27/11/12

Una scommessa


15/11/12

La cronica imbecillità e la nota ritardata



A Termoli, questa estate, eravamo duecento. Forse qualcuno in più. Al calar della sera, le torce colorarono di rosso i bandieroni. Le mani al cielo salutarono l’ingresso in campo del Foggia. Quello che salvato da Pelusi&C. andava ad affrontare il primo impegno di Coppa. Il fotografo immortalò il pathos del momento. E ventiquattro ore dopo, la tribunetta di Termoli divenne un banner, uno di quegli sfondi da pc che tanto successo hanno nel mercato della comunicazione. I tifosi, gli Ultras al seguito, come messaggio promozionale della società calcistica. Con tanto di logo in alto a sinistra e link al sito ufficiale in basso. Espediente per nulla innovativo, a dire il vero. Negli ultimi anni solo il volto di un allenatore ha preso il posto della curva nei manifesti della campagna abbonamenti. E questa società, che sbandierava Tutta un’altra storia come motto, non s’è resa troppo diversa da quelle che l’hanno preceduta. Operazione simpatia, un po’ ruffiana un po’ no, ma in ogni caso non dissimile da Il Foggia siamo noi e Innamorato sempre di più, cori di curva diventati strumento per vendere biglietti alla curva. Niente di male.


In un comunicato stampa diramato in mattinata, il Foggia quest’oggi si dice frustrato, impotente e pieno di rabbia per l’ennesima multa comminata alla società a causa (si) del lancio di oggetti in campo e (soprattutto) dell’accensione di fumogeni. Considera che i ripetuti inviti sono caduti nel vuoto, che non c’è senso di responsabilità, che il danno di immagine è grave. Ritiene incomprensibile, ingiustificabile e insostenibile l’atteggiamento di “cronica imbecillità” dei sostenitori rossoneri. E conviene una serie di minacce, tipo farci pagare di più in casa e fuori.


È la storia d’ogni amore per il folklore. Siamo belli, colorati, calorosi quando risultiamo utili alla causa del marchio. Dodicesimo in campo, quando si tratta di fare incasso ed incitare la squadra alla vittoria. Finanche fotogenici, quando saldare le varie anime della piazza è propedeutico al progetto imprenditoriale. Ma diventiamo di botto dei trogloditi dannosi quando il nostro calore e il nostro colore si tramutano in multe. Colore e calore divenuti stigma di colpevolezza per responsabilità diretta di quelle norme assurde che stanno devastando il calcio come l’abbiamo conosciuto e snaturando la vita da stadio. Perché nessuno, fino a dieci anni fa, avrebbe ritenuto “criminale” una fumogenata. Nessuno avrebbe considerato decontestualizzata l’accensione di dieci, venti, cento torce nel catino di un campo sportivo. Perché gli “artifizi” stavano al campo come le torte ai compleanni. Al giorno d’oggi, invece, oltre ad impegnarsi per ritrovare settimanalmente gli stimoli per recarsi allo stadio, c’è anche da mettere in conto il perbenismo, il moralismo, l’ottusità dei nuovi scandalizzati, ridotti a macchiette da una propaganda capillare quanto meschina. Che punta il dito contro i comportamenti dei tifosi per schermare la viltà degli attori principali del “calcio moderno” – presidenti compresi – di fronte ad un sistema sovraccaricato di regole assurde. Certo, è più facile dare degli imbecilli ai propri abbonati. Più difficile – e bisognoso di una dote maggiore di attributi – è dare dell’imbecille al Prefetto, ai Ministri, ai responsabili di Lega e al Legislatore d’emergenza.


Ma giacché questo è, sarebbe affascinante, per una volta, uscire dal guscio del ruolo. Smetterla – per qualche ora – di essere psicopatici coreografici, esaltati che eseguono perfetti battimani a rondine, deviati mentali che il lunedì lo passano senza voce, e presentare sulla scrivania del nuovo dirigente capopopolo il dossier della nostra pazienza. Dall’abbonamento sottoscritto e non goduto per intero – per evidente incapacità gestionale dei nuovi soci – alle spese di lavanderia per gli abiti indelebilmente macchiati da quella specie di calce che ricopre stabilmente i seggiolini della tribuna; dal rimborso per i biglietti a prezzo intero pagati dalle donne a inizio stagione, prima della nuova ventata “rosa” coi tagliandi a 3 euro, alla chiusura vita natural durante del settore per cui abbiamo firmato un accordo economico a inizio stagione. E così, giù, giù, fino all’indecenza dei bagni. Perché è vero: sappiamo essere calorosi e colorati. Ma non siamo indigeni della Papua Nuova Guinea, tribù esiliate dalla civiltà, che dinanzi al conquistatore bianco con la grana si piegano sulle ginocchia e innalzano lodi al cielo. Abbiamo deciso di supportare questa nuova società, è vero. Ma chi blatera di far assaggiare il bastone ai propri tifosi, deve comprendere che ogni credito goduto ha una scadenza. Che la simpatia acquisita attraverso il costante esercizio del protagonismo mediatico – vero Pelusi? – non è garanzia perpetua per nessun rapporto. Rilevare una società di calcio significa avere a che fare con la passione popolare. Significa ragionare con l’istinto e l’irrazionalità. Mettere in conto che per un rigore non dato o un fuorigioco inventato, anche il presidente dell’Assindustria può trasformarsi in un killer spietato. Che il più mansueto degli uomini, alla vista di un passaggio sbagliato, può nutrire sentimenti di spietata vendetta che vanno dall’autolesionismo alla strage. Che accostarsi ad una realtà con un seguito è un privilegio che può diventare una sventura. Ma, soprattutto, che il problema non è il nostro. E che nessuno può pensare, per quanto gradito alla piazza, di invocare repressioni a gratis o cullare il sogno di educare la propria gente. I soldi non trasformano un manager in Maria Montessori, e noi in suoi allievi. Il nostro modo di seguire il Foggia è lo stesso da sempre. E non cambierà, per quante minacce o ricatti ci vengano propinati. 


Magari tutto questo avremmo dovuto dirlo all’indomani di Termoli, quando fummo usati come specchietto per le allodole in un gradevole banner da computer. Ma forse abbiamo pensato, sbagliando, che fosse così ovvio da non meritare una nota.  

05/11/12

Dall’influenza al rigore


Sabato 3 novembre, Internapoli Puteolana-Foggia 1-0

Tre giorni di febbre.
Uno, forse.
Nessuno, anzi.

Però la testa che duole, la tosse bronchiale, la spossatezza dei muscoli svuotati, mi legittimano. A rimanere a casa, che non si sa mai. Piove, oltretutto, lo vedo dalla finestra. L’asfalto è lucido. La febbre, poi, magari c’è davvero. Ma il mio termometro è moderno, di quelli che fanno “bip” quando hanno ottenuto una temperatura accettabile. Solo che il mio il “bip” non lo ha mai fatto, da che lo conosco. E così, per noia, ho preso per buona la prima cifra impressa sul micro-display. 36,1. Ho la febbre a 36,1, mi ripeto. Come logica conseguenza – nel pieno possesso delle mie facoltà mentali – mi gonfio di TachifluDec. L’intruglio che quella tipa beve al bar e poi va pure a teatro. Nella pubblicità. E mi drogo di Megadisastri aerei su Focus. Cazzo, 583 morti quella volta a Tenerife. Un botto spaventoso! Colpa degli olandesi, senza alcun dubbio. Grano cotto. Non voglio perdermi Pozzuoli. Perciò evito le ricadute, pure quelle relative ai malanni immaginari. Pozzuoli è Napoli, alla fine. Gli altri mi hanno raccontato di quella volta che, insomma, ci siamo capiti. E stavolta voglio esserci. Certo, non è la stessa cosa. Sono cambiate le epoche, ma questo è ormai talmente futile da specificare che potremmo apporlo come incipit di ogni digressione al riguardo. Sono cambiate le epoche. Ok. Ma perché ci lasciano andare? Già, perché fino all’ultimo nessuno – di quelli che sento al telefono – sembra crederci fino in fondo. E quando giunge la matematica certezza – 200 tagliandi – provo l’esatto, esofageo, opposto del divieto di Bisceglie, condensato – ironia della sorte! – nella medesima domanda: perché? Già, perché l’epoca dell’Osservatorio vive anche questi scompensi ormonali. Se no, perché no? Se si, perché si? È un dilemma che coinvolge l’onore e il rispetto. Mi sento smarrito, ma subitaneo mi rispondo: non giochiamo in serie D da mai, mi pare ovvio non avere tante rivalità, o rivalità di cui portino memoria i capoccioni del Ministero. Però fa strano lo stesso. Guardo la zona flegrea su Google. Tutti quei buchi per terra. Studio, mi applico, ho tempo. Crateri, solfatare, vulcani ormai inattivi che secoli fa in quattro giorni hanno creato – con la loro lava – vere e proprie colline. Leggo. C’è pure un parco, con tanto di camminamenti e sentieri montani. Sarebbe interessante, da turista, penso. Poi – sotto Montenuovo – vedo lo stadio. Il “Conte”. Non mi dice niente di buono, sto nome.

“Alle dieci e mezzo dobbiamo essere partiti”. Il tono al telefono è imperativo. Andrà così, mi comunicano le voci. Alle undici meno dieci sono l’unico del mio gruppo. Guardo il cellulare. Mi convinco che no, non devo chiamare nessuno. Ma tutti attorno guardano me, con le facce che comunicano tolleranza, disponibilità e Macheccazz. Allora, timidamente, provo a fare un giro di perlustrazione. Di alleggerimento. Ma niente. Paziento. E solo quando vengo sopraffatto dall’idea che il mio gruppo abbia approfittato della mia assenza febbricitante per sciogliersi e fuggire all’estero, comincio a chiamare. Rispondono che sono in strada, che stanno arrivando. E, uno alla volta, spuntano tutti. Soddisfatti. Alle undici ne manca solo uno. Il Conte. Per l’appunto. Al telefono è fulminante. Ha un cervello spugnoso, quell’uomo abominevole. La sua capacità di confezionare ciclopiche menzogne, la velocità con cui ci riesce, fanno somigliare le sue giustificazioni a quelle puntate di Quark dove si seguono insetti operosi lungo un’intera stagione, col video accelerato per esaltarne la laboriosità. E alla fine, in entrambi i casi, sono palle di seta. Il Conte è uno che non ha mai mollato il banco di scuola e il libretto. “Che ha detto?”, mi chiedono. “Che sta arrivando. Ha parcheggiato dieci minuti fa…”. Gli sguardi attorno si fanno scettici. Mi trasmettono, senza bisogno di parole, che in dieci minuti a Foggia si copre una distanza enorme. E quello abita qua dietro. E poi: è impossibile che abbia deciso di parcheggiare così lontano dal luogo dell’appuntamento, quel bestio. Hanno ragione, ma preferisco passare per ingenuo che accettare l’ipotesi di scannarlo appena arriva. No, grazie, non bevo Borghetti, sto ancora male. No, non mi accocchio per le birre. No, neanche per il William Lawson’s. Il pullman è dell’Ataf. L’autista, a bordo da oltre mezz’ora, sembra il frontman di un gruppo rock, di quelli che fanno le cover della Steve Rogers Band. Sciarpe, felpe nere, aste, sciamano verso l’imbarco. Alle undici e dieci, alle mie spalle, spunta la macchina del Conte. E non è sola. Dieci minuti dopo, siamo a bordo. Cinquanta di ritardo. Potevo dormire un’ora in più. Ci sistemiamo con gusto estetico. Scommettiamo che questo autista c’ha il telepass. Di sicuro ha imboccato la Candela circumnavigando Foggia. E in tanti hanno già fame quando i palazzi in costruzione sono ancora in bella vista. Enzo tradisce un gusto tedesco per i panini che si appronta. Io penso che un bicchiere di whiskey non possa che farmi bene. E lo pensano anche altri che avevano rinunciato all’accocchio. Si sbraita. E il William Lawson’s si spegne prematuramente, poco prima del casello. C’ha il telepass. E la notizia scatena il putiferio. Una gioia incontenibile. C’ha pure il bagno a bordo, ma non lo userà nessuno. Per principio.

