25/08/11

Marmellata

di Mr.Stramy

Sono figlio di un ferroviere. Sono figlio di un calciofilo.
Credo davvero che il lavoro e la passione di mio padre abbiano fortemente inciso sulla mia vita. In modo ribelle e in modo passionale. Il primo poiché come ogni padre che si rispetti, una volta capito che le scuole grosse non sono proprio nell’indole del proprio figlio, desidererebbe per il proprio erede un lavoro simile e tranquillo al proprio. Dopo scontri, lotte, conflitti, dispute, polemiche, battaglie e qualche concorso pubblico giusto per farlo contento, mio padre ha avuto la sua Waterloo e da quando avevo 24 anni sono un lavoratore indipendente. Mi rendo però conto di essere fortemente “controllato” da una forza invisibile che si chiama ferrovia. Sono cresciuto da zero a sedici anni con la finestra della cucina affacciata sui binari, a cento metri dalla galleria del Frejus, a cinque dal binario che collega Torino a Parigi, li dove domani vogliono far passare la Tav. Quel binario che alle 13.30 o alle 19.30 portava mio padre a lavorare in Francia a Modane, quando io e mio fratello, incitati da mia madre, correvamo alla finestra per poterlo salutare, scuotendo la manina anche se a volte non riuscivi a vederlo. “L’ho visto, l’ho visto….” . Con quel binario ho un rapporto particolare, speciale, confidenziale. Riusciva a custodire il pallone che volava oltre la staccionata come un fratello maggiore, lo abbracciava nel suo acciaio finché papà non rientrava, scavalcava e lo andava a recuperare. E finché anche io non sono riuscito a scavalcare la prima volta: pochi attimi fugaci, veloci ma veri, prima di tornare in strada.
Riesco ancora a sentire un treno qualche minuto prima che arrivi, da lontano. Si sentiva la casa leggermente vibrare, per me un cullare, per gli ospiti da Foggia ogni volta un terremoto. Gli unici conflitti con il treno li avevamo quando vedevamo un film. Telecomando fisso in mano pronti ad alzare il volume per poi riabbassarlo una volta transitato. “Eccheccazz, non si è capito niente. Che ha ditt?”

Avanti RAI3/Dopo RAI3.


Per anni a casa, o meglio nel mio paese, il terzo canale non arrivava. Papà si “prendeva veleno” perché non poteva vedere il Processo. Se lo gustava solo quando venivamo a Foggia, in via Borrelli, lui e mio zio seduti intorno al tavolo in cucina e le donne a cucinare, in religioso silenzio. Oggi posso dire che l’arrivo del nuovo canale ha davvero condizionato quello che sarebbe stato il mio futuro. Il lunedì, quando papà faceva il pomeriggio, avevo il compito di vedere il Foggia a “C siamo”: il mio punto di non ritorno, il colpo di fulmine, le farfalle nello stomaco. Che sia dannata quella trasmissione!
E allora cresci e la formazione continua. Ricordo cene a casa di Enrico, famiglia di romanisti. Noi bambini a giocare e i grandi a vedere la partita, rimproveri e l’ordine di stare zitti e seduti a guardar la partita con loro. Ricordo anche le cene che organizzava mio padre alle quali invitava i suoi colleghi scapoloni. Qualche calabrese, qualche napoletano, qualche pugliese. Venivano a casa a veder le partite e coglievano l’occasione per mangiare qualcosa di buono cucinato da una donna e non, probabilmente, il solito pranzo triste da single. Ricordo abbastanza bene Olindo, siciliano tifoso del Milan, secco secco, stempiato e col pizzetto. Chissà dove sarà oggi Olindo?
In tutto quest’ambiente, come fai a non diventare tifoso??? Giuro che mio figlio avrà lo stesso trattamento.
Ognuno ha il proprio passato, i propri ricordi, e guai a buttarli via, ad accantonarli. Sono i tuoi e di nessun altro. Guai a metterli da parte. Non si possono neanche condividere, difficilmente possono regalare emozione, le stesse emozione che proviamo noi.
Per me il Foggia non ha mai vinto 3 a 2 contro l’Inter del Mago. O meglio, può anche aver vinto, ma non mi fa emozionare. Per me Nocera, Zeus o Giulio Cesare sono la stessa cosa. Mi rendo conto di quanto mio padre abbia voluto trasferirmi quell’emozione, scavalcare con la bici e guardarsi quella partita, ma ahimè non è riuscito a farla mia. Ci ho provato più volte a sentire mia quella partita, ma non ci sono mai riuscito. Mazzola o Rivera? “Efess…Golden Boy” Perché? Perché anch’io non riesco a schierami vedendo le vecchie immagini???
Temo. Temo di non riuscire a trasferire a mio figlio la poesia di Baggio, mio grande ispiratore. Temo che quando gli racconterò del gol alla Nigeria lui penserà che è roba vecchia. Temo che non riuscirà a disprezzare quanto me Ulivieri per averlo tenuto in panchina contro la Juve. “…ah da quando Baggio non gioca più, non è più domenica…” Temo che vedrà Maradona come io ho sempre visto Pelè. Maradona o Pelè? È chiaro che io risponderò sempre Maradona, solo perché Diego l’ho vissuto.
Il nuovo sul vecchio. Roma, Napoli, Torino. Questi progetti “Grandi Stazioni” non riesco a mandarli giù. Sono fredde, distaccate dal viaggiatore. I bar della casa, dove chiaramente quello di Torino era ben diverso da quello di Napoli, oggi sono diventati uguali. Gli è stato preso il posto da catene del Food & Beverage con tanto di gigantografia di cornetti, caffè e spremute e menù a 2.99 Euro. A Torino non ci son più le fontanine, quelle dove papà ci prendeva in braccio per farci bere e dove riempiva l’acqua prima che l’espresso 900 di 14 carrozze partisse per Foggia alle 20.50.
Sono spariti i vecchi tabelloni, quelli neri con le scritte in bianco con le lettere divisi in due parti. Quello che quando cambiava faceva “ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta ta”, partendo velocemente per finir piano piano, per cambiare l’ultima lettera che faceva diventare un Brindise in Brindisi, un Crotona in Crotone o un Triesto in Trieste. A Foggia nell’atrio centrale era posto sulle biglietterie, in tutta la sua maestosità. Quando cambiava il rumore ti faceva girare e lo guardavi anche se eri disinteressato. Oggi sono stati tutti sostituiti con tabelloni elettronici luminosi in doppia lingua. Non esistono più neanche le campanelle che nelle piccole stazioni, nei piccoli paesi, indicavano l’arrivo del treno. La campanella sostituita da due lucine che lampeggiano ad intermittenza.
Cosa racconterò a mio figlio? Vorrei che ci fosse lo stesso passaggio di consegne che c’è stato fra me e mio padre. L’odore dei treni, quello interno, di viaggiatori, di esperienze, di problemi, di quotidianità, e quello esterno, di ferraglia, di freni che stridono, del calore del locomotore, dell’aria condizionata che funziona male. Nocera, Favalli, Rinaldi, Bettoni prima, contro Tedesco, Seno, Shalimov, De Zerbi, Costanzo, Di Biagio dopo. Contro? Al cospetto di chi mi troverò quando mio figlio rivivrà quello che abbiamo vissuto io e mio padre?
Credo di essermi accorto che i ricordi sono i nostri, le passioni però possono essere trasferite…
Ieri hanno iniziato ad abbattere quella che era la mia scuola superiore. Non importa se fosse un edificio fatiscente, vecchio, “un posto ormai per drogati”, era la mia scuola. Li c’erano altri miei ricordi. Ora non c’è più.

