapere che è tutto un magna magna, che le partite sono truccate, che le tv fanno quel che fanno? Boh… Come fate?”.
Non ho mai sentito nessuno chiedere, finanche invocare alla luce delle evidenze più luminose, l’ammutinamento degli amanti del teatro, dei goldoniani, dei verdiani, del popolo dell’opera e del melodramma. Forse che i seguaci di Ionesco non siano contemplati tra i cittadini italiani? Mai sentito richiamare all’ordine rivoluzionario quello dei fumatori di Philip Morris gialle; o i circensi, i mangiafuoco, i trapezisti. Categorie astratte, antimarxiste, eppure di presa così scontata. Ma i tifosi di calcio. L’irrazionale incomprensibile, a giusta ragione gravabile del peso assoluto della responsabilità collettiva. Opliti obbligatori di quello scontro sociale che altri neppure si sognano. Privatizzano le spiagge, i proprietari di stabilimenti sono dei corruttori e dei tangentisti (diamine, ce ne saranno, non saranno mica tutti puliti…), un’insalata e un bicchiere di vino al bar-ecomostro del lido costa l’ira di dio, il parcheggio fuori è esoso e sproporzionato, i bagnini sono dei porci molestatori, ma nessuno ha chiesto all’ipotetica massa dei bagnanti, degli amanti della spiaggia, di rinunciare alle vacanze per dimostrare che questo popolo è vivo, combattivo, disposto a mettersi in gioco. A noi, invece, lo fanno quotidianamente: “Come fate ancora a seguirli?”. E tu, come fai ancora a prendere l’autostrada? Poi chiosano, sufficienti: “Mah… sarò io che non vi capisco”. E verrebbe da rispondere che, beh, quello è scontato. Dovrebbe fungere da premessa, da incipit della premessa, da citazione prima dell’incipit, da dedica. Perché non c’è bisogno di capire granché per intuire, anzitutto, che il tifoso non è una monade conclusa, e i tifosi un insieme finito, di quelli che si disegnavano a scuola. Il tifoso un chiunque sociale, un signor Rossi, e può nascondersi dietro al sindacalista di base più oltranzista come al figlio del ricco mercante di sete e spezie dall’Oriente. Banalità che per certa gente sono ancora oggi folgorazioni. Illuminazioni alla Rimbaud (e questi dovrebbero analizzare i movimenti finanziari delle offshore per attaccare il Capitale, puah!). In seconda battuta, a costoro, andrebbe pazientemente spiegato che l’attività sociale del tifoso non si esaurisce nell’essere tale, nel tifare. Quello è uno svago, nella maggior parte dei casi. Un gioco, un diversivo. Il padre fondatore del Caffè Mauro finanziava gli squadristi reggini. A me il caffè piace con la sambuca. Ed è meglio non dire chi finanziava Molinari. Il giocatore del Rayo, ventitre anni, dice che il calcio è capitalismo e il capitalismo è morte. Per cui, per proprietà transitiva, molla il carrozzone e si butta giù. Almeno quattro amici virtuali mi segnalano la notizia, e non so per quale recondito scopo. Resta da capire in quale sistema sociale (o solare) sia atterrato il buon Javi Poves. In un sistema dove si può anche scegliere un’altra marca di sambuca, ma di certo non evitare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, le rendite di rapina e la proprietà privata. Che non le sappiamo ste cose, compagni? E allora perché va fatta a fettine l’anima di uno svago? Per dimostrare quale purezza? O quale estraneità dal mondo, quale ascetismo?
Lo sciopero dei calciatori professionisti è stata l’ennesima mazzata. L’ennesimo motivo di rischiosi quanto inutili faccia a faccia. E sempre la stessa domanda, tra le righe, a mezza bocca, o formulata esplicitamente: “Ma come fate?”. Facciamo. Perché sulla vertenza, sulla vergognosa quantità di contraddizioni di un sistema corrotto e malato, abbiamo già detto come la pensiamo dozzine di volte. Anche quando in pochi prestavano orecchio e i soliti noti ritenevano si trattasse di semplici “questioni di stadio”. Sul contributo di solidarietà, sul concetto stesso di solidarietà, abbiamo scritto un papiro a parte. E allora qui c’è bisogno di chiudere con un altro tipo di prospettiva (anche questa neppure tanto nuova, ma qui ripetere non basta e non giova, mai): facciamo perché quei gradoni siamo noi. E questo nessun teatro interattivo, nessun cinema 3D, nessun circo, potrà mai solo lontanamente sperare di renderlo. Per quanto si sforzi. Nessuno spettacolo di intrattenimento al mondo può pretendere d’avere lo stesso tipo di entusiasmo educativo nei confronti di una massa; e nessuno s’è visto scippare dalla massa il centro della scena. Perché quando Amleto parla con il teschio di Yorick, l’occhio di bue è solo sulla melanconia del principe di Danimarca; quando gli effetti speciali rendono efficace un film di Spielberg, nessun’altra zona della sala è neppure illuminata; persino quando sono in pista i clown e volano le torte nel più trito degli schemi, l’attenzione non si sposta mai da quel baricentro. E non potrebbe essere altrimenti. Nel cosiddetto gioco del calcio, invece, l’azione viva, partecipativa, complice o antagonista che sia, è fuori. Sugli spalti. Nessuna messinscena per il popolo è paragonabile allo spettacolo che il popolo da di sé stesso in quell’agenzia di socializzazione che è lo stadio. Perciò, quando penso al calcio, come prima cosa non mi vengono in mente i diritti televisivi, gli impianti griffati, il mercato e le scommesse. E neppure gli orrori del capitalismo denunciati da Poves. Mi viene in mente il mio gruppo, il mio settore, apripista di una miriade di aneddoti e ricordi che coprono l’intero spazio-tempo che divide le elementari dai miei attuali trentacinque anni. L’esatta bisettrice della mia trasformazione in adulto, in sostanza. Ed è per questo, compagni e compari seri, che vi credo quando mi dite di non capire. Lo stadio non è uno scritto di Mao, che puoi leggere anche se non sai nulla della Cina. Lo stadio ha bisogno di presenza e pratica, di vita e internità. E non è un caso che ne siate tagliati fuori.

25/08/11

Marmellata

di Mr.Stramy

Sono figlio di un ferroviere. Sono figlio di un calciofilo.
Credo davvero che il lavoro e la passione di mio padre abbiano fortemente inciso sulla mia vita. In modo ribelle e in modo passionale. Il primo poiché come ogni padre che si rispetti, una volta capito che le scuole grosse non sono proprio nell’indole del proprio figlio, desidererebbe per il proprio erede un lavoro simile e tranquillo al proprio. Dopo scontri, lotte, conflitti, dispute, polemiche, battaglie e qualche concorso pubblico giusto per farlo contento, mio padre ha avuto la sua Waterloo e da quando avevo 24 anni sono un lavoratore indipendente. Mi rendo però conto di essere fortemente “controllato” da una forza invisibile che si chiama ferrovia. Sono cresciuto da zero a sedici anni con la finestra della cucina affacciata sui binari, a cento metri dalla galleria del Frejus, a cinque dal binario che collega Torino a Parigi, li dove domani vogliono far passare la Tav. Quel binario che alle 13.30 o alle 19.30 portava mio padre a lavorare in Francia a Modane, quando io e mio fratello, incitati da mia madre, correvamo alla finestra per poterlo salutare, scuotendo la manina anche se a volte non riuscivi a vederlo. “L’ho visto, l’ho visto….” . Con quel binario ho un rapporto particolare, speciale, confidenziale. Riusciva a custodire il pallone che volava oltre la staccionata come un fratello maggiore, lo abbracciava nel suo acciaio finché papà non rientrava, scavalcava e lo andava a recuperare. E finché anche io non sono riuscito a scavalcare la prima volta: pochi attimi fugaci, veloci ma veri, prima di tornare in strada.
Riesco ancora a sentire un treno qualche minuto prima che arrivi, da lontano. Si sentiva la casa leggermente vibrare, per me un cullare, per gli ospiti da Foggia ogni volta un terremoto. Gli unici conflitti con il treno li avevamo quando vedevamo un film. Telecomando fisso in mano pronti ad alzare il volume per poi riabbassarlo una volta transitato. “Eccheccazz, non si è capito niente. Che ha ditt?”

Avanti RAI3/Dopo RAI3.


