25/09/11

No al calcio di Maroni!

Stadi vuoti, prezzi folli, campionati spezzettati per esigenze televisive.
E divieti, sempre più assurdi. Un tempo si limitavano alle partite ad alto rischio. Oggi lasciano fare a prefetti e questori. E ci vietano anche Viareggio e Vercelli.
Senza spiegazioni. Le trasferte sono ormai un ricordo. E per noialtri viene sospesa la libertà di circolazione. Così, dopo aver costretto la gente a casa, Maroni si vanta di aver debellato la violenza.

QUESTO E’ IL CALCIO DELLA TESSERA. Un business senza anima, senza valori: un fiume di denaro finito nelle casse di speculatori e affaristi. Una schedatura di massa senza paragoni in Europa. Una clamorosa limitazione dei diritti.

La tessera ha sporcato una passione. Ha regalato un gioco popolare alle banche e ai questori.
Nell’indifferenza complice di società, media e politicanti, che preferiscono far finta di non vedere.

L’anno scorso il tentativo di isolarci non è andato a buon fine. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Oggi intendiamo continuare a batterci. Contro ogni abuso di Stato, contro la trasformazione della passione in merce. Il silenzio dei primi minuti sarà la nostra ennesima dimostrazione che questo calcio non ci appartiene. E siamo certi che sempre più gente si sta schierando: la battaglia contro la tessera non riguarda solo gli Ultras. Riguarda tutti.

No ai divieti! No alla Tessera del tifoso!
Riprendiamoci la nostra passione!

