08/12/11

Nei panni di Casillo

Ieri siamo rimasti fuori. Al bar. Si diceva: “Meglio sette euro di birre”.
Meglio. Non tanto per lo spettacolo – che sapevamo scadente – di un Foggia-Benevento di Coppa Italia. Fosse per quello, per lo spettacolo, rimarremmo al bar anche durante le sfide di campionato. La Peroni, a differenza di Tomi e Gigliotti, non tradisce mai. E neppure perché il segnale della nostra contestazione alla squadra e alla dirigenza doveva arrivare durante una partita tanto inutile. Ben altre sono le gare dove far valere il nostro silenzio. La nostra assenza. Altro è il punto. E provo a spiegarlo facendo un salto di immedesimazione. E, specifico prima di suscitare allarmismi, è un parere del tutto personale.
Un passo indietro e una reincarnazione.
Nei panni di Casillo, alla vigilia di questo sfibrante turno infrasettimanale, mi sarei guardato allo specchio di casa. O nello specchio fittizio dei miei collaboratori più fidati. Quei tre o quattro che mi sono rimasti. Avrei abbozzato un consuntivo di mezza stagione. Mi sarei detto: la squadra è reduce da una delle più cocenti sconfitte della sua storia recente. Non tanto per i parametri assurdi e assodati della classifica, per i valori d’equipe, per la consistenza dell’avversario in questa stagione specifica. Quanto per il nome. Lumezzane, dio santo! Basta nominarlo per sentirsi moralmente alla frutta. Due a zero per loro, nell’anno che avevo garantito essere quello della risalita in volata. Risalita che da queste parti attendono con indefessa pazienza e immutabile fiducia da tredici stagioni. Lumezzane. Senza contare che la sconfitta ha sprofondato la squadra nel baratro della zona play-out, sprofondo che – a onor del vero – quando c’erano i miei otto predecessori era stato centrato una volta soltanto in quattro campionati. Tre dei quali finiti agli spareggi promozione.
Questo dato mi avrebbe invitato alla cautela. Ma, di più e oltre, allargando lo sguardo sul contesto sentimentale, che poi è l’anima di quel che rimane del calcio, soldi a parte, avrei individuato altri nei. Estesi ed anti-estetici. I giocatori hanno la cresta troppo alta. E va bene che in città, da qualche tempo, nessuno li aspetta più davanti ai ristoranti o ai locali dove fanno la bella vita – per quel che può considerarsi la bella vita di un calciatore di Lega pro in una città di provincia – ma neanche è bello che uno come Gigliotti si permetta di zittire il pubblico, uno come Tomi di rispondere per le rime ai tifosi fuorisede. Per non dire di quell’altro, del barese, che ho reintegrato dopo che – solo un paio di anni fa – aveva garantito la guerra a questa gente e a questa città. Insomma, non sono bei gesti. La piazza è surriscaldata. E, io nei panni di Casillo, so anche quanto poco feeling ci sia tra noi. Mi accusano di aver gettato fumo negli occhi, di aver approfittato del calcio per tornare a fare i miei affari di sempre, di aver trattato con astio e presunzione il rapporto con la tifoseria, di nutrire nei confronti di questa città un secolare spirito di rivalsa. Quasi di vendetta. Sono volate parole grosse, e non solo. E questa è una piazza passionale e vanitosa, che non ha complessi nei confronti di nessuno e campa di calcio. Mentre attorno lo sfacelo e la dissoluzione sociale stanno portando ad una crisi valoriale senza precedenti. Qualche giorno fa Il Sole 24 ore ha posizionato la provincia di Foggia al centosettesimo posto su centosette. Ultima, per tenore di vita. E la gente che soffre del precariato e degli espedienti è la stessa alla quale chiedo 15 euro per un biglietto di curva. Salvo poi lamentarmi che non corra a vedere il Sorrento.
Io, che sono il proprietario della società di calcio di questa città, a ventiquattro ore da una sfida di Coppa Italia di C, ste cose le penso. Il disamoramento, la rabbia, la tensione, vengono prima del rendimento. E non è detto che da esso direttamente scaturiscano.
Per tutto questo, e per molto altro ancora, avrei detto a quei quattro collaboratori che ho: che si aprano le porte dello “Zaccheria”, che la Foggia che ama il Foggia venga informata e corra allo stadio a sostenere i suoi colori, in un anonimo pomeriggio di dicembre. Un atto che non sarebbe stato d’amore, perché a un proprietario non si chiede questo, ma di rispetto. Un risarcimento minimo e parziale per chi, anche stavolta, ha creduto e seguito. Ottenendo in cambio un pugno di promesse. Senza contare, egoisticamente, che sarebbe stato un bel colpo ai miei tanti detrattori. In molti avrebbero detto: “Hai visto Casillo, ha fatto il gesto?”. Il Foggia, per quanto si vogliano apporre timbri sulle carte o intercedere per le garanzie bancarie, è dei foggiani. Inutile sfidare la fortuna avversa. Questa gente ama e odia con la stessa intensità.
E allora: porte aperte, ingresso libero. O a sottoscrizione simbolica. Uno, due euro. Cosa ho da perdere?, mi sarei chiesto nei panni di Casillo.
Ma io non sono Casillo. Per fortuna. E non ragiono come lui.
Che coi suoi quattro collaboratori si sarà anche incontrato, si, ma per dettare il tariffario. Sette euro per la gradinata, cinque per la curva.
Questa al paese mio si chiama arroganza. Ottusa, cupa, cieca arroganza.
Un disinteresse olimpico per i tifosi, uno schiaffo alla miseria di chi s’arrangia e alle maglie rossonere non vuole rinunciare. Una mossa degna del commerciante di bestiame che abbiamo imparato a conoscere in venti anni di fermo-immagine. E, se mi si permette, anche un gesto di abbacinante miopia dal punto di vista economico.
Così, dopo aver augurato al patron di investire in medicine ogni singolo centesimo del suo grasso introito infrasettimanale (e non solo), abbiamo rispolverato una vecchia massima, che fu dei laziali. Siamo e saremo il dodicesimo uomo in campo solo quando lo decideremo noi.
Nessuno deve permettersi di speculare oltre ragione sulla nostra fede, sui confini dilatati della nostra passione. Nessuno deve darci per scontati, scimmie ammaestrate che urlano, sbraitano e fanno prendere multe, ma che a conti fatti ingrassano sempre e comunque le tasche dei conquistadores. E siamo rimasti fuori, a soffrire in silenzio per quelle maglie che in campo affrontavano una sfida, nell’atmosfera irreale di un antistadio dove persino le urla di incitamento dalle panchine risultavano più massicce di quelle degli spettatori paganti. 159, per la precisione.
Che alla fine viene da chiedere: valeva la pena perdere la faccia per un incasso simile?
Parere personale, ripeto.
Del resto, come diceva De Andrè dei giudici, “Se fossi stato al vostro posto, ma al vostro posto non ci so stare”.