L’autostrada è la solita. Quella che punta Benevento. I nostri oracoli, quando ad agosto presero vita i calendari, sentenziarono: “Dimenticatevi la Campania”. Esclusa la tappa a Termoli, in Coppa, questa è la terza trasferta della stagione. La terza in Campania. Un autogrill e un po’ di macchine decollano. Qualche coro solitario. E Napoli spunta prima del previsto. La densità abitativa di questi luoghi mette una certa ansia claustrofobica. E non è tanto per lo scenario del Vesuvio e della metropoli, quanto per la sterminata periferia. Urbanizzazione ovunque, case basse dappertutto, un work in progress costante. Il pullman, rapito dalle pattuglie senza che quasi ce ne accorgessimo, mette il muso in un paese uguale a tanti altri già visti. In giro non c’è nessuno. È ora di pranzo. Ed è sabato. Ci fermiamo davanti ad un chiosco della frutta. Non sappiamo perché. Poi veniamo invitati a scendere. Pensiamo che il metallaro alla guida non abbia voluto essere da meno del suo esimio collega di Sant’Antonio. Dove si sarà conficcato il mezzo, stavolta? Scendiamo incuriositi dalla catastrofe, ma al posto del sinistro c’è una scalinata. Una scalinata in mezzo al nulla. È lo stadio. In fondo alla strada una camionetta dei carabinieri, applicata diagonalmente sul manto stradale, ha letteralmente saturato la stradina. Per passare da una parte all’altra bisognerebbe volare. O strisciare appiattiti sotto il semiasse. Grandi precauzioni. Gli steward alle porte incitano la nostra calma. Il biglietto è il solito tagliando Siae, sormontato stavolta dal simbolo del sodalizio flegreo. Che ha pure il satanello, nella parte alta, e questo fa propendere molti per l’atto di galanteria. Ma la galanteria non si esercita con un timbro su un tagliando della Siae. Lo si studia alle medie. Due tribune e nessuna curva. Noi siamo dietro la panchina degli ospiti. Gridiamo in testa ai nostri. Il manto erboso fa raccapriccio. Le squadre entrano in campo. Di fronte entrano pure gli Ultras locali. Fanno blocco. E pure noi ci stringiamo. Ci sono anche svariate famiglie, nel nostro settore. Si accomodano ai lati. Fa piacere. Ma non nego una punta di rammarico. Il Foggia dei foggiani, attrezzato in quindici giorni, è reduce da una vittoria importante, contro il Matera. Sta dignitosamente lottando nei quartieri alti di una categoria dove le altre società, per salire, spendono milioni. Cosa aspettano i tifosi foggiani a dimostrarle riconoscenza riprendendo a viaggiare? Sarà la disillusione del crollo, ma ormai abbiamo avuto mesi per metabolizzare; sarà la disabitudine, dovuta agli anni della Tessera. Ma adesso non ci sono più scuse. Le trasferte da cento Ultras vanno bene, ma la piazza calda dov’è finita? Eseguiamo il repertorio. Ci piaciamo così così, all’inizio. Siamo entrati a freddo, con le squadre praticamente già in campo. Carburiamo in fretta, con le pezze ancora in allestimento. Mettiamo anche la bandiera coi cannoni. Si lotta, sul campo di patate. Ingraniamo e i cori volano alti. Quelli di fronte cantano ed eseguono battimani. Ma evitiamo di cadere nel vaffanculo reciproco. Siamo il Foggia, e pure questo mi pare d’averlo già detto. Zero a zero e tante botte, una sola occasione. Ma siamo belli, non c’è dubbio. Nell’intervallo c’è una visita guidata ai bagni dell’impianto. Bisognerebbe cambiare un po’ di tubi o decidersi a smontare la ceramica. Se deve finire tutto a terra, tanto vale togliere l’illusione al pisciatore. Nella ripresa siamo più reattivi. Sentiamo che i ragazzi sono entrati determinati, annusiamo la vittoria possibile, e battiamo il ferro come maniscalchi. Le bandiere sventolano incessantemente, le torce fanno fumo, il Foggia preme. Guadagna angoli e punizioni dal limite. Sarà capitato anche a voi di avere una squadra del cuore. Per una decina di minuti. Poi la pressione si fa palpabile. E Siamo qui per te, devi vincere diventa un pungolo nelle natiche. Avanti! A prenderci i tre punti! A dare un senso gladiatorio a questo campionato! Il portiere s’allunga e mette in angolo. Il frastuono del coro è sovrastato dalle lamiere battute a oltranza, dal tamburo che chiama alla breccia. Avanti! Ma non sembra giornata. Poi la Puteolana s’allunga e a due passi da noi possiamo vedere l’intervento del nostro difensore. Pulito. Sulla palla. Pensiamo a ripartire, invece l’arbitro fischia il rigore. Di fronte a noi il blocco flegreo riprende vita. Noi protestiamo: stavolta l’abbiamo visto tutti. Il rigore non c’era. Ma quelli realizzano e noi ci sfilacciamo. Ma il Foggia non demorde. E, prima rischia il tracollo, poi si tuffa a testa bassa dall’altra parte. Ripartiamo anche noi, con un’intensità pari ad una scalata. È un assedio e ci giochiamo le corde vocali. Un attacco di tosse, l’acqua finita. Il palo, poi un paio di botte da fuori, un salvataggio sulla linea, un colpo di testa a botta sicura che finisce fuori. È una disdetta. Di fronte cantano, esaltati dalla difesa a oltranza dei granata. È finita. Vinceranno tutte le altre, domani. Ci allontaneremo dalla testa della classifica. E pure da quell’entusiasmo che tanto ci servirebbe per riprendere il volo. Un applauso ai nostri, che hanno lottato, mentre di fronte sono in visibilio. Vi vogliamo così, cantano. Glielo cantiamo anche noi, a loro, quando provano a farsi mantenere. Quando inscenano la finta del desiderato contatto. Sfolliamo, con negli occhi la scena dell’ultimo scalatore, uno che per venirci a prendere si è issato a mani nude su un palazzo. Onore a lui.

E poi c’è quel momento in cui Grottaminarda è una suggestione collettiva.
Che l’autista innesta il pilota automatico, regola la velocità da crociera, e accende le luci verdi.
E tutti si stravaccano sui sedili. E pensano alla settimana appena finita e a quella che deve cominciare. E chiedono se c’è un tarallo in qualche busta. E un po’ d’acqua, meglio una birra. E i Pocket Coffé volano sulle teste a fare male. E la sconfitta ha debilitato un po’ tutti, ma tanto non siamo qui per il risultato, peròchecazzo. E i cappucci coprono la testa, gli occhiali da sole oscurano i volti. Quel momento che non ci sono neanche le bollette da controllare, che è sabato e c’è solo l’anticipo. E pensi che stavolta è diverso dalla volta prima. Stavolta chiudi gli occhi e ti dici che non vuoi aprirli fino alla statale.
Poi un sibilo deforme, un gracchiare sospetto, ti porta ad aprire un occhio. L’occhio sinistro. Quello che da sul corridoio.
Prove tecniche di trasmissione una fila dietro. Occazzo, no.
Invece si.
Panico-pa-pa-panico-pa-panico-paura.
L’arbitro è un cecato e Panico-pa-pa-panico-pa-panico-paura.
E ci hanno rubato la partita, Panico-pa-pa-panico-pa-panico-paura.
Ci volevano gli occhiali e Marijuana, cocaina, panico-paura.
Panico-pa-pa-panico-pa-panico-paura.
Si, stavolta è diverso dalla volta prima. Stavolta è peggio.

E Grottaminarda mi sa che non esiste.

04/11/12

Il campo santo


Carapelle, 4 novembre 2012

I satanelli li fecero vedere a Telefoggia. Una sera d’inverno. O di primavera. Non ricordo più. Erano gli anni Ottanta. Il secondo scorcio, quello casilliano. Restyling si definiscono ste cose, oggi. All’epoca no, all’epoca si era più immediati: “Stasera fanno vedere le nuove magliette e il nuovo simbolo”, ci disse la fiumana del passaparola. Semplicemente. E semplicemente ci mettemmo dinanzi al televisore bombato, nella camera in mezzo. Io ho sempre adorato l’altro simbolo. Quello a tre bande verticali. Quello che sta sul taschino del giubbino corto. Quello dell’Unione Sportiva. Ma l’US era morta e dalle sue ceneri, come sempre capita, era risorta la fenice del Foggia Calcio. Quello che, nella sera del televisore bombato, navigava ancora in C1, ma che di lì a qualche anno avrebbe scalato un paio di categorie. Il Foggia Calcio aveva, come stemma, due satanelli stilizzati. All’epoca non mi entusiasmarono.

Oggi, però la storia è diversa.

Novembre, la domenica che segue le celebrazioni dei Santi e dei Defunti (No, Halloween no, non siamo Yankee noi). Cielo grigio tendente al bianco. Calore terrestre statico. In macchina nei primi tratti a Sud della Statale 16. Dietro le montagne si aprono squarci di irriducibile luce solare. Usciamo a Carapelle, seguiamo la direzione dei cartelli che indicano gli Impianti Sportivi e parcheggiamo. In cinque. Nei giubbino si trasuda come piante stanche. Pochi passi tra le casse basse e un cancello. Che un ragazzo, dall’interno, ha appena chiuso. Richiamiamo la sua attenzione, quello torna indietro, apre il lucchetto. Entriamo in un uno spiazzo di cemento. Il campo sportivo vero e proprio dev’essere dietro quel muretto grigio. Un cartello verde sulla porta d’accesso: Stadio comunale Francesco Paolo Di Gioia. Oltre la porta, sulla sinistra, un campo d’erbe selvatiche. In fondo, una tribunetta di travi. A destra, il rettangolo di gioco in terra battuta.
Oltrepassare quella soglia significa arrivare a contatto con un incubo metropolitano. L’incubo ricorrente di questi nostri anni sfortunati. Segnati dallo stigma del Napoletano. Dal suo ritorno nefasto, dal suo influsso maligno. Ha iscritto una squadra alla Terza Categoria. E fin qui, niente di male. Niente di peggio del suo ostinarsi a voler irridere questa piazza rimanendo in pianta stabile in città, quanto meno. Niente di peggio del quotidiano rischio di incontrarlo per la strada. Se non fosse che la squadra che ha iscritto si chiama Unione Sportiva Foggia. E questo si, è il peggiore tra gli incubi ricorrenti possibili. L’ultimo schiaffo, inferto alla vigliacca, com’è nello stile del personaggio. L’ultimo colpo ad una tifoseria già ferita e sprofondata, che campa d’orgoglio, che si tiene in piedi per pura autostima, scagliato da lontano, mentre i tutori dell’ordine trattengono la parte lesa e fanno quadrato attorno al provocatore. Perché questa è la vita reale, non il palco del Festival di Sanremo. Qui i buttafuori si fanno fedeli al più forte, come scherani feudali. Anche quando il più forte è un fallito.

Oltre la porta c’è Carapelle-US Foggia. E c’è da attendersi di tutto. C’è da combattere coi fantasmi. Passiamo. E ci accorgiamo di essere attesi. Un onore previsto. Sono cinque gli agenti della Digos. Forse 6. Evidentemente questo campo sportivo, oggi, s’attesta come l’epicentro del controllo dell’intera provincia di Foggia. S’attendono vampate di inaudita violenza delinquenziale. S’attende la reazione scomposta di una piazza ferita nell’orgoglio, probabilmente. E come coi lavoratori dell’Ikea, è perciò importante che gli sceriffi s’attestino per tempo sul colle. Per avere una visuale ottimale. E poter prendere in fretta le parti degli altri. Ma qui oggi non verrà nessuno. Magari lo sanno pure, i “nostri”. Ma una giornata all’aria aperta, col ghigno a pelle di chi è impegnato a sventare l’indicibile, in questo novembre ancora immaturo, è un bel passatempo. Il nostro ingresso, poi, cambia gli equilibri. Solitari perdigiorno domenicali in visita ai parenti prossimi o pericolosa avanguardia di guastatori di professione? Nel dubbio, mano al telefonino. E alla digitale con lo zoom. Clic, un passo della comitiva. Clic, un altro. Clic, un terzo. Verso un signore che, piegato in due dietro la tribuna, raccoglie marasciuoli. “Qua vengono i foggiani e fanno lo sterminamento!”, dice. Ma no, non verrà nessuno. Noi volevamo vedere con gli occhi nostri. Come facciamo sempre. Volevamo prenderlo in faccia, il muro. Sbatterci sopra, fino ad avere i segni delle intercapedini sugli occhi. Abbiamo semplicemente anticipato o differito il pranzo. C’aggrappiamo alla rete. Le squadre sono schierate a centrocampo. Una, alla nostra sinistra, in maglia rossa. L’altra, in maglia nera. L’arbitro fischia, e quelle corrono a schierarsi, ad occupare le zone del campo. È così che il terzino sinistro è giunto nei nostri paraggi, senza quasi accorgersene. È così che l’abbiamo visto. Lo stemma. I satanelli. Perché anche quelli trattiene, nelle sue luride mani. I satanelli. Stringere gli occhi, stringere i denti. Questo si deve fare. Per non scavalcare la rete. Per non aggredire dei ragazzini che, colpevolmente, vogliono solo giocare al pallone. E sperare di avere qualche centesimo da quel bancarottiere di merda. Stanno freschi. Il fischio d’avvio ci riporta alla realtà. Le telefonate degli “amici” non erano a vuoto. Adesso un defender dei carabinieri occupa lo spazio dell’accesso alla tribuna e ai marasciuoli. Mentre due degli “amici” si sono venuti a posizionare dietro di noi, a distanza di sicurezza. Forse pensano che stiamo per farci saltare in aria. Tre carabinieri parlottano di licenze a quindici metri. L’amico fotografo, invece, seguita a scattare. Sarebbe bello fargli pagare lo sviluppo. Per vedere con che gusto farebbe l’americano!