02/09/11

La passione colpevole

Una passione sempre più difficile da spiegare.
Una passione colpevole, che l’evidenza appiccica al muro. O la realtà al muro dell’evidenza. Non so, fatto sta che un piacere trasverso e sottile spinge gli altri, i seri, a fare incetta di sacchetti di esempi negativi come pietre di fiume da portare in dono per dimostrare le loro mediocri, banali, conformiste ragioni.
Come se un vicino di casa venisse a riempirti lo zerbino di cartacce per provarti che c’è vento. Come se tu non lo sapessi. Come se tu fossi così cieco, così ipnotizzato, così plagiato, da non vedere il bidone esondare. Che ti viene da dire: “Lo so. E allora?”. Allora…
“Ma come fai a seguirli ancora? Cioè… regalare soldi a quel sistema… Cioè…”.
Facce ebeti ed irritanti in cui inciampi per ferrea legge della sorte ripetono questo refrain almeno dieci volte al mese, in discussioni arrancanti, basate sul sentito dire, sull’approssimata conoscenza del fenomeno, che è un mucchio di roba a somma zero.
È troppo facile. Essere visti, vissuti come strani animali continuamente disillusi, ma che invece di vivere gli choc come opportunità per rinsavire continuano, pecore in gregge, topi al suono del pifferaio, a praticare, seguire, finanche ostentare la propria passione.
Quei gradoni, il fascino delle domeniche. Inspiegabile. Irragionevole. Incomprensibile.
E la critica si fa radicale, compita, finanche televisiva. Rimproveri cattolici. Rimproveri socialisti. Facile. Pilatesco. Perché la trasversalità spinge all’incertezza. Dove va questa massa senza arte né parte? Dove va, senza un obiettivo, una coscienza diversa da quella dell’arena romana, un progetto a medio e lungo termine? Come se i partiti, le associazioni, i sindacati dei critici, poi, ne avessero di obiettivi, di coscienze evolute, di progetti. Ma anche la mobilitazione, come il voto, è un atto in delega. E la richiesta di movimento è un cane che annusa nuovi attori referenti.
Come se il bene del Paese dipendesse dalla nostra capacità di agire. E per nostra si intende: il soporifero, addormentato, supino, passivo popolo degli stadi. Incapace di reagire, buono a montare un casino per uno striscione o una bandiera, ma volontariamente immobile dinanzi al concetto di merce e a quello di mercificazione. Come se fossimo utili idioti, sciocchi patentati, accecati. Come se tutto attorno il popolo delle sezioni, degli indignati, dei mercati, dei centri sociali e di documentazione, fosse in fermento. E noi, penosa enclave dell’immobilismo in un Paese attivo. Che non sia così, dovrebbero saperlo. Eppure costoro alzano il labbro superiore, con una certa malcelata acredine dettata da chissà quale presunzione, da una non meglio specificata pratica, come se gli abitanti delle curve fossero un soggetto storico plasmato su caratteri socio-economici specifici e identificabili, ti chiedono: “Non è una contraddizione? No, dico, avere una coscienza sociale e annacquarla in quel carnaio razzista, xenofobo, populista, sessista? E sapere che è tutto un magna magna, che le partite sono truccate, che le tv fanno quel che fanno? Boh… Come fate?”.
Non ho mai sentito nessuno chiedere, finanche invocare alla luce delle evidenze più luminose, l’ammutinamento degli amanti del teatro, dei goldoniani, dei verdiani, del popolo dell’opera e del melodramma. Forse che i seguaci di Ionesco non siano contemplati tra i cittadini italiani? Mai sentito richiamare all’ordine rivoluzionario quello dei fumatori di Philip Morris gialle; o i circensi, i mangiafuoco, i trapezisti. Categorie astratte, antimarxiste, eppure di presa così scontata. Ma i tifosi di calcio. L’irrazionale incomprensibile, a giusta ragione gravabile del peso assoluto della responsabilità collettiva. Opliti obbligatori di quello scontro sociale che altri neppure si sognano. Privatizzano le spiagge, i proprietari di stabilimenti sono dei corruttori e dei tangentisti (diamine, ce ne saranno, non saranno mica tutti puliti…), un’insalata e un bicchiere di vino al bar-ecomostro del lido costa l’ira di dio, il parcheggio fuori è esoso e sproporzionato, i bagnini sono dei porci molestatori, ma nessuno ha chiesto all’ipotetica massa dei bagnanti, degli amanti della spiaggia, di rinunciare alle vacanze per dimostrare che questo popolo è vivo, combattivo, disposto a mettersi in gioco. A noi, invece, lo fanno quotidianamente: “Come fate ancora a seguirli?”. E tu, come fai ancora a prendere l’autostrada? Poi chiosano, sufficienti: “Mah… sarò io che non vi capisco”. E verrebbe da rispondere che, beh, quello è scontato. Dovrebbe fungere da premessa, da incipit della premessa, da citazione prima dell’incipit, da dedica. Perché non c’è bisogno di capire granché per intuire, anzitutto, che il tifoso non è una monade conclusa, e i tifosi un insieme finito, di quelli che si disegnavano a scuola. Il tifoso un chiunque sociale, un signor Rossi, e può nascondersi dietro al sindacalista di base più oltranzista come al figlio del ricco mercante di sete e spezie dall’Oriente. Banalità che per certa gente sono ancora oggi folgorazioni. Illuminazioni alla Rimbaud (e questi dovrebbero analizzare i movimenti finanziari delle offshore per attaccare il Capitale, puah!). In seconda battuta, a costoro, andrebbe pazientemente spiegato che l’attività sociale del tifoso non si esaurisce nell’essere tale, nel tifare. Quello è uno svago, nella maggior parte dei casi. Un gioco, un diversivo. Il padre fondatore del Caffè Mauro finanziava gli squadristi reggini. A me il caffè piace con la sambuca. Ed è meglio non dire chi finanziava Molinari. Il giocatore del Rayo, ventitre anni, dice che il calcio è capitalismo e il capitalismo è morte. Per cui, per proprietà transitiva, molla il carrozzone e si butta giù. Almeno quattro amici virtuali mi segnalano la notizia, e non so per quale recondito scopo. Resta da capire in quale sistema sociale (o solare) sia atterrato il buon Javi Poves. In un sistema dove si può anche scegliere un’altra marca di sambuca, ma di certo non evitare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, le rendite di rapina e la proprietà privata. Che non le sappiamo ste cose, compagni? E allora perché va fatta a fettine l’anima di uno svago? Per dimostrare quale purezza? O quale estraneità dal mondo, quale ascetismo?
Lo sciopero dei calciatori professionisti è stata l’ennesima mazzata. L’ennesimo motivo di rischiosi quanto inutili faccia a faccia. E sempre la stessa domanda, tra le righe, a mezza bocca, o formulata esplicitamente: “Ma come fate?”. Facciamo. Perché sulla vertenza, sulla vergognosa quantità di contraddizioni di un sistema corrotto e malato, abbiamo già detto come la pensiamo dozzine di volte. Anche quando in pochi prestavano orecchio e i soliti noti ritenevano si trattasse di semplici “questioni di stadio”. Sul contributo di solidarietà, sul concetto stesso di solidarietà, abbiamo scritto un papiro a parte. E allora qui c’è bisogno di chiudere con un altro tipo di prospettiva (anche questa neppure tanto nuova, ma qui ripetere non basta e non giova, mai): facciamo perché quei gradoni siamo noi. E questo nessun teatro interattivo, nessun cinema 3D, nessun circo, potrà mai solo lontanamente sperare di renderlo. Per quanto si sforzi. Nessuno spettacolo di intrattenimento al mondo può pretendere d’avere lo stesso tipo di entusiasmo educativo nei confronti di una massa; e nessuno s’è visto scippare dalla massa il centro della scena. Perché quando Amleto parla con il teschio di Yorick, l’occhio di bue è solo sulla melanconia del principe di Danimarca; quando gli effetti speciali rendono efficace un film di Spielberg, nessun’altra zona della sala è neppure illuminata; persino quando sono in pista i clown e volano le torte nel più trito degli schemi, l’attenzione non si sposta mai da quel baricentro. E non potrebbe essere altrimenti. Nel cosiddetto gioco del calcio, invece, l’azione viva, partecipativa, complice o antagonista che sia, è fuori. Sugli spalti. Nessuna messinscena per il popolo è paragonabile allo spettacolo che il popolo da di sé stesso in quell’agenzia di socializzazione che è lo stadio. Perciò, quando penso al calcio, come prima cosa non mi vengono in mente i diritti televisivi, gli impianti griffati, il mercato e le scommesse. E neppure gli orrori del capitalismo denunciati da Poves. Mi viene in mente il mio gruppo, il mio settore, apripista di una miriade di aneddoti e ricordi che coprono l’intero spazio-tempo che divide le elementari dai miei attuali trentacinque anni. L’esatta bisettrice della mia trasformazione in adulto, in sostanza. Ed è per questo, compagni e compari seri, che vi credo quando mi dite di non capire. Lo stadio non è uno scritto di Mao, che puoi leggere anche se non sai nulla della Cina. Lo stadio ha bisogno di presenza e pratica, di vita e internità. E non è un caso che ne siate tagliati fuori.

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