30/09/13

Santa Croce

Domenica 29 settembre 2013, Tuttocuoio-Foggia 2-2

Ci sono zone in cui il WWF non s’addentra.
Zone che la Protezione civile ritiene sicure di per sé. Sostenendo, non senza ragioni, che non corrano il rischio d’essere raggiunte da mano umana. Metti i Pink Floyd. Ci sono percorsi non obbligati. E cartine geografiche soppiantante dai Tom-tom che soppiantano il libero arbitrio.
E ci siamo noi.
Tra i boschi che Sereno Variabile definisce immancabilmente “di lecci e di castagni”. Tra colline dolci sovrastate dal cielo nero e scosse dalla pioggia. Tra i vitigni. Su e giù. Inseguendo una libellula in un prato. Tra cartelli che indicano Siena ed altri che rimandano ad Arezzo. E una vaghissima idea dei sussidiari delle Elementari. Seguiamo Firenze come certi monarchi francesi il sogno di Grendeur. Non confessiamo a nessuno che temiamo seriamente d’esserci smarriti. Parliamo. Di quel che siamo diventati. Di quel che è diventato il sistema entro il quale ci muoviamo. Una piazza come la nostra, che muoveva moltitudini quando il numero era più importante dello stile. Ridotta ad un paio di nove-posti verso una meta sconosciuta come la Norvegia. San Miniato? Ponte a Egola? No, Santa Croce sull’Arno. Concetto semplice, che solo la cocciutaggine di chi ancora non s’adegua, impedisce di farsi destinazione concreta. “In sette ore ce la facciamo?”, “Evò”. La Campobasso è un sentiero in braille. Si percorre a tentoni conosciuti. Il Cristo “a rondine”, il curvone a destra che trasporta mugugni, i bar di Venafro. A Cassino, a giudicare dalle crocerossine in divisa, la battaglia è ancora in corso. E la linea del fronte tedesco non si sfalda. No, non abbiamo i Pink Floyd. Sentiamo quel che si prende. Radio Maria si prende sempre, ma è un’ovvietà. A Firenze ci sono i mondiali di ciclismo. E diluvia. Ad Arezzo, annuncia Isoradio, c’è un incidente. Io penso che vorrei fare il concorso per lavorare nell’Aiscat. Il furgone che ci precede vibra pericolosamente. Sembra l’asse delle ruote posteriori. Il gommista annuncia che trattasi di gomma ovalizzata. La cambia, si sporca e vince una birra. Perdiamo mezz’ora. Ma la tabella di marcia verso il nulla non pare risentirne. Rientriamo sulla A1, involandoci verso la tempesta. In amor vince chi fugge. Lo svincolo pare una svolta bucolica, un modo per riempirci gli occhi dell’agreste Toscana che il mondo ci invidia. Si rivela un denso passaggio a vuoto. Questo dev’essere il Chianti. O il Nevada. I contatti tra i due mezzi sono una scarica elettrica tra cellulari. La domanda è reiterata. E serve per il navigatore: “A Santa Croce… ma sono sedici volte che lo ripetiamo!”. Non entra in testa, come la tabellina del sette. Poi la statale sembra vezzosamente costeggiare un fiume. L’Arno. Come i pellerossa, decidiamo di seguirlo. Arriveremo alla baita. Valichiamo Montevarchi, San Giovanni Valdarno, Figline, tra i ritratti di Coccimiglio, di Ciccio Baiano e dell’ultima tragica C1. A Incisa guadiamo il fiume. “Sembra Pontevecchio”, esclama una voce in prima linea. “Dov’è che siamo?”, gli fa eco una seconda, in seconda. “Pontevecchio”. “Efess, angor?!”. Il malcontento dilaga. Dovremmo esserci quasi, ma sono quasi le quindici. L’abbiamo presa larga. E fortuna che non ci vediamo dall’alto, a volo d’uccello. Che i nostri miseri occhi umani non possano partecipare alla percezione della deviazione che, in realtà, seguendo la carreggiata, facciamo. Pontassieve. E piove. E per radio dicono che il Cagliari è impegnato con l’Inter e la Juve ha rubato. Viviamo in un deja-vu, come il modellino di una nave in una bottiglia. Sembriamo Albanese in “E’ già ieri”. Dal campo sportivo ci chiamano quelli della Brigata Bologna: “Ma dove cazzo siete?”. Noi vorremmo dire che lo sappiamo, ma non sappiamo mentire. E, siccome a chi dice bugie Gesù mette in fuoco in bocca, scoppiamo a piangere. “Calmi, state calmi, che la biglietteria rimane aperta per tutto il primo tempo”, “Ma voi avete fatto i biglietti?”, “Si, si, tutto a posto”. Da lontano c’è la cupola del Brunelleschi. “Ma non dovevamo passare per Firenze?”, “Si. Quella è Cleveland, difatti”. L’umore migliora. Come un condannato a morte che tenta il suicidio e viene curato, la bella notizia dei botteghini viene subito bilanciata dal gol del Tuttocuoio. “Ma tu quindici anni fa pensavi che avremmo mai giocato col Tuttocuoio?”, “No. Ed è per questo che adesso non do per scontato che tra quindici anni l’Italia sarà ancora una penisola”. Il casellante ci garantisce che tra venti chilometri saremo giunti a destinazione. Dopo trenta non è ancora successo niente. E quello che succede al quarantesimo, è un quadro impressionista della nostra confusione mentale. (Noi dovremmo giocare solo con squadre che hanno una stazione ferroviaria dove ferma un Intercity). Il primo furgone, stanco di proseguire dritto verso Pisa, imbocca un’uscita. A caso. Quelli che, dal mezzo che segue, assistono impotenti all’insano gesto, non hanno la forza di reagire. E siamo a San Miniato. Il perché siamo qui, beh, è tutt’altra storia. Il Tom-tom ha preso, a tutti gli effetti, il comando del battaglione. Il Tom-tom è il nostro capo-ultras. Dovesse diventare anche il nostro lanciacori, sarebbe affascinante. “Tra duecento metri: Il Foggia è tutto per me”. Un reticolo di vie, di cos e cos. Nomi a vanvera e inversioni di marcia. Pianto incipiente. E, dopo tanto vagare, un ponte. Chiediamo ad un fulminato al volante dove diamine giochi il Tuttocuoio. Quello ci indica la strada per i Campi Sportivi. Più d’uno, che esagerazione! E mentre attendiamo che scatti il verde, viviamo il miraggio collettivo di un nove posti che ci taglia la strada in senso inverso. Ma ormai, non distinguiamo più la realtà dalla messinscena. Giungiamo al “Masini” durante l’intervallo. Ci sono altri foggiani, fuori. Ci stavano aspettando, sostengono. E il tono sembra quello di un rimprovero. E via col valzer. Un tipo in rosso con l’auricolare, frettolosamente ribattezzato Ispettore, ci parla placidamente. Dice che ormai la Signora-del-botteghino ha chiuso e lui non può farci niente. Chiediamo dove sia adesso la Signora-del-botteghino. Quello, col dito, ci indica la volta celeste, tanto da farci sospettare che la Signora-del-botteghino sia la Madonna di Pompei. Cerchiamo di essere diplomatici. Ma quello rientra, riesce da una porta di ferro, poi ripete che no, non può proprio farci entrare. A quel punto il nostro rappresentante si lancia in un’accorata filippica di cinque minuti. Le nostre ragioni, tutte. In foggiano stretto. Noi annuiamo convinti. L’Ispettore improvvisato ha gli stessi occhi nel vuoto di Paolo Brosio. Al che una voce intima al rappresentante: “Forse è meglio che parli in Italiano”, ma quello si risente, e sbotta: “Il dottore capisce, non è mica del Venezuela!”. Lo dice in foggiano, ovviamente.
Il “dottore” dice che capisce.
Il “dottore” finge.
Il “dottore” è una meretrice.