Per anni a casa, o meglio nel mio paese, il terzo canale non arrivava. Papà si “prendeva veleno” perché non poteva vedere il Processo. Se lo gustava solo quando venivamo a Foggia, in via Borrelli, lui e mio zio seduti intorno al tavolo in cucina e le donne a cucinare, in religioso silenzio. Oggi posso dire che l’arrivo del nuovo canale ha davvero condizionato quello che sarebbe stato il mio futuro. Il lunedì, quando papà faceva il pomeriggio, avevo il compito di vedere il Foggia a “C siamo”: il mio punto di non ritorno, il colpo di fulmine, le farfalle nello stomaco. Che sia dannata quella trasmissione!
E allora cresci e la formazione continua. Ricordo cene a casa di Enrico, famiglia di romanisti. Noi bambini a giocare e i grandi a vedere la partita, rimproveri e l’ordine di stare zitti e seduti a guardar la partita con loro. Ricordo anche le cene che organizzava mio padre alle quali invitava i suoi colleghi scapoloni. Qualche calabrese, qualche napoletano, qualche pugliese. Venivano a casa a veder le partite e coglievano l’occasione per mangiare qualcosa di buono cucinato da una donna e non, probabilmente, il solito pranzo triste da single. Ricordo abbastanza bene Olindo, siciliano tifoso del Milan, secco secco, stempiato e col pizzetto. Chissà dove sarà oggi Olindo?
In tutto quest’ambiente, come fai a non diventare tifoso??? Giuro che mio figlio avrà lo stesso trattamento.
Ognuno ha il proprio passato, i propri ricordi, e guai a buttarli via, ad accantonarli. Sono i tuoi e di nessun altro. Guai a metterli da parte. Non si possono neanche condividere, difficilmente possono regalare emozione, le stesse emozione che proviamo noi.
Per me il Foggia non ha mai vinto 3 a 2 contro l’Inter del Mago. O meglio, può anche aver vinto, ma non mi fa emozionare. Per me Nocera, Zeus o Giulio Cesare sono la stessa cosa. Mi rendo conto di quanto mio padre abbia voluto trasferirmi quell’emozione, scavalcare con la bici e guardarsi quella partita, ma ahimè non è riuscito a farla mia. Ci ho provato più volte a sentire mia quella partita, ma non ci sono mai riuscito. Mazzola o Rivera? “Efess…Golden Boy” Perché? Perché anch’io non riesco a schierami vedendo le vecchie immagini???
Temo. Temo di non riuscire a trasferire a mio figlio la poesia di Baggio, mio grande ispiratore. Temo che quando gli racconterò del gol alla Nigeria lui penserà che è roba vecchia. Temo che non riuscirà a disprezzare quanto me Ulivieri per averlo tenuto in panchina contro la Juve. “…ah da quando Baggio non gioca più, non è più domenica…” Temo che vedrà Maradona come io ho sempre visto Pelè. Maradona o Pelè? È chiaro che io risponderò sempre Maradona, solo perché Diego l’ho vissuto.
Il nuovo sul vecchio. Roma, Napoli, Torino. Questi progetti “Grandi Stazioni” non riesco a mandarli giù. Sono fredde, distaccate dal viaggiatore. I bar della casa, dove chiaramente quello di Torino era ben diverso da quello di Napoli, oggi sono diventati uguali. Gli è stato preso il posto da catene del Food & Beverage con tanto di gigantografia di cornetti, caffè e spremute e menù a 2.99 Euro. A Torino non ci son più le fontanine, quelle dove papà ci prendeva in braccio per farci bere e dove riempiva l’acqua prima che l’espresso 900 di 14 carrozze partisse per Foggia alle 20.50.
Sono spariti i vecchi tabelloni, quelli neri con le scritte in bianco con le lettere divisi in due parti. Quello che quando cambiava faceva “ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta”, partendo velocemente per finir piano piano, per cambiare l’ultima lettera che faceva diventare un Brindise in Brindisi, un Crotona in Crotone o un Triesto in Trieste. A Foggia nell’atrio centrale era posto sulle biglietterie, in tutta la sua maestosità. Quando cambiava il rumore ti faceva girare e lo guardavi anche se eri disinteressato. Oggi sono stati tutti sostituiti con tabelloni elettronici luminosi in doppia lingua. Non esistono più neanche le campanelle che nelle piccole stazioni, nei piccoli paesi, indicavano l’arrivo del treno. La campanella sostituita da due lucine che lampeggiano ad intermittenza.
Cosa racconterò a mio figlio? Vorrei che ci fosse lo stesso passaggio di consegne che c’è stato fra me e mio padre. L’odore dei treni, quello interno, di viaggiatori, di esperienze, di problemi, di quotidianità, e quello esterno, di ferraglia, di freni che stridono, del calore del locomotore, dell’aria condizionata che funziona male. Nocera, Favalli, Rinaldi, Bettoni prima, contro Tedesco, Seno, Shalimov, De Zerbi, Costanzo, Di Biagio dopo. Contro? Al cospetto di chi mi troverò quando mio figlio rivivrà quello che abbiamo vissuto io e mio padre?
Credo di essermi accorto che i ricordi sono i nostri, le passioni però possono essere trasferite…
Ieri hanno iniziato ad abbattere quella che era la mia scuola superiore. Non importa se fosse un edificio fatiscente, vecchio, “un posto ormai per drogati”, era la mia scuola. Li c’erano altri miei ricordi. Ora non c’è più.

20/08/11

Due o tre cose che so di lui. Giuseppe Sansonna

In sordina, a fil di muro. O peggio ancora: semiclandestinamente. Lontano dalla pubblicità come dai semplici clamori. “Su Raitre!?”, diceva la gente, avvisata da internet, dagli sms degli amici. E, dal vivo, non sempre era facile distinguere l’esclamativo dall’interrogativo. Il primo documentario di Giuseppe Sansonna (da Bari Japigia), Zemanlandia, era stato accompagnato da un trambusto che manco la banda della festa dei santi patroni. Amarcord apologetico. Secondo alcuni oltranzisti della vera fede, finanche la scintilla che fece scoccare la nuova passione estiva tra il boemo e don Pasquale Casillo. Galeotta fu la pellicola. Questo secondo, invece, sembra Radio Londra. “Si, su Raitre”, “Ma stasera?”, “Si”. Oggi, e Sansonna dovrebbe saperlo, da queste parti è tutto cambiato. Non sempre le ciambelle riescono col buco, non sempre i progetti patinati ottengono la spinta di marketing del preteso lieto fine. E le tesi che falliscono la prova dei fatti, a lungo andare, diventano folklore. Niente di più. Due o tre cose che so di lui, si intitola il nuovo lavoro. E lui, ovviamente, è Zdenek Zeman da Praga, l’uomo che nel 1993 ha messo in pausa questa città. Certo, sapevamo che Sansonna da Bari ci stava provando di nuovo, proprio come il suo Maestro. Entrambi nella speranza di ripetere la prima Zemanlandia. A suo tempo avevamo persino individuato una strana telecamera ai prefiltraggi della Sud. “Alle undici e mezza”. Doc 3. Premetto, a mo di coro shakespeariano: dei 55 minuti complessivi, i primi 25-30 li ho visti due volte. E questo vale già come critica motivata e non come dato di semplice curiosità. Difatti. Alla sigla di partenza, all’apparire del presentatore nell’ambaradan di luci e grafiche futuribili della seconda serata estiva della terza rete, siamo nel bel mezzo di una festa di compleanno. Girano Peroni e fuori ci sono tre pattuglie della polizia e i vigili del fuoco stanno lavorando per aprire una saracinesca dalle cui grate fuoriesce del fumo nero. Si pensa ad una intimidazione, fatto sta che la strada è piena di curiosi e ci sono lampeggianti ovunque. Come a dire: di reality alternativi non ne mancano. Eppure, siamo in tanti a scattare al segnale, a piazzarci davanti allo schermo. Il presentatore ricicla argomentazioni vagamente già sentite. Vagamente. Zeman “eretico”, Foggia “una città innamorata che s'aggrappa al calcio per non pensare ad altro”, gli anni Novanta pieni di “traguardi impensabili per una squadra piccola, povera”. È Raitre, ci mancherebbe. Sarebbe strano il contrario. Fatto sta che si potrebbe obiettare già adesso, da subito, dall’introduzione. Il calcio oppio dei popoli, l’Empoli di Cagni che centra la Uefa. Immagini in scorrimento veloce. La sigla. Le prime riprese: la fonda periferia desolata, affaticata e assolata, le rughe del maestro, il magazziniere, lo staff tecnico come metafora e simbolo della famiglia, di un certo modo di fare calcio a certe latitudini che, non fossi foggiano, non avrei problemi a posizionare nell’America Latina di Osvaldo Soriano. Lo spogliatoio che risuona dei passi coi tacchetti, il manto erboso dello “Zaccheria”, gli occhi del saggio, i ragazzi che corrono sul prato, che saltano, colpiscono il pallone, s’arrampicano sui gradoni della gradinata. Il tutto sospeso in un limbo fisico di totale isolamento, come se il microcosmo dello stadio e della squadra fosse elemento avulso dal contesto in digradante degrado. Un piccolo, assediato manipolo di idealisti, naufrago in un mare di cinismo iper-realista. Una sensazione di ineluttabilità: quella squadra non può farcela. Neppure gettando nella mischia la grandezza del suo idolatrato mister. Non ha speranze. Non nella Foggia salvadoregna che tanto piace al barese Sansonna e al suo pubblico di radicali da branch. Quelli intrattenuti con storie di peones del pallone sul Manifesto, durante un’intera straziante stagione di non-calcio per analfabeti della materia; e quelli richiamati all’appuntamento con il video, sequel e antibiotico del precedente. Perché la solitudine dell’ala destra, in questo caso, è contagiosa. Foggia ha perso l’innocenza, lo sguardo smaliziato ed infantile, gioioso o quanto meno ottimista d’un tempo. E s’è trasformata. Tanto che persino i suoi amanti più disinteressati fanno fatica a riconoscerla. Cinque minuti di chiacchiere barocche e auto-plagio e già dovremmo sentirci in colpa. Una responsabilità collettiva, gli israeliti col Messia. Il popolo deicida, prima ancora del Palazzo, prima dei Cesari. La nostra mancata fede, i nostri mutamenti di costume, hanno isolato il Maestro. Così che neppure i siparietti in dialetto di Altamura e Annecchino risultano simpatici. Poi, certo, ci sono le partite a carte, interminabile replica d’un modello mundial, escamotage narrativo diventato già alla seconda occasione stantio ricorso al corner. Perché Sansonna lo sa: l’idolo è tornato sui sentieri della prima predicazione. Ed ha fallito. Allora meglio metterla in poesia, come Evtusenko con la bandiera rossa. Intanto che passano sequenze di una noia infinita, che in confronto I nibelunghi sembra la finale dei cento metri, Fritz Lang, Ben Johnson. Qualcuno parla di scelta stilistica. E dovremmo metterci sull’attenti, per non far intuire che non abbiamo colto. Il clamore dell’originale che si stempera nell’assordante annegare della copia. Il rumore dei tacchetti, le parole dei ragazzi, il fiume che scorre sui ciottoli. Noia, altroché. Poi un suono, che non è una musica. L’inquadratura – poetica e vendoliana – su qualcosa di isolato a caso: il faro dello stadio, una pala eolica, una tribuna vuota, una casa, un quartiere, un bidone dell’immondizia stracolmo. E sembra che finalmente il video possa decollare. Invece, per dirla coi Casino Royale, ogni stop è solo un altro start. Anche se ora scorrono dei gol. A grappoli, che sembra quasi una cavalcata trionfale. Ancora non l’hanno detto che siamo arrivati sesti in Lega Pro. L’illusionista diventa ministro della propaganda zemaniana. E mostra la cartapesta che ricopre gli stabili diroccati. Parla di “schermi stinti delle tv locali foggiane” e non capisco perché, cosa diamine ci sia di stinto, di diverso da una qualsiasi emittente privata locale in queste immagini. Il dettaglio tecnico che possa riportare alla mente del barese la “Coppa America degli anni Ottanta”. Intanto i “colibrì mannari” del mister macinano reti su reti. Mi guardo attorno e della piccola folla iniziale sono rimasti in due, oltre me, sul divano. Col ventilatore puntato in faccia. Basta questo. Abbiamo visto e sentito fin troppo, per stasera. Si spegne la tv, si passa alla musica e al vodkalemon. Mentre mi chiedo: se questo è l’effetto a Foggia, dove la gente è curiosa di cose che altrove interessano poco (riconoscere luoghi, persone, situazioni), che accoglienza pensa di avere questo presuntuoso costui a Rovigo, ad Asti? Allora decido di rivederlo. Per intero, ad alto volume, stavolta sul serio. Senza interferenze. Ripasso gli scorci, le solitudini, i peones. Per scoprire che oltre le colonne d’Ercole della prima mezz’ora, tutto è uguale a prima. Identico a sé stesso. Annoto il prezioso parallelismo tra “la Cecoslovacchia comunista e il Sud Italia poverissimo”. Mi torna in mente Di Vittorio. Ascolto Farias affermare che la mia città è come il Brasile, che i furti delle auto sono tanti. E mi convinco definitivamente che costui è riuscito ad ottenere la paccottiglia pubblicitaria che voleva. Del resto, si ragiona così per ogni tesi: lo sguardo sull’oggetto studiato è parziale, selettivo. Il cervello salva e immagazzina ciò che ritiene utile, scarta e sputa il resto. Bisognava, come il Bonini di Repubblica, dare un’immagine di bellezza affiorante, un fiore in un barile di catrame. E partendo dal fiore-Zeman, il resto s’è quasi punito da solo. Senza sforzo. La Foggia che conosco è una città caotica e tranquillizzante, disorganizzata e piena di spunti. La Foggia di Sansonna è deserta e sofferente come certe città del Far West, pronte al mezzogiorno di fuoco. Il suo pubblico di riferimento non ama le sottigliezze. Voleva inquietudine, ed inquietudine ha ottenuto. Una sottile paura dell’ignoto superata dalla consapevolezza salvifica di non averci nulla a che fare. Sospiro di sollievo. Le ultime battute del video sono tutte del mister (anche lui spesso inquadrato solo, riflessivo e senza risposte). Ha lasciato Foggia, dice, perché i suoi giocatori non sentivano la maglia. Pensa te, verrebbe da dire. Dopo che uno come Sansonna arriva da Bari per parlare di una presunta, inesistente Zemanlandia; dopo che mezza Italia giornalistica si scomoda per narrare le gesta del mito vivente; dopo che le società di A decidono di prestare i loro campioncini alla squadra allenata da Zeman; verrebbe da chiedersi perché mai avrebbero dovuto quei ragazzini sentire l’onore di vestire la maglietta del Foggia. Sempre senza contare che Zeman stesso ha lasciato Foggia per montare le tende (non è facile ironia, anzi si) a Pescara. Ma questa è un’altra storia. Fatto sta che ora che il circo è stato smontato ed è ripartito, stiamo meglio. Molto meglio. E sui titoli di coda, penso con tutta onestà di aver chiuso i conti. Con Zeman, con Sansonna, col passato. Pensiamo a noi, adesso. Che è l’unica cosa che conta.

