14/07/12

Lode al casco


Dalla fine. Casillo è stato colpito con un casco in piena faccia, davanti al Bar Cairoli.
L’eterno scandalo della violenza divampa dai pulpiti. La ratio che tutti vorrebbero estrema ma che pochi accettano, anche dinanzi all’evidenza più implacabile. E stavolta dubito che qualcuno possa discutere sul fatto che la situazione fosse davvero estrema. Telenovelas, si definiscono di solito queste traversate del deserto.
Passi indietro. Uno, due, più di due. A Foggia ci sono 45 gradi. Lo dice il display di Leone Centro. E quello della farmacia a Piazza XX Settembre. È la città più calda d’Italia. Lo dice Rete 4. Una trentina di persone sosta davanti alla Piramide di plexiglass, all’angolo del Comune. Guardano il Municipio e sperano, come a San Pietro durante il conclave, di vedere la fumata bianca dal comignolo. Ci sono diversi ragazzini giunti a piedi o in bicicletta. In molti hanno recuperato e indossano, per l’occasione, la maglietta rossonera. Delle annate più disparate. Da Marino a Novelli, al secondo tragico Zeman. Immagino il loro pomeriggio. Ma non è sempre il momento di mostrarsi sentimentali. Stavolta si lavora di bisturi su corpo morto. Sta botta è autopsia. Sopra, nei corridoi, c’è ressa. Giornalisti, gente dei gruppi, digos. La situazione è questa: il Napoletano ha dato mandato al sindaco di intercettare acquirenti per la moribonda Unione Sportiva. L’ha fatto poco meno di un mese fa. Ma nessuno in questo lasso di tempo – a partire dal sindaco fino a giungere agli acquirenti potenziali – è stato in grado di quantificare la massa di debiti che ha lasciato. Certo, ci sono le voci, che a Foggia slittano sull’asfalto bollente come sapone liquido. Ma restano tali. Come l’interessamento di una cordata di imprenditori locali, che dapprima fa esporre Mongelli, poi lo lascia con un palmo di naso ad assecondare le follie di chi chiede ai tifosi di abbonarsi, a scatola chiusa, per i prossimi 6 anni. Ad un certo punto della serata, le porte di spalancano e un miscuglio di avvocati imbocca l’uscita, seguito da un drappello che sa di processione. In testa c’è un imprenditore napoletano – un altro – giunto a Foggia per fare sodalizio con un paio di cerignolani, dei quali si finge di ignorare le contiguità con Casillo. Le porte della Banca del Monte si aprono fuori tempo massimo per formalizzare l’impegno. E attorno divampa l’entusiasmo dei leccaculo – gli stessi che hanno steso tappeti al passaggio dei vari Sensi, Russo, Coccimiglio – e un fuoco di fila di accuse, più o meno velate. I cerignolani hanno bucato per 3-400mila euro. Esposito, il napoletano in seconda, non ha i soldi per la ricapitalizzazione. Il sindaco ha anticipato di tasca sua oltre 200mila euro. Si va a dormire più sereni. Siamo in ritardo, già appesantiti di ipotetici punti di penalizzazione, ma la fidejussione dovrebbe essere cosa fatta. Potremmo mantenere la categoria. Ma le incognite diventano lampanti l’indomani. C’è Casillo che fa il ritroso. Nasconde le carte della debitoria degli ultimi 6 mesi, mentre – da quel che si vocifera – fino a gennaio è riuscito nell’impresa di accumularne 2,4 milioni. Dopo aver rilevato il Foggia, due anni fa, con 800mila euro di scoperto. Una bazzecola, in confronto. La domanda afferra la gola. Com’è possibile? Voglio dire: mai avuto dubbi sull’intento ultimo che aveva riportato il Napoletano in città. Nel luglio del 2010 eravamo in pochi a dirlo – “Uagliù, quello è venuto a vendicarsi!” – e la nostra voce si perdeva nel frastuono dei clacson. Ma, aldilà di questo, com’è possibile che una bancarotta del genere possa godere dell’impunità e bearsi della recidività, della reiterazione? Com’è possibile che uno che ha affondato l’Avellino e la Cavese possa, con un gioco di scatole cinesi e prestanome, seguitare a vivere negli interstizi del Capitalismo da calcio? Perché, se io non pago 23 euro di ticket al Pronto Soccorso, mi tartassano di lettere minatorie e alla fine mi spediscono a casa i sicari di Equitalia a richiedermi uno sproposito, e questo se ne va tranquillo e beato a dissanguare aziende, che per quanto legate al calcio, sempre aziende restano? Ma il Foggia è un capitale emotivo. E le domande rimangono sotto la cenere, perché il primo comandamento resta quello di salvare capre e cavoli. I perché, i percome, in una società che protegge e giustifica gli evasori totali, non trovano posto al tavolo delle trattative. Si invocano salvatori della patria. Si sparano nomi, si richiedono obblighi morali. Esposito barcolla. Detta un ultimatum: “ho bisogno di vedere le carte entro le 20, altrimenti non se ne fa nulla”, dichiara il 10 luglio. È pomeriggio e nessuno può dargli torto. Una vendita si fa con le carte. E qui non si tratta di una Vectra d’annata. È un affare da 4 milioni di euro complessivi. Mica i giambonetti del Pacinotti. Ma tutti tacciono. Tace Casillo, che allude di aver consegnato tutto il necessario. Tace il sindaco, che in un mese non è stato in grado di predisporre una commissione di periti per quantificare il danno al di fuori delle soggettività coinvolte. L’affare, ovviamente, salta. E Casillo gongola. Come ai tempi del Tribunale fallimentare di Napoli, come ai tempi della retrocessione in C1. L’inizio della fine. Quell’uomo non ha mai smesso di applicare, per l’US Foggia, il motto degli uxoricidi: “O mia o di nessun altro”. Ma Foggia, gonfia d’amore per quella maglietta, ha sempre dimenticato. O finto di farlo, tanto da tributargli, al rientro, un’accoglienza maestosa, regale. Certo, c’era la complicità di Zeman a schermare tutto. Ma c’era anche lui, su quel palco, all’Ariston. Fatto sta che la notte del 10 luglio scatta, per il Napoletano bancarottiere e fallito, un programma di protezione di tutto rispetto. La digos, per accompagnarlo nei suoi bisogni ordinari, due pattuglie della Polizia di Stato davanti al portone di casa per garantirne il sonno. Per me farebbero lo stesso? Per proteggermi dall’Ufficio delle Entrate, dico? O la protezione scatta solo da una certa cifra di debito in su? L’ultima trattativa, quella inscenata da un imprenditore genovese, fallisce miseramente in due giorni. Perché – dicono i legali – non c’è collaborazione e non si riesce a capire a quanto ammonti il buco di bilancio. Solita storia, dunque. Solita compiaciuta beffa.