L’ultima trattativa naufraga come la Conferenza di Monaco. Restiamo fuori. Il botteghino ha una tettoia. In piedi sulla tettoia, il rettangolo di gioco si vede meglio che dal settore del “Viviani” di Potenza. Saliamo tutti. Il Foggia, in maglia bianca, sembra manovrare con difficoltà, ma manovra. Noi diamo il via al sostegno. In gradinata, diversi foggiani non residenti. In tribuna, diversi foggiani non residenti. Il Tuttocuoio è nero verde. Torna in mente il 4-2 di Sassuolo. Il trauma collettivo. Di solito, la tua infanzia finisce quando capisci che puoi prendere quattro gol a Sassuolo. I bolognesi escono e ci raggiungono. Anche per questo, è bello avere un gruppo. Quando i tuoi rinunciano ad un posto in tribuna per darsi alla macchia al tuo fianco. Il Foggia pareggia su rigore. Poi passa addirittura in vantaggio, su rigore. L’impressione è che, senza rigori, non segneremmo mai. Questa evidenza un po’ intristisce. Noi cantiamo, i residenti al Nord ci fotografano, la digos ci video-riprende. La Sigora-del-botteghino ci guarda e veglia su di noi. Dall’alto dei cieli. Siamo in dirittura d’arrivo. Sta arrivando la prima vittoria della stagione. C’è entusiasmo. Io guardo spesso giù. Il salto che mi riporterà a terra mi preoccupa. Vorrei evitare il Pronto soccorso di Santa Croce. Ma, nel bel mezzo del pensiero stupendo, il Tuttocuoio – che non è il Cuoiopelli, a quanto pare – pareggia. Come, bene bene, non s’è capito. Mancano tre minuti. E il Foggia non ha la forza di tornare a galla. Applausi alla squadra sotto la tettoia. La sensazione è che questi ragazzi siano il proverbiale elefante che, dopo atroce sforzo, non possa partorire che topolini. Tre miseri punti in cinque partite. Dopo aver dato l’idea di una fatica immensa. Ma non c’è tempo per pensarci. I saluti con i non-residenti sono frettolosi. Neanche il tempo di una birra. Bisogna consegnare i mezzi. Riprendere l’autostrada. E quando vediamo il primo furgone puntare decisamente su Pisa, ignorando che la Firenze-Roma si chiama così perché si imbocca a Firenze, capiamo. Che sarà involontariamente Aurelia. Cecina-Grosseto-Civitavecchia. Un rosario d’acqua a secchiate, il caso della cioccolata alla fidanzata che sparge acredine tra gli abitacoli, tre improvvisi cedimenti del motore. E un panino con la coppa a 1,90.
In definitiva, non è successo niente.