La squadra coi satanelli segna subito. Uno si ferisce in area. Ma fa male. E fa pena. Restarsene qui, con le mani in mano, a vedere un pezzo della nostra storia scivolare nell’indifferenza sulla terra battuta. Meglio una caviglia slogata. O una lussazione alla spalla. Andiamo. Ma attorno è in corso l’allestimento del set cinematografico dell’ultimo Coliandro. E noi, che non ce ne eravamo accorti, siamo al centro del set. Gli ispiratori occulti della puntata. Un nuovo ispettore – probabilmente l’antagonista maschile della serie – entra oscurato dagli occhiali neri. Un brigadiere lo accompagna nel suo difficile compito di assistente alla partita. Mentre fuori, sullo spiazzo di cemento, slittano altre due pantere dei carabinieri. E una terza è in avvicinamento. Che viene da giungere le mani e pregare che quelli che assaltano i portavalori lo sappiano, che le forze armate oggi sono tutte al “Di Gioia” di Carapelle. E ne approfittino. Ciao, ciao con la manina all’americano che continua a immortalarci. Forse era meglio un video, “amico”. Un tipo ci apre le porte del cancello. Usciamo in strada. Uno sguardo indietro e un pensiero funebre, novembrino. L’ultimo tocco:  “Qui ci starebbero bene due crisantemi”. Uno per la morte dell’Unione Sportiva. E l’altro per noi. Però sono le tre meno un quarto del pomeriggio. […] Il cimitero è il luogo della pace. Per arrivarci, aggiriamo la complanare per Foggia. È chiuso. Ed è domenica, non riaprirà. Sta scritto sul cartello. 8-12. E, sorvolando sui motivi reconditi che spingono l’amministrazione comunale a serrare il camposanto di domenica pomeriggio, l’unica è scavalcare. Depredare un defunto di un paio di fiori, o due defunti di uno. E correre nuovamente al campo, per lasciare il nostro ricordo sotto la lapide verde. Ma non lo facciamo. No, non è successo. Non abbiamo violato la sacralità del luogo. Perché i fiori non sono niente, ma rappresentano. Sono un simbolo. E noi non violiamo questi simboli. Non siamo come il Napoletano, noi.

22/10/12

Sotto il Vesuvio


Domenica 21 ottobre, Sant’Antonio Abate-Foggia 0-0

È sempre così. Per due settimane il nulla, poi di botto tutto. Il tutto. Nel momento meno opportuno. Eravamo pronti per Bisceglie. Tutti liberi, senza impegni, col biglietto già fatto e il pullman prenotato, la sera che è giunto il divieto del Prefetto. Ci siamo dati da fare a masticarci il fegato, come la gomma del ponte. In casa col Potenza c’eravamo quasi tutti, vero. Ma in casa vale meno. Molto meno. La sera di Ordona, la sera dell’amichevole infrasettimanale, abbiamo già qualche defezione. Ma poi il lavoro chiama. E ci decima. È una dannazione.
Ha ragione Angelo: “Gli Ultras del Treviso non hanno alcun problema di questo tipo”. Escluso quello di essere di Treviso, off course. Lì si lavora in fabbrica dal lunedì al venerdì, magari anche il sabato. Ma il ritmo della vita è regolare come la nebbia sui canali. Qui invece, tra emigrati, emigrandi e precari cronici, l’unità dei gruppi è un mito come il Popolo dei boschi. Chi lavora, lavora quasi senza preavviso. E quasi sempre nei week-end. Così la trasferta di Sant’Antonio Abate si schiude in un rosario di bestemmie.

Pullman, come prestabilito. Come a Santa Maria Capua Vetere. Ho dato un’occhiata alla vista del paese dall’alto su Google Maps. Una strada che cambia nome. Da Angri a Castellammare di Stabia. Senza soluzione di continuità. Appuntamento farlocco, con largo anticipo. O autista con largo ritardo. Lo danno disperso nelle campagne punteggiate di arature. Quando arriva, il torpedone si riempie in un niente. E in un niente parte. Ci sediamo dove capita. E Bara bara bara, bere bere bere. Il Conte, in ossequio al suo stress da trasferta, all’ansia da prestazione di curva, tira fuori un umile sacchetto, una sportina di plastica bianca. Pensiamo tutti contenga il suo pasto frugale. Del resto, è il mezzodì. E a quest’ora si ha fame, nel Nord operoso. Noi a Foggia mangiamo quasi tutti tra l’una e mezza e le due, ma i bioritmi cambiano in base alle specie animali prese in considerazione. Fin qui la scienza. Il Conte tira fuori tre vaschette di riso alla cantonese e cinque litri di nero di Troia. Si conserva un paio di panini con la bufala. Si presume viva. E Bara bara bara, bere bere bere. Girano birre, Borghetti e whiskey. La Gazzetta dello Sport dice che l’ultima vergogna è la devastazione dei bagni nello Juventus stadium. Luca non ha fame, ma assaggia giusto un po’, per gradire. E sprofonda di faccia nella vaschetta. Non lo sentiamo più per intere decine di minuti. Mentre il Conte continua a urlare: “Quello col carry! Quello col carry! È questo quello col carry!”. Campania. E Bara bara bara, bere bere bere. In modalità mantra. Che potresti morirci soffocato.

Il mare. Il porto di Salerno, giù a sinistra, Vietri. Si, vabbé, bello. Ma perché ha allungato così? La statale, ma sono quasi le tre. Risale. Cava, Nocera, Pagani. Nomi d’epoca. Angri. Poi si infila in uno spiraglio. E cominciano le case. A perdita d’occhio. Entusiasmo alla vista del Vesuvio. E ancora case, una sull’altra, in strade che sembrano stringersi fino a risucchiare il mezzo. Che, all’altezza di un muretto, sotto la tribuna di casa, si arena su un pilastrino vigliacco, tronfio nel suo ergersi di mezzo metro dal suolo. Ci siamo auto-arrembati. Ora dobbiamo scendere a disincagliare la barca con le ruote. Alcuni ragazzini sorridono. Effettivamente, qualche ragione ce l’hanno. Nel piazzale del settore, che non distingueresti dal piazzale di una pizzeria, tiriamo fuori le bandiere. Due pullman, un paio di furgoni, svariate auto. Due camionette dei carabinieri. Nervosi. “Non è giornata”. In fila. Nervosetti, anziché no. Compare il presidente. “State calmi, entrate con calma”, dice. Ora, non è che perché hai salvato il Foggia ti devi trasformare nel maestrino di De Amicis! “Fatt i cazz’a tuje!”, è la risposta. Ci sta. E non è per malacreanza. Una volta dentro calpestiamo il suolo dove un tempo c’era una gradinata. E, di fatto, è diventato un lunghissimo prefiltraggio. Dentro c’è già la Sud. Canta. Il tempo di sistemare pezze e striscione, e ci uniamo al blocco, proprio sopra una ringhiera. Sembra Marcianise. In tribuna ci saranno 6-700 persone. Sullo sfondo, tra gli alberi e gli spalti, il Vesuvio. Doppia velocità per un po’. La Sud inserisce il ffwd. O siamo noi troppo lenti. Fatto sta che a un battimani non s’accompagna il vicino e i due ai tamburi rischiano di impazzire e di causare altrettanti episodi psicotici. Il Foggia sembra poter segnare da un momento all’altro. Ma i momenti passano e non segna. Il Vesuvio è lì che ispira. Al primo Noi non siamo Napoletani s’incazzano tutti. Da morire. Non sono napoletani, dicono i napoletani. A due passi da Salerno, no che non lo sono. Ma allora perché si incazzano così? Insistiamo per un po’, poi torniamo a sostenere i nostri. Agostinone liscia un pallone che meritava di farci saltare. Il primo tempo finisce. Le birre in lattina costano 1 euro e 50. Mica male. Fa un caldo che annoia. I 27° annunciati dal meteo ci stanno tutti. Chissà perché ci siamo portati le felpe e i giubbini. C’è voglia d’autunno, si legge tra le righe. La ripresa comincia con un messaggio: Vogliamo vincere. Lo intoniamo compatti, stavolta. E dura. Cinque, dieci, quindici minuti. Le bandiere sventolano, ogni tanto si alza il fumo delle torce. Una certa soddisfazione. Il Foggia preme un po’ di più. Sfiora il gol una, due volte. Ma la prova è scialba, lo zero a zero ci sta tutto. Noi continuiamo a fare il nostro. Ma la fine giunge inesorabile. La squadra sotto la curva. Quest’anno va così. A meno di improvvisi tracolli poco dignitosi, una squadra che in campo comunica in dialetto, va apprezzata e sostenuta. L’Ischia ha vinto. Vince sempre, cazzo. Nove punti di distacco. Oddio, mai pensato di vincere il campionato. Quelli hanno sprecato l’ira di dio per saltare la categoria, noi è già tanto che siamo competitivi. Ma non vorremmo, in un campionato dove sale solo la prima, trovarci senza stimoli a febbraio. È l’unica preoccupazione. Perché con i risultati torna l’entusiasmo. E nell’entusiasmo, anche noi ci divertiamo di più (aldilà della mistica dei “100 ovunque”). Ancora qualche parola sulla napoletanità dei padri di famiglia che abbandonano lo stadio. Così, giusto per saggiare la reazione. E quelli si incazzano ancora, più di prima, davvero tantissimo. Torna alla mente ancora Marcianise. Ma, in fondo, qui siamo trattati bene. È puro gioco di ruolo. Mancano i bagni per le donne, e Ceska va in bagno a casa di una signora, tanto per far capire. Un signore, inviperito, grida: “Forza Bari!”. Le strade ad uscire, la costiera, sulla strada del ritorno.

E poi c’è quel momento.

Quando la strada si fa di botto notte. E le luci allagano le plafoniere come un relitto sui fondali dell’Atlantico. Messaggi di naufragio o di avaria. Quel momento che guardi i tuoi compagni di viaggio. Nell’attimo esatto in cui la tensione svanisce. E i touch-screen degli I-phone diventano pari al rumore della carta stagnola che libera i panini con la frittata. L’attimo del ritorno a sé. Del pensiero. Dell’intimismo. Il momento in cui contempli come seducente l’ipotesi vaga e assurda del sonno. E tutti sono tranquilli e rilassati. E i paesi sfilano lontani, sul vetro del finestrino.
Ma poi uno porta il megafono dietro, alla penultima fila. E collega il cellulare. E fa partire la playlist.
Marijuana, cocaina, eroina, crack.
E capisci che l’idea del sonno era davvero tanto vaga quanto inutile.

07/10/12

A chi interessa? A chi manchiamo?