A questo punto – e perdonate il sommario excursus – ai benpensanti e moralisti domando: come si ragiona, come si reagisce, quando sai di aver ragione – ragione da vendere – ma il sistema si chiude a riccio a difesa degli interessi di una cricca di speculatori e di incapaci in malafede? Ammesso che tu abbia fiducia nelle Istituzioni, a chi ti rivolgi quando ti rendi conto che la polizia sta proteggendo uno che è riuscito ad accumulare più di 2 milioni di debiti in due anni e sta per passarla liscia dopo aver affondato una società con 92 anni di storia?
Non voglio tornare sul silenzio complice degli editorialisti in gamba, degli opinionisti di razza, di quelli che snobbano il calcio, di quelli che lo ritengono oppio afghano allo stato puro e ripetono la storia dei circenses appena possono, che non hanno neppure provato a leggere dietro le righe di un ritorno che sapeva di sconquasso nel microcosmo dell’imprenditoria locale. Storie vecchie. Ma nel rumore di quel casco su quella faccia c’è tutta la rabbia e l’impotenza di un’agonia che nessuno ha voluto sbrogliare. Chi per calcolo – giusto o no, non mi interessa fare i conti in tasca a nessuno – chi per inerzia, chi per dilettantismo. Se la gente come Casillo fosse messa nelle condizioni di non nuocere, non sarebbe apparso nessun giustiziere all’orizzonte di corso Cairoli. Non ci sarebbe stato bisogno del vendicatore, che magari – ahilui! – ha pure le ore contate. E dovrà pagare, come pagano sempre quelli che non hanno tutele e ci mettono la faccia. A differenza dei marpioni da doppiofondo con la scorta e la pancia piena. Il rumore di quel casco liberatore – che, garantisco, una volta riprodotto sul filo dei telefoni fissi, di quelli mobili, delle pagine internet, ovunque ha scatenato gioia, risate e brindisi selvaggi – è l’espressione più pura della richiesta di rispetto a lungo invocata e puntualmente inevasa, in questi mesi e in questi anni. Siamo stati sfidati, insultati, oltraggiati, nell’intimo di una passione che può si sembrare futile e finanche dannosa a chi non la concepisce e non la capisce, ma che rappresenta un aspetto centrale della nostra identità. I ghigni, le risate, le veline lette dai parcheggiatori in tv, l’atteggiamento gradasso, tracotante, spocchioso, di chi non ha fatto passare giorno senza trasmettere disprezzo a chi, domenicalmente, ingrossava il suo portafogli con cifre da serie A, sono stati messi a conto. E i conti, poco alla volta, fortunatamente, si pagano. Ora, scandalizzatevi quanto volete. Per il gesto e la violenza. Ma poi, a mente fredda, sappiate anche mettere in fila il capo d’accusa per chi – casco o non casco – specula sulle passioni e riesce a farla franca.

