10/01/12

Il boato in una stanza

Caro giocatore.
Tu questa piazza puoi dire di non averla mai vista.
È malessere diffuso, è così ovunque.
Capienze limitate, televisioni onnipresenti, pacchetti Sky.
Divieti e denunce.
Ma noto che si dice ancora. “Foggia è una piazza calda”. E di solito si scade nel topos letterario. Nel luogo comune, in uno di quegli angoli argomentativi che a voialtri – di solito – tanto piacciono per riempire di nulla le interviste.
Ma, come tutte le leggende di cui si tramandano pezzi, anche questa ha un suo perché.
Degli appigli concreti.
Se lo chiedi a mio padre, ti parlerà degli anni Settanta, dell’Inter di Herrera schiantata nel catino dello Zaccheria. Se lo chiedi a mio zio o al bambino che ero, ti narrerà la meraviglia degli anni Ottanta, dei ventimila e passa che sconfissero il Cagliari e riportarono in cadetteria una città; che poi erano gli stessi di sempre, che di fronte ci fosse il Francavilla o l’Ischia Isolaverde. Se lo chiedi a me, all’adolescente, ti racconterei il delirio della massima serie, del terreno che tremava quando la Sud saltava. Tre adulti a metro quadro. Se lo chiedi a mio cugino, ai miei amici, ti racconteranno della C2, di un girone infernale, delle notti in cui Foggia sembrava l’Uruguay.
Ma a te, calciatore, poco interesserebbe, probabilmente.
Ti hanno detto che Foggia è una piazza calda, lo ripeti per farci contenti e magari – visto che vieni da Lumezzane o da Pavia, con tutto il rispetto dovuto – magari quel che hai visto in questi due anni te lo ha finanche confermato.
Ma non hai visto niente, te lo garantisco.

Domenica hai espugnato Benevento. Eri tra i nove che per cinquanta e passa minuti si sono difesi dagli assalti degli stregoni. E che a cinque dalla fine hanno punito i giallorossi.
Alla fine abbracci e baci, poi la corsa sotto il settore ospiti.
L’hai visto, no, il settore ospiti… Quelle tovaglie appese, quelle bandiere, quelle cento persone scarse vestite in cento modi diversi. Magari per te, che non sai, quelli sono i tifosi che da sempre, invariabilmente, seguono il Foggia in trasferta. E ti sembrerà normale, visto che questa è la terza serie. Ma quella curva del Santa Colomba, in altri tempi, sarebbe stata stracolma, traboccante di una passione inarginabile. Certo, quei cento ci sarebbero stati lo stesso, ma l’effetto d’insieme t’avrebbe sconvolto.
Ecco cosa mi cruccia: l’impresa che hai compiuto domenica l’avremmo dovuta vivere assieme. E poi raccontarla, noialtri, per mesi che diventano anni, circondata dall’alone mistico che è proprio dei cantastorie. Invece, sai, le leggi assurde di questo Paese alla rovescia ci costringono a casa, a guardare distrattamente la partita su uno schermo televisivo. Da quindici mesi, ormai. Eppure – ripeto – avresti dovuto vederci, domenica. Avresti dovuto sentire il boato in una stanza per comprendere, come l’abbiamo capito noi, quanto di quella maglia siamo ancora innamorati.
Ieri mattina sono uscito. I soliti servizi, il lavoro precario. Bene. Da piazza San Francesco a via Zuppetta non ho incontrato altro che gente che voleva parlare della tua, della vostra vittoria a Benevento. In nove contro undici. Roba da epica. E per l’intero tragitto non ho fatto che ascoltare gente di tutte le età che da un lato all’altro della strada urlava pezzi di frase con un solo contenuto.
E un po’, lo ammetto, mi sono venuti i brividi.
Ho ripensato allo Zaccheria. A com’era. E alle strade di questa città. A com’erano quando lo Zaccheria era lo Zaccheria. E non ho potuto fare a meno di riflettere. Domenica saremo ai nostri posti, nell’unico angolo di questo amore ancora praticabile. Non è giusto, ma ormai ci siamo stancati anche di ripeterlo, di passare per vittime di un sistema al massacro. Grideremo il nome della nostra squadra, della nostra città. Non il tuo, calciatore, perché tu per noi non sei che un bene fungile, un pezzo intercambiabile. Però, nella gratitudine che pure sappiamo esprimere, mi spiace davvero che tu non possa andare in giro a dire d’aver visto questa piazza. Che tu non possa dire ai tuoi colleghi: “Cazzo, Foggia si che è una cosa diversa”.

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