27/03/11

Lettere al nulla

“Da come parli, niente niente tu c’hai il diploma”. Nei quartieri della vecchia city i compiti erano rigidamente gerarchizzati in base alle competenze e alle abilità dell’individuo all’interno del gruppo. Una meritocrazia del fare, dell’agire e del pensare, tale da annichilire il progressismo spiccio di certe sinistre scandinave. C’era quello che sapeva menare le mani, che difendeva l’onore della sua gente ed ispirava i sonetti degli chansonnier alle feste di piazza; quello che si spaccava la schiena sui cantieri o al mercato, o si produceva in altre imprese per procacciarsi un reddito, sin dalla più tenera infanzia; e quello che, a detta di tutti, sapeva “leggere e scrivere”. Lo scriba, il cervello non necessariamente fino, ma la risposta pronta e arguta sempre in canna. Il guerriero, il contadino e il sacerdote della tripartizione medievale. Poi è venuta la scuola dell’obbligo, l’innalzamento dell’età della scolarizzazione, finanche l’università di massa. E i pensatori dalle mani bianche si sono moltiplicati, anche nei quartieri della working class e del sottoproletariato. È cominciata l’epoca d’oro degli addetti stampa. Foggia ne ha a iosa. Ogni istituzione, ogni ente, ogni teatro, ogni locale, affida la propria campagna d’immagine, la necessaria comunicazione globalizzata, ad un addetto stampa. Ogni società, azienda, agenzia sente l’impellente bisogno di dotarsi di un individuo di tal fatta. Anche se non ha una minchia da dire. È diventato una sorta di biglietto da visita. Io stesso ne avrò conosciuti personalmente almeno una dozzina. Il Comune, poi, ne ha addirittura cinque. Un rapporto pro capite di addetti stampa tra i più alti nell’Europa continentale. L’era di questi personaggi ha seguito a ruota, come uno sviluppo logico-conseguenziale, quella dei web designer. Perché, a pensarci, è logico: il Comune si fa fare un sito, poi appalta a qualcuno il compito di riempirlo di parole. Nella pagina ad hoc del Municipio ci sono avvisi di conferenze per scolaresche, laboratori per scolaresche, concorsi per scolaresche.
I giornalisti li riconosci dall’adipe. Il dito indice della destra consunto nell’esercizio dell’Invia/Ricevi. L’occhio clinico a spulciare gli spazi bianchi in cui poter inserire un commento al virgolettato. C’est plus facile!, intere pagine dei quotidiani si plasmano sui comunicati stampa.
A Foggia vergare comunicati è un’attività impegnativa. Ogni mattino un addetto stampa si sveglia e sa che dovrà far correre la lingua sul foglio se vuole circumnavigare la crisi ed evitare di finire ai semafori.

Un’evoluzione nostrana dell’addetto stampa, poi, è lo scrivano plenipotenziario che dialoga – da pari a pari – coi pezzi grossi del pianeta. Come a dire, dal pc della cameretta ai saloni affrescati. Da via Eugenio Masi allo Studio Ovale della Casa Bianca. Una sorta di patetico stalkeraggio dei potenti, messo in atto da emuli di Jacopo Ortis, o di Nanni Moretti in Palombella rossa, non si sa se più furbi o più fessi.
Dopo la gara del “Flaminio”, ad ottobre, pur di compiacere la sfuriata del patron Casillo, il direttore di Telefoggia – che va sul satellite ma non la guarda nessuno, anche se editore e compagnia sembrano sottovalutare il dato – scrisse una lettera a Napolitano. Da allora l’immagine del Presidente della Repubblica nel suo studio intento a leggere, a scuotere la testa e ad indignarsi per i due punti persi dal Foggia contro l’Atletico Roma, mi tormenta come da bambino mi tormentò Profondo rosso. L’addetto stampa dell’US Foggia, dal canto suo, scrive comunicati con una frequenza da far impallidire Moccia e Bevilacqua. Parole in libertà su ogni argomento dello scibile umano. A qualsiasi mittente. A questa schiera, oggi si è aggiunto il sindaco. Una bella lettera indirizzata alla Figc e alla Lega Pro per difendere la comunità dall’accusa infamante di discriminazione razziale. Mica pizza e fichi. È successo in settimana. Il giudice sportivo aveva multato di 7.500 euro la società per colpa dei “buh” razzisti indirizzati ad un giocatore di colore dell’Atletico Roma. Un macigno difficile da digerire. E così – ignorando per un attimo le buche per strada, gli omicidi di mala, la disoccupazione e il dissesto finanziario – il sindaco ha avvertito l’urgenza di prendere carta e penna ed ha illustrato al mondo la propria versione dei fatti. “Profondo rammarico per il comportamento vergognoso e deplorevole tenuto da alcuni spettatori”, e al contempo grande voglia di “dimostrare ciò che Foggia realmente è: città accogliente, tollerante e aperta a tutti, che per cultura e storia secolari ha messo al bando ogni forma di razzismo e favorisce l'integrazione in tutti i modi, che non conosce barriere per gli stranieri, i migranti, i deboli e gli emarginati”.

