30/12/13

L’Anglo-Italiano del Novantasei e la paternità


Questa storia ha bisogno di testimoni. Ma non perché, sfiduciato, ritenga di perdere colpi o abbia preso a sottostimare la mia memoria. Quando dissi che avevo visto l’Unione Sovietica allo “Zaccheria”, dicevo il vero. E l’ho dimostrato. Anche Lello, a onor del vero, aveva ragione ad insistere sul Flamengo. Ma questa storia è diversa. È collettiva, più delle altre. Perciò necessita di raffronti.

Del torneo Anglo-Italiano abbiamo avuto modo di parlare. Di quella bizzarra formula degna del Reform Club, pure. E, ancor di più, del fatto che quel torneo sia finito nel dimenticatoio come le schede telefoniche da cinquemila lire. E che abbia il potere di farti sembrare un dinosauro. Di quelli che si muovono nella camera in mezzo con le pattine della nonna. Che a terra c’è la cera. Ma c’era “Wembley” di mezzo. Ragion per cui, per i più distratti, spendiamo due parole.

[Pausa grappa]

In sostanza, svariate squadre italiane ed inglesi si affrontavano in svariati gironi misti. Di solito, erano le squadre della cadetteria a sfidarsi, nei gelidi pomeriggi infrasettimanali d’autunno. Ma non so se è sempre stato così. Poi, le compagini italiche e quelle albioniche meglio piazzate si dividevano per definire la finalista nazionale. E le due vincenti, s’affrontavano a Londra. In gara singola, trasmessa da Rai Tre. Il Foggia, retrocesso dalla A l’anno precedente, vi partecipò nella stagione 1995/96. Vinse due partite fuori casa (col West Bromwich e il Southend), ne pareggiò una in casa (con lo Stoke City) e una la perse, sempre allo “Zaccheria” (0-1 con l’Ipswich town). Quindi, di diritto, conquistò la semifinale autarchica. Ancora tra le mura amiche. Col Cesena. Non so perché questa storia mi sia tornata in mente dinanzi allo stadio comunale di Sulmona. Forse perché sulle montagne della Maiella c’era la neve. Forse perché quelle strutture di ferro invitano al sogno, al viaggio, più di un pezzo di Battiato. Forse perché c’erano dei ragazzi delle giovanili, fuori, con le tute e i borsoni. E i loro dialetti erano così diversi l’uno dall’altro da spingermi ad immaginare le loro vite. Che, come diceva quel Sudamericano, rotolano assieme ad un pallone. Che, nella mia memoria, è sempre bianco ed ha sempre i pentagoni neri. Ho sbirciato tra le inferriate, alla ricerca del manto erboso. In preda alla stessa tentazione di un Lino Banfi con gli spioncini. Oltre i quali, la Fenech faceva la doccia. Ho letto su un manifestino attaccato con lo scotch che i locali avevano appena affrontato il Matelica. E ho pensato che nessun posto al mondo – neppure la Moschea celeste – può vantare più storie di un campo di calcio. Persino di questo. Ho popolato la mia fantasia di migliaia di teste sconosciute. Di decine di migliaia di esistenze individuali, atomizzate, chiuse. Che, domenicalmente, andavano a sbocciare in una complessità emozionale che era popolo. Agli abbracci agli sconosciuti dopo quel famoso gol di Bresciani. Al pianto liberatorio quando sventammo la C2. E a decine d’altri episodi, ugualmente banali. Ugualmente immensi. No, nessuna chiesa dell’arcidiocesi, nessun ospedale da campo, può raccogliere tante involontarie solitudini e farne un mosaico.