20/08/11

Due o tre cose che so di lui. Giuseppe Sansonna

In sordina, a fil di muro. O peggio ancora: semiclandestinamente. Lontano dalla pubblicità come dai semplici clamori. “Su Raitre!?”, diceva la gente, avvisata da internet, dagli sms degli amici. E, dal vivo, non sempre era facile distinguere l’esclamativo dall’interrogativo. Il primo documentario di Giuseppe Sansonna (da Bari Japigia), Zemanlandia, era stato accompagnato da un trambusto che manco la banda della festa dei santi patroni. Amarcord apologetico. Secondo alcuni oltranzisti della vera fede, finanche la scintilla che fece scoccare la nuova passione estiva tra il boemo e don Pasquale Casillo. Galeotta fu la pellicola. Questo secondo, invece, sembra Radio Londra. “Si, su Raitre”, “Ma stasera?”, “Si”. Oggi, e Sansonna dovrebbe saperlo, da queste parti è tutto cambiato. Non sempre le ciambelle riescono col buco, non sempre i progetti patinati ottengono la spinta di marketing del preteso lieto fine. E le tesi che falliscono la prova dei fatti, a lungo andare, diventano folklore. Niente di più. Due o tre cose che so di lui, si intitola il nuovo lavoro. E lui, ovviamente, è Zdenek Zeman da Praga, l’uomo che nel 1993 ha messo in pausa questa città. Certo, sapevamo che Sansonna da Bari ci stava provando di nuovo, proprio come il suo Maestro. Entrambi nella speranza di ripetere la prima Zemanlandia. A suo tempo avevamo persino individuato una strana telecamera ai prefiltraggi della Sud. “Alle undici e mezza”. Doc 3. Premetto, a mo di coro shakespeariano: dei 55 minuti complessivi, i primi 25-30 li ho visti due volte. E questo vale già come critica motivata e non come dato di semplice curiosità. Difatti. Alla sigla di partenza, all’apparire del presentatore nell’ambaradan di luci e grafiche futuribili della seconda serata estiva della terza rete, siamo nel bel mezzo di una festa di compleanno. Girano Peroni e fuori ci sono tre pattuglie della polizia e i vigili del fuoco stanno lavorando per aprire una saracinesca dalle cui grate fuoriesce del fumo nero. Si pensa ad una intimidazione, fatto sta che la strada è piena di curiosi e ci sono lampeggianti ovunque. Come a dire: di reality alternativi non ne mancano. Eppure, siamo in tanti a scattare al segnale, a piazzarci davanti allo schermo. Il presentatore ricicla argomentazioni vagamente già sentite. Vagamente. Zeman “eretico”, Foggia “una città innamorata che s'aggrappa al calcio per non pensare ad altro”, gli anni Novanta pieni di “traguardi impensabili per una squadra piccola, povera”. È Raitre, ci mancherebbe. Sarebbe strano il contrario. Fatto sta che si potrebbe obiettare già adesso, da subito, dall’introduzione. Il calcio oppio dei popoli, l’Empoli di Cagni che centra la Uefa. Immagini in scorrimento veloce. La sigla. Le prime riprese: la fonda periferia desolata, affaticata e assolata, le rughe del maestro, il magazziniere, lo staff tecnico come metafora e simbolo della famiglia, di un certo modo di fare calcio a certe latitudini che, non fossi foggiano, non avrei problemi a posizionare nell’America Latina di Osvaldo Soriano. Lo spogliatoio che risuona dei passi coi tacchetti, il manto erboso dello “Zaccheria”, gli occhi del saggio, i ragazzi che corrono sul prato, che saltano, colpiscono il pallone, s’arrampicano sui gradoni della gradinata. Il tutto sospeso in un limbo fisico di totale isolamento, come se il microcosmo dello stadio e della squadra fosse elemento avulso dal contesto in digradante degrado. Un piccolo, assediato manipolo di idealisti, naufrago in un mare di cinismo iper-realista. Una sensazione di ineluttabilità: quella squadra non può farcela. Neppure gettando nella mischia la grandezza del suo idolatrato mister. Non ha speranze. Non nella Foggia salvadoregna che tanto piace al barese Sansonna e al suo pubblico di radicali da branch. Quelli intrattenuti con storie di peones del pallone sul Manifesto, durante un’intera straziante stagione di non-calcio per analfabeti della materia; e quelli richiamati all’appuntamento con il video, sequel e antibiotico del precedente. Perché la solitudine dell’ala destra, in questo caso, è contagiosa. Foggia ha perso l’innocenza, lo sguardo smaliziato ed infantile, gioioso o quanto meno ottimista d’un tempo. E s’è trasformata. Tanto che persino i suoi amanti più disinteressati fanno fatica a riconoscerla. Cinque minuti di chiacchiere barocche e auto-plagio e già dovremmo sentirci in colpa. Una responsabilità collettiva, gli israeliti col Messia. Il popolo deicida, prima ancora del Palazzo, prima dei Cesari. La nostra mancata fede, i nostri mutamenti di costume, hanno isolato il Maestro. Così che neppure i siparietti