26/03/12

Il ritorno e il drappo



Credevo di non sbagliarmi, ieri, quando dicevo che l’ultima fu con la Triestina. Cinque a uno per noi. E alla fine la festa. La promozione in A. 19 maggio 1991. La fine del conto alla rovescia. Una promozione annunciata, prevista, tanto che in gradinata c’erano degli spazi vuoti agli angoli estremi. Vuoti che, comunque, lo ricordo, all’epoca mi fecero inorridire. In nulla, quella scalata, fu paragonabile allo scoppio d’adrenalina che due anni prima aveva salutato, per le vie della città, l’impresa di Trapani. Sul foto-finish della C1. Ma quella con la Triestina, col bandierone che salutava gli spalti per il giro d’onore, con migliaia di bandiere a sventolare tutto intorno, mi sento di rettificare, non fu l’ultima volta in curva Nord. L’ultima fu la stagione successiva, in massima serie. Sempre 1991. Il giorno dell’Immacolata. Uno zero a zero con la Sampdoria di cui ricordo, a stento, un rigore di Vialli finito sulla traversa e poi sulla linea. Ovvio che tornasse alla mente con più nitidezza il 5-1 ai giuliani. Con la festa attorno che, trasposta, diventava il mio party d’addio alla curva che mi aveva accolto da bambino. E mi aveva trasformato in un ragazzo, pronto a saltare il fosso della maturità in Sud. Dove c’era il Regime. Gli ultras, quelli che guardavo sventolare, ritmare battimani, appendere striscioni, accendere torce e fumogeni, battere su file di tamburi rossoneri da parte a parte. O quasi. Il passaggio doveva avere, nella mia ricostruzione fantasiosa, i tratti epici di un fuoco d’artificio. Ma il ricordo del gol di quel tale Signori all’Ascoli e soprattutto il derby con il Bari da una prospettiva inequivocabile, mi hanno spinto a riordinare i termini.
E, dopo i calendari su Wikipedia, mi vedo costretto ad accontentarmi della realtà. Dell’anonimato di un Foggia-Samp finito a reti inviolate. Perché può essere anonima anche una partita di A, con 20mila e passa spettatori a picco sul campo.

Ieri ci sono tornato. Con un po’ di ritardo sul previsto. Ma la signora del sesto piano aveva preparato la parmigiana e in tanti attendevano sull’uscio dello stabile. Il drappo nero al vento. No alla Tessera. Figuriamoci. La prima volta che misi piede nella curva che da su viale Ofanto gli steward si chiamavano staccabiglietti, i biglietti erano tagliandi anonimi e si potevano fare anche dopo aver finito le tagliatelle, la braciola, le paste del Catalano, il caffè e l’ammazzacaffè, i bambini entravano a frotte scomposte, i genitori si portavano le radioline da casa per controllare il Totocalcio, il settore ospiti era un posto a caso riconoscibile da una linea di celerini agghindati sul modello Scelba. Ma poi, gli ospiti non c’erano quasi mai. Oggi ci sono i carabinieri. Annoiati e inflessibili, perché la Lega calcio ha sostanzialmente sentenziato che Foggia non è una città egiziana. Si deve utilizzare quel coso lì, il tornello. E il tornello non è un uomo che ragiona, come avrebbe detto Totò a Peppino. La Lega non deve sapere da dove entriamo oggidì, che sennò. Allora si smaltisce la fila. Duecento persone. Come creare un ingorgo sulla superstrada che taglia Pyongyang con sette Miniminor. Manco in Inghilterra, per prendere l’autobus. Fatto sta che, superata la Vergine di Norimberga, mi attardo. A guardare quel cemento armato che mi ricorda, come le rovine di Arpi, chi sono e da dove vengo. Ma i chekpoint sono frequenti. In densità, saranno poco meno che in Cisgiordania. Le vetrate poi. Vado in bagno. Mi emoziono finanche a vedere quei cessi. Quanto tempo è passato, porco Giuda! Com’è che siamo giunti a questo? Dove eravamo mentre succedeva? Salgo per ultimo. E la forza dei tempi andati mi porta a ricercare il posto dell’infanzia. Ma c’è un vetro alto e insuperabile tra me e i miei ricordi. Una metafora del calcio moderno. Questo sport che si gioca nel deserto tecnologico. Il Foggia, dicono, vince 1-0. Bene. Anzi, fa niente. I miei amici sono lì, a mezze maniche e col sole in faccia. Un bambino accanto a me. Un nonno con la giacca. Li guardo entrambi. Cantiamo per tutto il tempo, come sempre. Senza colori, senza tamburi, senza megafoni. Il drappo contro la tessera s’agita al vento, al settimo piano di un palazzo dove gli sbirri non possono entrare. A dimostrare che la repressione delle passioni è una forma d’ottusità mentale. La stessa che ha trasformato questo stadio nello spettro di se stesso. E noialtri in Mohicani. Eppure. La nostra fede infinita, tu sei e sarai sempre la mia vita.

