06/05/13

La tribù



Il gran turismo della Nord è di colore blu. Avanza lentamente, pigramente incolonnato nel traffico della domenica pomeriggio. Non che ce ne siano molte di macchine, complessivamente, in giro. È una bella giornata di maggio e se non urge un mezzo, si esce a piedi. Ma questa è zona cruciale, strategica. Da Piazza Italia alla villa comunale. Dai finestrini, dal boccaporto sulla cappotta, sbucano bandierine. Rossonere. A bande orizzontali e con le tre fiammelle. Un braccio fuori. Una mano che regge una torcia. Accesa, rossa. Un’altra, bianca, brilla dall’altra parte. A riempire di scintille e fumo l’altra corsia. Dagli abitacoli delle vetture che “scortano” il pullman, che lo precedono, lo seguono, lo circondano, colpi di clacson e grida di esultanza. L’intera carcassa del veicolo è percorsa da una scarica elettrica, attraversata da un’onda magnetica plurima. Ondeggia, come il tagadà della festa di Sant’Anna. E mentre il sole s’abbassa, tinteggiando la città d’un intenso colore rosato, un coro s’espande su tutta via IV Novembre. Facendo canticchiare i passanti. Qui c’è una curva che canta per te.

Re-wind.

Undici del mattino, s’era pattuito. Pomigliano d’Arco. Napoli, il primo agglomerato di case dopo la barriera. Il destino nelle nostre mani. Se vinciamo, possiamo anche evitare di sapere cosa fa il Bisceglie in quel di Santa Maria. Se vinciamo, i playoff non ce li toglie nessuno. Ma non è una formalità. Quelli, a Pomigliano, si sono inferociti. La “nostra” società ha contestato la scelta della Lega, che originariamente aveva fissato questa partita al sabato, con diretta su Raisport. Una decisione assurda, considerata la situazione di classifica e il vantaggio che si sarebbe concesso alla diretta inseguitrice. Ricorso accolto e niente anticipo. Né diretta, né oboli alla società campana. Che se l’è presa a male. Alle dodici meno un quarto siamo ancora a Piazza San Francesco. Esplode un cobra, a due passi dal santo che, ieratico, dal Monte della Verna in miniatura, innalza lodi al Creatore. Il vento sospinge il fumo sulla strada. Mancano un paio dei nostri. Altri due pullman, più una piccola quantità di macchine, si sono già incamminati. Noi siamo i soliti ritardatari. Ore piccole. La pipì è una struttura mentale. Il bisogno di farla è prestidigitazione del cervello. Io vorrei evitare. Perché, altrimenti, dovrei andare al bar-ricevitoria di fronte. E l’unica volta che sono stato lì era il 17 novembre. Prima della trasferta al Vomero. Un cattivo presagio. Che, in quanto tale, mi gonfia la vescica. Sfido la sorte. La faccio e salgo a bordo. Cinquantasei persone. Praticamente il doppio, più del doppio, dell’ultima volta. Che, però, era di sabato. Due bottiglie di William Lawson’s da sorseggiare amabilmente, la statale. Candela. Quello che vende i sottoli. L’Irpinia che filtra dai finestrini è un rincorrersi di colline verdi, suscita un richiamo primitivo. All’autogrill sopraggiunge il pullman degli Indomabili. Della Zona 1990. Una macchia nera – tranne qualche rara, bizzarra eccezione – dilaga nel piazzale. Gli amici di Castelluccio Valmaggiore mettono a giro un po’ di Faxe. Si parla di quella volta che s’è sbancata la macchinetta e fatta l’alba. Siamo rilassati. La serenità dei forti. C’è un bel sole alto. E ancora un tratto di strada da fare, in carovana. Non succede, ma se succede. Una sirena da nave chiama l’intera compagnia nei mezzi. Quello del 1990 ha occhi. Due occhi azzurri disegnati sul muso. Una nave fenicia. Meno di un’ora e siamo al casello. Ora la tensione è maggiore. Un’attenzione che, però, non sfocia nell’allerta. Siamo sicuri di noi, oggi. Non c’è incognita che tenga. Una curva  e troviamo i lampeggianti. Scortano una batteria di autovetture giunte da Foggia. E non solo. Ci inabissiamo nei vicoli stretti. Guardiamo fuori lo spettacolo al vero deprimente di una cittadina ideata a mo’ di dormitorio. Con una fretta d’edificare pari solo alla densità abitativa che ne è conseguita. O che l’ha preceduta. I rari slarghi sono sottoponti, quadrati di cemento costellati di piloni all’ombra di un viadotto. Un cappellino verde dell’Heineken. Slalom tra le case basse. Sembra Marcianise. Ci siamo. Anche il muro dello stadio ricorda quella trasferta di qualche anno fa. I pullman fanno manovra. Scaricano il loro contenuto sull’asfalto rovente. Si stendono le stecche, si scotchano bandieroni. Quello del Vecchio, quello del Regime, quello degli Indomabili. Vogliono 15 euro a cranio per farci assistere a questa avventura. È parte del piano di vendetta del Pomigliano calcio per non essere andati in televisione. Un piano destinato a fallire che, difatti, fallisce. Paghiamo 7. E stanno ben pagati.