11/07/12

Notte fonda




Io l’ho visto mio padre quando parlava del Foggia. Quando era un ragazzo. Quando aveva meno anni di me adesso. E un lavoro, una casa, una famiglia, due figli da crescere. Ho visto i suoi occhi. Secoli prima della prima in pay-tv, che per la A fu un Lazio-Foggia 0-0. Io, si. Li ho visti quegli occhi. Mobili, irrequieti. Sognanti. Innamorati. Solo gli stolti, papà, i superficiali, gli intellettuali da seghe in una bottega di barbiere, potrebbero cestinarli con una scrollata di spalle, di quelle magistrali. Di quelle che hanno imparato a fare in lustri di solitudine. Solo quella gente, da cui ci siamo sempre tenuti lontani come per sfuggire al sortilegio del benessere, potrebbe – sorridendo – irridere il tuo slancio. Fatti loro. La nostra gente è altra, e lo sappiamo. Quelli della Nord, quando ero un abbozzo di persona. Quelli che mi accudivano tutti attenti a non perdere un grammo virilità, come una famiglia di fatto. Quei mille maschi uno accanto all’altro: il geometra, il carpentiere, l’elettricista. Ognuno al proprio posto, sul cemento anonimo dei gradoni. Domenica dopo domenica. Avrei potuto tifare per la Juventus, che vinceva le Coppe che si giocavano a dicembre, di mattina presto, in Giappone. Avrei potuto tifare per il Milan, l’Inter, la Roma. Se non avessi visto gli occhi di mio padre. E quelli di mio zio, dei miei zii, di mio nonno. Se non avessi, senza saper leggere né scrivere, riconosciuto la grandezza del sogno che trasferivano al mondo.

Oggi sono stato fuori tutta la giornata. Fuori città, voglio dire. E il telefonino non smetteva di trillare. Messaggi e voci. Voci dei fratelli, di quelli della Nord, ancora una volta. Attorno avevo gli altri. Il mio gruppo, la mia ragion d’essere. Ad ogni squillo un sobbalzo. Ad ogni clic una domanda forsennata di notizie. “Pare che il Napoletano abbia occultato la debitoria”. “Pare che il nuovo acquirente si stia tirando indietro”. “Pare che i due soci del nuovo acquirente siano in realtà comparse del Napoletano”. “Pare che al Municipio stia succedendo il finimondo”. Moriamo, dicevamo tutti. Moriamo e basta, senza tirarla per le lunghe. Senza complicarci l’esistenza. La serie D, boh, non sappiamo neppure immaginarcela. La stagione all’inferno di quel poeta francese. Pare, dicono, ci sia il Grottaglie, la Fortis Trani. Pazienza. Anzi, senza Tessera, ai nostri posti. A far vedere chi siamo, cazzo! Ma ancora squilli, ancora voci. “Ci sta lasciando morire, quel pezzo di merda”. Ovvio. L’avevamo messo, nero su bianco, due anni fa. Quando i tifosi facevano tremare l’Ariston. “È venuto a vendicarsi di noi, – scrivevamo – di Foggia e dei foggiani”. Buh!, ci rispondeva la gente, volubile al sogno. Solubile ai sogni. In macchina abbiamo ripercorso la Statale 16, a ritroso, a tarda sera. Quando tutto era compiuto. “Per noi cambia poco”, ci siamo detti e ripetuti fino allo sfinimento. Un campetto di quinta serie vale quanto il “Meazza”. Servirà l’orgoglio. Lo sguardo dritto e invincibile di chi s’approccia alla piazza d’un paese come alla scala del calcio. Ci siamo fatti forza. Cambia davvero poco, per noi.