18/08/11

I clienti del fallimento

Uno spettacolo che invece di sollazzare gli astanti, di svuotargli la testa dai pensieri pesanti, li costringe alla noia, al diversivo attendista, è uno spettacolo fallimentare. Uno spettacolo che è diventato auto-referenziale, disinteressato alle sorti della parabola, al lancio del satellite progettato e spedito in orbita, alla sua traiettoria, è un non-spettacolo. Difficilmente attraente persino per i più acritici amanti del genere. E se una cosa del genere vale, può valere, per la tradizionale conferenza di fine anno del Governatore della Banca d’Italia – il tipo in giacca e cravatta richiama attorno a sé qualche decina di giornalisti coi taccuini, di cameraman e di inviati coi palmari e i pc portatili, e parla dei tassi d’interesse, delle prospettive finanziarie, delle ricadute di questo o quell’evento sulla vita del Paese – sicuramente non vale per i sorteggi dei calendari della Lega Pro. Perché nel primo caso il problema non è il tizio in giacca e cravatta. È l’addetto al palinsesto che decide di mandarlo in diretta sulla Rai, in pieno dicembre, finendo per sfinire una popolazione di tele-utenti con un non-fatto nato senza velleità d’intrattenimento. Ma nel secondo, per lo spettacolino da strapaese messo in piedi per fare da companatico al sorteggio, si può tranquillamente parlare di sostanzioso passo avanti sulla via del baratro. Verso la Damasco del grottesco.

Un tempo – e maledizione per quante volte si dovrà ancora dire “Un tempo”! – i calendari erano una cosa come un’altra. Una voce dal tg sportivo diceva che erano stati stilati e stop. Poi si passava alle immagini del casello di Melegnano, in diretta dalla centrale operativa delle Autostrade pubbliche. Elettrici eravamo noi, che aspettavamo di sapere le sorti della nostra squadra, ma nessun altro. Non c’era un’industria dello spettacolo incarognita a voler spremere fino al midollo il limone dell’astinenza estiva da calcio (se è per questo il massimo delle amichevoli, “un tempo”, erano Juventus-Villarperosa e Foggia-Lodigiani, ma questa è un’altra storia…). Invece: diretta dalla sala di un palazzo storico di Firenze, gonfaloni e omaggi, schiere di convenuti, ad imitare il parterre dei sorteggi mondiali o della Champion’s league. E dirigenti a iosa. Al volante di questa presuntuosa utilitaria chiamata Raisport, Amedeo Goria (che ricordavo cassato dallo star-system de noantri per quell’impeto onanista dinanzi ad una subrettina, ma forse è la mia memoria che fa cilecca), che si perde – come il Ciotti della Domenica sportiva di tanti e tanti anni orsono – nel magnificare il “cervello elettronico” del computer che “espellerà” (sic!) i nomi delle squadre e delle sfide. Roba che se i maya avessero evitato di estinguersi o di farsi sterminare, uno come Goria lo userebbero ancora oggi come clistere per i loro dopocena. Ma tant’è. Finito l’omaggio ad Artemio Franchi – e anche qui: chissà perché agli speculatori-devastatori-evasori del cosiddetto calcio moderno piace così tanto crogiolarsi tra le pieghe del bianco-e-nero d’epoca, immedesimarsi e fingere di rimpiangere i vecchi e buoni dirigenti di quando tutto era più facile “e si potevano mangiare anche le fragole” – si passa a mollare il microfono ad una sfilza di anziani intabarrati. Ognuno ripete le proprie teorie sul giuoco del pallone. Ma decido di non entrare nel contenuto. Non mi tange quel che dicono, le banalità trite e ritrite e già sentite. Mi interessa lo spettacolo, in sé. Non posso fare a meno di pensare: a chi piace tutto questo? Chi è quel mio simile che, sfaccendato e in semi-ferie in una mattinata d’agosto, decide di prepararsi un caffè o una bibita alla menta, schiantarsi rilassato sulla sdraio e godersi questa carrellata di star da ospizio? Quale deviato mentale trova, o anche ipoteticamente potrebbe trovare, vagamente spassoso o divertente o istruttivo questo scempio? Lo spettacolo del calcio – quello che impone tornei negli Usa e supercoppe italiane a Pechino – è un bulimico che ingoia noccioli di pesca. E pretende che noi siamo qui a guardarlo vomitare.

Ma a me interessa sapere dove esordirà il Foggia, dove l’Osservatorio ci vieterà di andare. E, nonostante la gente che dal web urla: “Che rottura di palle! Dateci i calendari e basta!”, mi soffermo ad ascoltare brandelli di disquisizioni colte. Ed era meglio per me se non l’avessi fatto. Capita, difatti, che un dirigente di Lega Pro descriva il futuro prossimo così. “Questo sarà l'anno del fair-play... Torniamo negli oratori, torniamo dove c'è gente sana... Facciamola venire allo stadio, anche gratuitamente... Sono i clienti di domani, signori presidenti”. E spalanco gli occhi. Perché è raffinato, il cialtrone. E sentire i ministri della propaganda all’opera fa sempre uno strano effetto. Dunque: fair-play, quel mito in costruzione che dovrebbe, come un antidoto fiabesco, mitigare l’agonismo, la metafora bellica insita nel gioco. Quel bel concetto naufragato all’epoca dell’imposto terzo tempo. Quello spirito che a noialtri, bestie da spalti, sfugge. Perché si sa: il problema siamo noi, le nostre intemperanze, il nostro modo d’intendere la domenica che “nulla ha a che fare con il calcio”. Per questo, per riportare le immaginarie sacre famiglie sugli spalti, bisogna trovare nuova linfa. Anime vergini da riempire di buoni propositi. Demoni a caccia di nuovi adepti. Gli oratori. Viene in mente Paolo Conte, l’atmosfera bucolica dei campetti circondati da mura e campanili, la polvere e il sudore dei bei tempi andati, che tanto affascinano i pescecani dell’oggi. Un mare dove pescare gente che non va allo stadio come alla guerra. Quelli siamo noi, secondo la vulgata. Noi, quelli estromessi perché incompatibili, quelli repressi perché facinorosi turbatori dell’ordine. In questo quadro, sembrano loro – gli sciacalli dei diritti televisivi e della Tessera obbligatoria – i soavi cultori dei bei tempi. Loro, quelli che hanno svenduto una passione popolare alle banche e ai network. Cercano gente sana, da fagocitare. Anche gratis. E mi sento d’improvviso lieto: lieto di non c’entrarci niente. Lieto nel carpire, dietro lo sguardo famelico, che non ce l’ha con me. Io non sono sano. Io, secondo questo bravo signore, rappresento tutto ciò che nel calcio è sporco. Tutto ciò che va estirpato. Provo una vaga fierezza. Che diventa esplicito orgoglio sul finale: “Sono i clienti di domani, signori presidenti”. I clienti. E, come spesso accade, il ministro della propaganda non ha compreso d’aver svelato i nostri antagonismi meglio, molto meglio che i nostri mille comunicati. Clienti vanno cercando. Clienti non saremo. Meglio bruti che consumatori di noi stessi.

01/08/11

La gita tedesca

Muhlbach, 30 luglio 2011, Mezzocorona-Foggia 0-1

Il trasloco

Dai bagagli al suolo della sede, sembra un trasloco.