Il settore è un pezzo di gradinata che dal centrocampo porta alla trequarti dove, in questo primo tempo, attacca il Foggia. Piena estate. Siamo duecento. Tutti i volti noti e qualcuno in più. Ci giochiamo l’accesso agli spareggi. L’entusiasmo, in città, è salito in queste ultime settimane. Fa sempre bene al cuore sapere che questi colori non saranno mai ammainati. Che possono istigare alla stanchezza, ma mai all’abiura. Di fronte a noi, nella tribuna centrale, un gruppetto di ragazzini ci accoglie con cori ostili. Il Pomigliano è granata, o qualcosa del genere. Il bandierone che sventola è, però, azzurro. Noi partiamo sfilacciati. Tre lanciacori e tre tamburi sono un po’ troppi per una piazza come la nostra, abituata a scazzarsi su tutto ma con una vocazione unitaria che, in trasferta soprattutto, non ci ha mai fatto sfigurare. Ci eravamo lasciati sotto l’acquazzone di Nardò, quando sembravamo giocare tanto per. Riprendiamo adesso con tutt’altra testa. Il calcio è un gioco affascinante. E perverso. Un affascinante gioco per pervertiti. E masochisti. La squadra ci ha già salutato. Ora gioca senza particolare apprensione. Il Pomigliano fa il suo. Noi, come sempre da queste parti, facciamo inviperire i dirimpettai. Noi non siamo Napoletani, cantiamo, istigando il pubblico locale a mandarci a quel paese. Ma, come a Sant’Antonio Abate, sarebbe più opportuno cantare che loro non lo sono. A quel punto si che avrebbero di che incazzarsi. Uno striscione recita: Foggia merda. “Vi vogliamo così!”. Zero a zero e bagno. Bottigliette d’acqua rastrellate. Pare che il Bisceglie perda. Ha avuto un crollo verticale.