24/09/13

La formula dell’alchimia



Domenica 22 settembre 2013, Melfi-Foggia 0-0

Il libro è voluminoso, aperto sul leggio, due passi corti a destra dell’ingresso laterale. Navata della cattedrale.
Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri. Deuteronomio 10:19.
Fuori, la piazza si sviluppa rettangolare. Le nuvole grigio-nere scalano le colline. Il vento prematuramente gelido sferza l’acciottolato. Un deserto che conosco. Mi prendo i meriti d’aver indossato una felpa. Anche se so che non è andata così. Solo con la camicia da macellaio serbo sarei eroicamente svenuto. Casuals. Oggi eravamo tutti casuals.
Il rumore dei passi riecheggia nel silenzio totale del pomeriggio. Qui non arriva l’eco di Tutto il calcio minuto per minuto. Il bar è distante. Il whiskey dovrebbe sempre avere dei bicchieri adatti. La Roma sta vincendo il derby, il Sassuolo è già matematicamente retrocesso alla quarta giornata. Ma quel calcio ci interessa quanto il terrorismo islamico in Somalia. O le dispute di confine nello Yemen. Il boato che arriva ai gol dell’Inter, poi,  è così simile a quello della Partita del cuore da mettere i brividi e riempire di sgomento. Meglio inoltrarci tra il pulpito e il coro di questo duomo normanno. Il campanile è chiuso. Saremmo saliti volentieri. Magari dal punto più alto, saremmo riusciti a vedere il cerchio di centrocampo. Respinti, siamo stati respinti. E i soldi che abbiamo risparmiato al campo, li spendiamo in J&B, Glen Grant, Borghetti e Jameson. E mettiamo pure i 50 centesimi nel marchingegno pretesco che serve ad illuminare la teca dietro l’altare maggiore. San Teodoro Martire è un cadavere, riesumato dal cimitero di San Callisto. Non ce l’aspettavamo proprio.
Veniamo dal castello. Che il cielo così malridotto dava un senso di Cornovaglia. Si alle residenze inglesi! Veniamo da un altro bar, sfuggito alla mareggiata degli anni Zero. Angusto e affollato di oggetti sepolti. Svariate pubblicazioni sul brigantaggio lucano esposte in una vetrinetta, souvenir da autogrill, quaderni, chewing-gum a palline nella boccia di plastica trasparente, la reclame di una marca di perizoma. E il rude bancone, vagamente obliquo, variamente sprofondato da un lato. Più che un bar, uno spaccio di alcolici incastonato nella cambusa di una nave a picco. Il nostromo è rude quanto il bancone. Radionorba in sottofondo ci annaffia di Bisceglie-Taranto. Ma è quando dice qualcosa a proposito del Martina, che il nostromo s’inalbera. “Oggi c’è Melfi-Foggia”, annuncia con un misto di sdegno e rimpianto, come se noi non lo sapessimo. Riempie i bicchieri da amaro come se versasse Novalgina. Il whiskey dovrebbe sempre avere dei bicchieri adatti. “Che brutta fine ha fatto il Foggia”. Ci guardiamo. Non replichiamo. L’evidenza, del resto, è evidenza. Ma quello insiste, e dopo aver fatto gocciolare un Caffè Sport in un altro recipiente a caso, e aver sparato 2,50 per una focaccia neo-borbonica, proclama che “poi, il Foggia non merita neanche di stare in questa categoria. Il Melfi meritava di essere ripescato in C1”. A quel punto, è inevitabile farsi diga e arginare lo sproloquio. O, quanto meno, chiedere – di grazia – da cosa nasca quel dispari e bizzarro convincimento. Si inalbera: “Sono undici anni che siamo in C2”. E l’affermazione dovrebbe bastare. Perplessi, facciamo notare che – se così fosse – noi dovremmo essere in Europa League da un pezzo. Solo a quel punto Mastro Livore capisce che siamo foggiani. E ci accusa: “Voi siete stati ripescati ingiustamente!”. Ma no, buon oste, noi eravamo belli placidi in Prima divisione, salvi e satolli. È che siamo falliti. Ma quel che ci è giunto non è che la metà di quel che ci spettava. Niente da fare. “Noi meritavamo! Foggia è una città, noi siamo un paese!”