L’idea stessa di Alto Adige causa sgomento. Le case coi tetti a punta, il freddo artico, i tedeschi. Si sgranano luoghi comuni come un rosario, finché qualcuno non dice “Sudtirol”. E lo sgomento torna a prevalere. “Ma quanti chilometri sono?”, “800”, “900”, “Mille”, “Mille-e-due”. “E quindi, quante ore di viaggio?”, “Otto”, “Dieci”, “Dodici”. E, nel mare dell’incognita, il più bastardo pianta il suo punto fermo, come un chiodo nel muro: “Tutti di autostrada”. E un silenzio pensoso, agghiacciato, supera persino lo sgomento. Il furgone apre le sue fauci. Entrano zaini, aste, sacchi a pelo e un paio di tende. Perché il programma prevede una sola nottata di permanenza. Da passare, secondo l’organizzazione spartana, rigorosamente all’addiaccio. Per temprare il fisico imborghesito dalla flaccida estate mediterranea. “Attenti – si sente di dire chi inspiegabilmente ci tiene a noi – che lì fa freddo”. E noi, sarà perché ci crediamo realmente, sarà perché nello sguardo di chi ci avvisa leggiamo una sottile, scettica sfida, rispondiamo: “Tanto è una notte soltanto”. Come se la replica avesse un significato. Colazione al sacco. E, dopo l’emozione della partenza, dell’insperato ritrovarci in banda al casello dell’A14 in direzione Nord, parte la sfida delle cucine regionali. Farinata torinese e una frittata con le cipolle che il Gallego s’ostina a chiamare Tortillas. La borsa frigo collegata all’accendisigari sforna Peroni dapprima fredde, poi sempre più tiepide. La preoccupazione s’allarga a macchia d’olio: basteranno tre casse? Devono, perché pare che lassù costino un occhio della testa. Qualcuno azzarda l’ipotesi che si paghino ancora in marchi. Bollino nero, dice Cis Viaggiare informati. Ma, in tutta onestà, non sembra. I cori sono arrugginiti, sarà perché pensavamo di non imbarcarci più, e l’emotività prevale sull’abitudine. Siamo alle spalle di una macchina e di un secondo furgone. Ogni tanto trilla il cellulare. Ci avvisano di una sosta. Ci fermiamo con frequenza, ma ogni volta che parcheggiamo il mezzo, gli altri stanno per riavviarsi. Il gioco dell’elastico. Siamo quasi a Verona. Un signore ci segue: “Siete di Foggia?”, “Si, si sente?”. C’è anche il figlio, sono diretti in Trentino, facciamo colazione assieme. Ci salutiamo col più classico dei: “Forzafoggia!”, “Sempre!”. L’alba è un’impressione che ci coglie sull’autostrada del Brennero. Ci sentiamo arrivati. Del resto: il Nord è Nord. Le distanze si annullano in un unico luogo comune indefinito. Un motociclista aggiunge il nostro adesivo tra i suoi, ringrazia in tedesco e riparte. Campanili a destra, campanili a sinistra, campanili in alto. Corsi d’acqua. Sembra, a momenti, di rivivere il primo tratto dell’autostrada per Lione. Solo che qui i segnali si fanno austro-ungarici. Trento, Bolzano, Bressanone. Trient, Bozen, Brixen. Il verde la fa da padrone, il casellante ci chiede 56 euro. Noi paghiamo con faccia distesa, per dissimulare il mare agitato di bestemmie che ci dilaga dentro. Boschi. Ruscelli. Tutto risponde all’immagine che ne avevamo. Anche se questa è una vallata, e le montagne non si vedono. O meglio, si intuiscono, ma non sono bianche e innevate come pensavamo. Sarà perché siamo al 30 luglio? Un campanile, l’ennesimo, ci annuncia la meta. Rio di Pusteria, che in realtà si chiama Muhlbach. Un ponte e l’albergo dei dirigenti a farci da parcheggio. Un paio di urla disumane alle 7 del mattino. Prendetela come una serenata, signori…

Habitat

In piazza ci saluta la rossa barista del primo locale. Noi rispondiamo. La bionda barista del secondo. Rispondiamo. Il marito di quest’ultima. Rispondiamo. Sorgono dubbi. Ci accomodiamo ai tavolini di fronte alla chiesa. Ma nessuno ha il coraggio di entrare, di sincerarsi del costo di un caffè. Passa un anziano e ci saluta. “BuonCiorno”. O sono davvero il luogo più ospitale del mondo, o ci stanno prendendo per culo. “Mi piace – dice la Scocca, che comincia a sentire il richiamo delle case di legno e dei vicoli pieni di fiori -, sorridono sempre”. “E quelli ridendo ridendo hanno sterminato 6 milioni di ebrei, Enzù”. La barista interrompe il flusso di coscienza. I postumi della nottata si fanno sentire. Sembra una scena onirica. Otto individui di nero vestiti, escludendo quel pallavolista che s’è presentato con la maglietta gialla, in una piazzetta garbata, col rumore della fontana in sottofondo, circondati da alemanni che fanno ciao ciao con la manina, quasi felici della nostra presenza. Voglio dormire. Enzo, invece, fissa il suolo alla ricerca di una cartaccia. I resti di un Mars, non per forza un cartone o una tazza del wc, ma pur sempre qualcosa che possa riportarlo all’umanità che vive nell’emergenza rifiuti, in questo luogo estraneo dove nessuno parla ad alta voce, tutti ti guardano e l’ordine regna sovrano. Gente senza fantasia. Leggiamo la locandina che annuncia la partita delle 17:30. Mezzocorona gegen U.S.Foggia. Si gioca al Freundschaftsspiel. La Scocca, dopo qualche minuto di contemplazione, decide di muovere verso la barista rossa per saperne di più. È conquistato. Vuole trasferirsi. Pensa di accasarsi. È palesemente in cerca di una Green card per l’impero asburgico. La rossa – definita “dolce e ingenua” – ci spedisce giù per un dirupo. Ridendo ridendo. Oltrepassiamo un fiume e il pullman dell’Unione Sportiva, come per Pollicino, dimostra che siamo sulla strada giusta. Il resto è prato e black-out. Ci addormentiamo elencando I Vezzi del Don. Come un tempo si contavano le pecore. Ci svegliamo al suono della voce di Angioletto, che dritto ad un metro dall’ingresso, accoglie i ragazzi che vanno ad allenarsi. Lo sguardo, come sempre, è minaccioso. Per noi è una contestazione perenne. “Tu sai giocare a pallone?”, chiede in dialetto. Col timbro di uno che rimprovera. “Sei forte, tu? Sei il migliore, tu?”. Bonacina parcheggia. “Mister, quando arriva Zeman?”. Il magazziniere ci raggiunge: “Chiedi al don se anticipa, che ci siamo rotti le palle e vogliamo tornare a Foggia”. Gli allenamenti della mattina, il sole che brucia, il sonno che è rimasto attaccato agli occhi. Panino, birra e vagabondaggio. C’è da ingannare l’attesa. Gli altri, giunti da venerdì, ci narrano le meraviglie del loro albergo a 27 euro a notte. “E voi dove dormite?”. La mimica facciale la dice lunga: siamo uomini duri noi. “Guardate che la notte qua fa freddo”. Il centro, adesso, sembra affollato. La Scocca è sempre più rapito, si ricarica di serenità. Il resto del gruppo, s’alterna al bar. Al bagno del bar. Rinati, vaghiamo. C’è chi mira alla funivia, e corre ad informarsi. Altri assillano la ragazza dell’info point turistico. “Ma è vera quella voce che parla di orsi?”. “No – sorride – ce n’è uno solo”. Ora si che siamo tranquilli. I pacchetti si rivelano buchi profondi. Si fuma sempre troppo, anche se – non so perché – in questa circostanza tendo ad escludere la tensione, l’ansia da prestazione come motivazione principe. Maledizione, comunque. “Scusi, dove posso comprare le sigarette?”. Il cassiere del supermercato ci fissa stranito, come se la risposta fosse nella natura delle cose. “Al ristorante”. L’erboristeria ha cessato l’attività, evidentemente. Facciamo scorta di quel che c’è, con Enzo che mette fretta. “Sono già le tre”, continua a ripetere. E al campo, sulle note di Amico Uligano, arriviamo primi. Sbaragliando una concorrenza che è ancora in albergo, a godersi docce e piscine. Giustamente.

Il campo sportivo

I papà, le fidanzate dei nuovi acquisti. I foggiani di Trento, di Bolzano, di Verona, di Brescia. I giocatori del Mezzocorona individuano la bandiera che sventola e si danno di gomito. I nostri hanno facce da ragazzini. Le facce. Le rivediamo tutte, quelle che ci aspettiamo. I gruppi. Sbarcano dai furgoni, avanzano, invadono i tre gradini dell’impianto. Abbracci, pacche sulle spalle, sfottò in dialetto. Attorno ci sono i foggiani trapiantati, che sorridono mentre la lingua materna si fa largo nell’aria rarefatta del Tirolo. 875 chilometri da casa. Il bar è aperto e spaccia birre in bottiglia a 2 euro. Un Lucano e un Borghetti passano di mano in mano. Le cronache si concentrano sulle serate alcoliche. “Ma voi quando siete arrivati?”, “Stamattina”, “E ripartite?”, “Domani”, “E dove dormite?”. Cazzo, è un’ossessione. C’è un sole che spacca le pietre, i pensieri notturni non ci riguardano. Gli striscioni, le pezze. Il rifiuto a chi pensa che la nostra stessa esistenza sia un favore, una gentile concessione. E le squadre entrano in campo. Le torce – saranno almeno sette al primo giro – le cipolle, le bandiere che sventolano, le mani al cielo. È una stronzata, a pensarci. Ma non chiediamo di meglio. I sorrisi di quelli seduti attorno diventano sempre più blandi, mentre negli occhi ora si legge un minimo di preoccupazione. La disinformazione sul nostro conto non va in ferie, il sospetto rimane. E s’acuisce quando la voce di un uomo in borghese, accompagnato da due individui in divisa, chiede di parlare col responsabile della tifoseria. Risate. Poi l’invito a non lasciare le bottiglie di vetro in giro. “Sapete, c’è gente che ha famiglia”. “Anche noi abbiamo famiglia, eh… Non è che siamo proprio soli al mondo”. Dalla balaustra i lanciacori mettono la marcia alta e zippano il repertorio, col risultato che al 10’ le abbiamo fatte quasi tutte. Inutili gli inviti alla calma. Siamo in altura, il cervello risponde freneticamente agli stimoli. Zero a zero in campo. Per la maglia sudare e lottare, chi non ci sta libero di andare, abbiamo scritto nero su bianco. Ma qui siamo ancora all’abbrivio. Alla fine del tempo, i commenti sono già disfattisti. “E meno male che è solo mezzo corona…che con una corona intera a quest’ora stavamo 2 a 0”. Noi, lupus in fabula, abbiamo preparato la gag. La polizia ora è attentissima, controlla ogni movimento. Così abbiamo solo il tempo di aprire il furgone, tirare fuori le birre dalla borsa frigo, una per volta, sfoderare un coltello da cucina e tagliare certosinamente un limone a fettine. Indi, passargli davanti con sette bottiglie di Corona canticchiando “Mezza Corona, beviamo mezza Corona”. C’è anche un tifoso dei veneti. Ride con gli altri. Uno sbirro ci si para davanti, a mani aperte come il preside della mia scuola quando la sirena – per errore – aveva suonato l’uscita anticipata. Uno scoglio in mezzo al mare. Cerca di bloccarci. Enzo, con la tecnica di guerriglia infantile del “guarda lì”, gli indica un posto alle spalle, quello si gira e perde il placcaggio. Mentre intorno si fugge come da un Cpt. È uno scoglio, l’agente. E difatti non può arginare il mare. Giuriamo che gli riporteremo le bottiglie entro massimo cinque minuti. Ma poi la partita inizia, ed è avvincente come un torneo agonistico di Scarabeo. E quindi ci dedichiamo alla cura personale. A quei cori che ci servono per rinfrancare lo spirito. Nel mirino Zeman, gratificato da un quasi ballo di gruppo e soprattutto dagli occhi spiritati, il solito napoletano (evergreen più di Albano e Romina) e i ternani. Perché ci andava così. Arriviamo al limite estremo del trenino (da sempre il punto di non ritorno), quando l’arbitro non ci concede un rigore solare e la finta contestazione al sistema-ladro diventa poco comprensibile. Il direttore di gara, difatti, vede piovere una bella bottiglia d’acqua sul terreno. L’esagerazione goliardica porta il buon uomo a guardarci come a cercare di capire se facciamo sul serio. Mi perdo il gol, ma non l’esultanza. Che è smodata, da Champion’s. Alla fine, incamerata la vittoria, chiediamo alla squadra di venirci incontro. I ragazzi si schierano a centrocampo, non sanno bene cosa fare. Anche perché, come al solito, noi quando siamo felici sembriamo minacciare il linciaggio. Ginestra, il portiere d’esperienza, li prende per mano e li accompagna sotto di noi. Dove beccano complimenti che sembrano insulti. E tornano felici agli spogliatoi.