18/03/12

The dark side of the sun

Non ci siamo. Anzi, siamo così lontani dall’esserci che quasi quasi non riusciamo neppure più a immaginarlo. Parlare adesso di una trasferta ad Avellino ha più o meno lo stesso sapore che sentirsi raccontare la battaglia di Calatafimi. Da Benigni o da un altro. Ci siamo abituati, dicono in tanti. Tanti, assuefatti come noi a queste domeniche così. Vuote e spoglie. Poi oggi c’è pure il sole. E il sole, nel suo lato nascosto e malinconico, parla. Ti dice nell’orecchio che non puoi restare chiuso in una stanza a vedere uno stadio vuoto e undici svogliati idioti vestire indegnamente la maglia che porti cucita sul petto. È un insulto alla vita. The dark side of the sun. Il sole ha lo strano, ironico effetto di farti capire che la vita è altrove. Sa di scampagnate, di Paludi a Margherita coi fenicotteri in volo, di Castel del Monte, di bar sul mare. Ma non è manco quello, il punto. È che, nonostante l’epica inganni i sensi, è passato troppo poco tempo in realtà da quei furgoni che scivolavano sulle autostrade, sulle statali, sulle provinciali, verso i risultati che contano allo scadere della stagione, le prove di cuore e di voce, le piazze coi bar delle sbronze. Un vecchio. Sono un vecchio che ripete sempre le stesse cose, lo so. Ma il guaio è che perdere 4-0 ad Avellino col sole fuori dalla stanza, non è la stessa cosa. Anzi, sembra quasi niente. Non fa quasi effetto. E non dovrebbe essere così. Avellino è qui, dietro l’angolo. È una rivale. Magari non proprio di quelle non ci dormi la notte pensandoci, ma comunque una rivale. Uno stadio nobile, un terreno nemico. Non puoi prenderne quattro e parlare del sole. Con questa leggerezza. E, seduto alla sedia o sdraiato su un divano, pensare – guardando i tuoi che non riescono a stoppare un pallone – che sarebbe bello mettersi in macchina e andare fino allo svincolo per accoglierli degnamente, questi eroi che stanno grattando l’ultima patina di gloria da una volontà ormai assopita. Ma poi ci pensi, e fai spallucce. Constatare che effettivamente non ti frega, ti duole. Che cambia? Che cambierebbe? Ti viene da dire: “In altri tempi sarebbe stato un eccidio”. Poi rifletti sull’incipit e ti senti un vecchio. Un fastidioso vecchio monotematico. Oggi due ceffoni di ramanzina ad un calciatore che se ne infischia della tua passione e magari si scommette pure il risultato, finiscono sulla stampa. E fanno il rumore dello scandalo più dei nostri Rambo che aprono il fuoco sui pescatori nel mar dell’India. Il sole ti invoglia a cedere. O evidenzia che hai già ceduto. O stai per farlo. Come la digos. Che, eseguendo i dettami di una legislazione d’emergenza in assenza d’emergenza, seguita alacremente a stringere il filo spinato attorno a quella che – si, un tempo – era la liberazione domenicale del popolo. Niente bandiere, niente striscioni, niente fumo, niente colore. Quindici euro a cranio per guardare esclusivamente la partita. Quei bidoni di cherosene in mezzo al campo, che a trent’anni suonati arrotondano. Niente tifosi ospiti, niente trasferte primaverili. Niente di niente. Una sedia, o un divano magari, a vedere il Partenio vuoto. E il sole fuori. E a sentirti vecchio. Non si molla, non si cede, pensi. Anche se non sai più perché. Nel nome di quale strategia. Ti guardi attorno e vedi la gente. E pensi: come fanno a non accorgersi, tutti quanti, che questi hanno rovinato, distrutto, una delle gioie della vita? Così, per il bene di quattro mercanti di televisioni e quattro pezzenti a capo di altrettanti istituti bancari. Ricordo il mare sulla destra, l’apprensione e l’adrenalina al pensiero di poter/voler incrociare i pescaresi. O la felicità infantile di sapere che mancano 3 chilometri a Terni. L’ilare indescrivibile emozione di un coro nell’abitacolo, mentre attorno scorre la campagna emiliana. O i cellulari che trillano, mentre ci inquadriamo per entrare a Verona. Senza scorta. Lì il sole aveva un senso. Oggi è il testimonial muto di un giorno buttato. Un giorno come un altro.

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