A dimostrazione della serenità manicomiale che dirige e sovrasta le nostre vite appassionate, possiamo ben dire che la nostra trasferta immaginaria è cominciata il 18 di settembre. Sul monitor di un pc. Il sito dell’Osservatorio. F5. Aggiorna. Di continuo. Niente. Il 19 è venuta fuori una prima determinazione. No, Bisceglie non è tra le partite giudicate “ad alto profilo di rischio”. E vorrei ben vedere. A dicembre abbiamo giocato in amichevole al “Ventura” e la cosa ci è passata sostanzialmente inosservata. In campionato non ci incontriamo da una cinquantina d’anni, più o meno. Non è vietata. Ed è un buon segno, anche se non definitivo. Del resto, mancano quasi venti giorni. L’ente creativo generato dal Ministero si riunirà ancora. Il 26. L’elenco di divieti, anche stavolta, non ci riguarda. La dispensa n.34 sancisce che i casertani non potranno andare a Sassari, gli anconetani a Civitanova, i molfettesi a Terlizzi, e blocca altre 6 trasferte. Noi non ci siamo. Ma non è bene cullare illusioni. Piedi di piombo, sempre. Però stavolta, a scalfire la consueta incertezza esistenziale, c’è il dettaglio, non trascurabile, dei biglietti. Già, perché gira voce, dall’inizio della settimana decisiva, che il Bisceglie calcio si sia accordato con l’Acd Foggia per smistare in Capitanata 100 tagliandi. Sono pochi, ne servirebbero almeno il triplo, ma quanto meno ci sono. Anche il banner che pubblicizza la partita contempla la voce Settore Ospiti. 10 euro. Stavolta sembra lecito alimentare speranze. Certo, una vita così – tra voci, dicerie e spifferi ufficiali – è stressante oltre ogni lecita misura. E non solo, bisogna fare di tutto per non tuffarsi nel passato, per non rimembrare i tempi andati, la facilità automatica con cui si allestivano torpedoni e si andava ovunque. Siamo appassionati, e pur di continuare a vivere l’attimo adrenalinico ed eterno dell’ingresso in un’altra città, abbiamo azzerato la nostra memoria. E da tempo siamo scesi a compromessi con questa gestione mafiosa del calcio. Ogni giorno che passa è un giorno che ci avvicina alla trasferta. Siamo costretti a crederci. Il circuito Bookingshow mette in vendita i biglietti. Ma per l’evento che ci riguarda il settore ospiti risulta bloccato. Fino a giovedì pomeriggio. I propugnatori di cattive notizie si palesano. Cattivi presagi s’addensano. Poi, d’incanto, i tagliandi diventano disponibili. E in un amen finiscono. Possiamo prenotare il pullman, stabilire un orario di adunata e uno di partenza, prendere a discutere di come organizzare il nostro settore. Gli scettici devono indietreggiare. Abbiamo i biglietti. Materialmente. 10 euro + 1,20 di prevendita. La caparra consegnata al noleggiatore. Siamo a giovedì sera, non sarebbe logico attendersi un dietrofront. Certo, una volta ci vietarono Andria 48 ore prima dell’evento. Ma siamo a venerdì mattina, sarebbe francamente assurdo. E l’assurdo è mestiere da Prefetti. E quello di Bari, o della Bat (non s’è capito) non è da meno. Vietata. Così, a freddo. L’ufficialità giunge alle 19 dell’antivigilia.

Paghiamo un paradosso. Siamo troppi, dicono. In casa non riusciamo a vedere una partita nella nostra curva perché il nostro stadio è troppo grande per la categoria. In trasferta non ci possiamo andare perché non ci muoviamo in trenta. Se tutto questo vi sembra logico, allora starete comodi in questo microcosmo di idiozie. Noi, di nostro, sopravviviamo a stento. È un dato di fatto: è più il tempo che sprechiamo a dibattere, a litigare, a scazzarci, di quello che impieghiamo a sventolare le nostre bandiere. E, sprofondati in Lega Nazionale Dilettanti per rivivere gli stessi kafkiani incubi della Lega Pro, si può ben comprendere la diffusa voglia di fermarsi a rifiatare. Per valutare complessivamente, senza un briciolo di serenità, il senso ultimo di questa nostra passione collettiva, svilita e sventrata. A che pro continuare a credere in un sogno di partecipazione, aggregazione e tifo? A che pro seguitare a popolare i gradoni quando ce lo concede un’autorità qualsiasi? Quando ormai è chiaro da anni che nella mentalità affaristica di chi gestisce il giocattolo non sono previsti gli stadi pieni e quelli come noi sono percepiti, vissuti e dipinti come un’anomalia fastidiosa, una disfunzione del sistema? Quando un capriccio di un Prefetto può bloccare il nostro modo d’essere anche dieci minuti prima del fischio d’inizio? Che senso ha, ancora? Probabilmente dovremmo accantonare le menate da Ultras e cominciare a ragionare da Cittadini. Da semplici Cittadini tifosi. Allertare chi di dovere, per esempio, che non siamo sudditi. Che non è sufficiente nascondersi dietro la formula di rito dei “motivi di ordine pubblico” per venirne fuori puliti. Anche in questo ambito, sarebbe interessante inseguire le responsabilità concrete, invece di fermarci – fatalisti e rassegnati – dinanzi alla cortina fumogena delle dieci sigle fittizie, che alla fin fine non si capisce mai chi prende le decisioni e come le motiva. Partire da questo, magari, per non lasciar spegnere la fiamma della passione. Che è smorzata come non mai. Presentare a chi di dovere la lista delle spese, fossero anche i 120 euro regalati al circuito dei biglietti online e persi per sempre. Fossero anche i 40 o i 70 euro regalati ad un noleggiatore di furgoni, che avremmo fatto meglio a spendere in alcool o imbandendo una tavola. Far capire a chi governa il circo che non siamo ottusi sventolatori di vessilli; che la nostra intelligenza non si esaurisce nell’elaborazione di un coro o di uno striscione con la rima. E, qui in casa nostra, mettere sull’avviso chi ha in mano il nostro nome che non basta fungere da tribuno del popolo e ostentare il proprio amore per i colori per tutelare la piazza. Che è importante battere i pugni sul tavolo, alzare la voce. Che si, siamo signori e accettiamo che la Fortis Trani ci costringa a giocare a porte chiuse, che il Bisceglie Donuva posticipi alle 18 il match per permettere ai suoi tifosi di godersi la serie A su Sky. Ma siamo Cittadini tifosi ed abbiamo sottoscritto un contratto. Un abbonamento dove ci venivano garantite 17 partite in Curva Nord e, al momento, alla vigilia della quarta, in Nord non ne abbiamo vista nessuna. Certo, nessuno vuole il male di questa società. Non siamo menestrelli sciocchi e irriconoscenti e già più di una volta – in questa stagione agli esordi – abbiamo violentato il nostro essere pur di non arrecare danni a chi ha salvato i colori rosso-neri dall’estinzione. Ma la luna di miele, ad un certo punto, finisce. Mi direte: ma che vuoi dalla società? Niente. Voglio che ci rispetti. Che il presidente faccia il presidente – e non lo steward –, che i soci facciano i soci, che il direttore generale faccia il direttore generale. Che non abbiano peli sulla lingua nell’indicarci i nemici occulti, quelli che si trincerano dietro la cortina fumogena di cui sopra. Che si ribellino, come noi, alle quotidiane ingiustizie di cui è vittima la parte più importante di questo patrimonio societario: i tifosi. Che non basta dirsi rammaricati (il Bisceglie, che ha perso un bell’incasso, era più rammaricato dei nostri), bisogna farsi sentire nelle sedi competenti. Perché proseguire il gioco così, soli contro il mondo delle burocrazie, sarà pure epico. Titanico. Ma alla fine stanca e sfibra. E se d’un tratto anche le curve dello “Zaccheria” dovessero svuotarsi, a chi importerebbe davvero il risultato del Foggia? Qualcuno sentirebbe la nostra mancanza?

26/09/12

Riprendiamoci lo "Zaccheria", Riprendiamoci Foggia


Pagano i tifosi. E non è certo una novità. Costretti a subire l’umiliazione della seconda partita a porte chiuse, dopo aver sottoscritto l’abbonamento, dopo un fallimento. Paghiamo noi, come sempre. Paga la nostra passione. Il nostro amore incondizionato per i colori. In una città dove non esistono responsabili. Dove le colpe si scaricano. Dove chi governa è invisibile. O diventa tale nel momento di decidere.

Eppure lo sapevamo tutti dove avrebbe portato il servilismo della giunta Mongelli nei confronti delle assurde pretese di Casillo. Lo sapevano gli stessi politici locali quando – in un impeto di generosità a spese del pubblico – hanno gentilmente concesso lo stadio comunale a quel losco individuo. E se non lo sapevano, allora è evidente come non siano in grado di amministrare. Il teatrino ridicolo e tragico di queste settimane è solo un aspetto del più generale collasso della nostra città. I lavori allo “Zaccheria”, promessi ad aprile e mai portati a termine, sono l’ultimo risvolto di un fallimento che ha molti nomi – quelli delle municipalizzate, tanto per fare un esempio – e, ovviamente, nessun colpevole.

Il ricatto dei vecchi sciacalli, le norme assurde della Lega, l’incompetenza e l’incapacità di tecnici e addetti ai lavori, non giustificano, bensì peggiorano il quadro d’insieme. Noi – Ultras, tifosi, cittadini – vogliamo i nomi degli inetti e dei collusi. Vogliamo che i responsabili ci mettano la faccia; che chi ha sbagliato paghi. Non abbiamo più intenzione di sentir parlare ancora di certi personaggi del recente passato. E come doveroso atto di dignità, pretendiamo che il sindaco invisibile e la sua corte celeste si facciano da parte. Non ne sentiremo la mancanza come non ne abbiamo avvertito la presenza.

Sosteniamo la Nostra Maglia! Onoriamo la Nostra Città!

Curva Nord Foggia

22/09/12

Un ipermercato...


Agli amministratori così veloci nel concedere terreni a palazzinari e speculatori, e così zelanti nell'applicare le "norme" per lo "Zaccheria"...




08/09/12

La Bastiglia di viale Ofanto


In serie D giocano 167 squadre. La maggior parte di queste disputa le proprie partite in campetti di periferia coi muri a un metro dalla linea laterale. In oratori con una tribunetta in metallo. In pantani perimetrati da un semplice reticolato. 166 squadre hanno il campo agibile, a norma, idoneo. Noi tifiamo per la centosessantasettesima. Ed abbiamo lo “Zaccheria”.
No. Non fate finta di non capire. Chiunque si sia appassionato al calcio negli ultimi trent’anni sa cos’è lo “Zaccheria”. Un monolite di cemento armato capace di contenere più di venticinquemila persone, tre a metro quadro. Uno sbuffo d’aria bollente sulle maglie di chi scende nel fossato, ancor prima dei gradoni, ancor prima dei tubi, dai tempi eroici del filo spinato. Secoli prima della tribuna nuova. Quella innalzata come un totem nell’estate del ritorno in serie A. Neppure tanto tempo fa.
Domani le porte del nostro tempio saranno chiuse. Chiuse le curve, chiusa la gradinata.
Perché una Commissione tecnica, munita di strumenti atti alla misurazione delle porte e al controllo di spurghi e infissi, ha stabilito che lo “Zaccheria” non è a norma per il Campionato Nazionale Dilettanti. Manca dei requisiti minimi.
“Sono delle regole assurde”, mi dicono in molti. Lo so. Volete che non lo sappia. Nei giorni in cui attorno allo stadio fu issato il poderoso cancello che c’è tutt’ora mi sembrò d’assistere alla profanazione di una spianata sacra. La prima volta che entrai facendo ruotare le leve di un tornello, mi mancò quasi l’aria dall’imbarazzo. Ma ormai ci siamo abituati; assuefatti allo spirito dei tempi. E del concetto di “sicurezza” applicato agli impianti sportivi abbiamo blaterato a lungo, abusando pure della pazienza altrui. Per cui stavolta no. Incassiamo la notizia in una zona neutra dell’anima, senza cadere nella tentazione di piombare a capofitto nell’estremo delle dissertazioni sul calcio moderno e sulla nostalgia per quel mare di teste che s’è ritirato per sempre.
Stavolta si deve parlare d’altro. Del cuore predisposto all’eroismo che deve batterci in petto da quando “abbiamo scelto” di non tifare Empoli. O Pontedera. Del timore ansioso e vigile che ogni settimana si sveglia con noi. Abbiamo vissuto il tracollo calcistico, passando dalla A alla C2 in cinque stagioni. Un primo fallimento e l’aggressione di una corte dei miracoli che annoverava gente del calibro di Sensi, Chinaglia e Coccimiglio. Il redivivo Casillo e un secondo fallimento. La serie D presa per i capelli. Basterebbe a chiunque. Invece noialtri, ad ogni levataccia del sole, non possiamo più fare a meno di chiederci cosa accadrà. Cosa ci riserverà ancora il destino, prima di rivedere un derby col Bari. E dopo aver respirato polvere in una sfilza di campetti, adesso che ci hanno comunicato che il campetto ce l’abbiamo noi, la sensazione è inebriante.
È francamente troppo.
Un ricatto a monte, quello di Casillo, dei suoi piani megalomani da Eterno ritorno. L’insopportabile vulnerabilità di una giunta comunale senza attributi che, prostrata, gli concede la gestione dell’impianto a clausole vessatorie che avrebbe impugnato anche il meno abile dei laureandi in Giurisprudenza. Il peccato originale. La lunga battaglia di carte bollate, di ingiunzioni di pagamento, scaricabarile tra chi ha accettato di godere solo dei privilegi della concessione e chi è chiamato mensilmente a saldare il prezzo della propria codardia. Fino al braccio di ferro finale di primavera. Era aprile quando nacque l’ormai celeberrima Battaglia della Guaina. Aprile, 22, allorquando – dopo aver elemosinato un campetto per mezzo meridione – raggiungemmo in macchina il “Via del Mare” di Lecce. Per via dell’indisponibilità dello “Zaccheria”. E fummo graziati dalla sportività del Lumezzane, che non si prese la briga di fare ricorso, nonostante la cattività in terra di Puglia, nell’incertezza perdurata fino a poche ore dal fischio d’inizio. “Questione di giorni”, dicevano i tecnici del Comune riferendosi ai lavori in corso. Sono passati cinque mesi. E gli ispettori scuotono il capo. E il prefetto s’assume l’onere della chiusura, come già successo a maggio, per l’ultima casalinga. Casillo, che aveva fatto il possibile per giungere a questo, gongola. Ma tra tutte le figure laide, squallide e penose (Chi è l’Assessore allo Sport del Comune di Foggia? Qualcuno di voi lo conosce?) che battono la brughiera in queste ore confuse, se dovessi scegliere su chi puntare il dito, non avrei dubbi.
Gianni Mongelli è un costruttore, è un imprenditore, è un rappresentante di categoria. È tante cose. Ma non è un sindaco. E si che fare il sindaco in questa città significa accettare una non invidiabile condizione da ostaggio contento. Ostaggio della mala, dei palazzinari, dei poteri forti, della massoneria, della politica di professione che si serve della società civile per fottere gli allocchi e gli illusi. E si che non esiste solo il calcio a Foggia. Ma le contorte vicende di questi giorni, la sorte di quel gigante di cemento che è casa nostra, casa della passione della mia gente da che ero bambino, hanno assunto tutte le caratteristiche della metafora. In scala, quello stadio è l’intera mia città. Soffocata dall’ottusa burocrazia dei tecnocrati, dai meschini interessi di parte, dai ricatti che inducono all’immobilismo e alla rassegnazione, dalla prepotenza della speculazione, dall’incapacità e dall’inettitudine di chi – motu proprio – s’è voluto assumere l’onere di gestire la cosa pubblica. Senza averne la stoffa, il talento, o più miserabilmente la possibilità.
Adesso, che davanti agli occhi danzano le colpe, rimpallate da un impotente all’altro come in una partita di pallamuro; che la rabbia aumenta a dismisura; che la Repubblica delle banane sta maturando il nuovo colpo di scena, mi sento di dire – per quel che vale – che quell’omino taciturno che induce alla compassione che si deve ai deboli, ha rotto le palle. La sua recita flebile è diventata accanimento terapeutico. Lo tengono in vita coloro che lo muovono, è vero, lo sappiamo. Ma l’assoluta incapacità di prendere una decisione con mano ferma, di scuotersi dal torpore sonnolente della barca che ondeggia verso gli scogli, la scarsa volontà di picconare i problemi fino a vederne le ossa e i nervi, sono un oltraggio alla nostra (residua) dignità di comunità. Sarò ottimista, ma seguito a credere che non meritiamo d’essere rappresentati dal fior fiore della mediocrità paesana. Che un altro sindaco, uno qualsiasi, avrebbe agito d’impulso, da subito, anche travalicando il proprio ruolo. Perché il Foggia è Foggia, certo, ma anche perché la politica amministrativa dovrebbe servire a quello. A non piegare il bene collettivo agli interessi dei privati, ad esempio. A tutelare la gente che ti ha eletto, anche se col 23% delle preferenze al primo turno. O giù di lì. Ecco perché, dal mio punto di vista, questa vicenda penosa non ha i soliti duecento colpevoli. Ma uno solo, in rappresentanza di quelli (pessimi quanto lui) che si nascondono dietro il suo fallimento, nella speranza di non essere sgamati.

