23/12/14

Postilla


L’ufficiale giudiziario è una donna bionda. Parla con un poliziotto dall’accento campano. È tesa, si direbbe quasi preoccupata. Chiede all’uomo in divisa di prepararsi. Di affrontare di petto i “tifosi del Foggia” presenti nell’aula cinque. Di invitarli, con fermezza, ad uscire. Che il prossimo procedimento è a porte chiuse. La divisa si gonfia d’orgoglio. Lo specchio della sua mente gli rimanda un John Wayne appiedato. “Se vado io, si sa come finisce”, pigola la donna. Sono uno di quei tifosi che aspettano il procedimento successivo. E sono nei paraggi. “Com’è che finisce, signora?”. Anche l’avvocato ha parlato di “clima politico” non sereno. Gianni e Alessandro sono dietro una porta perennemente socchiusa. Ci alziamo sulle punte, scegliamo angolazioni sempre più ardite, ma non riusciamo a vederli. La guardia penitenziaria sorveglia. Dalle nove del mattino, attendiamo questa direttissima. È l’una. Tra due giorni è Vigilia di Natale. Li vogliamo liberi, li vogliamo a casa, coi loro affetti. Ma quel “clima politico” non ci fa stare tranquilli. Lo Stato, quando subisce uno smacco o deve coprire qualche vergogna, diventa vendicativo. E da noi, sabato, c’è stato l’uno e l’altra. Il pubblico ministero, donna anche lei, chiederà la conferma della misura cautelare in carcere. È la prassi, probabilmente. Ma anche il piacere sottile di seguitare a perseguitare gli ostaggi. Perché siamo ostaggi, tutti. Gianni e Alessandro non possono inquinare le prove, né sussiste per loro pericolo di fuga. Però sono nelle loro mani. E devono decidere di blaterare spiegazioni. Di scegliere tra l’accertamento della verità e la libertà. E i due termini sono antagonisti, in un’aula di tribunale. E allora arriva la tentazione di vomitare dei bla, bla e far contenti i nostri tutori, sposandone la loro versione. Farli felici. E tornarsene fuori. Un ricatto, una cappa di fastidio. Aspettiamo. Ci giunge l’eco della conferenza stampa del questore.  “Abbiamo dovuto sopportare una tensione nervosa notevolissima”. Poveri cuccioli! “La colpa è dell’ubicazione dello stadio”. Sono giorni che ascoltiamo idiozie. Ma sembrano mesi. Parla della “popolazione civile” che, in macchina, quella sera, tornava dalle compere e s’è trovata dinanzi a gente armata. Parla di donne e bambini. In uno stadio isolato, continua, queste cose non succedono. “In uno stadio isolato non c’è la popolazione civile coinvolta”. Ma di preciso, noi cosa siamo? Paramilitari? John Wayne ci fa uscire. Ma noi sapevamo sin dal giorno prima che sarebbe stata un’udienza a porte chiuse. John crede sia dovuto al suo carisma. Farli felici. “La Curva Nord è rimasta dov’era e ha cercato di scavalcare per arrivare a contatto coi barlettani”. Già, come facciamo di solito. In attesa della squadra. “Siamo stati costretti ad una carica di alleggerimento che i tifosi non hanno preso in maniera democratica. Il resto dello stadio era vuoto”. Sbuffo, sbuffiamo. No, non ci prenderanno per sfinimento. Eravamo lì, a quel boccaporto. Ne conserviamo gelosamente i segni. Non dobbiamo cedere allo sconforto. Ripetere dieci, cento, mille volte la nostra versione. Fino a stancare, fino a stancarci. Non siamo sotto processo, noi. Non dobbiamo per forza scegliere tra libertà e verità. Anche se la verità è scomoda e, come ci fa notare qualcuno, potrebbe appesantire la situazione giuridica dei processati. Ricatti, ovunque. E ovunque processati, anche a piede libero. Il questore dice che la Nord gli ha intimato: “Noi non ce ne andiamo prima degli ospiti”. E che loro sono, quindi, stati obbligati a “rintuzzarci” con una carica. Quanta infamia. Eppure, quello era l’uomo che si preoccupava delle donne, dei vecchi e dei bambini nel traffico delle compere. Quarantotto lacrimogeni ha sparato la polizia, quattro i carabinieri. I bambini nel traffico. I bambini in curva. Flebile ci arriva la voce di Gianni. Si difende, non patteggia. Ne siamo felici e preoccupati al contempo. Il ricatto ci è entrato nelle ossa, come il freddo di dicembre. Ma ormai siamo in ballo. Entrano i capisquadra della celere di Bari. Anche la sentenza è a porte chiuse. Poi si spalancano le porte ed escono gli avvocati. Liberi. Obbligo di firma nei giorni dispari. Processo penale a marzo. In attesa del plotone dei daspo. Uno sguardo a Gianni, che zoppica. Ha la faccia livida. Anche il tono di voce non è stato il suo, per tutta l’udienza. Un pensiero rabbioso va alle ritorsioni. Alle vendette degli apparati. Ai colpi subiti a battaglia conclusa. Da ostaggi. Il pubblico ministero chiede a John Wayne di farci uscire tutti. Teme per la sua incolumità. È affascinante questo mondo rovesciato in cui gli aguzzini temono. Loro. Che avrebbero tenuto dentro a Natale due ragazzi pur di coprire lo scandalo della gestione dell’ordine pubblico. Non dobbiamo farli felici.