La ripresa dovrebbe essere un simpatico diversivo. Dovrebbe servire alla prima abbronzatura della pelata. Del resto, quelli di fronte si sono stancati di canticchiare. E noialtri pure non sembriamo decollare. Quando un battimani ci viene bene, uno dei tre tamburi manda fuori tempo il coro. Però siamo belli. Siamo sempre belli. Ma poi, più o meno al venticinquesimo, uno in maglia bianca, uno dei loro, prende sta cazzo di palla, si gira, si rigira, e d’interno a girare la scaraventa verso la nostra porta. Il nostro estremo salta sulla sinistra, a guantone dispiegato. Ma non ci arriva. Gol. Uno a zero per loro. E l’autore della rete si toglie la maglietta e corre, impazzito di gioia, sotto la tribuna. Dove un pubblico festante lo acclama come Traiano al ritorno dalla campagna di Dacia. Alziamo un coro di sostegno, finalmente massiccio. La squadra ferma a centrocampo, ad aspettare che i bianchi ritornino dall’happy hour. Un grattacapo, adesso. Se il Bisceglie dovesse pareggiare, saremmo fuori. E, manco a dirlo, il Bisceglie pareggia. Noi rimaniamo in dieci. E io, mentre con convinzione canto Dai non mollare, devi lottare, penso a questo pezzo e pacatamente rifletto: Maputtanaeva! Ma è possibile? Un mese fa ci eravamo abituati a non avere stimoli. Stavamo bene, benissimo, nel nostro confortevole posticino in riva al nulla. A cantare, saltare, ballare e viaggiare in compagnia di una squadra che suda e si batte, ma senza niente in cui sperare. Poi, la sorte ci mette dinanzi alla possibilità di puntare ad un obiettivo. Ci stuzzica, meretrice, solo per il gusto di farci sentire l’odore dell’impresa. E per quello, ancor maggiore, di negarcela quando pensavamo fosse fatta. E ridere delle nostre facce perplesse. A dieci dalla fine, siamo fuori da tutto. Poi una punizione. Un cross. Un colpo di testa. Vedo la parabola discendente superare il loro portiere. È il pari. Ma esulto in maniera contenuta. Una voce interiore mi dice che non basterà. Che la sorte è una lama affilata. Che il Bisceglie segnerà al novantacinquesimo, quando qui sarà finita. Chiamo casa, chiamo Antonio. Gli chiedo di farmi sapere, anche se spero di non sentire più quel trillo. Invece, lo sento. Ma la voce del fratellino è raggiante. Ha segnato il Gladiator. Il Bisceglie deve farne due, adesso. E mancano cinque minuti. Onestamente, credo d’esser stato pessimista. E mi lascio andare. Fino al fischio di chiusura.

Con somma sorpresa apprendiamo che la Juventus ha vinto il suo ennesimo scudetto. Il ventinovesimo, il trentunesimo, non si sa. Penso agli juventini di mia conoscenza. Penso all’entusiasmo dirompente con cui trascorreranno questa giornata. Alla festa, all’ubriachezza molesta con cui arricchiranno la nottata. A come la renderanno indelebile e a come la ricorderanno negli anni. E la racconteranno ai figli, ai nipoti. Alla lacrima di nostalgia che righerà le loro guance. All’amore incondizionato per quelle strisce bianconere all’atteso traguardo del traguardo più importante in Italia. Poi scuoto la testa. Ma chi prendo per il culo? Se berranno una birra, quelli, è pure tanto. La loro giornata odierna non sarà stata in nulla diversa dalla solita, penosa, patetica mezza passione per una cosa mai vista, che sta a Torino ma poteva benissimo stare nell’Iowa. E giocare a baseball invece che a calcio. Sfotteranno i loro amici interisti, milanisti. O i tifosi dell’Uruguay. Simili a loro come un granchio ad un altro granchio. E andranno a dormire, che domani si lavora. La mia, la nostra squadra, invece, è qui. Carnale, sotto al settore. Sudata, come noialtri. A saltare, a cantare, ad inscenare una danza tribale. Perché si, noi siamo tribù. Crediamo in ciò che vediamo, veneriamo il coraggio e l’impegno, pratichiamo ciò che sentiamo vicino al cuore. E non la lasciamo mai sola, questa maglia che ci ha fatto diventare quel che siamo. Altro che Conte, Marchisio e Mughini. Altro che diretta televisiva, che festeggiamenti di meridionali in Piazza Castello. Altro che merchandising. Pare ci siano bandiere bianconere pure in piazza Cavour. Se facciamo in tempo a tornare, andremo a salutare questi nostri concittadini onorari. Nel frattempo, Questa curva lo sai canta solo per te. Siamo ai playoff di serie D. Loro hanno vinto lo scudetto. Provo pena. Per loro provo pena. Perché non sanno cosa significa. E mai lo sapranno.

PS: Sono il gatto sul tetto che ascolta tutto come fosse la prima volta. Gli occhi suuuuuuUUUU. Gli occhi più suuuuUUUUUUU. E glu glu glu glu bà. Se vi piace chiamatemi Oscar.

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