Io domani saprei cosa fare. Come Sansone coi Filistei. Ma non lo farò. Un po’ perché non posso, un po’ perché non voglio. Perché ne andrebbe di mezzo gente che ha dimostrato attaccamento ai miei stessi colori e che non merita d’essere penalizzata ulteriormente.
Ma riprendersi lo “Zaccheria”, manco fosse la nostra Bastiglia, è da questo momento un obiettivo prioritario. Ed una metafora di quell’attivismo che dovrebbe tornare a divampare in città. Per liberarla dai ricattatori, dai parassiti, dagli speculatori. E dagli inetti.   

20/08/12

Il passo dei 50 minuti


L’abbiamo ripetuto talmente tante volte che, adesso, il rischio è quello di annoiare. Se non peggio. Ventuno, i mesi di divieto sulla ruota di Foggia. Ma ora quel che conta è che siano finiti. Per non dare più l’impressione che è propria delle vittime. O comunicare un opprimente sentimento di stasi. Finiti. Interrotta la macabra contabilità. Ed è stato così semplice da indurci ad ignorarne il significato profondo. Come Armstrong sulla luna: “Un piccolo passo”. Termoli. Cinquanta minuti tra autostrada e provinciale. Ad un niente da Campomarino, dalle spiagge dei foggiani e dei sanseveresi. Un centro storico romanticamente battuto palmo a palmo nelle adolescenze, burrascose per definizione; i trabucchi sul mare, i ristoranti per niente economici e quella rotonda al limitare della statale dove i vigili da sempre s’allenano alla pesca a strascico olimpica. Si ricomincia da qui. E va bene lo stesso.

Termoli. Un tempo ci saremmo andati giù pesanti con la goliardia. Del resto, una partita di Coppa ad agosto serve a quello: al cazzeggio, a sperimentare cori, ad inventarne di nuovi, a sfruttare i tormentoni da lido. Sono passati solo tre anni dai 120 minuti di delirio triestino. E siamo seri. Maledettamente seri. Dobbiamo scendere nell’acqua gelida del dilettantismo. Fino alle ginocchia e ancora più su, dragando superfici a noi sconosciute. E non abbiamo alcuna intenzione di farci trovare impreparati. Di peccare di superficialità o di snobismo, per l’equivoco del blasone o del fatto che – ormai lo sanno pure le pietre – venti anni fa eravamo un’altra cosa. Eravamo su un altro pianeta. Ma ciò non toglie. Siamo il Foggia. Lo devono capire i ragazzi, i dirigenti. E il pubblico dei luoghi che visiteremo nella nostra – si spera lunga – tournée.

Non siamo qui per vincere, ci diciamo. Anzi, la partita stavolta è davvero l’ultimo dei problemi, ancor più del solito. Siamo qui per guardarci negli occhi e annusare la voglia, la determinazione, gli stimoli di tutti e di ognuno. Ricominciare, dopo che la macchina infernale della repressione aveva abituato molti di noi alle mollezze del divano domenicale. Siamo sulla piccola gradinata di uno stadio che, fino alla scorsa stagione, faceva da proscenio alle sgambature del giovedì. Ma il passato deve smetterla di tenerci in ostaggio. Possiamo di nuovo esporre le nostre pezze, sistemarci sulla balaustra, a ventaglio incunearci tra i gradoni. Linea avanzata di tanti tifosi e vacanzieri che, stasera come a Vasto con Zeman (anche se con le dovute proporzioni), sono accorsi per vedere le maglie rossonere. E l’aria della trasferta d’un tempo ci basta, anche a cinquanta minuti da casa.

Non siamo qui per vincere. Ma abbiamo fretta di ricominciare. Talmente tanta che le squadre sono ancora in fase di riscaldamento quando facciamo partire il primo coro. Ed è il brivido più forte della serata. “Finché morte non ci separi!”. Il tamburo batte il tempo, le mani lo sezionano. Tutte le mani, anche quelle di quelli in alto. Ed è una dichiarazione d’intenti sincera, mica da ridere. I nostri, con le divise nuove, si girano a guardarci. Dalla tribuna partono diversi flash. Durante la partita il settore ultras dei termolesi si riempirà a dismisura. Canteranno incessantemente, faranno oscillare bandieroni, accenderanno torce, eseguiranno bei battimani. Saranno belli da vedere, come probabilmente tutti quelli che ci troveremo di fronte durante questa stagione. E sarà una sfida avvincente. Perché il tifo non ha niente a che vedere col nome e i trascorsi, ma con la passione e la grinta. E sentirsi arrivati, adagiarsi sugli allori, veri o presunti che siano, sarebbe un errore madornale. Che non abbiamo alcuna intenzione di commettere. E allora, anche noi, cantiamo, sventoliamo e bruciamo nel rosso delle torce, felici come adulti che ritrovano i loro giochi d’infanzia. “Repressione, fallimento, serie D. Siamo ancora qui”.
Non siamo qui per vincere, ma per dimostrare d’esistere. Ed esistiamo. Sebbene, da perfezionisti, a fine gara, avremo da ridire su tutto, dal repertorio alla coordinazione. Ma funziona anche così. In campo i ragazzi si menano che è un piacere, sbagliano tanto, non verticalizzano come ai tempi dello champagne. Ma è bello lo stesso. Il Termoli passa, il Foggia sfiora il pari, poi prende il 2-0 in contropiede. Alla fine del primo tempo i telefoni diventano roventi. Siamo le fronde di un albero che ha radici profondissime. Nella ripresa accorciamo le distanze. Non siamo qui per vincere, ci ripetiamo. Ma l’ultimo quarto d’ora ci fa dimenticare tutto, buoni propositi e fallimento in testa. Vogliamo il pareggio. E quando ci negano un rigore solare, siamo pronti a scommettere che l’arbitro non abbia mai sentito tanta gente dargli del bastardo in coro. Siamo inviperiti, e premiamo con convinzione sulle recinzioni, per spingere la squadra all’ultimo assalto. Non siamo qui per vincere, ma adesso vogliamo il pareggio e poi spuntarla ai rigori, per andare domenica ad affrontare la vincente di Bisceglie-Matera. Al 2’ di recupero ci annullano un gol regolarissimo e ci strozzano in gola l’urlo. Non c’è categoria che possa sottoclassificare l’irrazionale. Non c’è differenza tra l’Olimpico e il Cannarsa. Se il Foggia avesse buttato dentro la palla del pareggio, il boato sarebbe stato lo stesso, identico in ogni decibel. Non siamo venuti qui per vincere. E non abbiamo vinto. Però al ritorno siamo più leggeri. E questo vorrà dire qualcosa.

14/08/12

Sciabole e rinascite


Non so se è chiaro. Se la portata della notizia v’è giunta per intero.
Se le implicazioni, le traiettorie del cuore, le architetture metafisiche, siano giunte a lambire le vostre ordinarie esistenze borghesi (!).
Siamo in Lega Nazionale Dilettanti! In D! Nell’antica e vetusta Interregionale!
Girone H. E, calendario alla mano, sappiamo pure dove giocheremo il 2 settembre.
Quando tutto ricomincerà, senza mai essersi esaurito.

Non è scontato.
Non lo era fino a dieci giorni fa, quando l’ennesima sera afosa e deleteria aveva deciso di dilagare sulla città attonita. Quando, su una debilitata Rai Due, Luigi Samele saliva la pedana per incrociare la sua sciabola con quella dei russi, nella finale per il bronzo a squadre.
Non ci eravamo abituati al peggio – per carità, quello mai! – ma avevamo facce che erano un programma olimpico. In lizza fino alla scadenza per salvare una terza serie che sembrava il minimo, truffati e affondati, condannati ad un’attesa snervante e vuota. A poco più di quarantotto ore dal termine ultimo, dal fremito della ghigliottina, costretti a ritenere persino la D un lusso impraticabile per Foggia. Per il suo parassitario ceto imprenditoriale, alimentato ad assistenzialismo e pubbliche prebende. In sostanza: a dipendere da un potere politico a sua volta compiutamente tenuto in vita dal voto di scambio. Eppure Foggia è anche quel ragazzo in pedana, ci siamo detti. “Antò, vieni a vedere, c’è quello schermitore foggiano”. E il ragazzo si batte, eccome. In pochi minuti siamo presi, coinvolti allo spasimo. E quello tocca, colpisce, schiva. I led si illuminano. Ed ogni parola di commento sulla sua impresa in sviluppo, diventa nostra. Si, lo so, c’è molto di quel vezzo italico di salire sul carro dei vincitori in questo appropriarsi della fatica e della passione di uno sconosciuto che, non ha caso, ha deciso di praticare uno sport individuale. Che ne è stato degli altri due olimpionici foggiani, quelli della carabina? Boh. Però, va detto, che ne abbiamo seguiti di tiratori con l’arco e fucilieri alla corte di Sua Maestà. E abbiamo esultato con loro, per una medaglia, o maledetto la sorte, alla sconfitta. Ma stavolta è diverso, impossibile negarlo. C’è un orgoglio differente. Lo si evince dalle gocce di sudore che scivolano sul collo, dal senso di responsabilità collettiva per ogni singolo affondo, dalle zie che si affacciano alla stanza e ci restano, pure inconsapevoli. Quando Samele vince, l’entusiasmo è da Momenti di gloria. E non è colpa nostra se i tiratori foggiani li hanno trasmessi alla mattina presto, mentre la gente dormiva. La città sembra tirare il fiato, espellere le sue tossine fino alla campagna, rischiararsi d’un arancio cupo. Poi uno squillo ci riporta a casa. Perché no, non è affatto vero che il calcio – l’Unione Sportiva, più precisamente – distrae dai doveri sociali. Sono gli altri impegni a distogliere dal retropensiero, solido come una stella fissa.