[Altra pausa per la grappa]

Il 10 gennaio del 1996 è un mercoledì. Per sapere quali materie avessi in Orario quel giorno, dovrei recuperare i diari del quinto. Ma voi non avete idea di cosa ci sia in quei tiretti. Quindi, lasciamo perdere. Con lo zaino sulle spalle, insieme ad altri esponenti della futura classe dirigente, muoviamo dal Programmatori a Viale Ofanto. Per strada, si accodano i futuri leaders del Marconi, del Masi, persino del Volta. Un sacco di futuri medici, notai, politici, che in confronto la Marcia dei Quarantamila è il Carnevale di Rio dei pezzenti. A mia madre ho detto che non avrei mangiato a casa. “No, mamma, non mi drogo. Oggi c’è il Foggia”. La buona donna rimase sospettosa – I remember – senza credere totalmente a quella stramba verità. Diciamocelo: mia madre non ha mai creduto nell’Anglo-Italiano. Per questo non è mai stata accolta al Reform Club. È aperta solo la gradinata. Quanta gente vuoi che venga a vedere ‘sta partita? Posizionati ad altezza cerchio di centrocampo, gli striscioni, i saluti. “Che devi andare a un matrimonio?”, è la battuta più ricorrente che gli affamati si scambiano. Gli zaini uno sull’altro. Le sciarpette. Saremo trecento, forse meno. L’altra semifinale è tra Genoa e Salernitana. La finale sarà a partita doppia. Andata e ritorno. Qui, oggi, basta vincere. E avviciniamo “Wembley”. Nel mio ricordo non ci sono cori. Non siamo ancora “moderni”, e dinanzi alle gradinate semi-deserte, a nessuno da trascinare, non cantiamo per noi stessi. Al novantesimo è zero a zero. La fame comincia a farsi sentire. Come per l’Arsenal di Hornby, volano le bestemmie. Se non fossimo così affamati di questi colori, ora saremmo sazi. Invece, il buio prende a predominare sul cielo plumbeo d’inverno. Qualche faro si accende, come luci di locanda nella notte senza stelle. Il primo tempo non serve a niente, come metafora e summa del resto della partita. È uno zero a zero di difficile risoluzione, questo. Ma tra un quarto d’ora, al massimo, i rigori sbroglieranno il caso. Così, reprimiamo con uno “Sccchhhttt” strategico i morsi dello stomaco e andiamo avanti. Senza immaginare che, di lì a breve, qualcosa avrebbe reso quella partita indegna, memorabile. L’altoparlante. Lo stesso che – con un clic inconfondibile – precedeva la voce dello speaker – dell’annunciatore – quando si trattava di segnalare l’ora offerta da Ciletti. E che leggeva i risultati della C1 girone B. O che, anni prima di Francesco Salvi, faceva presente che c’era da spostare una macchina. Beh, quella volta fece un nome e un cognome. Disse che il signor Tal dei Tali era atteso. Ma non come quell’altra volta, anni prima, che c’era il padre della moglie di uno spettatore all’ingresso della tribuna. E tutti, attorno a mio padre, ipotizzarono che avesse un’amante. No. Stavolta lo spettatore era atteso a Reparto Maternità. Pathos. Timore. Nessuno guardava più la partita. Trecento paia di occhi, qualcuno in meno (ma l’abbiamo detto), fissavano la tribuna. Come ad individuare il megafono. Come a potervi guardare dentro, direttamente nella voce dell’annunciatore. Adesso quella comunità di sconosciuti voleva sapere. Doveva sapere. E la voce, teatralmente sospesa, alzandosi di un mezzo tono, continuò. E disse che Tal dei Tali era diventato papà di uno splendido maschietto. O di una femminuccia, non ricordo bene. Perché l’ovazione fu generale. Allegra e commovente. Nessuno si sottrasse a quella gioia. Come se lo “Zaccheria” avesse, d’un tratto, un figlio in più. E gli occhi si misero a vagare. Anche i miei. Alla ricerca del neo-papà. Finché, noi tutti, non lo individuammo. Anche grazie a qualcuno che lo indicava, come i marinai di Magellano indicavano le Americhe. C’era un uomo, lassù, che sorrideva. Sconvolto e felice. E scendeva i grandini saltellando. O, almeno, ci provava. Perché adesso la sua corsa verso via Napoli era frenata da un’onda lunga di mani, e pacche sulle spalle. E addirittura bacetti d’augurio. Le felicitazioni dei presenti alla vera impresa di quel giorno.

