02/04/12

Una storia d’amore e incoerenza


Ci sono storie incoerenti. Tutte le storie d’amore, a pensarci, lo sono. Perché spazzano via il già detto, il definito, il concluso ed ogni altra costruzione metafisica con la quale giustifichiamo lo scorrere casuale della nostra vita e lo riempiamo di senso. Perché stravolgono l’orizzonte dei valori e ratificano leggi nuove, col piglio dittatoriale d’un quadrunviro. Anche gli amori passati fanno così, quando annusano l’onda di ritorno e s’abbattono sul bagnasciuga. E l’amore d’un tempo, in questo caso, è una casacca a righe rosse e nere. Una città vista con gli occhi dell’adolescenza. In estasi, nell’epicentro esatto di un sogno collettivo. Fatto di imprese allo “Zaccheria”, ma anche di lunghe passeggiate in branco tra quello che vendeva gli scagliozzi all’angolo di via dei Cappuccini e la pizzeria di via Manzoni, dove una sera si e una no potevi incontrare Padalino. E con lui, qualche suo compagno di squadra. Di quella squadra a conduzione domestica che stava scalando la cadetteria. Non ricordo luminarie, lampioni. E neppure tante partite in notturna. A parte la Roma, in Coppa Italia. Ma i nomi di battesimo e i cognomi di tutti i giocatori. E le facce di quasi tutti. Quando il mercato del venerdì arrivava a lambire le porte della tribuna vecchia, nell’epoca che ha preceduto la riconversione di tutti gli impianti sportivi a stadi di massima sicurezza. E Barone, Porro, Napoli, finivano l’allenamento mattutino e tornavano a casa a piedi. Tagliando tra le bancarelle, parlando con la gente, a volte acquistando pure qualcosa. Calciatori. Che stavano spezzando la schiena alla seconda serie del campionato italiano. Quando il campionato italiano imponeva un tributo di sangue sull’Europa intera. Che al confronto, quei viziati del cazzo che oggi arrancano in Lega Pro e s’atteggiano a divi da movida sembrano degni solo di svuotargli gli orinali. Foggia li adorava di un culto pagano, invadente e morboso. Un culto ancora limpido, lontano anni luce dall’idea delle televisioni a pagamento. E loro rispondevano da uomini. Anni prima del Solo per la Maglia, ognuno di loro aveva un coro in Sud. Ognuno di loro si voltava a salutarci, prima di tuffarsi in una battaglia che sapeva di sudore e dopobarba, di fango e gesso. A Foggia cadevano le corazzate. Eravamo puri. Non sapevamo neppure che esistesse la Tritium. Per vincere 6 volte allo “Zaccheria” dovevi vendere l’anima a Lucifero. O percorrere a ritroso, a piedi, la via Francigena. A seconda delle preferenze religiose. La domenica alle due e mezza, o alle tre, o alle quattro, in ventimila sbuffavano sul campo, come un toro mitologico. In simbiosi. In ventimila si scheggiavano le corde vocali e sputavano fuoco e vetro sul rettangolo verde. E quelli, quegli undici laggiù, non erano dei semplici numeri a casaccio. Non c’erano i 44, i 66, gli 88, a gratificare l’ego di chi vive dando due calci al pallone. Perché il singolo non contava. Contava il gruppo, avanguardia autorizzata d’una città innamorata allo sfinimento. Eppure, quei numeretti bianchi dall’1 all’11, dal 12 al 16, li conoscevamo tutti. Consagra abitava dietro casa, all’angolo di Porta Manfredonia. Certe sere gli lasciavamo scritte d’incoraggiamento sul muro di fronte. Oggi non saprei distinguere Lanzoni da Cardin. E neppure mi interessa farlo. L’anno prossimo saranno al Fiorenzuola, all’Albinoleffe o a fanculo. E neppure ci ricorderemo d’averli avuti “tra noi”. Succedeva anche prima, è ovvio. Ma il segno lasciato era di carne e passione. Non di carta straccia. Quando non di carta riciclata alla Snai. Ricordo alla perfezione il rumore dei tacchetti sulla tibia del generoso Limone, a Brindisi, il giorno in cui finì la sua carriera. Ricordo Orati, alto che sembrava uno zio di paese, quando correva verso la panchina ad esultare. A braccia aperte e basse. Ricordo quanto piansi quando Fabio Fratena abbandonò il campo in barella, a Caserta. Ricordo Ciucci-Abate-DeMarco. Ricordo la vigilia dell’esordio a Como, per una B attesa 6 lunghi anni. E il gol di Baiano a Salerno, che li sprofondò in C1. E non ricordo quanto abbiamo fatto col Monza in casa, quest’anno. Qualche domenica fa. Ma sia chiaro, non sto parlando da vecchio del tempo della perfezione. Mio padre mi diceva anche ai tempi che prima era tutto diverso, tutto più bello. Però quella squadra, quella città, quella mia età, mi fanno una nostalgia che fa quasi rabbia. E stamattina ho pensato a tutto questo, mentre una bara piena di sciarpe mi sfilava dinanzi. Ma non per semplice accostamento di idee. No. Perché quella squadra, quella città, quella mia età che mi fanno rabbia e nostalgia, avevano un portiere. Il suo nome era Franco Mancini. E quando, alle mie spalle, è partito il coro, lo stesso che lo invocava prima d’ogni battaglia, lo stesso che lo faceva voltare per salutarci, non ho pensato alla coerenza, alle costruzioni metafisiche che danno senso alla vita ammortizzandola, al Solo per la Maglia. Ho pensato all’amore che stravolge le abitudini. Ho pensato che era giusto così. E ho cantato per lui. Per l’estremo difensore di un’epoca.

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