03/12/11

La “guerra” di Coletti


Il reintegro di Coletti – convocato per la sfida di domenica a Lumezzane – oltre ad essere un pericoloso segnale di navigazione a vista, dal punto di vista strettamente tecnico, ed un indizio preoccupante da quello societario (“per Casillo sono un peso”, disse il soggetto all’epoca di Cosenza) è per noi molto più: un vero e proprio schiaffo in faccia.


Un insulto al nostro modo di vivere la passione per la maglia rossonera.

Per i distratti, è bene rinfrescare la memoria. Tommaso Coletti (da Canosa, Bari) è l’uomo che con i suoi gesti e le sue dichiarazioni ha più volte dimostrato il suo reale “attaccamento” ai nostri colori. Quando chiese con insistenza di essere ceduto, accampando presunti dissapori con l’allenatore, e quando finalmente approdò alla corte di Galderisi in quel di Pescara. Quando tornando da ex disse, testualmente, riferendosi alla nostra accoglienza: “È gente questa che non si merita niente, da oggi è guerra”.

Premesso che sarebbe bello vederla, la guerra di Coletti… Ribadiamo il nostro pensiero. Che ai meno distratti dovrebbe essere chiaro. Da sempre.
Noi preferiamo una squadra tecnicamente non dotata, ma che nei novanta minuti e durante la settimana, grondi sudore e sputi sangue, ad una di talenti svogliati, viziati e senza rispetto nei confronti della maglia e della città. Di quello che per noi questo binomio rappresenta.
Arriviamo a dire che è meglio mantenere la dignità e la memoria che svendersi per una salvezza.
Questo è un messaggio che farebbero bene a tenere a mente tanto i dirigenti che il mister.

Il posto di Coletti è a Pescara, a Canosa, o dovunque voglia trovare riparo.
Ma, in ogni caso, distante dalla nostra città.


Curva Nord Foggia

Il Libro