“Sono arrivati dei soldi, un bonifico, forse siamo salvi”.

Percorsi immaginari, da esploratori illuministi.
Nomi di paesi e cittadine che fino al mese scorso erano concetti vuoti – da weekend di Sereno Variabile – che improvvisamente acquisiscono significato e portano a sfogliare le guide con una frenesia nuova. Eppure antica. Solita.

Abbiamo patito. Inverosimilmente. Nessuno, neppure il peggiore tra i profeti di sciagure, avrebbe pronosticato tanto, nonostante gli scenari irreversibili del calcio-tessera. In quel pomeriggio di ottobre al “Flaminio”. Dicevamo: “Facciamo il biglietto per un altro settore e aggiriamo il problema”. Invece, ventuno mesi. Ventuno mesi di agonia, speranze frustrate, sofferenza e indecisione. Ventuno senza furgoni, sciarpe, due aste, pezze, stendardi. Senza trasferte. Dicevamo: “Spingiamo la squadra in B, magari lì le maglie del decreto sono più labili”. Invece, dapprima Zeman e Casillo. Poi Casillo soltanto. Una salvezza sul campo pagata con una voragine di bilancio. E l’estate del fallimento. Passato prossimo e imperfetto. L’Unione Sportiva Foggia seppellita sotto i colpi della speculazione e delle vendette private. Il futuro nelle mani di capitani poco coraggiosi e imprenditori pavidi. Lo spettro dell’Eccellenza, della Terza categoria, dell’anno senza calcio. Fantasmi davanti agli occhi di chi non poteva fare altro che attendere, rabbiosamente. Soffiare sulla vela di una barca in secca, tutt’al più. Poi la svolta. Soldi che piovono dal Nord. Da un foggiano del Nord.

Abbiamo sperato, verosimilmente stavolta, di finire nel girone molisano-abruzzese-marchigiano-romagnolo. C’era persino una richiesta ufficiale della nuova società. Perché tra Foggia e Trivento c’è una distanza minore che tra Foggia e Taranto. Però, avranno pensato quelli ai piani alti del dilettantismo, tra Foggia, Pesaro, Macerata e Rimini, la cosa è differente. E allora bolgia. Girone H, si diceva. Tutto tra Puglia e Campania, con tre intermezzi lucani. Un attimo di scoramento, perché puoi scendere quanto ti pare, ma è pur sempre il calcio dei prefetti, questo. Poi un barlume di nuova speranza. Trani, Bisceglie, Monopoli. La Statale 16 dei sogni. Perché per noi è quello che conta: esserci, fare la nostra parte, vincere le nostre battaglie. E che questo non suoni d’insulto o d’offesa per nessuno. Abbiamo lottato per difendere la categoria. Col Pescina abbiamo messo in gioco persino i nostri corpi – oltre che la nostra libertà – per evitare un inferno che allora si chiamava “solo” C2. Siamo innamorati della maglia e non godiamo di certo a vederla così sprofondata. Ma è il calcio degli speculatori, oltre che dei prefetti, questo. E se non possiamo giocarcele sul campo le salvezze – alle promozioni siamo disabituati – allora che ben venga l’altro scenario. Quello delle trasferte senza tessera e senza mezzucci, quelle di gruppo e di massa, dove stare assieme, cantare, soffrire o gioire; che ci restituiscano per qualche momento il calcio del quale ci siamo innamorati, venti o trenta anni orsono. E da questo punto di vista, vada come vada, la serie D è un’opportunità fantastica e inattesa. Non avremo mai il benestare per Secondigliano o per l’imbarco al molo Beverello, certo. Ma senza Francavilla sul Sinni o Grottaglie saremmo morti d’inedia.

Poi, volete mettere… Ieri, in ritiro su a San Marco in Lamis, a passeggiare tra le strade del centro, a sentire gli anziani e i bambini salutarci con un: “Forza Foggia” che scoppia in testa come un tenorile do di petto, a bere birra sugli spalti tra facce amiche e ospitali, a irridere goliardicamente quei ragazzini con la pettorina, il vecchio massaggiatore, l’autista del pullman, l’allenatore in seconda. Scavalcare a fine partita per mettere in porta un pallone, visto che in due ore e mezzo di allenamenti non avevamo visto neppure un gol. E a sera leggere il costo (caro) del settore ospiti di domenica a Termoli, in Coppa, senza asterischi a specificare che la trasferta è limitata ai possessori della Tessera e alle norme vigenti. E oggi pensare di sottoscrivere l’abbonamento. Non è certo il massimo sentirsi Dilettanti, ma – chissà com’è -  la A quest’anno mi affascina ancor meno del solito.  

14/07/12

Lode al casco


Dalla fine. Casillo è stato colpito con un casco in piena faccia, davanti al Bar Cairoli.
L’eterno scandalo della violenza divampa dai pulpiti. La ratio che tutti vorrebbero estrema ma che pochi accettano, anche dinanzi all’evidenza più implacabile. E stavolta dubito che qualcuno possa discutere sul fatto che la situazione fosse davvero estrema. Telenovelas, si definiscono di solito queste traversate del deserto.
Passi indietro. Uno, due, più di due. A Foggia ci sono 45 gradi. Lo dice il display di Leone Centro. E quello della farmacia a Piazza XX Settembre. È la città più calda d’Italia. Lo dice Rete 4. Una trentina di persone sosta davanti alla Piramide di plexiglass, all’angolo del Comune. Guardano il Municipio e sperano, come a San Pietro durante il conclave, di vedere la fumata bianca dal comignolo. Ci sono diversi ragazzini giunti a piedi o in bicicletta. In molti hanno recuperato e indossano, per l’occasione, la maglietta rossonera. Delle annate più disparate. Da Marino a Novelli, al secondo tragico Zeman. Immagino il loro pomeriggio. Ma non è sempre il momento di mostrarsi sentimentali. Stavolta si lavora di bisturi su corpo morto. Sta botta è autopsia. Sopra, nei corridoi, c’è ressa. Giornalisti, gente dei gruppi, digos. La situazione è questa: il Napoletano ha dato mandato al sindaco di intercettare acquirenti per la moribonda Unione Sportiva. L’ha fatto poco meno di un mese fa. Ma nessuno in questo lasso di tempo – a partire dal sindaco fino a giungere agli acquirenti potenziali – è stato in grado di quantificare la massa di debiti che ha lasciato. Certo, ci sono le voci, che a Foggia slittano sull’asfalto bollente come sapone liquido. Ma restano tali. Come l’interessamento di una cordata di imprenditori locali, che dapprima fa esporre Mongelli, poi lo lascia con un palmo di naso ad assecondare le follie di chi chiede ai tifosi di abbonarsi, a scatola chiusa, per i prossimi 6 anni. Ad un certo punto della serata, le porte di spalancano e un miscuglio di avvocati imbocca l’uscita, seguito da un drappello che sa di processione. In testa c’è un imprenditore napoletano – un altro – giunto a Foggia per fare sodalizio con un paio di cerignolani, dei quali si finge di ignorare le contiguità con Casillo. Le porte della Banca del Monte si aprono fuori tempo massimo per formalizzare l’impegno. E attorno divampa l’entusiasmo dei leccaculo – gli stessi che hanno steso tappeti al passaggio dei vari Sensi, Russo, Coccimiglio – e un fuoco di fila di accuse, più o meno velate. I cerignolani hanno bucato per 3-400mila euro. Esposito, il napoletano in seconda, non ha i soldi per la ricapitalizzazione. Il sindaco ha anticipato di tasca sua oltre 200mila euro. Si va a dormire più sereni. Siamo in ritardo, già appesantiti di ipotetici punti di penalizzazione, ma la fidejussione dovrebbe essere cosa fatta. Potremmo mantenere la categoria. Ma le incognite diventano lampanti l’indomani. C’è Casillo che fa il ritroso. Nasconde le carte della debitoria degli ultimi 6 mesi, mentre – da quel che si vocifera – fino a gennaio è riuscito nell’impresa di accumularne 2,4 milioni. Dopo aver rilevato il Foggia, due anni fa, con 800mila euro di scoperto. Una bazzecola, in confronto. La domanda afferra la gola. Com’è possibile? Voglio dire: mai avuto dubbi sull’intento ultimo che aveva riportato il Napoletano in città. Nel luglio del 2010 eravamo in pochi a dirlo – “Uagliù, quello è venuto a vendicarsi!” – e la nostra voce si perdeva nel frastuono dei clacson. Ma, aldilà di questo, com’è possibile che una bancarotta del genere possa godere dell’impunità e bearsi della recidività, della reiterazione? Com’è possibile che uno che ha affondato l’Avellino e la Cavese possa, con un gioco di scatole cinesi e prestanome, seguitare a vivere negli interstizi del Capitalismo da calcio? Perché, se io non pago 23 euro di ticket al Pronto Soccorso, mi tartassano di lettere minatorie e alla fine mi spediscono a casa i sicari di Equitalia a richiedermi uno sproposito, e questo se ne va tranquillo e beato a dissanguare aziende, che per quanto legate al calcio, sempre aziende restano? Ma il Foggia è un capitale emotivo. E le domande rimangono sotto la cenere, perché il primo comandamento resta quello di salvare capre e cavoli. I perché, i percome, in una società che protegge e giustifica gli evasori totali, non trovano posto al tavolo delle trattative. Si invocano salvatori della patria. Si sparano nomi, si richiedono obblighi morali. Esposito barcolla. Detta un ultimatum: “ho bisogno di vedere le carte entro le 20, altrimenti non se ne fa nulla”, dichiara il 10 luglio. È pomeriggio e nessuno può dargli torto. Una vendita si fa con le carte. E qui non si tratta di una Vectra d’annata. È un affare da 4 milioni di euro complessivi. Mica i giambonetti del Pacinotti. Ma tutti tacciono. Tace Casillo, che allude di aver consegnato tutto il necessario. Tace il sindaco, che in un mese non è stato in grado di predisporre una commissione di periti per quantificare il danno al di fuori delle soggettività coinvolte. L’affare, ovviamente, salta. E Casillo gongola. Come ai tempi del Tribunale fallimentare di Napoli, come ai tempi della retrocessione in C1. L’inizio della fine. Quell’uomo non ha mai smesso di applicare, per l’US Foggia, il motto degli uxoricidi: “O mia o di nessun altro”. Ma Foggia, gonfia d’amore per quella maglietta, ha sempre dimenticato. O finto di farlo, tanto da tributargli, al rientro, un’accoglienza maestosa, regale. Certo, c’era la complicità di Zeman a schermare tutto. Ma c’era anche lui, su quel palco, all’Ariston. Fatto sta che la notte del 10 luglio scatta, per il Napoletano bancarottiere e fallito, un programma di protezione di tutto rispetto. La digos, per accompagnarlo nei suoi bisogni ordinari, due pattuglie della Polizia di Stato davanti al portone di casa per garantirne il sonno. Per me farebbero lo stesso? Per proteggermi dall’Ufficio delle Entrate, dico? O la protezione scatta solo da una certa cifra di debito in su? L’ultima trattativa, quella inscenata da un imprenditore genovese, fallisce miseramente in due giorni. Perché – dicono i legali – non c’è collaborazione e non si riesce a capire a quanto ammonti il buco di bilancio. Solita storia, dunque. Solita compiaciuta beffa.