22/12/14

La versione della strada


Della celere ricordo le facce. Le espressioni tirate, i lineamenti deformati, gli occhi. C’era la squadra sotto il settore. A prendersi l’applauso, nonostante tutto. Il rumore sordo dei manganelli. Gli scudi. Una selva di colpi. Stanno entrando, ci siamo detti. Senza dire niente. Stanno entrando in curva. Inaudito. Inammissibile. In curva non si entra, è legge non scritta. Consuetudine acclarata. Da sempre. E noi, in questo angolo, siamo stipati come su un bastimento che va alle Americhe. In migliaia. Non regge la questione dell’ordine pubblico. I barlettani sono dall’altra parte, distanti da noi quattro barriere di vetro. E la curva stessa è strutturata in maniera tale da eliminare qualsiasi possibilità di contatto con gli ospiti. Carabinieri, Finanza e polizia, in curva ci sono sempre stati. Giù, nello spazio che divide i cancelli d’ingresso dai gradoni veri e propri. Nulla di anomalo. Oggi, poi, sono tanti, tantissimi. Sei blindati hanno scortato i tesserati da Barletta a qui. Altri cento uomini delle forze dell’ordine erano disseminati lungo il percorso cittadino dei pullman e attorno allo “Zaccheria”. In cielo, un elicottero. Impossibile arrivare allo scontro. Inutile mostrare i muscoli. Eppure ce l’hanno detto, all’ingresso: “All’uscita vi sfondiamo!”. Una promessa solenne. Che ci tenevano a mantenere. Senza il minimo riguardo per le conseguenze. La squadra sotto il settore ci fissa. Fissa quella scena. Il boccaporto intasato dai caschi blu. Calano dall’alto, come un conato di vomito. Le facce, dicevo. Hanno il sangue agli occhi. Sono inferociti. Non stanno mantenendo l’ordine. Si stanno vendicando. Un ragazzo molto giovane gli volta le spalle, alza le mani, chiede di poter andare via. Vorrebbe dire che non c’entra. Che è finito nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sento la paura nella sua voce. Lo colpiscono alla schiena. Lui si protegge la testa. Lo abbattono. È preso in mezzo. Perché adesso ci siamo anche noi da quella parte. Noi, guerrieri ingenui, tanto eroici quanto sciocchi nel voler difendere tutti. Tutti quelli che vengono in Nord. Da queste bestie. Sento le voci attorno a me. “Non abbiamo niente! Non abbiamo niente, cazzo!”. E allora si va a mani nude. Non devono entrare in curva. In tre schiacciano M. alla vetrata. Lo colpiscono ripetutamente. Al capo, sulle spalle, sul collo. Lui continua a rispondere. Finché non viene sottratto alla furia. E chi lo porta in salvo la paga. Volano colpi alla testa. Occhi negli occhi con la feccia in divisa. È odio quel che leggo. E spero che lui legga lo stesso. Fanno male le mani. Ma la Nord si difende. A costo di spaccarsi le nocche sui caschi. Non devono entrare. Ma ormai ci sono quasi. Stanno violando la nostra casa. Mentre migliaia di persone si accalcano. Una sull’altra, in un’onda simile all’impetuosa risacca. Ero bambino quando mi raccontarono dell’Heysel. La gente nel panico, nei luoghi affollati, non è mai un buon presagio. Qualcuno grida che bisogna calmarsi, calmarsi. Ma le merde entrano. Due metri, non di più. Il corpo a corpo è esteso su tutta la linea. Colpiscono freddamente, questi. Alla faccia. Stringendo i denti in un ghigno rabbioso. Urlando insulti. In barese, in napoletano. “Carica! Carica! Carica!”, grida il loro comandante. Ancora e con foga. Poi parte il lacrimogeno. Sulle persone che si accalcano. Sulle persone che cercano salvezza dall’altra parte. Un lacrimogeno. Sui bambini. Merde, merde e ancora merde. Feccia dell’umanità. Non si respira, si tossisce. Qualcuno si affaccia alla balaustra. Vedo la pezza del mio gruppo. Devo superare il blocco della trachea e uscire presto dalla nuvola tossica, se non voglio trovarmeli addosso. Sento le urla. Urla maschili ed urla femminili. E vedo un bambino vomitare anche l’anima. Penso a me alla sua età. Penso che non è giusto, che sono cresciuto in questo stadio. E che probabilmente questo bambino non ci tornerà più. Li odio. Di un odio autentico. Ormai sono dentro. La digos prova a trattare. Si schierano lungo la vetrata laterale. Quella che, anche da sola, sarebbe bastata ad impedire il contatto con i barlettani. Ovunque gente dagli occhi rossi. Ovunque gente che sputa. Quelli continuano a manganellare. Sento lo stomaco che mi esplode. Brucio rabbia come combustibile.