[Grappa]

Non so perché mi sia venuta in mente questa storia, col muso infilato tra le inferriate del (presumo) comunale di Sulmona, L’Aquila. Forse perché mi è venuto in mente Angelo, che mentre Manuela usciva di conto era con noi al “Bentegodi”. Ma quella era la prima di campionato. E poi a Verona. Forse perché ho pensato che quel bambino, il 10 di Gennaio, diventerà maggiorenne. E io non so, né forse mai saprò, nulla del padre. Se non che, mentre la compagna era prossima all’evento più importante di una vita, è sceso di casa, è andato a lavorare e, a digiuno, è corso a vedere Foggia-Cesena di un torneo caduto nel dimenticatoio delle schede telefoniche. Magari anche la compagna non ha mai creduto nell’Anglo-Italiano. Ma è così, signora. Suo marito era in gradinata, quel giorno. Posso testimoniare.

16/12/13

Per niente


Aversa Normanna-Foggia 3-1

L’ispettore è partenopeo. O giù di lì. Ricorda qualcuno. Salemme. O giù di lì. Parla in maniera spigliata, fa il simpatico. Il che, per uno sbirro, equivale ad una manganellata di precisione. Però, gli va riconosciuto, non è molle, arrendevole, pulcinellesco. Non dice, per esempio, che dipendesse da lui ci farebbe entrare. Tutt’altro. È scaltro nell’ammansire, ma fermo nelle petizioni di principio: “Ad Aversa non entra nessuno”, dice e ribadisce più volte. Noi, sotto una cupola di pioggia sottile, così sottile da sembrare la nebbia di Mezzacapa, mostriamo un campionario di facce stanche. Esauste. Di penzolare in attesa di un giudizio che già conosciamo. Di discutere di massimi sistemi d’evasione coi professionisti dell’incarcerazione. Abbiamo parcheggiato male. Ma male tanto. E già in questo v’è un che di inconscio. Di fatato e fatale. Non ci vorrà molto e ruoteremo il muso delle nostre diligenze. C’è chi ha persino lasciato i fari accesi. Ce lo dissero a Caserta, in anteprima assoluta: “In Campania scordatevelo!”. E Salemme non fa altro che confermare. Sfiga. Che stavolta l’uomo in divisa, dai baffi bianchi e dalla voce rotta di cazzo, che ha deciso di onorare lo Stato senza prendersi più veleno, l’avevamo pure trovato. “Quanti ne siete? Trenta?”. Ci avrebbe condotto al botteghino. Che qui, a quanto si espunge dai dialoghi incrociati, il problema è più che altro portoghese. Pre-tessera, indi. Noi il biglietto l’avremmo fatto volentieri. Pagando, s’intende. Al baffo bianco sarebbe bastato. Ma Salemme si fa chiamare “dottore” non a caso. E alè. “Ma perché non ve la fate la Tessera?”, chiede. Probabilmente è la stessa domanda che ha rivolto ai Cosentini e ai Messinesi, che pare siano transitati da queste parti. Non c’è tempo né voglia di controllare. Si risponde che la Tessera è sbagliata. Punto. Quello dice che apprezza la nostra coerenza e ci invita a fare altrettanto della sua. Punto. Che Paese balordo! Ogni dieci metri uno sceriffo diverso. Che risponde alla sua morale interiore, o ai film di Maurizio Merli che ha visto, piuttosto che alla Legge. Che dovrebbe essere la medesima. A Merano come a Teramo. C’è anche un secondo dottore. Incrocia il mio sguardo alla prevista sentenza. Mi chiede, per cortesia, di non cominciare col piagnisteo. A me! Ma Si figuri, con tutti i problemi che c’abbiamo, questo è davvero l’ultimo!