A questo punto – e perdonate il sommario excursus – ai benpensanti e moralisti domando: come si ragiona, come si reagisce, quando sai di aver ragione – ragione da vendere – ma il sistema si chiude a riccio a difesa degli interessi di una cricca di speculatori e di incapaci in malafede? Ammesso che tu abbia fiducia nelle Istituzioni, a chi ti rivolgi quando ti rendi conto che la polizia sta proteggendo uno che è riuscito ad accumulare più di 2 milioni di debiti in due anni e sta per passarla liscia dopo aver affondato una società con 92 anni di storia?
Non voglio tornare sul silenzio complice degli editorialisti in gamba, degli opinionisti di razza, di quelli che snobbano il calcio, di quelli che lo ritengono oppio afghano allo stato puro e ripetono la storia dei circenses appena possono, che non hanno neppure provato a leggere dietro le righe di un ritorno che sapeva di sconquasso nel microcosmo dell’imprenditoria locale. Storie vecchie. Ma nel rumore di quel casco su quella faccia c’è tutta la rabbia e l’impotenza di un’agonia che nessuno ha voluto sbrogliare. Chi per calcolo – giusto o no, non mi interessa fare i conti in tasca a nessuno – chi per inerzia, chi per dilettantismo. Se la gente come Casillo fosse messa nelle condizioni di non nuocere, non sarebbe apparso nessun giustiziere all’orizzonte di corso Cairoli. Non ci sarebbe stato bisogno del vendicatore, che magari – ahilui! – ha pure le ore contate. E dovrà pagare, come pagano sempre quelli che non hanno tutele e ci mettono la faccia. A differenza dei marpioni da doppiofondo con la scorta e la pancia piena. Il rumore di quel casco liberatore – che, garantisco, una volta riprodotto sul filo dei telefoni fissi, di quelli mobili, delle pagine internet, ovunque ha scatenato gioia, risate e brindisi selvaggi – è l’espressione più pura della richiesta di rispetto a lungo invocata e puntualmente inevasa, in questi mesi e in questi anni. Siamo stati sfidati, insultati, oltraggiati, nell’intimo di una passione che può si sembrare futile e finanche dannosa a chi non la concepisce e non la capisce, ma che rappresenta un aspetto centrale della nostra identità. I ghigni, le risate, le veline lette dai parcheggiatori in tv, l’atteggiamento gradasso, tracotante, spocchioso, di chi non ha fatto passare giorno senza trasmettere disprezzo a chi, domenicalmente, ingrossava il suo portafogli con cifre da serie A, sono stati messi a conto. E i conti, poco alla volta, fortunatamente, si pagano. Ora, scandalizzatevi quanto volete. Per il gesto e la violenza. Ma poi, a mente fredda, sappiate anche mettere in fila il capo d’accusa per chi – casco o non casco – specula sulle passioni e riesce a farla franca.

11/07/12

Notte fonda




Io l’ho visto mio padre quando parlava del Foggia. Quando era un ragazzo. Quando aveva meno anni di me adesso. E un lavoro, una casa, una famiglia, due figli da crescere. Ho visto i suoi occhi. Secoli prima della prima in pay-tv, che per la A fu un Lazio-Foggia 0-0. Io, si. Li ho visti quegli occhi. Mobili, irrequieti. Sognanti. Innamorati. Solo gli stolti, papà, i superficiali, gli intellettuali da seghe in una bottega di barbiere, potrebbero cestinarli con una scrollata di spalle, di quelle magistrali. Di quelle che hanno imparato a fare in lustri di solitudine. Solo quella gente, da cui ci siamo sempre tenuti lontani come per sfuggire al sortilegio del benessere, potrebbe – sorridendo – irridere il tuo slancio. Fatti loro. La nostra gente è altra, e lo sappiamo. Quelli della Nord, quando ero un abbozzo di persona. Quelli che mi accudivano tutti attenti a non perdere un grammo virilità, come una famiglia di fatto. Quei mille maschi uno accanto all’altro: il geometra, il carpentiere, l’elettricista. Ognuno al proprio posto, sul cemento anonimo dei gradoni. Domenica dopo domenica. Avrei potuto tifare per la Juventus, che vinceva le Coppe che si giocavano a dicembre, di mattina presto, in Giappone. Avrei potuto tifare per il Milan, l’Inter, la Roma. Se non avessi visto gli occhi di mio padre. E quelli di mio zio, dei miei zii, di mio nonno. Se non avessi, senza saper leggere né scrivere, riconosciuto la grandezza del sogno che trasferivano al mondo.

Oggi sono stato fuori tutta la giornata. Fuori città, voglio dire. E il telefonino non smetteva di trillare. Messaggi e voci. Voci dei fratelli, di quelli della Nord, ancora una volta. Attorno avevo gli altri. Il mio gruppo, la mia ragion d’essere. Ad ogni squillo un sobbalzo. Ad ogni clic una domanda forsennata di notizie. “Pare che il Napoletano abbia occultato la debitoria”. “Pare che il nuovo acquirente si stia tirando indietro”. “Pare che i due soci del nuovo acquirente siano in realtà comparse del Napoletano”. “Pare che al Municipio stia succedendo il finimondo”. Moriamo, dicevamo tutti. Moriamo e basta, senza tirarla per le lunghe. Senza complicarci l’esistenza. La serie D, boh, non sappiamo neppure immaginarcela. La stagione all’inferno di quel poeta francese. Pare, dicono, ci sia il Grottaglie, la Fortis Trani. Pazienza. Anzi, senza Tessera, ai nostri posti. A far vedere chi siamo, cazzo! Ma ancora squilli, ancora voci. “Ci sta lasciando morire, quel pezzo di merda”. Ovvio. L’avevamo messo, nero su bianco, due anni fa. Quando i tifosi facevano tremare l’Ariston. “È venuto a vendicarsi di noi, – scrivevamo – di Foggia e dei foggiani”. Buh!, ci rispondeva la gente, volubile al sogno. Solubile ai sogni. In macchina abbiamo ripercorso la Statale 16, a ritroso, a tarda sera. Quando tutto era compiuto. “Per noi cambia poco”, ci siamo detti e ripetuti fino allo sfinimento. Un campetto di quinta serie vale quanto il “Meazza”. Servirà l’orgoglio. Lo sguardo dritto e invincibile di chi s’approccia alla piazza d’un paese come alla scala del calcio. Ci siamo fatti forza. Cambia davvero poco, per noi.

Poi, una volta a casa, a notte fonda, ho saputo. Ho saputo che papà aveva saputo. “E come ha reagito?”, ho chiesto. “Non ha detto niente – mi è stato risposto – è rimasto così, a fissare il vuoto”. Allora, e solo allora, ho sentito il dolore. Un dolore profondo, sottile, implacabile. E la rabbia. Tracimante, fertile, cupa. E il disprezzo. Totale, viscerale, senza alibi. Il disprezzo autentico. Perché non è niente. Per voi non sarà niente. Ma io li ho visti e me li ricordo, gli occhi di quel ragazzo di trent’anni che mi teneva sulle spalle mentre una ressa inenarrabile premeva per entrare. A vedere Foggia-Catanzaro. 

05/07/12

La regia occulta


“L´ultimo pensiero va ai giovani tifosi ricordando loro che Pasquale Casillo, la cui fedina penale è pulita, nel 1994 lasciò nelle casse del Foggia ben 54 miliardi di lire ed un importante patrimonio-calciatori, soldi che sono stati sperperati in pochi anni dalla curatela fallimentare, Dott. Buonomo, e dal segretario Sergio Canuti, anche per mantenere quegli stessi 20 tifosi che ancora oggi fomentano la piazza mentre allora restavano in silenzio”.(comunicato ufficiale Us Foggia) Verità assolute, inattaccabili, indiscutibili. Prese per archetipo. In città funziona così. Se fai qualcosa, bisogna capire per chi. A chi giova. E come ti ripaga. È il marchio di fabbrica massonico. L’idea che attaccare una consorteria implichi l’appartenenza alla consorteria opposta. Se dici che i Guelfi hanno ragione, allora hai un conto in banca rimpinguato dai Ghibellini. Non sei libero, qua, di non appartenere. Di estrometterti. Di pensare ai tuoi interessi. Foggia-Portogruaro, stagione del duo Porta-Pecchia, costò alle casse dei soci – vado a memoria – non meno di 7mila euro di multa. In campo, quella domenica, esplodeva una cipolla ogni quindici minuti. Una piazza stanca di umiliazioni, si disse. Col senno di poi, un’esagerazione che – presa in scala, in proporzione – adesso ci obbligherebbe a far saltare i portoni dei palazzi. Ma tralasciamo. Uno dei principali azionisti di quel Foggia dichiarò che una regia occulta pilotava la contestazione. Che un grande vecchio – stile Romanzo criminale – muoveva i fili. Voleva buttare fuori quella dirigenza in nome e per conto di altri interessi. E aggiunse che molti di quelli che contestavano erano sul libro paga della società. Un’accusa non certo nuova. Un canovaccio vecchio e sempre giovane. Ora la storia si ripete. La nostra acredine nei confronti del Napoletano è eterodossa, eterodiretta. Non siamo schietti. Prendiamo soldi da qualcuno. Apparteniamo a qualcuno. E basta la maldicenza, qualsiasi maldicenza, per far si che qualcuno ci creda. Del resto, non stiamo ascoltando quelli che stanno con le mani in mano chiedersi disperati e arrabbiati: “Che cosa fanno i gruppi organizzati? Dormono?”. No, aspettano il bonifico, verrebbe da rispondere.

30/05/12

Quelli e noi



[…]

Quelli che fanno una gerarchia dei motivi per cui si manifesta. E l’elenco delle storture è già un bollettino di guerra: il degrado, la criminalità organizzata, la violenza diffusa e generalizzata, lo sfruttamento nelle campagne, l’emergenza casa, le tasse, l’indifferenza, l’infelicità, l’obesità, gli Abbracci del Mulino Bianco.
Quelli che sopravvalutano il proprio ruolo, che si specchiano nel lago di Narciso e si vedono fondamentali, fin quasi determinanti. Tanto da dover scegliere se partecipare o meno alla marcia di Emergency per gli ospedali da campo nel Niger e motivarne pure i perché.
Quelli che – anteponendo  “nel mio piccolo” – spargono i semi di una rivolta di dubbio consenso, col culo piallato sulle sedie che arditamente fronteggiano i monitor.

I cattolici che dicono che non ha senso. In questo calcio. Per questo calcio.
Che gli dovresti rispondere: e la vendita delle indulgenze?
No, perché, se così fosse, allora voi non dovreste più fiatare da Bonifacio VIII.
Eppure mi pare, mi pare, che zitti non stiate. Che, anzi, quando qualcuno vi fa l’agopuntura, trasudate distinguo, con l’aria facciale perennemente scazzata di chi deve piegarsi a disquisire di ovvietà nel pantano. Coi porci. Il papa è un prete, i preti sono uomini, e gli uomini sono fallibili e peccano. Dite. E capre e cavoli sono sul bagnasciuga, in salvo.

Quelli del Partito democratico. Che vincono a Budrio e Garbagnate e tirano la testa fuori dal sacco, trionfanti. Che non hanno contatti umani neppure con l’edicolante, che dai tempi del Tv Sorrisi e Canzoni con l’inserto sull’Aids non danno più la mano manco ai radi conoscenti di congregazione. Che s’arricciano i baffi dinanzi alle superstizioni popolari. Poi sfornano primarie e s’interrogano sul perché perdono. E sono tentati dall’idea di indire un referendum per abolire il popolo che non capisce. Che non capisce proprio.

Quelli che saprebbero cosa fare. Ma, come i vampiri, hanno la pelle che si disfa al sole. O all’aria. E allora, come l’uomo fumetto dei Simpson, restano nella loro Springfield virtuale, a emanare editti inemendabili. “C’è la delinquenza a Foggia”, urlano costoro. Atteggiamo lo sguardo a sfiatato stupore e rispondiamo in coro: Ma dai! Roba da non crederci… E tu, tu? Quando manifesti contro la criminalità, tu? Quando è stata l’ultima volta?
Quelli che si sono autoproclamati giudici. Di un concorso di bellezza. Dinanzi a cui siamo chiamati a sfilare, in costume da bagno. Davanti ai loro occhi. O alle loro webcam. Dobbiamo farlo. Per sentirci inadeguati, piccoli, meschini, non all’altezza. Impegnati in battaglie sciocche, basse, dequalificate. Questa è gente che, quando sfila, sfila contro la Mafia, per la Pace nel mondo, per difendere i Capodogli dalle baleniere giapponesi. Questa è gente che sfila per le maiuscole. Con ottimi risultati visibili ad ogni eclissi solare totale.
Quelli che, come Saviano, non riescono a tacere una puttanata. Devono dirla. Farla. Poi, siccome l’ego è quello ch è, non possono tenerla nascosta tra quattro mura, dietro un armadio, tra le mensole di un mobile anni Ottanta dove troneggiano libri che nessuno leggerà mai. Devono rendere pubblico il loro parere. Nel nome della libertà, ovviamente. Del diritto di critica. O di una interpretazione equivoca di questa. Come se io mi arrogassi il diritto di seguirli, da quando escono dal portone a quando vi rientrano, a mo di Truman show. “Ma sai che fumi davvero male!?”.

Quelli che dicono: “Invece di pensare alle cose serie”.

Ecco chi sono quelli. Tutti questi. Si affollano attorno alla macina, girano come muli di fatica, scavano il solco. E, rispondendo ad un input in disuso, si indignano. Rispondiamo? Ma si, rispondiamo. Che l’Unione Sportiva Foggia, per noi, è un fatto serio. Serissimo. E noi dinanzi a ciò che riteniamo serio, serissimo, e in pericolo, manifestiamo. Cioè: scendiamo in strada, mettiamo i nostri corpi in piazza, le nostre facce su duemila iphone, fotocamere, macchinette professionali e telecamere dei tg, urliamo, sventoliamo bandiere, chiediamo che vengano presi provvedimenti, ci impuntiamo e teniamo d’occhio. Per quel che ci sta a cuore, è così. Per tutto quel che ci sta a cuore. Fate lo stesso anche voi, vero?
Ah, no, non più?
Beh, allora credo sia questo il nodo gordiano dell’intera vicenda. Non credete? Una specie di frustrata incomprensione spacciata per motivata critica.