Appendice

“Avete letto lo striscione, eh? Letto lo striscione? Leggetelo!”,
“Si, si, l’ho letto”,
“E allora avete capito cos’è che vogliamo? Dovete sudare la maglietta!”,
“Vabbé, ma io sono portiere”.
Gli sbirri bloccano la strada. Sembra una partita seria. Ci incanalano verso l’esterno del paese. Una camionetta è ferma proprio lungo la discesa che ci dovrebbe condurre alla location scelta come quinta della nostra cena e del riposo conseguente. Così siamo costretti a tergiversare. Con lo staff della squadra, con qualche giocatore. È puro cabaret. “È stato bello vederci?”, domandiamo. Il ragazzo dice di si, che è stato emozionante. Gli confidiamo che “Bene, perché non ci vedrai più”. E il discorso vira sulla tessera, sugli assurdi impedimenti a goderci pomeriggi come questo. Poi, passare davanti ai ragazzini e dirgli, con faccia seria alla Jack Nicholson in Shining, che è meglio se si mettono in salvo. “Andate via da Foggia, uagliù”. Quelli ci guardano. Non sanno d’aver capito. Aggiriamo l’ostacolo poliziesco dopo una buona mezz’ora. Il programma slow-food prevede torcinelli e salsicce alla brace con salse, pane abbrustolito e un whiskey da inaugurare. Il fiume lancia latrati poco rassicuranti. I segnali parlano di improvvise mareggiate. Nel frattempo cala l’oscurità. E l’improvvisa voglia di vestire la felpa, dimostra che la temperatura sta crollando. Alle otto non si vede più niente, alle otto e mezza non si riconoscono le facce. Tornano alla mente gli oscuri presagi. “Voi dove dormite?”. La legna accatastata non è sufficiente a tranquillizzarci. Mangiamo malcelando stanchezza e perplessità. Ma mangiamo tutto. E quello è l’importante.

(continua?)

22/06/11

Non voltarti

La parte lesa. Noi del calcio – e non so se dire di questo calcio – siamo la parte lesa. E non sono le scommesse, i brandelli di ricevute perse per una partita conservati qua e la nei tiretti. Non sono i soldi. Fortunatamente i soldi non sono tutto, e non tutto si può comprare. È la volontà di continuare a seguire con passione una passione che si incrina. La parola magica: passione. La descrizione di un attimo, direbbe qualcuno. Salire i gradoni e tornare bambino ogni volta. Liberare gli istinti. Cantare, come se fosse una logica conseguenza della partecipazione ad uno spettacolo. Di cui ci sentiamo – perché siamo – l’ingrediente fondamentale. Invece lo sforzo è continuo. Impari e disilluso. Come in un labirinto dell’orrore al luna park, fingere di non sentire le mille voci morenti che s’alzano dal buio, e andare avanti. Come la leggenda di Euridice. Arriverà il momento in cui ci volteremo. Ci chiameranno i corrotti, gli affaristi, gli speculatori, i politici, le bandiere ammainate di scatto. E sarà finita.

Beppe Signori. Non dico Paoloni. Non dico gli altri. Ma prendi uno come Beppe Signori. Una generazione si è sgolata a gridare il suo nome. Magari non a Piacenza – non me li immagino gridare i piacentini – ma a Roma, a Bologna. Qua. Soprattutto qua. All’epoca si usava. Il giocatore, nel patrimonio del tifo, era ancora un valore. E la Sud cantava per lui. Brighenti, che scese allo Zaccheria con la sua Italia di B, si disse sconvolto dal tipo di venerazione di questa piazza per quel tizio coi capelli biondi. E questa piazza – salvo alcuni, tra i quali mi annovero dall’inizio – ha continuato a difenderlo a spada tratta anche dopo quel famoso, inutilissimo quinto gol contro di noi, in un Lazio-Foggia che finì 7-1. “È un professionista – dicevano i suoi amanti, non meno traditi di noialtri che puntavamo il dito – che cosa avrebbe dovuto fare? Buttarla fuori?”. Non sia mai detto. Ma il biondo Signori non si limitò a questo. Corse sotto la Nord dell’Olimpico che sembrava un invasato che realizza il sogno della vita. Il parricidio. Eppure giunse il perdono collettivo di una città disposta sempre – magari per evitare di staccarsi da quel passato denso di ricordi – a sentirlo comunque uno dei suoi. Poi una mattina arriva la notizia del suo arresto. E ti viene da trovare un muro a caso e scrivere: Chi fa i cori ai giocatori merita Beppe Signori. Perché così è. La giusta pena per chi riempie d’affetto un comunissimo mercenario. Il giusto contrappasso per uno che ha barattato la stima della gente per un over a Inter-Lecce.

Zeman e il Pescara. Prendi uno come Zeman. Il Pescara comunica il suo ingaggio e una città, certo già ammaestrata a dovere dall’incantatore di serpenti che viene dal Vesuviano, esplode di rabbia, invidia, frustrazione. Grida al tradimento. Io non la penso così. Voglio dire: sappiamo perché è andato via (e se non sappiamo vuol dire che vogliamo non sapere); sapevamo che avrebbe continuato ad allenare, com’è giusto che sia, come ha fatto a Napoli, a Salerno e ad Avellino. Non ci trovo nulla di male, nulla di strano. Eppure, è talmente tanta la perfidia, la gioia sublime nel vedere questa gente dimenarsi per così poco, questi idolatri nel panico per il crollo della statua, che non dico niente. Anzi, assecondo l’indignazione. Fosse stato davvero un Profeta, avrebbe avuto lo stesso intuito della veggente che predisse a Federico di Svevia di non bazzicare località dai nomi floreali. Avrebbe evitato di tornare a Foggia. Perché i ricordi non devono mai essere messi alla prova, mai sfidati, mai oltraggiati. Federico II ci è morto. A Castel Fiorentino.

Il ministro Maroni. Leggo: “Oggi si consegna il programma della Tessera del tifoso al mondo del calcio”. Penso: oggi? Come oggi? Perché oggi? “I tifosi hanno compreso che lo strumento della tessera non è uno strumento di polizia ma di fidelizzazione dei supporters al proprio club”. Leggo. Ma lo sguardo laterale è attratto dal bannerino in moto perpetuo. Le nostre bandiere, le curve, le mani al cielo. In scorrimento. Leggo: “diminuzione del numero dei feriti, l´81% tra le Forze di Polizia ed il 58% tra i civili, rispetto al campionato 2005/2006. Tutto ciò riducendo del 35% il personale delle Forze dell´Ordine impiegato”. Ancora bandiere di lato. Ancora curve. E viene da chiedersi: ma possibile che non l’abbiate ancora capito? Eppure i sintomi sono chiari, lampanti. In scorrimento perpetuo. Il calcio sono gli spalti. Il ministro avrà pure buon gioco a riempire sale conferenze, a ficcarsi in bocca i suoi trenta microfoni, a raccontare che va tutto bene, che tutto è a posto ora, che il Paese può continuare a dormire sonni sereni. Potrà proseguire la sua opera di dissuasione, di repressione, di intimidazione, che è già a buon punto. Questo non lo si può negare. Potrà inasprire l’assurdità e l’anticostituzionalità della norma (e le disposizioni per la prossima stagione parlano chiaro: azzerate le trasferte, azzerata persino la discrezionalità di quell’ente osceno che è – era? – il Casms. Diretta emanazione del ministro e del suo stesso ministero). Il colpo di mannaia non cambierà un bel nulla. Perché non si può modificare geneticamente l’unico aspetto della tanto invocata “cultura sportiva” che realmente è parte dell’immaginario, del vissuto, della gente: senza popolo il calcio è fiction. Dovesse realmente spuntarla il ministro, la nostra vendetta sarà vederlo festeggiare sulle rovine di Cartagine.

24/05/11

Il dito medio di Zeman

Come le storie tormentate, russe e ottocentesche. Gli allontanamenti struggenti e irreversibili, i ritorni – annunciati e pertanto improvvisi – che fanno da sfondo ad un mare di palpiti, le mani che si toccano, i nuovi allontanamenti, gli addii inevitabilmente, nuovamente irreversibili. Ondate di sentimenti sul bagnasciuga. Un nuovo blocco di file da aggiungere al database del Mito. È durata dieci mesi, stavolta. È finita ieri mattina. Presto, fortunatamente. Una conferenza stampa unilaterale, autoconvocata. Diciannove minuti di chiacchiere, proclami, domande più o meno incisive. Il minimo sindacale per aprire il sipario sulla città, per riportare nelle strade il reale protagonista di questa storia che, tra salti e abissi, dura da venticinque anni: il Suggestionato. O, accantonando i laicismi, il Fedele. Lo Zemaniano puro, lasciato con un pugno di parole sull’argine della disperazione, dell’alcolismo, del gesto insensato ed estremo. Nella valle di calde lacrime latine che da ieri è diventata questa città orfana del Boemo. Nuovamente. Bizzarrie di una religione che, a differenza di ogni altro monoteismo, prevede un Profeta che arriva e va, arriva e va, come i cicli lunari. Disseminando poi il sentiero dell’allontanamento di una scia di non-detti, di versioni, di interpretazioni. Del necessaire di cui parlare per i prossimi anni d’immobilismo e nostalgia.
Uomini affranti a crocchi davanti ai barbieri, ai bar, agli angoli di strada. Come nel Novantadue, quando il Maestro assecondò lo smantellamento della squadra che più di tutte aveva incarnato il suo Miracolo; come nel Novantaquattro, quando decise di disgiungere il proprio nome dalla Città celeste che l’aveva reso qualcuno. Che l’aveva santificato e fatto Messia. Anche se nessuno diventa Messia senza esserlo. Un mare di sms, telefonate cellulari, messaggi sui social forum. Unica concessione mondana ai tempi, implicito segnale dell’acqua passata sotto i ponti mentre noi si venerava l’icona. Una voce insistente chiedeva di correre ad accamparsi sotto casa sua. Alla mangiatoia. Passare la notte sotto le sue finestre. Per qualcosa di sottilmente intermedio tra la serenata e l’appostamento. L’ultima volta la proposta era partita da Frengo a Mai dire Gol, il lunedì sera. E, come ieri scriveva un amico, c’era ancora la Jugoslavia. Altra gente garantiva: “è partito per Roma, è andato via”. Altri insistevano: bisogna andarci comunque. A piantare le tende.
Come gli Indignatos spagnoli. Le cose serie per cui si manifesta, da queste parti, non riguardano certo la previdenza sociale e i lavori a chiamata.
Le tv locali – in tre a martellare contemporaneamente con pareri di dotti, medici e sapienti nel solo primetime – rilanciavano l’idea di un corteo in difesa della dignità di Zeman.
Anche se, beh è chiaro, noi non sappiamo sul serio come stiano le cose. “Sotto”. E quando si dice “sotto”, o “sotto sotto”, si ammette tutto: la pochezza del credente di fronte al mistero della fede. All’insondabile disegno del divino, che è l’altrove non comprensibile dagli animi semplici. Le manifestazioni – anch’esse bizzarre ed originali – dell’unico semidio che dibatte in vita col suo clero secolare. A dodici ore dalla conferenza stampa, grande era la confusione sotto il cielo. E la situazione, dunque, eccellente.