I problemi. Costante sublime. Minimo comune denominatore di questa stagione di respingimenti, che manco Malta coi barconi dei profughi. Abbiamo cominciato subito, oggi. Proprio oggi, che già eravamo al limite dell’orario. Una precedenza sottovalutata, dopo la bellezza di quindici metri di viaggio. Una macchina nel paraurti. Roba di gemme rotte, di constatazioni amichevoli, di urla nel caos del mercato aperto per Natale. Un primo distaccamento in marcia, un secondo a ruota. Il cielo bianco, la strada deserta. Fino a Candela, all’imbocco dell’A16. Velocità sostenuta. Sei macchine sparpagliate nel raggio di venti e passa chilometri. Contatto radio, come in trincea. Sappiamo che è dura. Che, nonostante l’approssimarsi delle Festività, una volta è Poggibonsi. Ma è inutile fasciarsi la testa prima di azzoppare sul reticolato dello stadio. Dobbiamo tentare. E andare. Per i motivi che sappiamo. Se guardassimo nelle tasche di ognuno, ben pochi avrebbero una dieci euro citeriore. Quella del ticket. Ma le espressioni sono determinate. O, almeno, sparsi e distanti come siamo sul selciato, le immaginiamo così. Da noi si alza e si abbassa lo stereo. Si parla di Forconi e Catanesi, in maniera alternata, tanto da aver compreso che i Veronesi del picchetto le hanno prese. O date. O boh. Di certo, erano quasi cinquecento. Un bel presidio. E non è facile, oggidì. Corriamo. Giochiamo col cronometro. Cinque, anche cinque minuti soltanto. L’anticipo determinante. Il Vesuvio sulla sinistra. Soffocato dalle nuvole. Lo svincolo di Nola. Qualche altro chilometro in linea retta. Poi, il delirio. Avevamo degli amici ad Aversa, anni fa. Una volta andammo pure a fargli visita. C’era una festa e vincemmo un barile di birra. Ci stupì la quantità di ragazzi in motorino. “Dove vanno?”, chiedemmo. “A Fuorigrotta”, ci risposero, “è a cinque minuti da qui”. Cazzo. Il concetto di geografia è legato alla percezione più dell’amore stesso. Nelle teste, le cartine ruotano come foto in Paint. Tra cent’anni qui ci sarà spazio per una sola grande megalopoli. Un ponte, uno striscione: “No al biocidio”. Il vulcano e i rifiuti atomici. O una megalopoli o il deserto. Non c’è molta scelta.

Allo svincolo per Villa Literno abbiamo dieci minuti di vantaggio sul fischio d’inizio. Ma di buono c’è che siamo in fila indiana. Ci inoltriamo. La campagna, da queste parti, è un concetto assai labile. Discutibile. Lo diciamo ogni volta. Un senso di abbandono strutturale. Di quegli abbandoni che non hanno a che fare con l’assenza di umanità, ma con un surplus della stessa. Frattaminore, Frattamaggiore, e più in là Casal di Principe. I quattro punti cardinali si moltiplicano, danzano senza un perché. Napoli emerge ed affonda. Uno svincolo. Campagna per campagna. Rottami. E le indicazioni per la Base Militare Americana. US Navy. Gricignano. Un reticolato, un campo di calcio, un palazzo enorme e grottesco. Quasi finto. Il sospetto che quelli dentro non si siano mai presa la briga di uscire fuori dal loro mondo incantato, curato, perfetto. Una fila di macchine interminabile. Un passaggio a livello. I dieci minuti cadono a uno a uno, come soldati di prima linea all’assalto di un caposaldo nemico. Scatta l’isteria. In questo brullo paesaggio desertico, dove ogni posto richiama un altrove radicalmente differente, ci perdiamo. Sappiamo di dover aggirare la colonna motorizzata, se non vogliamo restare imbottigliati. Ma non sappiamo se l’operazione potrà portare dei benefici sulla tabella di marcia, già ampiamente compromessa. Tiriamo dritti verso uno sprofondo, invertiamo la rotta e ritorniamo sulla statale, puntiamo un’uscita denominata Carinaro. Il telefono scotta. Altre zone industriali. Altra onnipresenza umana che prende le sembianze di lavatrici scassate ai margini dell’asfalto. Un sottopasso. Un incrocio. E finalmente un segnale. Che annuncia 4 km ad Aversa. E solo 14 a Napoli. Case. Ristoranti ed edicole. Non sembrano case, queste. “Stadio comunale”. Procediamo a singhiozzo. Guidati da indicazioni umane e robotiche contraddittorie. Alla fine, direi che ci siamo.