. E la sentenza, unitamente allo sguardo fisso e vitreo e al timore che ci tolga – per punizione – la residua dose di liquore nei bicchieri, ci porta a convenire. I paesi meritano di essere ripescati. In quanto tali. Il Tuttocuoio dovrebbe, a quest’ora, essere nel girone col Marsiglia. Un altro giro di alcool. Altra tirchieria militante. E la polemica sulla focaccia rancida, che rischia di rompere definitivamente i rapporti bilaterali. Come per le due Coree. Usciamo a respirare. Il castello, “dimora prediletta” di Federico II. Come tutte le altre. “Leggenda vuole che intorno al 1520 il signorotto locale sovvenzionasse un oscuro personaggio, un frate dall’identità sconosciuta, incaricato di trovare il modo di trasmutare i metalli in oro con l’utilizzo dell’alchimia. Pare ci fosse riuscito. Le sue formule alchemiche sono vergate da qualche parte nel castello, ma nessuno le ha ancora trovate”. Noi veniamo bloccati all’ingresso e manco ci proviamo. È un giorno scorbutico, questo. Sostiamo nel patio fortificato, a parlare di cavalleria medievale e di streaming che si blocca. Abbiamo avvisato casa. Nel caso dovesse succedere qualcosa al campo, un colpo di telefono. Ma i mezzi di comunicazione tacciono.
Ci va bene un pari a Melfi? Boh!
Di fondo sta che ci eravamo avviati carichi di speranze. La distanza ridotta, la cittadina meridionale, inducevano ad un ottimismo senza basi. Nell’ultimo tratto della superstrada, quello che aggira il paese per puntare verso Rapolla, un paio di pattuglie della polizia ci avevano obbligato ad aggrottare le sopracciglia.
Al parcheggio del campo sportivo, poi, la camionetta e le due macchine della polizia, ci convincono che non sarà semplice. Siamo una settantina. Avanziamo colorati. Non siamo male affatto. Il poliziotto più anziano ci viene incontro. Il dialogo non è aspro, ma breve si. Dice che contatterà il funzionario per imbastire una bella trattativa. Il campo è oltre questa discesa di asfalto e ghiaia. Oltre la radura e i container dei terremotati. A concentrarsi, si intravedono i fari tra gli alberi e uno spicchio di tribuna. Il poliziotto anziano torna scuotendo il capo. Il dirigente è già nello stadio e non intende parlarci. Crediamo sia l’inizio di un braccio di ferro. Abbiamo tutta la calma e la pazienza che servono. Ci spiegano che “il Termoli ha avuto una multa di duemila euro due settimane fa”. Prima di rispondere che la cosa non ci riguarda, capiamo che parla del Teramo. E la cosa si, ci riguarda. Ma perché un dirigente di polizia si preoccupa delle multe di una società di calcio? È come se un il procuratore di Messi si occupasse di spaccio. Ma magari lo fa. Ad ogni modo, lo stallo è totale. Stancante. Siamo un branco di orsi in gabbia. Ci muoviamo avanti e indietro, come galeotti. Qualcuno guadagna terreno verso la campagna, il fianco della collina, e alza il collo per provare ad immaginare il terreno di gioco e gli spalti. Ma da qui è impossibile vedere. Si sentono, invece, i cori dei padroni di casa. Anche degli ospiti tesserati. L’attesa logora. I minuti passano lenti. E dopo mezz’ora, chiediamo nuovamente l’incontro al vertice. Ma il funzionario è inflessibile. Non si tratta coi non-tesserati. È andata buca, ormai è chiaro. Ma ci siamo. E ce lo siamo detti da subito: comunque vada, lo facciamo per noi. Quindi, zero rimpianti. A testa alta, verso il sottobosco e controvento. Le mani al cielo. L’urlo, secco: Curva Nord Franco Mancini! E l’impressione che, dal basso, qualcuno faccia silenzio per qualche secondo. Del resto, nessuno si era illuso che a Melfi avremmo trovato proprio noi la tanto ambita formula dell’alchimia. 

Il Libro