30/05/12

Quelli e noi



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Quelli che fanno una gerarchia dei motivi per cui si manifesta. E l’elenco delle storture è già un bollettino di guerra: il degrado, la criminalità organizzata, la violenza diffusa e generalizzata, lo sfruttamento nelle campagne, l’emergenza casa, le tasse, l’indifferenza, l’infelicità, l’obesità, gli Abbracci del Mulino Bianco.
Quelli che sopravvalutano il proprio ruolo, che si specchiano nel lago di Narciso e si vedono fondamentali, fin quasi determinanti. Tanto da dover scegliere se partecipare o meno alla marcia di Emergency per gli ospedali da campo nel Niger e motivarne pure i perché.
Quelli che – anteponendo  “nel mio piccolo” – spargono i semi di una rivolta di dubbio consenso, col culo piallato sulle sedie che arditamente fronteggiano i monitor.

I cattolici che dicono che non ha senso. In questo calcio. Per questo calcio.
Che gli dovresti rispondere: e la vendita delle indulgenze?
No, perché, se così fosse, allora voi non dovreste più fiatare da Bonifacio VIII.
Eppure mi pare, mi pare, che zitti non stiate. Che, anzi, quando qualcuno vi fa l’agopuntura, trasudate distinguo, con l’aria facciale perennemente scazzata di chi deve piegarsi a disquisire di ovvietà nel pantano. Coi porci. Il papa è un prete, i preti sono uomini, e gli uomini sono fallibili e peccano. Dite. E capre e cavoli sono sul bagnasciuga, in salvo.

Quelli del Partito democratico. Che vincono a Budrio e Garbagnate e tirano la testa fuori dal sacco, trionfanti. Che non hanno contatti umani neppure con l’edicolante, che dai tempi del Tv Sorrisi e Canzoni con l’inserto sull’Aids non danno più la mano manco ai radi conoscenti di congregazione. Che s’arricciano i baffi dinanzi alle superstizioni popolari. Poi sfornano primarie e s’interrogano sul perché perdono. E sono tentati dall’idea di indire un referendum per abolire il popolo che non capisce. Che non capisce proprio.

Quelli che saprebbero cosa fare. Ma, come i vampiri, hanno la pelle che si disfa al sole. O all’aria. E allora, come l’uomo fumetto dei Simpson, restano nella loro Springfield virtuale, a emanare editti inemendabili. “C’è la delinquenza a Foggia”, urlano costoro. Atteggiamo lo sguardo a sfiatato stupore e rispondiamo in coro: Ma dai! Roba da non crederci… E tu, tu? Quando manifesti contro la criminalità, tu? Quando è stata l’ultima volta?
Quelli che si sono autoproclamati giudici. Di un concorso di bellezza. Dinanzi a cui siamo chiamati a sfilare, in costume da bagno. Davanti ai loro occhi. O alle loro webcam. Dobbiamo farlo. Per sentirci inadeguati, piccoli, meschini, non all’altezza. Impegnati in battaglie sciocche, basse, dequalificate. Questa è gente che, quando sfila, sfila contro la Mafia, per la Pace nel mondo, per difendere i Capodogli dalle baleniere giapponesi. Questa è gente che sfila per le maiuscole. Con ottimi risultati visibili ad ogni eclissi solare totale.
Quelli che, come Saviano, non riescono a tacere una puttanata. Devono dirla. Farla. Poi, siccome l’ego è quello ch è, non possono tenerla nascosta tra quattro mura, dietro un armadio, tra le mensole di un mobile anni Ottanta dove troneggiano libri che nessuno leggerà mai. Devono rendere pubblico il loro parere. Nel nome della libertà, ovviamente. Del diritto di critica. O di una interpretazione equivoca di questa. Come se io mi arrogassi il diritto di seguirli, da quando escono dal portone a quando vi rientrano, a mo di Truman show. “Ma sai che fumi davvero male!?”.

Quelli che dicono: “Invece di pensare alle cose serie”.

Ecco chi sono quelli. Tutti questi. Si affollano attorno alla macina, girano come muli di fatica, scavano il solco. E, rispondendo ad un input in disuso, si indignano. Rispondiamo? Ma si, rispondiamo. Che l’Unione Sportiva Foggia, per noi, è un fatto serio. Serissimo. E noi dinanzi a ciò che riteniamo serio, serissimo, e in pericolo, manifestiamo. Cioè: scendiamo in strada, mettiamo i nostri corpi in piazza, le nostre facce su duemila iphone, fotocamere, macchinette professionali e telecamere dei tg, urliamo, sventoliamo bandiere, chiediamo che vengano presi provvedimenti, ci impuntiamo e teniamo d’occhio. Per quel che ci sta a cuore, è così. Per tutto quel che ci sta a cuore. Fate lo stesso anche voi, vero?
Ah, no, non più?
Beh, allora credo sia questo il nodo gordiano dell’intera vicenda. Non credete? Una specie di frustrata incomprensione spacciata per motivata critica.

Faccio per dire. A me il Gay pride sembra una manifestazione inutile e poco seria. Anche la parata del 2 giugno ai Fori. O la Pentecoste. Posso contestarle, criticarle. Certo. Ma solo – ed è questo che fa la differenza – nel nome di una pratica differente e contrapposta. Di una pratica, per l’appunto. Perché sono le pratiche, e non le tanto sopravvalutate idee, o peggio ancora i sogni, a fare il politico. O a rattoppare il sociale. A casa le teorie vengono bene come le riposte ai quiz televisivi. A casa i concetti si incastrano l’uno all’altro come in un affratellante, entusiasmante puzzle. Che ci si domanda: “Com’è che non lo capiscono i diretti interessati?”. Com’è che in Siria seguitano a reprimere la rivolta? Com’è che israeliani e palestinesi non si accordano? Com’è che all’Eurofestival non si accorgono che si vota per contiguità geografica e non per merito? Parli di classe operaia per sentito dire, poi ti capita di picchettare per diverse notti la più grande fabbrica d’Europa. E capisci che tra quel che bisognerebbe fare e la sua concreta realizzazione, di mezzo ci sono le condizioni oggettive, il contesto reale e quello percepito, l’immaginario collettivo e, non da ultimo, il proprio impegno diretto. Senza mediazioni. Perché di grilli parlanti a predicare e sentenziare ce ne sono più di due o tre. E frantumano le palle.

Esagerato? Tutto questo sproloquio per giustificare un corteo di ultras e di tifosi? Non credo. No. Nel senso che mai nessuno s’è sentito in dovere di giustificare alcunché. Ci mancherebbe altro. È antropologia culturale, questa. Esperimento in cattività. Spalancare d’improvviso le finestre ai saggi della montagna. E vedere come la primavera li mandi nel panico.

Il Libro