Il peggiore degli scenari: zero trattativa ma tante chiacchiere. Pedagogia e artefatta comprensione. I poliziotti sono tranquilli, sereni. Dicono che se ci fossimo fatti tutti la Tessera glielo avremmo messo in quel posto. A chi comanda. Certa gente non la capiremo mai. Tutti tesserati, tutti ovunque – esclusi i divieti alla salernitana – e poi? I sindacati di polizia sul piede di guerra. Sostiamo più di dieci minuti. Dall’interno giunge un grido di esultanza. Il Foggia è pervenuto al pareggio. Non sapevamo stesse perdendo, ma fa sempre piacere sapere che si segna. E che qualcuno esulta. Il tempo di sistemare la scenografia per la foto di rito, e l’Aversa torna in vantaggio. Noi urliamo contro l’ennesimo muro che ci separa dal piacere puro del sostegno. Un coro alla Tessera, uno alla nostra curva. E un paio ai nostri. Forza ragazzi! Dall’interno, nessuna risposta. Il tempo di rientrare nelle macchine e l’intero agglomerato di case evapora in un intrico di diramazioni. Prendiamo la strada di Montemiletto, a svariati chilometri da qui. Per sentirci, tra i boschi ascendenti, in concordia col clima natalizio. Da casa giungono aggiornamenti sconfortanti. Il Foggia in dieci, poi in nove. La Normanna sul 3-1. Giornata no, come si suol dire. In piazza, al paese, c’è la musica e lo struscio degli anziani. Tu scendi dalle stelle sparato a volume altissimo. I vecchi ci guardano. Gli chiediamo perché il Castello si chiama della Leonessa. Ma la musica alta li ha sballati di brutto. L’alimentari è l’unico posto aperto. Non ha alimenti. Ma la Ceres costa 2 euro. Mostaccioli. Felici per niente. 