in dialetto di Altamura e Annecchino risultano simpatici. Poi, certo, ci sono le partite a carte, interminabile replica d’un modello mundial, escamotage narrativo diventato già alla seconda occasione stantio ricorso al corner. Perché Sansonna lo sa: l’idolo è tornato sui sentieri della prima predicazione. Ed ha fallito. Allora meglio metterla in poesia, come Evtusenko con la bandiera rossa. Intanto che passano sequenze di una noia infinita, che in confronto I nibelunghi sembra la finale dei cento metri, Fritz Lang, Ben Johnson. Qualcuno parla di scelta stilistica. E dovremmo metterci sull’attenti, per non far intuire che non abbiamo colto. Il clamore dell’originale che si stempera nell’assordante annegare della copia. Il rumore dei tacchetti, le parole dei ragazzi, il fiume che scorre sui ciottoli. Noia, altroché. Poi un suono, che non è una musica. L’inquadratura – poetica e vendoliana – su qualcosa di isolato a caso: il faro dello stadio, una pala eolica, una tribuna vuota, una casa, un quartiere, un bidone dell’immondizia stracolmo. E sembra che finalmente il video possa decollare. Invece, per dirla coi Casino Royale, ogni stop è solo un altro start. Anche se ora scorrono dei gol. A grappoli, che sembra quasi una cavalcata trionfale. Ancora non l’hanno detto che siamo arrivati sesti in Lega Pro. L’illusionista diventa ministro della propaganda zemaniana. E mostra la cartapesta che ricopre gli stabili diroccati. Parla di “schermi stinti delle tv locali foggiane” e non capisco perché, cosa diamine ci sia di stinto, di diverso da una qualsiasi emittente privata locale in queste immagini. Il dettaglio tecnico che possa riportare alla mente del barese la “Coppa America degli anni Ottanta”. Intanto i “colibrì mannari” del mister macinano reti su reti. Mi guardo attorno e della piccola folla iniziale sono rimasti in due, oltre me, sul divano. Col ventilatore puntato in faccia. Basta questo. Abbiamo visto e sentito fin troppo, per stasera. Si spegne la tv, si passa alla musica e al vodkalemon. Mentre mi chiedo: se questo è l’effetto a Foggia, dove la gente è curiosa di cose che altrove interessano poco (riconoscere luoghi, persone, situazioni), che accoglienza pensa di avere questo presuntuoso costui a Rovigo, ad Asti? Allora decido di rivederlo. Per intero, ad alto volume, stavolta sul serio. Senza interferenze. Ripasso gli scorci, le solitudini, i peones. Per scoprire che oltre le colonne d’Ercole della prima mezz’ora, tutto è uguale a prima. Identico a sé stesso. Annoto il prezioso parallelismo tra “la Cecoslovacchia comunista e il Sud Italia poverissimo”. Mi torna in mente Di Vittorio. Ascolto Farias affermare che la mia città è come il Brasile, che i furti delle auto sono tanti. E mi convinco definitivamente che costui è riuscito ad ottenere la paccottiglia pubblicitaria che voleva. Del resto, si ragiona così per ogni tesi: lo sguardo sull’oggetto studiato è parziale, selettivo. Il cervello salva e immagazzina ciò che ritiene utile, scarta e sputa il resto. Bisognava, come il Bonini di Repubblica, dare un’immagine di bellezza affiorante, un fiore in un barile di catrame. E partendo dal fiore-Zeman, il resto s’è quasi punito da solo. Senza sforzo. La Foggia che conosco è una città caotica e tranquillizzante, disorganizzata e piena di spunti. La Foggia di Sansonna è deserta e sofferente come certe città del Far West, pronte al mezzogiorno di fuoco. Il suo pubblico di riferimento non ama le sottigliezze. Voleva inquietudine, ed inquietudine ha ottenuto. Una sottile paura dell’ignoto superata dalla consapevolezza salvifica di non averci nulla a che fare. Sospiro di sollievo. Le ultime battute del video sono tutte del mister (anche lui spesso inquadrato solo, riflessivo e senza risposte). Ha lasciato Foggia, dice, perché i suoi giocatori non sentivano la maglia. Pensa te, verrebbe da dire. Dopo che uno come Sansonna arriva da Bari per parlare di una presunta, inesistente Zemanlandia; dopo che mezza Italia giornalistica si scomoda per narrare le gesta del mito vivente; dopo che le società di A decidono di prestare i loro campioncini alla squadra allenata da Zeman; verrebbe da chiedersi perché mai avrebbero dovuto quei ragazzini sentire l’onore di vestire la maglietta del Foggia. Sempre senza contare che Zeman stesso ha lasciato Foggia per montare le tende (non è facile ironia, anzi si) a Pescara. Ma questa è un’altra storia. Fatto sta che ora che il circo è stato smontato ed è ripartito, stiamo meglio. Molto meglio. E sui titoli di coda, penso con tutta onestà di aver chiuso i conti. Con Zeman, con Sansonna, col passato. Pensiamo a noi, adesso. Che è l’unica cosa che conta.

