25/01/11

BASTA TESSERA! Liberi gli ultras, liberi tutti!

Il fallimento del decreto Maroni è sotto gli occhi di tutti.

Ogni domenica stadi sempre più vuoti, curve sempre meno colorate, confusione nei settori “misti” e repressione. Quella che era cominciata come una schedatura di massa per contrastare “la violenza”, si sta rivelando per quello che è: un affare per le banche e la morte della passione calcistica per come la conosciamo.

Ci stiamo abituando a convivere coi divieti. Divieto di portare bandiere non autorizzate, striscioni, torce, fumogeni. Divieto di trasferta. Ormai seguire la propria squadra è diventato più difficile di un terno al lotto.

In più, la proposta di allargare il provvedimento di diffida (daspo) anche ai manifestanti, dimostra che avevamo ragione quando dicevamo “Oggi per gli ultrà, domani per tutta la città”. Stanno restringendo paurosamente i nostri diritti di cittadinanza. Ci vogliono muti e obbedienti. Allo stadio come nelle strade. Ci vogliono a casa, davanti alla tv, e per questo limitano i nostri movimenti, la nostra voglia di aggregazione, la socialità, le nostre passioni.

Ma non è ancora troppo tardi. Abbiamo ancora tanto da dire. E dobbiamo farlo in fretta.

La libertà non riguarda solo gli ultras. Riguarda tutti.

Facciamoci sentire.

No alla Tessera del tifoso!

Pensierino della sera su tesserati, libertà di scelta e cose serie

Vittime e fautori di un frainteso senso d’esasperata libertà, i tesserati si trincerano dietro una presunta Scelta (con la maiuscola) per invocare un impalpabile rispetto delle opinioni di tutti.
La tessera diventa ai loro occhi – o coi loro occhi tentano di farcela diventare – un baluardo del relativismo. Non esiste ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, esiste il singolo, con le sue motivate decisioni; ed esiste il contesto, personale e sociale, che porta, affretta, sancisce decisioni.
Ogni vita fa il suo corso. Ogni corso va rispettato.
È strano e originale questo modo di ragionare, di approcciarsi al tema.
Non foss’altro, perché la libertà di scelta è, tra i falsi miti, uno dei più falsi.
Il commerciante non è libero di viversi la sua bottega uscendo dal mercato; il vignaiolo non è libero di prodursi il suo vino; il fumatore indigente non è libero di comprarsi due pacchetti di Lucky strike al giorno. Discutere di libertà, di scelta e di opportunità, è uno dei modi di fare accademia. Di perdere tempo. Inutile sbatterci la testa.
L’unica libertà brilla nel rifiuto. Nel consapevole rifiuto che rasenta il baratro. Nell’accettazione delle conseguenze di un “no”.
Altro che.

A Mirafiori il ricatto, caratteristica irrinunciabile e discriminante della nostra società, era ben più corposo. In ballo c’era la sopravvivenza. Del proprio lavoro, della propria famiglia, delle proprie convinzioni. Il “si” al cappio brandito da Marchionne – è parere comune – non era depositario di un briciolo di libertà. Nelle interviste, gli operai piegati ripetevano: “Non c’è scelta”. Come una salmodia, che li aveva spersonalizzati. L’assenso dinanzi ad un ricatto non è libertà, ma il suo opposto. E nonostante ciò, il 48% delle tute blu ha rifiutato. Ha rigettato la proposta offensiva del manager della Fiat, e si è ripresa la propria dignità, negando – di fatto – di barattarla con un posto di lavoro.
“Pensate ai fatti seri”, ci gridano appresso da mesi quelli che non comprendono il nostro sbraitare contro il decreto Maroni e le sue imposizioni.
Ed hanno ragione. In una scala valoriale, in un simile scenario di fiamme precarie, le nostre intemperanze verbali sulla questione devono apparire assai modeste. Finanche irritanti.
Ma l’uomo, si sa, non è mai così serio come quando gioca.

E se vuoi comprendere un uomo, devi vedere come gioca. Quanta passione investe in un semplice torneo di bocce; quanto sprezzo del rischio nel mettere a repentaglio una caviglia per una sfida tra scapoli e ammogliati; quanta grinta nel correre, da cinquantacinquenne, la maratona cittadina. Il gioco è la spia del carattere umano.
Non consiglieri mai a mia figlia uno che in campo non sia disposto a perdere niente. Perché chi non è capace di mettersi in gioco seriamente, nella vita “seria” farà lo stesso. Elevando a potenza la propria viltà, il proprio narcisismo vuoto, il proprio terzismo indifferente.
In altri termini: se sei corso a farti la Tessera di Maroni, sei un essere talmente poco etico che a Mirafiori non solo avresti votato come Marchionne, ma gli avresti fatto la campagna elettorale; e nella mia vita non voglio gente come te accanto.