È colpa della scolarizzazione di massa. Della globalizzazione. Di internet. Di una certa decadenza del senso del pudore e del ridicolo. Un tempo nessuno si sarebbe sognato di scrivere comunicati ufficiali per ogni pipì di gatto. Un tempo nessuno avrebbe sopravvalutato il proprio ruolo, il proprio personale pensiero, fino al punto da ritenerlo così centrale, finanche fondamentale al dibattito politico-istituzionale. E un tempo, da ultimo, gli scrivani del popolo avrebbero indagato un po’ più a lungo prima di spedire una lettera al papa. O a Savonarola. Del resto: che senso ha dire che a fare “buh-buh” all’avversario è stato “uno sparuto gruppo di persone che indegnamente vengono considerati tifosi”? A qualcuno era mai venuto in mente che l’intero stadio avesse assordato il ragazzo con manifestazioni d’aperto razzismo? C’era davvero bisogno di sottolineare che “i tifosi foggiani hanno eletto a loro beniamini l'ivoriano Kone e il nigeriano Agodirin”, come a specificare che ci sono anche “negri da cortile”? E non è un po’ fragile – pur volendo sposare l’ottica di chi ha scritto la letterina – sostenere che Foggia non è una città razzista adducendo a prova del nove il fatto che non ci sono mai state aggressioni ai danni di stranieri? Ci sarà pure una differenza tra uno sguardo di disprezzo e il Ku Klux Klan. O no? Insomma: cos’è tutto sto protagonismo? Da dove cavolo proviene? Dove vuole andare a parare?

Lo stadio è il luogo del politicamente scorretto. Nonostante tutto, fortunatamente lo è ancora. Bombardati dalla par condicio elettorale, dalle ricorrenze rigorosamente bipartisan, dal cerchiobottismo dei salotti reali e televisivi, dalla propaganda melensa che poi arma i cacciabombardieri, allo stadio si va per essere veri. Senza inutili ricompense o biasimi, nella recita della massa l’istinto si libera e libera l’individuo. L’avversario è avversario, e lo si stuzzica, lo si provoca, laddove è maggiormente sensibile. Non esistono regole. Esiste il popolo per quel che è, nella goliardia come nella cattiveria, nella brutalità come nella solidarietà, senza le pratiche di chi si sente al sicuro solo confezionando schemi utilitaristici. Eppure, fermo restando questo, domenica scorsa nessuno ha intonato un solo coro razzista ai danni di nessuno. Il sindaco, se era allo stadio, avrà potuto appurarlo. Altrimenti, potrebbe procurarsi le immagini da una qualsiasi emittente locale. O, meglio, avrebbe potuto. Ormai è tardi, e le parole scritte rimangono. A testimoniare l’ennesimo dramma collettivo indotto dal quale dobbiamo emendarci. Non ce la facciamo proprio a sfuggire alle penitenze. Ci dicono che siamo cattivi e chiediamo scusa, senza nessun avvocato che richieda per noi lo stesso supplemento d’indagine di cui hanno beneficiato Olindo, Rosa e Pietro Pacciani. Una mossa automatica, un riflesso condizionato che, va da se, finisce per far perdere ogni valore alla testimonianza. Un lupo che chiede sempre scusa o è molto furbo o è molto fesso. E in ogni caso annoia. Ottenendo l’effetto contrario. Si dice: ma se il sindaco avesse negato che qualche spettatore della tribuna – ah, già, perché stiamo parlando della brava gente della tribuna, non degli scorrettissimi ultras parafascisti – si sia effettivamente prodotto in suoni gutturali, non avrebbe forse commesso un imperdonabile atto di omertà, di compiacenza, di connivenza? Non sarebbe venuto meno al ruolo pedagogico che noi tutti chiediamo alla politica? Arrivati a questo punto, è così. Ma, prima di giungervi a quel punto, perché – invece – non tacere proprio? Perché non rivalutare il silenzio dei chiostri e delle abbazie? No, no, no. Ci mancherebbe!, risponde scandalizzata la centuria degli addetti stampa. Che nessuno provi a resistere alla tentazione della realpolitik delle mele marce. A quella forma di delazione mirata, alla canonica suddivisione del mondo in buoni e cattivi, coi primi sterminata maggioranza e i secondi sparuto gruppo da perseguire. Si invocano le forze dell’ordine per chi lancia una bottiglietta in campo, pene severe per chi sfotte l’avversario. Cristo! L’addetto stampa dell’Us Foggia ha quantificato in 100mila euro il totale delle multe collezionate da inizio stagione. Una cifra a forfait, buttata lì a casaccio, di tre volte superiore a quella reale. Ma ormai, nessuno ci fa più caso. E questa indifferenza generalizzata, questo menefreghismo autistico, figlio dell’abuso di parole, altro non è che il maggior risultato dell’eccesso di comunicazione. Ben vi sta! Ora non ci resta che rimpiangere l’epoca dell’università per caste.

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