26/09/12

Riprendiamoci lo "Zaccheria", Riprendiamoci Foggia


Pagano i tifosi. E non è certo una novità. Costretti a subire l’umiliazione della seconda partita a porte chiuse, dopo aver sottoscritto l’abbonamento, dopo un fallimento. Paghiamo noi, come sempre. Paga la nostra passione. Il nostro amore incondizionato per i colori. In una città dove non esistono responsabili. Dove le colpe si scaricano. Dove chi governa è invisibile. O diventa tale nel momento di decidere.

Eppure lo sapevamo tutti dove avrebbe portato il servilismo della giunta Mongelli nei confronti delle assurde pretese di Casillo. Lo sapevano gli stessi politici locali quando – in un impeto di generosità a spese del pubblico – hanno gentilmente concesso lo stadio comunale a quel losco individuo. E se non lo sapevano, allora è evidente come non siano in grado di amministrare. Il teatrino ridicolo e tragico di queste settimane è solo un aspetto del più generale collasso della nostra città. I lavori allo “Zaccheria”, promessi ad aprile e mai portati a termine, sono l’ultimo risvolto di un fallimento che ha molti nomi – quelli delle municipalizzate, tanto per fare un esempio – e, ovviamente, nessun colpevole.

Il ricatto dei vecchi sciacalli, le norme assurde della Lega, l’incompetenza e l’incapacità di tecnici e addetti ai lavori, non giustificano, bensì peggiorano il quadro d’insieme. Noi – Ultras, tifosi, cittadini – vogliamo i nomi degli inetti e dei collusi. Vogliamo che i responsabili ci mettano la faccia; che chi ha sbagliato paghi. Non abbiamo più intenzione di sentir parlare ancora di certi personaggi del recente passato. E come doveroso atto di dignità, pretendiamo che il sindaco invisibile e la sua corte celeste si facciano da parte. Non ne sentiremo la mancanza come non ne abbiamo avvertito la presenza.

Sosteniamo la Nostra Maglia! Onoriamo la Nostra Città!

Curva Nord Foggia

22/09/12

Un ipermercato...


Agli amministratori così veloci nel concedere terreni a palazzinari e speculatori, e così zelanti nell'applicare le "norme" per lo "Zaccheria"...