18/08/11

I clienti del fallimento

Uno spettacolo che invece di sollazzare gli astanti, di svuotargli la testa dai pensieri pesanti, li costringe alla noia, al diversivo attendista, è uno spettacolo fallimentare. Uno spettacolo che è diventato auto-referenziale, disinteressato alle sorti della parabola, al lancio del satellite progettato e spedito in orbita, alla sua traiettoria, è un non-spettacolo. Difficilmente attraente persino per i più acritici amanti del genere. E se una cosa del genere vale, può valere, per la tradizionale conferenza di fine anno del Governatore della Banca d’Italia – il tipo in giacca e cravatta richiama attorno a sé qualche decina di giornalisti coi taccuini, di cameraman e di inviati coi palmari e i pc portatili, e parla dei tassi d’interesse, delle prospettive finanziarie, delle ricadute di questo o quell’evento sulla vita del Paese – sicuramente non vale per i sorteggi dei calendari della Lega Pro. Perché nel primo caso il problema non è il tizio in giacca e cravatta. È l’addetto al palinsesto che decide di mandarlo in diretta sulla Rai, in pieno dicembre, finendo per sfinire una popolazione di tele-utenti con un non-fatto nato senza velleità d’intrattenimento. Ma nel secondo, per lo spettacolino da strapaese messo in piedi per fare da companatico al sorteggio, si può tranquillamente parlare di sostanzioso passo avanti sulla via del baratro. Verso la Damasco del grottesco.