Zeman aveva consegnato le sue tavole alla memoria degli scriba – e ai futuri apologeti – intorno alle 11 del mattino. L’amicizia e l’ambizione frustrata, il fallimento e le ingerenze esterne e interne,
il fardello dei suoi nemici. E, nell’ombra, i dissapori con la corte. Sapete cosa penso di Zeman, del suo protagonismo fuori luogo, della riconoscenza per quei primi anni Novanta che non possono trasformarsi in annullamento perpetuo delle facoltà cerebrali, in una sospensione di giudizio ad oltranza. Zeman è l’uomo che ci ha portato a sfiorare la qualificazione Uefa. E nessuno lo dimentica. È anche l’uomo che ha monopolizzato i dibattiti calcistici per vent’anni di pantano e fango, di C1 e C2. Gli “anni bui”, come li chiamano molti. Quelli dei quattrocento paganti sugli spalti con l’Atletico Catania e delle migliaia di ex-tifosi a casa, riconvertitisi alla causa della memoria nostalgica e seguaci di quel che fu. Sacerdoti laici del culto. Certo, mi direte, non è mica colpa sua. No, non lo è. Ma a volte un Mito può far molto male. Bloccare la crescita. E questa comunità è un trentenne che adora ancora ciò che adorava nella prima infanzia. Converrete che non sia proprio sano. Non lo sembra e non lo è. Invece, al ritorno del Boemo – la celebrata estate foggiana del 2010, i bagni di folla invece dei bagni di mare, i teatri strapieni e i manifesti celebrativi per la campagna abbonamenti col faccione del mister e l’annuncio: I sogni diventano realtà – questa comunità non cresciuta è ricascata nel suo trauma infantile. Si è consegnata alla sua ossessione. Alla sua compulsione. Non ripeto il già detto, il piano perfetto dell’ispiratore neanche tanto occulto. Fatto sta che ieri mattina, incrociandolo in corridoio, ho fatto un segno con la mano a mio padre. Un segno rapido, sfuggente, con la destra. Sufficiente per comprenderci. “Se ne va?”, mi ha chiesto. “Si”, ho risposto. “Dovrebbe arrivare Ugolotti”. A pranzo, diverse ore dopo, ho provato a comprendere i meccanismi interni della sua smorfia mattutina. Sono uno che, adesso più che mai, vorrebbe dire che l’aveva detto. Perché in fondo bisogna ogni tanto tracciare una linea e fare un bilancio delle posizioni, dei proclami, delle fregnacce assurde dette da chiunque. La libertà d’espressione sarà anche una gran cosa, però saltuariamente si potrebbero anche tirare due somme. Fatto sta che dinanzi al sorriso mesto di mio padre il cuore ha dettato una specie di retromarcia alla lingua. Rispetto per le passioni altrui, anche quando l’evidenza le isola come impulsi da altre ere. Come per i collezionisti di accendini, di orologi, di auto d’epoca. E quando mi è stata posta la domanda precisa: “Che ha detto?” (per i non foggiani: lo si nomina meno di Bashar Al-Asad in Siria), mi sono sentito rispondere con una voce non mia. Certo, ho detto le solite cose. Ma stavolta c’era qualcosa di diverso. E non era solo il rispetto filiale per le delusioni di un genitore. Dentro di me s’era fatta strada una seconda via. Aveva sedimentato una posizione alternativa. Senza quasi che me ne accorgessi.

Zeman, secondo alcuni, ieri mattina ha salvato Foggia e il Foggia dalla persecuzione. Questi fedeli dicono: “Se fosse rimasto, non ci avrebbero fatto mai salire”. Ci sta, nella storia di un Messia. Sacrificarsi per i nostri orribili peccati. Ma sono chiacchiere, lo sappiamo tutti, anche se facciamo finta di niente. Zeman ha un’età, una carriera. E pochi tram ancora da prendere al volo. Specie alla luce dei suoi risultati concreti. Non ci vuole molto a capire che, nel doppiofondo delle parole di circostanza, si nasconde una divergenza di vedute pratiche: qualcuno voleva assegnargli una nuova nidiata di prestiti da svezzare, senza alcuna garanzia; qualcuno voleva mettergli tra le mani una squadra non all’altezza. E le sue mani, per quanto taumaturgiche, hanno avuto un fremito umano. Ed hanno mostrato il medio. Ma in questo, paradossalmente, si nasconde il suo ruolo salvifico. Che, per la prima volta in un quarto di secolo, sono disposto a riconoscergli. Ieri Zeman ha salvato Foggia da un incantesimo. Non dal suo, quello nessun sesto posto in Lega Pro potrà lavarlo via dalle menti del popolo bambino. Ma abbandonando la piazza, lacrime a parte, ha denudato il progetto del suo compare. Ha costretto questa città e la sua gente a guardare in faccia ciò che la sua stessa figura, fino all’altroieri, nascondeva. Zeman era il pareo sulle vergogne dei venditori di fumo, degli speculatori della passione, degli incantatori di serpenti. Tutto era perdonato, tutto era accettato. Nel suo nome. Dalle 11 di ieri mattina, tutto ciò sarà ancora possibile solo a patto di rivelare dapprima una clamorosa faccia tosta. E quello che dicevamo da un anno circa il cerebrale, triennale piano casilliano di rinascita, è diventato d’un tratto palpabile. Visibile ai tanti che, rapiti dal fascino totalitario del passato remoto, invaghiti dall’idea assoluta (e assolutoria) di riviverlo, avevano fatto di tutto per non considerarlo, per non metterlo a conto nel bilancio della rinascente speranza. A Zeman va riconosciuto questo, come tributo. Un salutare scossone all’ambiente. E seppure è troppo facile retroattivamente fargli carico dell’aver contribuito – non certo da umile idealista – all’instaurazione del nuovo regno di don Pasquale in terra di Capitanata, quanto meno l’uscita di scena, le note nascoste nella sua voce, meritano un plauso. L’omaggio dovuto a chi s’accolla, a un certo punto, l’onere doloroso di svelare ai bambini che Babbo Natale non esiste, non è mai esistito. Lasciando che i pargoli paghino, con la moneta dello sconforto, il prezzo della crescita. E questa piazza sarà costretta a crescere, adesso che il paravento è sparito, partito dopo l’ennesima sconfitta; sarà costretta a guardare il progetto di chi ha utilizzato il calcio come ariete per sfondare i cadenti bastioni dell’economia foggiana. Seimilasettecento tesserati, tremilaottocento abbonati, prezzi esorbitanti per ogni partita interna, la concessione dello stadio comunale, una giunta sotto ricatto perenne. Il prezzo che la città ha volentieri/volontariamente pagato al sogno di riavere Zeman tra i suoi figli. Una promozione non ottenuta, nonostante i proclami. E adesso, nuovi proclami rimasti a mezz’aria: “L’anno prossimo andiamo in B in volata”. Promesse difficili da mantenere. Un restyling impossibile da ultimare, specie in termini di fascino: perché Bucaro e Matrecano non sono Zeman; perché Ugolotti o Novelli in B, magari, ti ci portano pure, ma bisogna garantirgli una squadra, e una squadra vera costa; perché era Zeman che apriva il credito d’immagine per i prestiti dall’Inter o dal Cagliari; perché era Zeman, e la sua suggestione, che riempiva la Curva Sud a 15 euro, la Gradinata a 22. Adesso l’imprenditore Casillo è nudo. Dovrà dimostrare di essere senza sovresporre il suo frontman. Dovrà spendere e riconquistarsi una piazza smarrita. Tradita. Coi nomi dei giocatori, l’organico, l’appetibilità del progetto. Come tutti gli altri presidenti. Facendo a meno dei tremilaottocento abbonati, tanto per cominciare. Dimostrando coi risultati che il prezzo di un biglietto non è solo un atto di fede incondizionata. Perché fino a ieri era possibile prendere cinque gol a Lanciano senza che la piazza battesse ciglio e penalizzasse gli incassi del don. Ma da domani non sarà più così. Com’è giusto che sia. Adesso i venditori di fumo dovranno riconvertirsi ai generi di prima necessità. E la piazza dovrà pensare al pane, senza farsi rintronare dalla propaganda sullo champagne. Di questo – e non avrei mai pensato di doverlo fare – ringrazio Zeman. E il suo dito medio.