09/01/11

Invidia e antibiotici

Domenica 9 gennaio, Lucchese-Foggia 4-2

Mal di schiena dorsale. L’Oki, mi dicono, è blando. Troppo blando. Così un paio di Peroni non aggiungono niente. E niente tolgono. All’inefficacia. “Prova col Brufen, che è più adatto”. Butto giù la compressa e lascio perdere il vino di produzione. Alle 14,30 il totale del “Porta Elisa” di Lucca appare sugli schermi del canale satellitare libero. La curva sulla destra è quella dei tesserati. Il settore ospiti. Li vedo. E sogno. Un viaggio tormentato nella mia psiche. Li guardo e penso che da un momento all’altro da quella porta entrerà qualcuno con un’aggraziata bottiglia di Lagavulin o Laphroaig e gioisamente strillonerà: “Whiskey scozzese per tutti!”. Ed io, che ho preso il Brufen, dovrò glissare, restarmene in disparte mentre gli altri ci danno dentro. Che per loro quello o il vino da 2 euro al litro pari sono. Un incubo esistenziale. Perché è così che mi sento mentre guardo quei trenta e le loro scarne bandierine in quel settore deserto. Un forzato alla Cayenna. Poi arrivano le salsicce e le melanzane grigliate, che anche oggi l’abbiamo svoltata a barbecue. Come se niente fosse, oramai. E lo sguardo plana sui piatti per rialzarsi solo occasionalmente sullo schermo. La Lucchese attacca sotto quel settore. E non posso che domandarmi perché siano così sfilacciati. A gruppi di due, tre elementi al massimo, rigorosamente separati gli uni dagli altri, come se ogni micro-comunità avesse attorno l’alone dello spot dell’Aids. Scaglionati, tanto che si potrebbero distinguere i componenti delle singole macchine parcheggiate fuori. Una domanda assurda mi pervade, e sembra più importante del Foggia che prende l’uno a zero, pareggia, prende il secondo e sbaglia il rigore. Ma perché non fanno amicizia? Sono seimila e passa i tesserati al plebiscito pro-Zeman di questa città. Dopo Pisa, Nocera e Castellammare, oramai si è capito che solo quei 25-30 hanno tenuto fede al mottetto estivo del Mi tessero perché voglio seguire il Foggia anche in trasferta. Ma non sarebbe il caso, per loro, di rompere il ghiaccio, la reciproca timidezza, e fare il primo passo? Il calcio è aggregazione. E questi mi sembrano degli scolaretti alle prese con le prime feste in maschera, quando tutti i maschietti di schierano di schiena ad una parete e tutte le femminucce nel cantone opposto del soggiorno. Che le mamme di costoro raccomandino ai figli di non dare confidenza agli sconosciuti? Che siano tutti lungodegenti fuggiti dal reparto di malattie infettive del Riuniti? Che altrimenti non ci vuole mica tanto a socializzare. Poi realizzo: guardano la partita. Per loro il vicino è un optional. Un orpello fungibile, che c’è o non c’è non fa poi tutta sta differenza. Mi chiedo: ma io avrei mai fatto anche solo 15 chilometri prescindendo dalla compagnia, dal viaggio e dal pensiero del casino che si farà sugli spalti? Assolutamente no, mi rispondo in un attimo. E torno a schiacciare il limone sulla carne, mentre il Foggia incassa il terzo, fa il secondo, prende il quarto e perde.

Siamo diversi, ma per sapere questo non c’era bisogno di giungere alla seconda del girone di ritorno. E non si tratta di gerarchie assurde, di chi è più o chi meno tifoso, di chi soffre più e di chi soffre meno. E neppure mi va di tirare fuori dal cassetto quell’abusato termine che è Ultras, per dire tutto e non dire niente. Qui si tratta di tristezza. Perché a me quelli lì sopra mi fanno tristezza. E rabbia. E invidia, come i bevitori di whiskey dei miei incubi antibiotici ed antinfiammatori. Sarà che ci siamo assuefatti: tra un paio di giorni si degneranno di comunicarci che anche a Foligno non potremo andarci, e ci guarderemo in faccia con lo stesso stupore senza fine, ma senza ancora deciderci a mandare tutti a quel paese. Quelli che hanno svuotato gli stadi e quelli che limitano ai residenti l’acquisto dei tagliandi; quelli che giocano alle 12:30 e quelli che si sono resi irrimediabilmente complici del grande inganno della sicurezza in cambio della libertà. Eppure ne parlavamo ieri sera, ancora una volta scorrendo le foto del passato. Ne parlavamo con degli amici. Ci chiedevano della Tessera, certo, ma anche del meccanismo del Daspo. E leggere sui loro volti lo stesso stupore amplificato, mi ha dato un brivido anomalo: è strano parlare di sé stessi come di un panda del WWF, o di una cavia. Talmente abituati anche a questo da aver dimenticato l’originaria mostruosità del decreto Maroni. Ma oggi mi sento positivo. Cambierà qualcosa, probabilmente sta già cambiando, come quando sotto la crosta il pianeta progetta le sue metamorfosi. Perché mi sfilano davanti le immagini invernali e quelle primaverili, il furgone nelle piazze di paese, i bar, i parcheggi per gli ospiti, gli autogrill. E mi rifiuto, con l’ostinazione di chi combatte l’evidenza e la ragione, di credere che la mia passione sia definitivamente delegata a quei trenta tristi elementi. E alle loro sciapite bandiere. Che mi fanno rabbia ed invidia. Anche se l’invidia non è di quelle che potranno mai spingermi a fare cambio.

Il Libro