Un tempo – e maledizione per quante volte si dovrà ancora dire “Un tempo”! – i calendari erano una cosa come un’altra. Una voce dal tg sportivo diceva che erano stati stilati e stop. Poi si passava alle immagini del casello di Melegnano, in diretta dalla centrale operativa delle Autostrade pubbliche. Elettrici eravamo noi, che aspettavamo di sapere le sorti della nostra squadra, ma nessun altro. Non c’era un’industria dello spettacolo incarognita a voler spremere fino al midollo il limone dell’astinenza estiva da calcio (se è per questo il massimo delle amichevoli, “un tempo”, erano Juventus-Villarperosa e Foggia-Lodigiani, ma questa è un’altra storia…). Invece: diretta dalla sala di un palazzo storico di Firenze, gonfaloni e omaggi, schiere di convenuti, ad imitare il parterre dei sorteggi mondiali o della Champion’s league. E dirigenti a iosa. Al volante di questa presuntuosa utilitaria chiamata Raisport, Amedeo Goria (che ricordavo cassato dallo star-system de noantri per quell’impeto onanista dinanzi ad una subrettina, ma forse è la mia memoria che fa cilecca), che si perde – come il Ciotti della Domenica sportiva di tanti e tanti anni orsono – nel magnificare il “cervello elettronico” del computer che “espellerà” (sic!) i nomi delle squadre e delle sfide. Roba che se i maya avessero evitato di estinguersi o di farsi sterminare, uno come Goria lo userebbero ancora oggi come clistere per i loro dopocena. Ma tant’è. Finito l’omaggio ad Artemio Franchi – e anche qui: chissà perché agli speculatori-devastatori-evasori del cosiddetto calcio moderno piace così tanto crogiolarsi tra le pieghe del bianco-e-nero d’epoca, immedesimarsi e fingere di rimpiangere i vecchi e buoni dirigenti di quando tutto era più facile “e si potevano mangiare anche le fragole” – si passa a mollare il microfono ad una sfilza di anziani intabarrati. Ognuno ripete le proprie teorie sul giuoco del pallone. Ma decido di non entrare nel contenuto. Non mi tange quel che dicono, le banalità trite e ritrite e già sentite. Mi interessa lo spettacolo, in sé. Non posso fare a meno di pensare: a chi piace tutto questo? Chi è quel mio simile che, sfaccendato e in semi-ferie in una mattinata d’agosto, decide di prepararsi un caffè o una bibita alla menta, schiantarsi rilassato sulla sdraio e godersi questa carrellata di star da ospizio? Quale deviato mentale trova, o anche ipoteticamente potrebbe trovare, vagamente spassoso o divertente o istruttivo questo scempio? Lo spettacolo del calcio – quello che impone tornei negli Usa e supercoppe italiane a Pechino – è un bulimico che ingoia noccioli di pesca. E pretende che noi siamo qui a guardarlo vomitare.

Ma a me interessa sapere dove esordirà il Foggia, dove l’Osservatorio ci vieterà di andare. E, nonostante la gente che dal web urla: “Che rottura di palle! Dateci i calendari e basta!”, mi soffermo ad ascoltare brandelli di disquisizioni colte. Ed era meglio per me se non l’avessi fatto. Capita, difatti, che un dirigente di Lega Pro descriva il futuro prossimo così. “Questo sarà l'anno del fair-play... Torniamo negli oratori, torniamo dove c'è gente sana... Facciamola venire allo stadio, anche gratuitamente... Sono i clienti di domani, signori presidenti”. E spalanco gli occhi. Perché è raffinato, il cialtrone. E sentire i ministri della propaganda all’opera fa sempre uno strano effetto. Dunque: fair-play, quel mito in costruzione che dovrebbe, come un antidoto fiabesco, mitigare l’agonismo, la metafora bellica insita nel gioco. Quel bel concetto naufragato all’epoca dell’imposto terzo tempo. Quello spirito che a noialtri, bestie da spalti, sfugge. Perché si sa: il problema siamo noi, le nostre intemperanze, il nostro modo d’intendere la domenica che “nulla ha a che fare con il calcio”. Per questo, per riportare le immaginarie sacre famiglie sugli spalti, bisogna trovare nuova linfa. Anime vergini da riempire di buoni propositi. Demoni a caccia di nuovi adepti. Gli oratori. Viene in mente Paolo Conte, l’atmosfera bucolica dei campetti circondati da mura e campanili, la polvere e il sudore dei bei tempi andati, che tanto affascinano i pescecani dell’oggi. Un mare dove pescare gente che non va allo stadio come alla guerra. Quelli siamo noi, secondo la vulgata. Noi, quelli estromessi perché incompatibili, quelli repressi perché facinorosi turbatori dell’ordine. In questo quadro, sembrano loro – gli sciacalli dei diritti televisivi e della Tessera obbligatoria – i soavi cultori dei bei tempi. Loro, quelli che hanno svenduto una passione popolare alle banche e ai network. Cercano gente sana, da fagocitare. Anche gratis. E mi sento d’improvviso lieto: lieto di non c’entrarci niente. Lieto nel carpire, dietro lo sguardo famelico, che non ce l’ha con me. Io non sono sano. Io, secondo questo bravo signore, rappresento tutto ciò che nel calcio è sporco. Tutto ciò che va estirpato. Provo una vaga fierezza. Che diventa esplicito orgoglio sul finale: “Sono i clienti di domani, signori presidenti”. I clienti. E, come spesso accade, il ministro della propaganda non ha compreso d’aver svelato i nostri antagonismi meglio, molto meglio che i nostri mille comunicati. Clienti vanno cercando. Clienti non saremo. Meglio bruti che consumatori di noi stessi.

01/08/11

La gita tedesca

Muhlbach, 30 luglio 2011, Mezzocorona-Foggia 0-1

Il trasloco

Dai bagagli al suolo della sede, sembra un trasloco.