23/05/11

Pensiero comparato

Dall’impianto parte l’inno. Sparato dritto sull’entusiasmo del prato. Sui giocatori che dalla panchina schizzano in campo schizzando raffiche d’acqua sulla testa dei compagni. Su quelli che a centrocampo s’abbracciano. Sui dirigenti, i massaggiatori, gli accompagnatori, che invadono il terreno del Friuli. The Champions. Scene di giubilo dallo schermo. Spalti gremiti, pacche sulle spalle. Un piccolo ingorgo di pensieri si negano la precedenza a vicenda. E nell’angolo del divano scappa un sospiro lungo, profondo. E lo schiocco secco di una manata, di quelle che ti dai da solo sulla coscia, poco sopra il ginocchio, come stimolo a muoverti, ad alzarti quando sei seduto. “Che è?”, chiede mio padre, “Niente, niente”, rispondo. Attraversando il corridoio, sparendo nelle mie segrete. L’Udinese.
Ci pensavo nel pomeriggio. A quella punizione sulla trequarti, nei minuti di recupero della penultima di campionato. Punizione per il Monza, sull’1-0 per noi. Dalle radioline improvvisate, finanche da quelle oniriche, frutto della fantasia del popolo creatore, giungevano le notizie importanti. Da Cremona. Il Padova non andava oltre il pari. Uno a uno, dicevano alcuni. Due a due, secondo altri. Tre a tre, per altri ancora. Altro era quotato a 25. Fatto sta che eravamo ai playoff. Il giocatore del Monza, dalla trequarti, invece di scodellare al centro dell’area il cross della speranza, effettua un monumentale retropassaggio al portiere. Una mega-struttura, un ponte dei sospiri accolto dal frenetico battimani riconoscente. Noi, ricordo, abbiamo riso. Ed abbiamo commentato: “Quanto dev’essere brutto, oggi, essere un tifoso del Padova”. Il Padova.
Peggio ancora. La settimana prima c’era stata Novara. Gli imprescindibili 3 punti contro i locali. Per continuare, noi, ad inseguire l’ultimo posto utile per giocarci le B. E a pensare, sul colpo di testa di Biancone, alla sciatta esistenza di un tifoso dei bianco-blu, in bilico tra anonimato ed emozioni mediocri. In generale. Anche aldilà di quel giorno, allorquando bisognava permettere al Foggia di passare. Finì 3-2 per noi. “Poveri tifosi del Novara”. Il Novara.
Per non parlare del giorno dell’Immacolata del 2004. Quattordicesima d’andata. Allo Zaccheria, il Foggia batteva 4-1 in Napoli. Se un folletto si fosse materializzato nel cerchio di centrocampo per vaticinare che una di quelle due squadre, di lì a sei anni, avrebbe avuto in tasca la qualificazione per la Champions League senza neppure passare per i preliminari, chi avrebbe osato rispondere che la predestinata aveva la maglia rossonera a righe? La Champions.

Durante la traversata che c’avrebbe portato al Nereo Rocco di Triste, dinanzi al cartello che sanciva in 40 chilometri la distanza dalla città di Udine, tra di noi convenimmo che mai avremmo pensato di trovarci così vicini al centro friulano. Come per una sorta di respingimento morale. Ora, i tifosi dell’Udinese andranno in vacanza con l’incognita di conoscere i luoghi della loro esperienza europea. Mentre, appena appena più a sud, quelli del Padova si stanno preparando a giocarsi, in quel di Torino, nel prossimo fine settimana, l’accesso ai playoff di serie B, per strappare la massima serie magari proprio ai novaresi, che da due stagioni si tolgono una soddisfazione dietro l’altra. Il Napoli è giunto terzo.

03/05/11

Borghetti/Chartreuse



Foggia, 9-10 aprile 2011


I ragazzi sono sbarcati dal furgone che c’era ancora il mercato. E un sole già estivo costringeva alle mezze maniche e a rendere liturgicamente omaggio ad uno dei luoghi comuni sul Sud. Quello della bancarella del pesce ci ha visti schierati in plotone ed ha chiesto se per caso non stessimo correndo a farci la tessera. Pochi passi tra le verdure e la frutta, e l’attenzione era tutta per loro. Altri luoghi comuni confermati a velocità supersonica. “Di dove sono?”, “Francesi?”, “Ci sono i francesi”, “I francesi”. In cinque minuti lo sapevano tutti.
A Foggia, checché ne dica la toponomastica, non puoi fare il carbonaro.
All’ombra del bandierone nero ci godiamo le proporzioni. “Dobbiamo mangiare?”, ci eravamo chiesti il giorno prima, in vena di super-organizzazione nordica; “Si, ma qualcosina, tanto la sera facciamo la brace”; “Allora facciamo preparare qualcosa, tipo assaggini”. Salame, formaggio, mozzarelle, olive, taralli. E parmigiana, pasta al forno, insalata di riso. Ok, non è cosa nostra. Non siamo gente in grado di escludere la tavola dai principi cardine dell’accoglienza.
Nel manuale del perfetto ospite, c’è la dismisura.
Ci sono le arance di Vico, che il Conte sostiene piacciano molto ai francesi. Non tutte le arance italiche in genere, solo quelle di Vico. Ci sono gli adesivi. Aujourd'hui pour les Ultras, Demain pour toute la ville. Enzo si preoccupa. Non chiede: “Sono venuti bene? Sono belli?”. Domanda: “Sono grandi?”.
La dismisura. Architrave dell’accoglienza. O della paranza.
Come quando ai matrimoni si chiede quanto si è mangiato, e non come, e le famiglie si confrontano sugli sprechi, a pesci in faccia. Si stappano i Sansevero, i Troia, i Cacc’e mitt, che all’Ipercoop ce ne abbiamo messo di tempo per trovarne di autenticamente nostrani. Il Salento spopola, anche negli ipermercati. Si brinda. Ci teniamo a far bella figura. I ragazzi se lo meritano. Per l’accoglienza che ci è stata riservata a Grenoble, durante la prima neve dell’inverno, ma soprattutto per la passione che ci mettono. In condizioni senz’altro diverse dalle nostre. Ne parliamo. A Foggia – e nel passato ancor più che nel presente – a 8/9 anni già si scimmiottano gli ultras. Nei tempi che furono i bambini che attaccavano i mezzi degli avversari sembravano piccoli palestinesi. Non lo facevano per accreditarsi agli occhi dei grandi. Lo facevano naturalmente, come un’appendice della cultura stradaiola di cui era impregnata questa città. È innegabile: fare l’ultras a Foggia è più semplice. Forse era. Comunque sia, a Grenoble è senz’altro più difficile. Per questo stimiamo questi ragazzi. Per l’intrinseca, forse persino da loro sottovalutata, capacità di andare controcorrente. Le bottiglie di Chartreuse finiscono in frigo, i cicchetti di Borghetti planano sul vassoio. Il caldo della controra ci spinge a muoverci, che se rimaniamo seduti finisce che le gambe s’anestetizzano, trasformandoci in precoci anziani a guardia della soglia di casa. Ai grenoblesi non va di giocare a pallone. Sanno di perdere, evitano la figuraccia! Allora si va verso la Sud. A prendere in giro il giardiniere. E poi al Trinacria, a prenderci in giro noi stessi. Domani c’è il Pisa. Non ci saranno gli ospiti, ma siamo tesi comunque: è una questione di aspettative. Le nostre e le loro. Che finisci che ti ritrovi a rimpiangere il passato, e risulti patetico epigono. Come un etrusco. A dire che se questi ragazzi c’avessero visto all’opera dieci o quindici anni fa. Ma tant’è. Ci muoviamo in blocco. Una specie di cura per gli aspetti della passeggiata fino a Parco San Felice mostra la reale partecipazione dell’intero manipolo. Foggia è città piatta, senza vedute a perdita d’occhio, senza hinterland, senza quei segni della storia che altrove fanno le città d’arte. E trasmettere il nostro innamoramento per questo spazio urbano non può che avvenire attraverso le emozioni. Le storie di una città chiamata comunità. Che per la comunità esiste. La sera arriva presto. Le torce illuminano le facce tirate nei cori: Foggia, Grenoble! Arrivano gli amici, quelli degli altri gruppi, e insieme s’aggredisce la fornacella. La birra soppianta il vino nelle scelte, sintomo emblematico che l’estate sta arrivando sul serio. Rivediamo i video, quei video che gli abbiamo regalato da un anno ma che dimostrano di non aver mai visto! E così è di nuovo Benevento-Foggia, è di nuovo la stagione scorsa, con Trieste e Verona, Cosenza e Portogruaro. Non è vanagloria. Perché se il senso di comunità è essenziale per spiegare questa città, questo video potrebbe essere stato prodotto tranquillamente dalla Pro Loco con finalità turistiche. La stanchezza affiora a tarda ora. Si dorme un dormiveglia alcolico. Ci si risveglia con una giornata di appuntamenti ed impegni. Il chiosco, l’onda d’urto delle nuove birre e del caffè. Poi ci accodiamo alla fila. E l’emozione sale. Per una partita qualsiasi, anonima, banale. Eppure senti di avere voce da spendere e voglia. Quella voglia razionalmente inspiegabile, perché se la ragione esistesse in queste lande, dinanzi alla selettiva, scientifica devastazione di un mondo,di una cultura, questa imporrebbe l’abbandono, quando non l’abiura. Invece, basta salire quei gradoni per pensare che ancora non è detta l’ultima parola. Quei blocchi di cemento ci parlano. Di quello che siamo stati e di quello che, nonostante le mille contraddizioni, siamo ancora. O dobbiamo essere. Tendere a essere. Sono la continuità di una tensione, la storia dei nostri tanti patimenti e delle nostre gioie contate. Ma anche, e soprattutto, la testimonianza più viva e vitale della nostra crescita.
Dobbiamo ai gradoni gli uomini che siamo.
A quello che ci hanno insegnato: all’amicizia, al senso di appartenenza, alla memoria. Ai più grandi, ai coetanei, alle nuove leve. È come vedere un vecchio amore dalla bellezza inalterata nonostante il passare delle stagioni. Non puoi far finta di niente. E lasci da parte la repressione, le dure battaglie contro la tv, la Tessera, i disastri del calcio moderno, il business, la mercificazione degli istinti vitali. Sospendi il giudizio e canti. Come se tutto fosse limitato a questo. Come se non esistesse il tempo. O la ragione. “In alto le mani”, gridano dalla balaustra. Fa caldo, ma dalla reazione sembra che sarà una bella domenica. Classica domenica da fine stagione. I nostri amici si guardano attorno. Siamo tesi e orgogliosi. Canteremo fino alla morte innalzando i nostri color. Il primo coro è sulle note della Marsigliese. Loro non la amano. E non sappiamo se viverla come un omaggio o un oltraggio. Nessuna delle due, poco ma sicuro. Pura casualità. Li vedo battere le mani a ritmo, con noi. E sono davvero felice. Il primo tempo è buono, con qualche picco notevole. Alla fine del primo tempo il Foggia è avanti 1-0. Ha segnato un napoletano su rigore. E tutti sono lì a dirmi che bisogna cantare di più, che la curva così com’è è penosa.
Fa parte della nostra cultura, il bicchiere è mezzo vuoto dai tempi in cui traboccava.
I nostri amici sembrano aver apprezzato. Ed è l’unica cosa che conta. Un giudizio esterno, una volta tanto, un occhio estraneo alle diatribe. Nella ripresa il Foggia realizza il secondo e il terzo, e caliamo un po’. Il sostegno si lega alla sofferenza, non alla celebrazione.