Poi, una volta a casa, a notte fonda, ho saputo. Ho saputo che papà aveva saputo. “E come ha reagito?”, ho chiesto. “Non ha detto niente – mi è stato risposto – è rimasto così, a fissare il vuoto”. Allora, e solo allora, ho sentito il dolore. Un dolore profondo, sottile, implacabile. E la rabbia. Tracimante, fertile, cupa. E il disprezzo. Totale, viscerale, senza alibi. Il disprezzo autentico. Perché non è niente. Per voi non sarà niente. Ma io li ho visti e me li ricordo, gli occhi di quel ragazzo di trent’anni che mi teneva sulle spalle mentre una ressa inenarrabile premeva per entrare. A vedere Foggia-Catanzaro. 

05/07/12

La regia occulta


“L´ultimo pensiero va ai giovani tifosi ricordando loro che Pasquale Casillo, la cui fedina penale è pulita, nel 1994 lasciò nelle casse del Foggia ben 54 miliardi di lire ed un importante patrimonio-calciatori, soldi che sono stati sperperati in pochi anni dalla curatela fallimentare, Dott. Buonomo, e dal segretario Sergio Canuti, anche per mantenere quegli stessi 20 tifosi che ancora oggi fomentano la piazza mentre allora restavano in silenzio”.(comunicato ufficiale Us Foggia) Verità assolute, inattaccabili, indiscutibili. Prese per archetipo. In città funziona così. Se fai qualcosa, bisogna capire per chi. A chi giova. E come ti ripaga. È il marchio di fabbrica massonico. L’idea che attaccare una consorteria implichi l’appartenenza alla consorteria opposta. Se dici che i Guelfi hanno ragione, allora hai un conto in banca rimpinguato dai Ghibellini. Non sei libero, qua, di non appartenere. Di estrometterti. Di pensare ai tuoi interessi. Foggia-Portogruaro, stagione del duo Porta-Pecchia, costò alle casse dei soci – vado a memoria – non meno di 7mila euro di multa. In campo, quella domenica, esplodeva una cipolla ogni quindici minuti. Una piazza stanca di umiliazioni, si disse. Col senno di poi, un’esagerazione che – presa in scala, in proporzione – adesso ci obbligherebbe a far saltare i portoni dei palazzi. Ma tralasciamo. Uno dei principali azionisti di quel Foggia dichiarò che una regia occulta pilotava la contestazione. Che un grande vecchio – stile Romanzo criminale – muoveva i fili. Voleva buttare fuori quella dirigenza in nome e per conto di altri interessi. E aggiunse che molti di quelli che contestavano erano sul libro paga della società. Un’accusa non certo nuova. Un canovaccio vecchio e sempre giovane. Ora la storia si ripete. La nostra acredine nei confronti del Napoletano è eterodossa, eterodiretta. Non siamo schietti. Prendiamo soldi da qualcuno. Apparteniamo a qualcuno. E basta la maldicenza, qualsiasi maldicenza, per far si che qualcuno ci creda. Del resto, non stiamo ascoltando quelli che stanno con le mani in mano chiedersi disperati e arrabbiati: “Che cosa fanno i gruppi organizzati? Dormono?”. No, aspettano il bonifico, verrebbe da rispondere.

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