L’idea stessa di Alto Adige causa sgomento. Le case coi tetti a punta, il freddo artico, i tedeschi. Si sgranano luoghi comuni come un rosario, finché qualcuno non dice “Sudtirol”. E lo sgomento torna a prevalere. “Ma quanti chilometri sono?”, “800”, “900”, “Mille”, “Mille-e-due”. “E quindi, quante ore di viaggio?”, “Otto”, “Dieci”, “Dodici”. E, nel mare dell’incognita, il più bastardo pianta il suo punto fermo, come un chiodo nel muro: “Tutti di autostrada”. E un silenzio pensoso, agghiacciato, supera persino lo sgomento. Il furgone apre le sue fauci. Entrano zaini, aste, sacchi a pelo e un paio di tende. Perché il programma prevede una sola nottata di permanenza. Da passare, secondo l’organizzazione spartana, rigorosamente all’addiaccio. Per temprare il fisico imborghesito dalla flaccida estate mediterranea. “Attenti – si sente di dire chi inspiegabilmente ci tiene a noi – che lì fa freddo”. E noi, sarà perché ci crediamo realmente, sarà perché nello sguardo di chi ci avvisa leggiamo una sottile, scettica sfida, rispondiamo: “Tanto è una notte soltanto”. Come se la replica avesse un significato. Colazione al sacco. E, dopo l’emozione della partenza, dell’insperato ritrovarci in banda al casello dell’A14 in direzione Nord, parte la sfida delle cucine regionali. Farinata torinese e una frittata con le cipolle che il Gallego s’ostina a chiamare Tortillas. La borsa frigo collegata all’accendisigari sforna Peroni dapprima fredde, poi sempre più tiepide. La preoccupazione s’allarga a macchia d’olio: basteranno tre casse? Devono, perché pare che lassù costino un occhio della testa. Qualcuno azzarda l’ipotesi che si paghino ancora in marchi. Bollino nero, dice Cis Viaggiare informati. Ma, in tutta onestà, non sembra. I cori sono arrugginiti, sarà perché pensavamo di non imbarcarci più, e l’emotività prevale sull’abitudine. Siamo alle spalle di una macchina e di un secondo furgone. Ogni tanto trilla il cellulare. Ci avvisano di una sosta. Ci fermiamo con frequenza, ma ogni volta che parcheggiamo il mezzo, gli altri stanno per riavviarsi. Il gioco dell’elastico. Siamo quasi a Verona. Un signore ci segue: “Siete di Foggia?”, “Si, si sente?”. C’è anche il figlio, sono diretti in Trentino, facciamo colazione assieme. Ci salutiamo col più classico dei: “Forzafoggia!”, “Sempre!”. L’alba è un’impressione che ci coglie sull’autostrada del Brennero. Ci sentiamo arrivati. Del resto: il Nord è Nord. Le distanze si annullano in un unico luogo comune indefinito. Un motociclista aggiunge il nostro adesivo tra i suoi, ringrazia in tedesco e riparte. Campanili a destra, campanili a sinistra, campanili in alto. Corsi d’acqua. Sembra, a momenti, di rivivere il primo tratto dell’autostrada per Lione. Solo che qui i segnali si fanno austro-ungarici. Trento, Bolzano, Bressanone. Trient, Bozen, Brixen. Il verde la fa da padrone, il casellante ci chiede 56 euro. Noi paghiamo con faccia distesa, per dissimulare il mare agitato di bestemmie che ci dilaga dentro. Boschi. Ruscelli. Tutto risponde all’immagine che ne avevamo. Anche se questa è una vallata, e le montagne non si vedono. O meglio, si intuiscono, ma non sono bianche e innevate come pensavamo. Sarà perché siamo al 30 luglio? Un campanile, l’ennesimo, ci annuncia la meta. Rio di Pusteria, che in realtà si chiama Muhlbach. Un ponte e l’albergo dei dirigenti a farci da parcheggio. Un paio di urla disumane alle 7 del mattino. Prendetela come una serenata, signori…