02/12/13

La Grande Impresa



Domenica 30 novembre 2013, Poggibonsi-Foggia 0-1

Oniria

Si, la radura sulla sinistra ha un nome. A detta della cartina pluri-spiegazzata, aperta a mo’ di sudario evangelico sull’altare del cruscotto, dovrebbe chiamarsi Sibenicnik. L’Austria è alle spalle da quattro minuti. Questa è Repubblica Ceca. A Mikulov è prevista una sosta. Un pacco di Ritz, due scaldatelli, del buon vino d’Oltrecortina. Ce l’avranno il Fortore? Dobbiamo fare benzina. Il pieno. Mancano ancora 1.900 chilometri alla meta. Qualcuno dorme, con un plebiscito nell’ultima fila. Ma nessuno è stanco. E ci mancherebbe altro! Sono anni che aspettiamo questo turno di Uefa. Anni in cui abbiamo giocato in posti indicibili, riproducendo frammenti di memoria inemendabili. D’accordo, anche allora, durante la traversata, c’erano gli amici, l’asfalto, i divieti e qualche volta i gradoni e il terzo tempo. Abbiamo accumulato ricordi notevoli, quasi felici, nonostante tutto. Ma la nostra dimensione è questa. L’Europa, inutile negarcelo. E quando dall’urna di Nyon è scaturito il nostro primo avversario, ci siamo divisi in parti variabili tra l’estasi, la frenesia e l’entusiasmo. Lo Spartak di Mosca è squadra di tutto rispetto. E la Russia è trasferta da furgone per antonomasia. Ditelo a quelli del Paok. Il mezzo dondola sotto i miei piedi. Lo sento. L’asfalto ceco è quello che è. Le prime case del paese. Questo dev’essere il Villaggio artigiani di Mikulov. Un distributore. Freccia a destra. La voce di Antonio al volante: “Ma come cazzo devi fare a scrivere il resoconto?”. Ce l’ha con me. Ma come?, penso. Stiamo andando a Mosca. Basta questo a riempirmi d’ispirazione solida. Ma quello insiste: “Voglio proprio vedere che scrivi”. Il nove posti rallenta, coi suoi fari spenti scruta il primo parcheggio disponibile. Si ferma. Rumore di chiavi che vengono sfilate. Sportelli che si aprono, portellone che scivola sui cardini.

Mi sveglio.

Questa dev’essere l’Agip della Cecoslovacchia. Ma Sarni, in Cecoslovacchia, non ci è ancora arrivato. E forse neppure esiste più, la Cecoslovacchia! Mi sa che ho dormito. Ma si, sicuro. “Dove siamo?”, “Dopo Ancona”. E se non ho ricordi di Termoli, Pescara e San Benedetto del Tronto, è del tutto evidente che sono scappato a sonno. Sorrido, fingendomi tonico e pieno di me. Come solo quelli svegliati di soprassalto sanno fare. Che poi, non si è mai capito perché ci si vergogna sempre del proprio abbiocco. “Che stavi dormendo?”, “No, che sei pazzo! Avevo solo gli occhi chiusi”. Vedo la combriccola pascolare sul cemento. Non stiamo andando a Mosca. Ricordo. Tutta colpa di quella sveglia alle 5 che non ha suonato. O forse ha suonato per un po’, e poi si è intristita. Chiudendosi in sé stessa. Non dovevo addormentarmi alle quattro. Oppure, non dovevo apparecchiarmi come se davanti avessi una nottata normale. Ho un’immagine di me. Mi vedo scendere di casa, come un volontario irlandese nella bruma del mattino. Vagare. Ricordo il muso del furgone noleggiato sbucare da Via Onorato. Mi sono venuti a prendere sotto casa. Un onore inaspettato. Che mi inorgoglisce. Mi hanno riservato il posto al centro, avanti. Il più scomodo di tutti. Ma è il contrappasso. Ricordo, ho calato la testa sul petto. E, contorto come Houdini nella botola, mi sono spento. Off. Ora, non so perché, mi fingo iperattivo. La coscienza è una mareggiata calma e implacabile che, poco alla volta, guadagna metri di bagnasciuga. Poggibonsi. Giochiamo a Poggibonsi. E non credo sia il primo turno di Europa League. Non ho mai visto la scritta Poggibonsi uscire dall’urna di Nyon. Direte: Neanche la scritta Foggia, se è per questo.
Rispondo: Fatevi i cazzi vostri, voi!

Immigrant song

Son figlia d'emigrante,
per questo son distante,
lavoro perché un giorno a casa tornerò.
La porti un bacione a Firenze,
se la rivedo, glielo renderò.