08/09/12

La Bastiglia di viale Ofanto


In serie D giocano 167 squadre. La maggior parte di queste disputa le proprie partite in campetti di periferia coi muri a un metro dalla linea laterale. In oratori con una tribunetta in metallo. In pantani perimetrati da un semplice reticolato. 166 squadre hanno il campo agibile, a norma, idoneo. Noi tifiamo per la centosessantasettesima. Ed abbiamo lo “Zaccheria”.
No. Non fate finta di non capire. Chiunque si sia appassionato al calcio negli ultimi trent’anni sa cos’è lo “Zaccheria”. Un monolite di cemento armato capace di contenere più di venticinquemila persone, tre a metro quadro. Uno sbuffo d’aria bollente sulle maglie di chi scende nel fossato, ancor prima dei gradoni, ancor prima dei tubi, dai tempi eroici del filo spinato. Secoli prima della tribuna nuova. Quella innalzata come un totem nell’estate del ritorno in serie A. Neppure tanto tempo fa.
Domani le porte del nostro tempio saranno chiuse. Chiuse le curve, chiusa la gradinata.
Perché una Commissione tecnica, munita di strumenti atti alla misurazione delle porte e al controllo di spurghi e infissi, ha stabilito che lo “Zaccheria” non è a norma per il Campionato Nazionale Dilettanti. Manca dei requisiti minimi.
“Sono delle regole assurde”, mi dicono in molti. Lo so. Volete che non lo sappia. Nei giorni in cui attorno allo stadio fu issato il poderoso cancello che c’è tutt’ora mi sembrò d’assistere alla profanazione di una spianata sacra. La prima volta che entrai facendo ruotare le leve di un tornello, mi mancò quasi l’aria dall’imbarazzo. Ma ormai ci siamo abituati; assuefatti allo spirito dei tempi. E del concetto di “sicurezza” applicato agli impianti sportivi abbiamo blaterato a lungo, abusando pure della pazienza altrui. Per cui stavolta no. Incassiamo la notizia in una zona neutra dell’anima, senza cadere nella tentazione di piombare a capofitto nell’estremo delle dissertazioni sul calcio moderno e sulla nostalgia per quel mare di teste che s’è ritirato per sempre.
Stavolta si deve parlare d’altro. Del cuore predisposto all’eroismo che deve batterci in petto da quando “abbiamo scelto” di non tifare Empoli. O Pontedera. Del timore ansioso e vigile che ogni settimana si sveglia con noi. Abbiamo vissuto il tracollo calcistico, passando dalla A alla C2 in cinque stagioni. Un primo fallimento e l’aggressione di una corte dei miracoli che annoverava gente del calibro di Sensi, Chinaglia e Coccimiglio. Il redivivo Casillo e un secondo fallimento. La serie D presa per i capelli. Basterebbe a chiunque. Invece noialtri, ad ogni levataccia del sole, non possiamo più fare a meno di chiederci cosa accadrà. Cosa ci riserverà ancora il destino, prima di rivedere un derby col Bari. E dopo aver respirato polvere in una sfilza di campetti, adesso che ci hanno comunicato che il campetto ce l’abbiamo noi, la sensazione è inebriante.
È francamente troppo.
Un ricatto a monte, quello di Casillo, dei suoi piani megalomani da Eterno ritorno. L’insopportabile vulnerabilità di una giunta comunale senza attributi che, prostrata, gli concede la gestione dell’impianto a clausole vessatorie che avrebbe impugnato anche il meno abile dei laureandi in Giurisprudenza. Il peccato originale. La lunga battaglia di carte bollate, di ingiunzioni di pagamento, scaricabarile tra chi ha accettato di godere solo dei privilegi della concessione e chi è chiamato mensilmente a saldare il prezzo della propria codardia. Fino al braccio di ferro finale di primavera. Era aprile quando nacque l’ormai celeberrima Battaglia della Guaina. Aprile, 22, allorquando – dopo aver elemosinato un campetto per mezzo meridione – raggiungemmo in macchina il “Via del Mare” di Lecce. Per via dell’indisponibilità dello “Zaccheria”. E fummo graziati dalla sportività del Lumezzane, che non si prese la briga di fare ricorso, nonostante la cattività in terra di Puglia, nell’incertezza perdurata fino a poche ore dal fischio d’inizio. “Questione di giorni”, dicevano i tecnici del Comune riferendosi ai lavori in corso. Sono passati cinque mesi. E gli ispettori scuotono il capo. E il prefetto s’assume l’onere della chiusura, come già successo a maggio, per l’ultima casalinga. Casillo, che aveva fatto il possibile per giungere a questo, gongola. Ma tra tutte le figure laide, squallide e penose (Chi è l’Assessore allo Sport del Comune di Foggia? Qualcuno di voi lo conosce?) che battono la brughiera in queste ore confuse, se dovessi scegliere su chi puntare il dito, non avrei dubbi.
Gianni Mongelli è un costruttore, è un imprenditore, è un rappresentante di categoria. È tante cose. Ma non è un sindaco. E si che fare il sindaco in questa città significa accettare una non invidiabile condizione da ostaggio contento. Ostaggio della mala, dei palazzinari, dei poteri forti, della massoneria, della politica di professione che si serve della società civile per fottere gli allocchi e gli illusi. E si che non esiste solo il calcio a Foggia. Ma le contorte vicende di questi giorni, la sorte di quel gigante di cemento che è casa nostra, casa della passione della mia gente da che ero bambino, hanno assunto tutte le caratteristiche della metafora. In scala, quello stadio è l’intera mia città. Soffocata dall’ottusa burocrazia dei tecnocrati, dai meschini interessi di parte, dai ricatti che inducono all’immobilismo e alla rassegnazione, dalla prepotenza della speculazione, dall’incapacità e dall’inettitudine di chi – motu proprio – s’è voluto assumere l’onere di gestire la cosa pubblica. Senza averne la stoffa, il talento, o più miserabilmente la possibilità.
Adesso, che davanti agli occhi danzano le colpe, rimpallate da un impotente all’altro come in una partita di pallamuro; che la rabbia aumenta a dismisura; che la Repubblica delle banane sta maturando il nuovo colpo di scena, mi sento di dire – per quel che vale – che quell’omino taciturno che induce alla compassione che si deve ai deboli, ha rotto le palle. La sua recita flebile è diventata accanimento terapeutico. Lo tengono in vita coloro che lo muovono, è vero, lo sappiamo. Ma l’assoluta incapacità di prendere una decisione con mano ferma, di scuotersi dal torpore sonnolente della barca che ondeggia verso gli scogli, la scarsa volontà di picconare i problemi fino a vederne le ossa e i nervi, sono un oltraggio alla nostra (residua) dignità di comunità. Sarò ottimista, ma seguito a credere che non meritiamo d’essere rappresentati dal fior fiore della mediocrità paesana. Che un altro sindaco, uno qualsiasi, avrebbe agito d’impulso, da subito, anche travalicando il proprio ruolo. Perché il Foggia è Foggia, certo, ma anche perché la politica amministrativa dovrebbe servire a quello. A non piegare il bene collettivo agli interessi dei privati, ad esempio. A tutelare la gente che ti ha eletto, anche se col 23% delle preferenze al primo turno. O giù di lì. Ecco perché, dal mio punto di vista, questa vicenda penosa non ha i soliti duecento colpevoli. Ma uno solo, in rappresentanza di quelli (pessimi quanto lui) che si nascondono dietro il suo fallimento, nella speranza di non essere sgamati.

Io domani saprei cosa fare. Come Sansone coi Filistei. Ma non lo farò. Un po’ perché non posso, un po’ perché non voglio. Perché ne andrebbe di mezzo gente che ha dimostrato attaccamento ai miei stessi colori e che non merita d’essere penalizzata ulteriormente.
Ma riprendersi lo “Zaccheria”, manco fosse la nostra Bastiglia, è da questo momento un obiettivo prioritario. Ed una metafora di quell’attivismo che dovrebbe tornare a divampare in città. Per liberarla dai ricattatori, dai parassiti, dagli speculatori. E dagli inetti.   

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