Habitat

In piazza ci saluta la rossa barista del primo locale. Noi rispondiamo. La bionda barista del secondo. Rispondiamo. Il marito di quest’ultima. Rispondiamo. Sorgono dubbi. Ci accomodiamo ai tavolini di fronte alla chiesa. Ma nessuno ha il coraggio di entrare, di sincerarsi del costo di un caffè. Passa un anziano e ci saluta. “BuonCiorno”. O sono davvero il luogo più ospitale del mondo, o ci stanno prendendo per culo. “Mi piace – dice la Scocca, che comincia a sentire il richiamo delle case di legno e dei vicoli pieni di fiori -, sorridono sempre”. “E quelli ridendo ridendo hanno sterminato 6 milioni di ebrei, Enzù”. La barista interrompe il flusso di coscienza. I postumi della nottata si fanno sentire. Sembra una scena onirica. Otto individui di nero vestiti, escludendo quel pallavolista che s’è presentato con la maglietta gialla, in una piazzetta garbata, col rumore della fontana in sottofondo, circondati da alemanni che fanno ciao ciao con la manina, quasi felici della nostra presenza. Voglio dormire. Enzo, invece, fissa il suolo alla ricerca di una cartaccia. I resti di un Mars, non per forza un cartone o una tazza del wc, ma pur sempre qualcosa che possa riportarlo all’umanità che vive nell’emergenza rifiuti, in questo luogo estraneo dove nessuno parla ad alta voce, tutti ti guardano e l’ordine regna sovrano. Gente senza fantasia. Leggiamo la locandina che annuncia la partita delle 17:30. Mezzocorona gegen U.S.Foggia. Si gioca al Freundschaftsspiel. La Scocca, dopo qualche minuto di contemplazione, decide di muovere verso la barista rossa per saperne di più. È conquistato. Vuole trasferirsi. Pensa di accasarsi. È palesemente in cerca di una Green card per l’impero asburgico. La rossa – definita “dolce e ingenua” – ci spedisce giù per un dirupo. Ridendo ridendo. Oltrepassiamo un fiume e il pullman dell’Unione Sportiva, come per Pollicino, dimostra che siamo sulla strada giusta. Il resto è prato e black-out. Ci addormentiamo elencando I Vezzi del Don. Come un tempo si contavano le pecore. Ci svegliamo al suono della voce di Angioletto, che dritto ad un metro dall’ingresso, accoglie i ragazzi che vanno ad allenarsi. Lo sguardo, come sempre, è minaccioso. Per noi è una contestazione perenne. “Tu sai giocare a pallone?”, chiede in dialetto. Col timbro di uno che rimprovera. “Sei forte, tu? Sei il migliore, tu?”. Bonacina parcheggia. “Mister, quando arriva Zeman?”. Il magazziniere ci raggiunge: “Chiedi al don se anticipa, che ci siamo rotti le palle e vogliamo tornare a Foggia”. Gli allenamenti della mattina, il sole che brucia, il sonno che è rimasto attaccato agli occhi. Panino, birra e vagabondaggio. C’è da ingannare l’attesa. Gli altri, giunti da venerdì, ci narrano le meraviglie del loro albergo a 27 euro a notte. “E voi dove dormite?”. La mimica facciale la dice lunga: siamo uomini duri noi. “Guardate che la notte qua fa freddo”. Il centro, adesso, sembra affollato. La Scocca è sempre più rapito, si ricarica di serenità. Il resto del gruppo, s’alterna al bar. Al bagno del bar. Rinati, vaghiamo. C’è chi mira alla funivia, e corre ad informarsi. Altri assillano la ragazza dell’info point turistico. “Ma è vera quella voce che parla di orsi?”. “No – sorride – ce n’è uno solo”. Ora si che siamo tranquilli. I pacchetti si rivelano buchi profondi. Si fuma sempre troppo, anche se – non so perché – in questa circostanza tendo ad escludere la tensione, l’ansia da prestazione come motivazione principe. Maledizione, comunque. “Scusi, dove posso comprare le sigarette?”. Il cassiere del supermercato ci fissa stranito, come se la risposta fosse nella natura delle cose. “Al ristorante”. L’erboristeria ha cessato l’attività, evidentemente. Facciamo scorta di quel che c’è, con Enzo che mette fretta. “Sono già le tre”, continua a ripetere. E al campo, sulle note di Amico Uligano, arriviamo primi. Sbaragliando una concorrenza che è ancora in albergo, a godersi docce e piscine. Giustamente.