Intermezzo

Finiamo il video-montaggio il lunedì sera. Certo, mancano le immagini dell’agguato all’autogrill, quando spiegare alle pattuglie che stavamo recitando una rissa con degli amici in partenza è stato più duro del previsto, ma per il resto la carrellata di fotografie è abbastanza completa e rappresentativa dei due giorni passati con gli amici grenoblesi. Esaustiva, si direbbe. Pubblico e critica apprezzano. Anche la velocità della realizzazione si conforma alla particolarità del momento, e merita un plauso. Plauso. L’ansia da prestazione svanisce in un vago senso di compiacimento. I ragazzi sono partiti da meno di ventiquattro ore e già ci abbandoniamo all’epica dell’aneddotica, all’apologia del ricordo: il vecchio flebilmente avvinazzato che viene a cantare le canzoni di Morandi e Ranieri, lo stuolo di scrocconi che sembra attirato dall’odore della carne sulla griglia, la politica matrimoniale delle curve suggellata al ristorante di Matteo, e Matteo stesso che mi ha gentilmente fatto sapere che “Visto che è una bella giornata, perché non mi mettete in giardino?”. Il video si chiude. A bientot, scriviamo. Abbiamo raccontato della partita con la Nocerina, dei tesserati di Nocera Inferiore che verranno a Foggia in massa, del nostro presidente e dei problemi che ci sta creando. A Grenoble ci sono due amici che non son potuti scendere con gli altri. E fino a fine campionato restano solo due match.

Foggia, 23-24 aprile 2011

Ora siamo alla vigilia di Pasqua. E, soprattutto, alla vigilia della sfida con la Nocerina. Ci giochiamo una stagione, siamo in giro dalle 9 del mattino. Aspettiamo i grenoblesi. “Siamo contenti che si siano trovati bene l’altra volta”, ci dicono tutti. Anche quelli che non li hanno conosciuti. Dev’essere quel senso di comunità di cui si parlava, di cui ognuno non è altro che un bene fungibile, avanguardia o retroguardia che sia. Squilla il cellulare. Rispondo. Sono loro, sono quasi giunti. Noi ci siamo persi nelle campagne. Ma la voce che sento mi dice che in quaranta minuti saranno al casello. Abbiamo tutto il tempo di chiamare Angioletto e il Conte e di assegnargli il compito della prima accoglienza. “L’unica cosa che non dovete fare è entrare a Foggia col furgone”, mi raccomando. Con l’aria che tira oggi in città, è meglio non passare per pecorelle nocerine smarrite. La campagna, dopo una mezz’ora di lieto peregrinare, assume le fattezze di un luogo conosciuto: la superstrada. È questione di minuti. Angioletto chiama: qui ancora nessuno. Invito alla pazienza. È passata solo mezz’ora, penso e dico. Poi, però, ripenso. E dico altro: “Come si dice quaranta in francese?”, “Quarante”. E “Quinze” che significa? “Quindici”, è l’agghiacciante risposta.
Ok, ragazzi, niente panico.
Valerio chiama dalla cantina sociale: “Sono qui, sono arrivati da soli”. Apposto. Sono entrati a Foggia col furgone. Hanno fatto quel che non si doveva fare. Ma sono sani e salvi. Il tempo di smobilitare il presidio del casello e potremo goderci pizza e birra. Invece le cose vanno da subito diversamente. Dal furgone vengono fuori diverse bottiglie e finanche una borsa frigo. Sarà una giornata anomala. Lo si intuisce dai primi sentori. Dalle scintille che annunciano il giorno. Dopo gli abbracci, i ricongiungimenti, le presentazioni, si spiega il nostro stato d’animo: oggi ci giochiamo tutto. Ma tutto, tutto. In campo, certo, un grosso pezzo di serie B. Ma sugli spalti la nostra dignità. Ed è l’unica partita che realmente non possiamo perdere. Loro saranno tanti, tesserati e anche più di mille, anche grazie alla gentile premura della nostra società che ha scontato a 10 euro il biglietto per il loro settore. Cinque meno del nostro. E si che potrebbero festeggiare la cadetteria in casa nostra. Questa cosa mette i brividi. Fa orrore. Quanto al resto, al contorno, è tutto decisamente improbabile. Le undici circolari giungeranno superscortate da Candela. Nessuno, a quanto pare, s’è risolto a mettersi in viaggio fai-da-te. Neppure la B vale un sussulto, un rischio fuori programma.
Lo Zaccheria delle 12,30 è un luogo onirico, inesistente e impalpabile. Noi siamo in gruppo, ma stavolta non c’è l’aperitivo al chiosco, non c’è la gente che sciala, solo una tensione che spacca la schiena. Il pullman della Nocerina entra con qualche difficoltà. La gente non fa ressa. È ancora troppo presto. I chips ci chiedono una foto-ricordo. La concediamo malvolentieri. In fondo, pensiamo, è il prezzo della celebrità. L’eterno dibattito dei salotti televisivi: dove finisce la privacy di un vip? E soprattutto: i vip hanno diritto ad una privacy?
Decidiamo di entrare, che tanto qua attorno l’aria è spessa coltre di calore e vuoto. Dentro c’è un clima primaverile. A me ricorda la partita col Licata, incubo della mia infanzia. I gruppi sono al loro posto, non riesco a stare fermo. Stefan mi sorride e mi dice che, nonostante tutto, gli piace la tensione. La mia e quella degli altri. È vero. L’adrenalina scorre. Siamo tifosi, a parte tutto il resto. E non è vero che tutte le partite sono uguali. I nocerini entrano nel settore. Sono tanti. Sono, oggettivamente, brutti. Accozzaglia di pellegrini e ultras tesserati con tanto di pezze. Sembra una scampagnata senza stile. Fossero stati i cavesi o i paganesi, penso, sarebbe stata altra storia. Qualche coro ostile, ma senza quella rabbia interiore che solo un anno fa salutava i 700 pescaresi. L’impatto sembra buono, ma in un anno cambiano tante cose. Loro saranno umorali, noi pure. Molto dell’esito – fa strano dirlo, ma è così – dipenderà da come si metteranno le cose in campo. E le cose in campo, nel primo tempo, si mettono bene. Il Foggia sembra determinato a far sua la partita, sfiora il gol in tre occasioni. La curva risponde. Anche la Nord canta compatta, ma quella non è una novità. Su un calcio di punizione per noi, il riverbero del coro diventa imponente. A me viene da piangere. Non ci sarà mai più una curva che canta così per novanta minuti? Dubbi. L’anno prossimo, forse, non avremo neppure più una curva. Ma chi la dura la vince, si dice di solito. Noi siamo disposti a giocarcela. Di fronte sembra che i cori partano da gruppetti spontanei, piazzati qua e la. Che non esista un vero centro propulsore. Qualcuno sta ancora giocando a nascondere la propria identità. Poi, sull’onda dell’entusiasmo, pare che dilaghino. Si muovono le braccia ritmicamente, quindi staranno cantando. Ma nel primo tempo non c’è margine. Non li sentiamo. La ripresa comincia con un bicchiere di limonata. Come alle feste delle medie. Il Foggia prende il gol della disillusione. Da calcio d’angolo, sotto la Sud. La stessa bandierina che ci fu fatale col Licata. La delusione serpeggia. Di fronte si fa festa. Adesso qualcosa ci arriva di quel che dicono, ma sono troppo sfilacciati per sommergerci. Ne avrebbero la possibilità. Perché noi sbandiamo e ripariamo coi nervi, con sempre meno collaborazioni dai lati, da quella gente che – l’abbiamo già detto ma è sempre meglio ripetersi – è corsa a tesserarsi per paura di non trovare posto al circo di Zeman, ed ora è passiva ed inutile. Un peso, in ogni senso. Mai una risorsa. Fatto sta che alla fine tutti si lamentano dell’arbitro e il Foggia esce sconfitto. Peggio: Foggia è costretta ad assistere ai loro festeggiamenti che – avrò modo di accertarmene su You Tube – cominciano sulle note del Surdato nnammurato. Meglio l’Eccellenza.

Come si dimentica un scena del genere? Come si ripara ad un pomeriggio così? Andando a casa, probabilmente, staccando il cervello e provando a ricaricare le pile leggendo Conan Doyle. Ma noi fortunatamente non abbiamo scelta. E allora il tempo di riorganizzarci e ci incolonniamo su viale Ofanto. Sotto il Colonnello D’Avanzo, un paio di macchine dai vetri infranti: i superscortati tesserati hanno trovato avversari degni della loro foga. Giunti alla base, tiriamo fuori il divano celeste, che sul marciapiede fa tanto fashion. E in barba al motto Ultras, no turismo!, molliamo per un paio di ore i vassoi di superalcolici per immergerci nella realtà del centro. Non ci eravamo riusciti, l’altra volta. Da Largo Rignano, dalle traverse che nascondono Piazza XX settembre. È affascinante spiegare il perché del logo con le tre fiammelle, davanti al municipio. Non sembra, forse perché adombrato dall’ordinario scorrere della quotidianità, ma c’è qualcosa che somiglia fortemente all’orgoglio nel captare l’interesse negli occhi altrui. Che specchiano i miei di quando ero ragazzino e ascoltavo la leggenda dei pastori e dell’Iconavetere. Via Arpi con le macchine che sfrecciano, a dispetto dello spazio. Il tabaccaio che domanda: “Siete gemellati?”, nella convinzione assodata che non possa esistere altra lingua oltre l’italiano. In piazza dell’Addolorata ci fermiamo a parlare del barocco meridionale: roba da ultras. La città vive di quei guizzi preserali e prefestivi che ho imparato a conoscere in anni di frequentazione intima. Da Paolo vorremmo fare scorta di birre, ma un tizio ci racconta di bambini che rubano cellulari e non vuole saperne di lasciarci andare. Gli amici ridono. Quella sottile membrana che separa la realtà immaginata dal pittoresco realmente vissuto. La cattedrale è impacchettata, nasconde i gargoyle, ed è un peccato. Si parla di precariato, di famiglie che stentano a formarsi e non si formano, di politica. Federico II abbatte per l’ennesima volta le mura di cinta nei racconti di un dopopartita. La sera incombe. È tempo di tornare alla base. Alle torce, ai cori, all’amicizia. La zona pedonale è piena di gente. La stessa continua a domandarci cosa abbia fatto il Foggia. Per i ragazzi di Grenoble è bello sentire questa partecipazione. Per noi è una iattura, la forma esterna più sprezzante e offensiva del disinteresse. Un giro alla Ghiacciaia, due parole su Umberto Giordano. Domani sarà Gargano. E così, col passo di chi ancora vive nel piacere di stare insieme, di condividere e socializzare, la partita sembra alle spalle. Dimenticata. Non è così, ma per questa volta è piacevole anche godersi l’illusione.

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