Scavalliamo l’Appennino. Vento freddo, nebbia sui colli, ma niente pioggia. Le luci verdi e rosse del casello, le nostre facce sorprese d’essere già qui. È incredibile. Pensi che l’Italia sia un posto lungo e complicato da percorrere, ed ogni volta ti stupisci che avesse ragione il calcolatore elettronico. Aveva detto 6 ore, quel coso. Ma noi siamo dietrologi per natura. Ci affidiamo, ma non ci fidiamo. Eppure, sono ancora le tredici e già siamo al casello. Ansia da tempo libero. La Sinalunghese va a Porta Romana. Eccellenza toscana, girone B, tredicesima giornata. È sull’altra corsia, quella che – seguendo i precetti di Murphy – scorre più velocemente. Finestrini abbassati. Un coro, un battimani. Quelli rispondono. “Avete battuto il Castel Rigone, un mio amico gioca lì”. Non c’è niente da fare, la fama del Foggia calcio ci precede. Anche in Ossezia sarebbe successo. La statale è dissestata, ma alla meta mancano diciassette miseri chilometri. E non ci badiamo. Il paese è prossimo, e giunge allo scadere della prima cassa di Peroni. Nell’abitacolo girano panini di contrabbando. Finanche delle acciughe. La squadriglia romana chiama: “Sembra il Cep”. Il Tennis club, alcuni campi di calcio. Una specie di cittadella dello sport. Tutti giù. Non mi sento più le gambe. Sguardo circolare. È sempre rilassante questa regione. Il verde, il silenzio, l’ora di pranzo, la domenica. E per omaggiare tutto ciò, si fa pipì a ridosso di un muretto basso. Troppo basso, almeno per quelli del palazzo di fronte. Ma ormai è fatta. Certe volte, tutto sta nel principiare. E, come spesso accade, non si può tornare indietro. La casupola in legno a margine di un cancello e di una stradina in ghiaia, sembra la casa di un picchio. Di quelle che vanno tra i rami. È la biglietteria del settore ospiti. Noi, bene bene, non sappiamo cosa diremo. Abbiamo abbozzato una strategia, ma poi il J&B ha modificato radicalmente l’ordine delle priorità. Si parlotta con un paio di addetti. La polizia ci osserva stancamente. Manca ancora un’ora al fischio d’inizio. Noi ci atteggiamo a monaci pazienti. E ci godiamo l’afflusso dei foggiani, che si riversano nello spiazzale. Quello del palazzo sopra al muretto continua a guardare. O è curioso, o è rimasto pietrificato da prima e con gli occhi immoti, ci sta chiedendo aiuto. Nel dubbio, sfoderiamo indifferenza. I non residenti – tesserati o meno che siano – sono affascinanti da guardare. Ispirano un mucchio di domande e altrettante riflessioni. Ti chiedi delle loro vite, dei motivi che li hanno spinti ad andar via, di quelli che ostinatamente li obbligano a mantenere vivi i legami. Ed anche cosa li spinga a realizzare degli striscioni così brutti, a coprirsi sempre troppo d’inverno e a legarsi le sciarpe in zone dove – se esistesse un dio – non dovrebbero albergare sciarpe. Comunque, il calcio è sport popolare e d’appartenenza. Ed è bello ritrovarsi tutti.