Il campo sportivo

I papà, le fidanzate dei nuovi acquisti. I foggiani di Trento, di Bolzano, di Verona, di Brescia. I giocatori del Mezzocorona individuano la bandiera che sventola e si danno di gomito. I nostri hanno facce da ragazzini. Le facce. Le rivediamo tutte, quelle che ci aspettiamo. I gruppi. Sbarcano dai furgoni, avanzano, invadono i tre gradini dell’impianto. Abbracci, pacche sulle spalle, sfottò in dialetto. Attorno ci sono i foggiani trapiantati, che sorridono mentre la lingua materna si fa largo nell’aria rarefatta del Tirolo. 875 chilometri da casa. Il bar è aperto e spaccia birre in bottiglia a 2 euro. Un Lucano e un Borghetti passano di mano in mano. Le cronache si concentrano sulle serate alcoliche. “Ma voi quando siete arrivati?”, “Stamattina”, “E ripartite?”, “Domani”, “E dove dormite?”. Cazzo, è un’ossessione. C’è un sole che spacca le pietre, i pensieri notturni non ci riguardano. Gli striscioni, le pezze. Il rifiuto a chi pensa che la nostra stessa esistenza sia un favore, una gentile concessione. E le squadre entrano in campo. Le torce – saranno almeno sette al primo giro – le cipolle, le bandiere che sventolano, le mani al cielo. È una stronzata, a pensarci. Ma non chiediamo di meglio. I sorrisi di quelli seduti attorno diventano sempre più blandi, mentre negli occhi ora si legge un minimo di preoccupazione. La disinformazione sul nostro conto non va in ferie, il sospetto rimane. E s’acuisce quando la voce di un uomo in borghese, accompagnato da due individui in divisa, chiede di parlare col responsabile della tifoseria. Risate. Poi l’invito a non lasciare le bottiglie di vetro in giro. “Sapete, c’è gente che ha famiglia”. “Anche noi abbiamo famiglia, eh… Non è che siamo proprio soli al mondo”. Dalla balaustra i lanciacori mettono la marcia alta e zippano il repertorio, col risultato che al 10’ le abbiamo fatte quasi tutte. Inutili gli inviti alla calma. Siamo in altura, il cervello risponde freneticamente agli stimoli. Zero a zero in campo. Per la maglia sudare e lottare, chi non ci sta libero di andare, abbiamo scritto nero su bianco. Ma qui siamo ancora all’abbrivio. Alla fine del tempo, i commenti sono già disfattisti. “E meno male che è solo mezzo corona…che con una corona intera a quest’ora stavamo 2 a 0”. Noi, lupus in fabula, abbiamo preparato la gag. La polizia ora è attentissima, controlla ogni movimento. Così abbiamo solo il tempo di aprire il furgone, tirare fuori le birre dalla borsa frigo, una per volta, sfoderare un coltello da cucina e tagliare certosinamente un limone a fettine. Indi, passargli davanti con sette bottiglie di Corona canticchiando “Mezza Corona, beviamo mezza Corona”. C’è anche un tifoso dei veneti. Ride con gli altri. Uno sbirro ci si para davanti, a mani aperte come il preside della mia scuola quando la sirena – per errore – aveva suonato l’uscita anticipata. Uno scoglio in mezzo al mare. Cerca di bloccarci. Enzo, con la tecnica di guerriglia infantile del “guarda lì”, gli indica un posto alle spalle, quello si gira e perde il placcaggio. Mentre intorno si fugge come da un Cpt. È uno scoglio, l’agente. E difatti non può arginare il mare. Giuriamo che gli riporteremo le bottiglie entro massimo cinque minuti. Ma poi la partita inizia, ed è avvincente come un torneo agonistico di Scarabeo. E quindi ci dedichiamo alla cura personale. A quei cori che ci servono per rinfrancare lo spirito. Nel mirino Zeman, gratificato da un quasi ballo di gruppo e soprattutto dagli occhi spiritati, il solito napoletano (evergreen più di Albano e Romina) e i ternani. Perché ci andava così. Arriviamo al limite estremo del trenino (da sempre il punto di non ritorno), quando l’arbitro non ci concede un rigore solare e la finta contestazione al sistema-ladro diventa poco comprensibile. Il direttore di gara, difatti, vede piovere una bella bottiglia d’acqua sul terreno. L’esagerazione goliardica porta il buon uomo a guardarci come a cercare di capire se facciamo sul serio. Mi perdo il gol, ma non l’esultanza. Che è smodata, da Champion’s. Alla fine, incamerata la vittoria, chiediamo alla squadra di venirci incontro. I ragazzi si schierano a centrocampo, non sanno bene cosa fare. Anche perché, come al solito, noi quando siamo felici sembriamo minacciare il linciaggio. Ginestra, il portiere d’esperienza, li prende per mano e li accompagna sotto di noi. Dove beccano complimenti che sembrano insulti. E tornano felici agli spogliatoi.

Appendice

“Avete letto lo striscione, eh? Letto lo striscione? Leggetelo!”,
“Si, si, l’ho letto”,
“E allora avete capito cos’è che vogliamo? Dovete sudare la maglietta!”,
“Vabbé, ma io sono portiere”.
Gli sbirri bloccano la strada. Sembra una partita seria. Ci incanalano verso l’esterno del paese. Una camionetta è ferma proprio lungo la discesa che ci dovrebbe condurre alla location scelta come quinta della nostra cena e del riposo conseguente. Così siamo costretti a tergiversare. Con lo staff della squadra, con qualche giocatore. È puro cabaret. “È stato bello vederci?”, domandiamo. Il ragazzo dice di si, che è stato emozionante. Gli confidiamo che “Bene, perché non ci vedrai più”. E il discorso vira sulla tessera, sugli assurdi impedimenti a goderci pomeriggi come questo. Poi, passare davanti ai ragazzini e dirgli, con faccia seria alla Jack Nicholson in Shining, che è meglio se si mettono in salvo. “Andate via da Foggia, uagliù”. Quelli ci guardano. Non sanno d’aver capito. Aggiriamo l’ostacolo poliziesco dopo una buona mezz’ora. Il programma slow-food prevede torcinelli e salsicce alla brace con salse, pane abbrustolito e un whiskey da inaugurare. Il fiume lancia latrati poco rassicuranti. I segnali parlano di improvvise mareggiate. Nel frattempo cala l’oscurità. E l’improvvisa voglia di vestire la felpa, dimostra che la temperatura sta crollando. Alle otto non si vede più niente, alle otto e mezza non si riconoscono le facce. Tornano alla mente gli oscuri presagi. “Voi dove dormite?”. La legna accatastata non è sufficiente a tranquillizzarci. Mangiamo malcelando stanchezza e perplessità. Ma mangiamo tutto. E quello è l’importante.

(continua?)

Il Libro