Faccio per dire. A me il Gay pride sembra una manifestazione inutile e poco seria. Anche la parata del 2 giugno ai Fori. O la Pentecoste. Posso contestarle, criticarle. Certo. Ma solo – ed è questo che fa la differenza – nel nome di una pratica differente e contrapposta. Di una pratica, per l’appunto. Perché sono le pratiche, e non le tanto sopravvalutate idee, o peggio ancora i sogni, a fare il politico. O a rattoppare il sociale. A casa le teorie vengono bene come le riposte ai quiz televisivi. A casa i concetti si incastrano l’uno all’altro come in un affratellante, entusiasmante puzzle. Che ci si domanda: “Com’è che non lo capiscono i diretti interessati?”. Com’è che in Siria seguitano a reprimere la rivolta? Com’è che israeliani e palestinesi non si accordano? Com’è che all’Eurofestival non si accorgono che si vota per contiguità geografica e non per merito? Parli di classe operaia per sentito dire, poi ti capita di picchettare per diverse notti la più grande fabbrica d’Europa. E capisci che tra quel che bisognerebbe fare e la sua concreta realizzazione, di mezzo ci sono le condizioni oggettive, il contesto reale e quello percepito, l’immaginario collettivo e, non da ultimo, il proprio impegno diretto. Senza mediazioni. Perché di grilli parlanti a predicare e sentenziare ce ne sono più di due o tre. E frantumano le palle.

Esagerato? Tutto questo sproloquio per giustificare un corteo di ultras e di tifosi? Non credo. No. Nel senso che mai nessuno s’è sentito in dovere di giustificare alcunché. Ci mancherebbe altro. È antropologia culturale, questa. Esperimento in cattività. Spalancare d’improvviso le finestre ai saggi della montagna. E vedere come la primavera li mandi nel panico.

02/04/12

Una storia d’amore e incoerenza


Ci sono storie incoerenti. Tutte le storie d’amore, a pensarci, lo sono. Perché spazzano via il già detto, il definito, il concluso ed ogni altra costruzione metafisica con la quale giustifichiamo lo scorrere casuale della nostra vita e lo riempiamo di senso. Perché stravolgono l’orizzonte dei valori e ratificano leggi nuove, col piglio dittatoriale d’un quadrunviro. Anche gli amori passati fanno così, quando annusano l’onda di ritorno e s’abbattono sul bagnasciuga. E l’amore d’un tempo, in questo caso, è una casacca a righe rosse e nere. Una città vista con gli occhi dell’adolescenza. In estasi, nell’epicentro esatto di un sogno collettivo. Fatto di imprese allo “Zaccheria”, ma anche di lunghe passeggiate in branco tra quello che vendeva gli scagliozzi all’angolo di via dei Cappuccini e la pizzeria di via Manzoni, dove una sera si e una no potevi incontrare Padalino. E con lui, qualche suo compagno di squadra. Di quella squadra a conduzione domestica che stava scalando la cadetteria. Non ricordo luminarie, lampioni. E neppure tante partite in notturna. A parte la Roma, in Coppa Italia. Ma i nomi di battesimo e i cognomi di tutti i giocatori. E le facce di quasi tutti. Quando il mercato del venerdì arrivava a lambire le porte della tribuna vecchia, nell’epoca che ha preceduto la riconversione di tutti gli impianti sportivi a stadi di massima sicurezza. E Barone, Porro, Napoli, finivano l’allenamento mattutino e tornavano a casa a piedi. Tagliando tra le bancarelle, parlando con la gente, a volte acquistando pure qualcosa. Calciatori. Che stavano spezzando la schiena alla seconda serie del campionato italiano. Quando il campionato italiano imponeva un tributo di sangue sull’Europa intera. Che al confronto, quei viziati del cazzo che oggi arrancano in Lega Pro e s’atteggiano a divi da movida sembrano degni solo di svuotargli gli orinali. Foggia li adorava di un culto pagano, invadente e morboso. Un culto ancora limpido, lontano anni luce dall’idea delle televisioni a pagamento. E loro rispondevano da uomini. Anni prima del Solo per la Maglia, ognuno di loro aveva un coro in Sud. Ognuno di loro si voltava a salutarci, prima di tuffarsi in una battaglia che sapeva di sudore e dopobarba, di fango e gesso. A Foggia cadevano le corazzate. Eravamo puri. Non sapevamo neppure che esistesse la Tritium. Per vincere 6 volte allo “Zaccheria” dovevi vendere l’anima a Lucifero. O percorrere a ritroso, a piedi, la via Francigena. A seconda delle preferenze religiose. La domenica alle due e mezza, o alle tre, o alle quattro, in ventimila sbuffavano sul campo, come un toro mitologico. In simbiosi. In ventimila si scheggiavano le corde vocali e sputavano fuoco e vetro sul rettangolo verde. E quelli, quegli undici laggiù, non erano dei semplici numeri a casaccio. Non c’erano i 44, i 66, gli 88, a gratificare l’ego di chi vive dando due calci al pallone. Perché il singolo non contava. Contava il gruppo, avanguardia autorizzata d’una città innamorata allo sfinimento. Eppure, quei numeretti bianchi dall’1 all’11, dal 12 al 16, li conoscevamo tutti. Consagra abitava dietro casa, all’angolo di Porta Manfredonia. Certe sere gli lasciavamo scritte d’incoraggiamento sul muro di fronte. Oggi non saprei distinguere Lanzoni da Cardin. E neppure mi interessa farlo. L’anno prossimo saranno al Fiorenzuola, all’Albinoleffe o a fanculo. E neppure ci ricorderemo d’averli avuti “tra noi”. Succedeva anche prima, è ovvio. Ma il segno lasciato era di carne e passione. Non di carta straccia. Quando non di carta riciclata alla Snai. Ricordo alla perfezione il rumore dei tacchetti sulla tibia del generoso Limone, a Brindisi, il giorno in cui finì la sua carriera. Ricordo Orati, alto che sembrava uno zio di paese, quando correva verso la panchina ad esultare. A braccia aperte e basse. Ricordo quanto piansi quando Fabio Fratena abbandonò il campo in barella, a Caserta. Ricordo Ciucci-Abate-DeMarco. Ricordo la vigilia dell’esordio a Como, per una B attesa 6 lunghi anni. E il gol di Baiano a Salerno, che li sprofondò in C1. E non ricordo quanto abbiamo fatto col Monza in casa, quest’anno. Qualche domenica fa. Ma sia chiaro, non sto parlando da vecchio del tempo della perfezione. Mio padre mi diceva anche ai tempi che prima era tutto diverso, tutto più bello. Però quella squadra, quella città, quella mia età, mi fanno una nostalgia che fa quasi rabbia. E stamattina ho pensato a tutto questo, mentre una bara piena di sciarpe mi sfilava dinanzi. Ma non per semplice accostamento di idee. No. Perché quella squadra, quella città, quella mia età che mi fanno rabbia e nostalgia, avevano un portiere. Il suo nome era Franco Mancini. E quando, alle mie spalle, è partito il coro, lo stesso che lo invocava prima d’ogni battaglia, lo stesso che lo faceva voltare per salutarci, non ho pensato alla coerenza, alle costruzioni metafisiche che danno senso alla vita ammortizzandola, al Solo per la Maglia. Ho pensato all’amore che stravolge le abitudini. Ho pensato che era giusto così. E ho cantato per lui. Per l’estremo difensore di un’epoca.

26/03/12

Il ritorno e il drappo



Credevo di non sbagliarmi, ieri, quando dicevo che l’ultima fu con la Triestina. Cinque a uno per noi. E alla fine la festa. La promozione in A. 19 maggio 1991. La fine del conto alla rovescia. Una promozione annunciata, prevista, tanto che in gradinata c’erano degli spazi vuoti agli angoli estremi. Vuoti che, comunque, lo ricordo, all’epoca mi fecero inorridire. In nulla, quella scalata, fu paragonabile allo scoppio d’adrenalina che due anni prima aveva salutato, per le vie della città, l’impresa di Trapani. Sul foto-finish della C1. Ma quella con la Triestina, col bandierone che salutava gli spalti per il giro d’onore, con migliaia di bandiere a sventolare tutto intorno, mi sento di rettificare, non fu l’ultima volta in curva Nord. L’ultima fu la stagione successiva, in massima serie. Sempre 1991. Il giorno dell’Immacolata. Uno zero a zero con la Sampdoria di cui ricordo, a stento, un rigore di Vialli finito sulla traversa e poi sulla linea. Ovvio che tornasse alla mente con più nitidezza il 5-1 ai giuliani. Con la festa attorno che, trasposta, diventava il mio party d’addio alla curva che mi aveva accolto da bambino. E mi aveva trasformato in un ragazzo, pronto a saltare il fosso della maturità in Sud. Dove c’era il Regime. Gli ultras, quelli che guardavo sventolare, ritmare battimani, appendere striscioni, accendere torce e fumogeni, battere su file di tamburi rossoneri da parte a parte. O quasi. Il passaggio doveva avere, nella mia ricostruzione fantasiosa, i tratti epici di un fuoco d’artificio. Ma il ricordo del gol di quel tale Signori all’Ascoli e soprattutto il derby con il Bari da una prospettiva inequivocabile, mi hanno spinto a riordinare i termini.
E, dopo i calendari su Wikipedia, mi vedo costretto ad accontentarmi della realtà. Dell’anonimato di un Foggia-Samp finito a reti inviolate. Perché può essere anonima anche una partita di A, con 20mila e passa spettatori a picco sul campo.

Ieri ci sono tornato. Con un po’ di ritardo sul previsto. Ma la signora del sesto piano aveva preparato la parmigiana e in tanti attendevano sull’uscio dello stabile. Il drappo nero al vento. No alla Tessera. Figuriamoci. La prima volta che misi piede nella curva che da su viale Ofanto gli steward si chiamavano staccabiglietti, i biglietti erano tagliandi anonimi e si potevano fare anche dopo aver finito le tagliatelle, la braciola, le paste del Catalano, il caffè e l’ammazzacaffè, i bambini entravano a frotte scomposte, i genitori si portavano le radioline da casa per controllare il Totocalcio, il settore ospiti era un posto a caso riconoscibile da una linea di celerini agghindati sul modello Scelba. Ma poi, gli ospiti non c’erano quasi mai. Oggi ci sono i carabinieri. Annoiati e inflessibili, perché la Lega calcio ha sostanzialmente sentenziato che Foggia non è una città egiziana. Si deve utilizzare quel coso lì, il tornello. E il tornello non è un uomo che ragiona, come avrebbe detto Totò a Peppino. La Lega non deve sapere da dove entriamo oggidì, che sennò. Allora si smaltisce la fila. Duecento persone. Come creare un ingorgo sulla superstrada che taglia Pyongyang con sette Miniminor. Manco in Inghilterra, per prendere l’autobus. Fatto sta che, superata la Vergine di Norimberga, mi attardo. A guardare quel cemento armato che mi ricorda, come le rovine di Arpi, chi sono e da dove vengo. Ma i chekpoint sono frequenti. In densità, saranno poco meno che in Cisgiordania. Le vetrate poi. Vado in bagno. Mi emoziono finanche a vedere quei cessi. Quanto tempo è passato, porco Giuda! Com’è che siamo giunti a questo? Dove eravamo mentre succedeva? Salgo per ultimo. E la forza dei tempi andati mi porta a ricercare il posto dell’infanzia. Ma c’è un vetro alto e insuperabile tra me e i miei ricordi. Una metafora del calcio moderno. Questo sport che si gioca nel deserto tecnologico. Il Foggia, dicono, vince 1-0. Bene. Anzi, fa niente. I miei amici sono lì, a mezze maniche e col sole in faccia. Un bambino accanto a me. Un nonno con la giacca. Li guardo entrambi. Cantiamo per tutto il tempo, come sempre. Senza colori, senza tamburi, senza megafoni. Il drappo contro la tessera s’agita al vento, al settimo piano di un palazzo dove gli sbirri non possono entrare. A dimostrare che la repressione delle passioni è una forma d’ottusità mentale. La stessa che ha trasformato questo stadio nello spettro di se stesso. E noialtri in Mohicani. Eppure. La nostra fede infinita, tu sei e sarai sempre la mia vita.

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