Saluti e baci. Il whiskey che passa di mano in mano. Di ugola in ugola. Racconti, pezzi sparsi del grande mosaico della foggianità. Fotografie da un posto qualsiasi, alla ricerca di un’impresa. La casupola del picchio apre i battenti. E ci si aspetta che l’addetto di cui sbuca il mezzobusto cominci a smerciare vin brulè. Invece, tagliandi di Booking show. Noialtri ci riconosciamo. Siamo quelli con più punti di domanda sul futuro prossimo. Finché la situazione non si sblocca. [inizio passaggio volutamente criptico] Il sopraggiungere di una maschera della commedia dell’arte e diventiamo tutti Rossi. Anche quelli del Vecchio. Io sono Franco, quello è Giacomo [fine passaggio volutamente criptico. Voi fate finta di niente, tanto è gratis]. Dentro. In un angolo della gradinata. Sulla nostra sinistra, i non residenti e i tesserati, sguardi alle squadre schierate a centrocampo. Oltre, le bandiere giallorosse degli ultras di casa. Increduli, facciamo prendere aria alle pezze. E stavolta non per una fotografia di spalle. Cominciamo a incitare i nostri. E poco alla volta, come in un bar di recente apertura, cominciano a giungere avventori. Un bambino sventola una rossonera. Emozione crescente. L’abbiamo già detto che un tempo era normale andare a vedere le partite fuori casa? Penso proprio di si. Ma stavolta è una specie di regalo inatteso. Un regalo che, beninteso, abbiamo pagato coi soldi nostri. E pure tanto. Ma chi se ne frega. Siamo come quel bambino, noialtri. Campiamo di pathos. Le squadre in campo se le danno, nessuna sembra prevalere. Noi urliamo. Contro la Tessera, non contro i tesserati. Ci sono guerre che hanno bisogno di tregue. Tira vento. Poi il Foggia passa. In una sorta di mischia nell’area piccola. Goduria. Questa squadra è infingarda e stronza! Abbiamo passato anni ad inseguire piazzamenti play-off, stagioni in cui solo la prima saliva e le altre giocavano alla roulette russa. E la classifica diceva invariabilmente: quarto, quinto. E poi perdevamo in finale. Quest’anno, che basterebbe un settimo senza sforzo, questi lo andranno a stravincere il campionato. Come con Zeman e Marino. Non abbiamo equilibrio. Siamo figli di una stella emotivamente disturbata. Ma non ci pensiamo. Ci godiamo il vantaggio e cantiamo. Nell’intervallo, solleviamo personaggi di pubblico rilievo, li issiamo sulle nostre teste, poi li rimettiamo in libertà. E sniffiamo caffè. Il cielo è limpido di freddo. Nella ripresa accenderanno i riflettori. E la ripresa pure inizia. Il Foggia gestisce. I giallorossi di casa, forse, meriterebbero un rigore. Ma soffriamo solo nel finale. Il momento adatto per richiamare l’intero settore, che dopo un Foggia alè di stampo classicheggiante, s’incunea – compatto – in un lungo e magnifico coro secco. I ragazzi reggono. Il “Lotti” di Poggibonsi è espugnato. In fondo, sin dal mattino c’era aria di grande impresa. Squadra sotto la gradinata. Volevano regalarci le magliette. Noi abbiamo detto: si, si, no, no. Quelli, nella confusione, si sono offesi. Riusciamo sempre a rovinarci le giornate.

Carbonara

Il furgone dal portellone aperto smista pacchi e buste agli emigrati. È un compendio di appartenenza. Un punto di unione tra le genti daune nel mondo. Sembra il bazar di Porta Nuova.  La polizia osserva. Vorrebbero scortarci fuori. Ma fuori dove? E perché? O forse sospettano una tratta di pomodori secchi destinati al mercato nero. Abbracci. Saluti. “Buon viaggio, voi che tornate a Foggia”. La porti un bacione a Firenze. Il sole è di un arancione pacchiano. Due mezzi, due strade: un cartello dice Firenze. L’altro, pure. Riusciamo a perderci. Ma non è un problema. Noialtri maturiamo in men che non si dica la bizzarra idea di muovere su Bologna, verso una casa, una Pam dall’odore diverso, una cucina, una tavola apparecchiata, vino e carbonara. E l’autostrada ci asseconda. Telefoni roventi, la macchina organizzativa in moto. “Ohi! Si, arriviamo tra un’oretta! Grande impresa oggi! Si, abbiamo vinto uno a zero a Poggibonsi! Grandioso!”. Poi un attimo di incertezza incrina la voce sicura. “Ah, bravi anche voi. A dopo”. “Loro chi?”, “È un amico inglese, di Hull”, “Embé?”, “Embé ho fatto il pagliaccio ch’amm vind un a zer a Poggibonsi. E quello mi ha risposto: Noi oggi abbiamo battuto 3-1 il Liverpool”. Effettivamente. Bravi anche loro.


Il Libro