Un ragazzo sbuca dal buio: “Se facciamo il giro da quella parte, li prendiamo!”. La risposta arriva dopo un attimo di intorpidimento del pensiero. Ed è un’altra domanda: “A chi?”. “Come a chi? Ai barlettani?”. I barlettani? Ma nessuno ci pensa più, ai barlettani! Davanti alla tribuna, in fondo a viale Ofanto, lungo il muraglione del D’Avanzo, l’aria è bianca. I vestiti si impregnano. Lacrimogeni, sparati di continuo, a rosone, senza badare a fare economia. La mia città è qui. E, se non fosse per l’adrenalina, ne uscirei commosso. Le cariche della celere allo stadio hanno una vita propria. Non è come ad un corteo di cassintegrati. Lo scontro con gli avversari, il tentativo di raggiungerli, al netto di qualche esagerazione, è sempre una danza mistica, una messinscena seria. Quando le forze dell’ordine caricano, di solito, la reazione della gente è di gran lunga non commisurata all’azione posta in essere. La fuga, in altre parole, è più probabile del contrattacco. Ma stavolta non solo non è così. Stavolta è Foggia a caricare. Per un’ora. Per un’ora e mezzo. I giornalisti, possono berciare versioni di comodo. Parlare di rabbia ultras per una sconfitta nel derby. O di polizia tirata in mezzo dalla follia di chi cerca di raggiungere gli odiati cugini. I politici o gli aspiranti opinion leader, coi loro ghost writers, possono vergare anatemi contro la violenza dei teppisti da stadio. E solidarizzare coi i tutori feriti che, a notte, ancora si facevano i selfie davanti alla questura. La verità della strada, come sempre, è altra. Un manipolo di esaltati in divisa ha attaccato una curva intenta a smaltire la famosa sconfitta in un abbraccio simbolico ai propri calciatori. Ha acceso la miccia mai sopita dell’odio. Dell’odio autentico. Senza quello, la gente – ultras e non – sarebbe tornata alle proprie faccende dopo aver ammesso che era impossibile raggiungere i rivali e fargli i rituali complimenti per la vittoria sul campo. Invece, le cariche e le controcariche che si sono protratte per un tempo indefinibilmente lungo, hanno dimostrato – a chi sa e vuole leggere la realtà – che tanta gente era disposta al daspo, all’arresto, e alle botte, pur di dimostrare che nessuna azione, sull’asfalto, rimane impunita. Che l’asfalto non è un’aula di tribunale. Impuniti non rimarranno quei ragazzi, che la faccia ce la mettono sempre. E che pagano. Impunito rimarrà chi ha dato l’ordine osceno di caricare un settore di duemila persone schiacciate come sardine; chi ha sparato sui bambini; chi ha rotto teste con una determinazione degna di migliore causa. Ma è così che va il mondo, da queste parti. Non ci resta che accettare. Che tre ragazzi dovranno pagarsi le spese legali dopo un rastrellamento all’interno dell’ospedale, dove si erano rifugiati per sfuggire agli scontri. Che un quarto riceverà la diffida, dopo essere stato catturato mentre guidava il fratello nella manovra che l’avrebbe portato fuori dal parcheggio, in quella nebbia urticante. Che Gianluca si curi da solo le ferite causate dal pestaggio subito nei blindati. Che Gianni e Alessandro subiscano, dopo due notti di cella, domattina il processo per direttissima. Noi paghiamo sempre. Ma la strada sa come sono andate le cose. Anche se nessun tribunale è disposto ad ascoltarne la versione.  

19/12/14

"Tu, stavolta, non vieni"


Un po’ l’aria strana l’avevo notata. E’ come se avessi fiutato qualcosa. La settimana era finita, i ciottoli di Via Arpi e la Giovanni Pascoli erano alla spalle. Oltre i tre archi delle mie ansie da scolaro. Sarebbero tornati a rapirmi il pensiero solo a tarda sera, alla domenica. Quando la Clerici di “Domenica Sprint” avrebbe dato appuntamento alla prossima puntata, spazzando via quel mondo sospeso che era il fine settimana Un altro lunedì, da lì a poco, sarebbe venuto a prenderti, a strapparti dal tepore di una casa che abitavi da un mese e mezzo e t’avrebbe riportato sui banchi di scuola. Ultimo baluardo prima della campanella, il profumo del krapfen alla crema con amarena della pasticceria all’angolo delle otto del mattino. Di ogni mattino.
Sabato 9 marzo, però, c’era qualcosa che non andava. A casa, il babbo parlava poco e l’eco della vittoria al Celeste di Messina sembrava sopito. Avevo 8 anni, l’album della Panini e il calendario tascabile di cartone sempre tra le mani. Poco più di un amuleto, sapevo a memoria il cammino di un Foggia che s’accingeva a vincerlo quel campionato di B.
I grandi, intesi come i cugini grandi con comitiva annessa non parlarono d’altro in quella settimana. Francesco e Guido quotidianamente “spacciavano” voci che, già di seconda o terza mano, rimbalzavano al “quarto”. Il “Quarto” era la nostra contrada, Via Spalato, via Quercia e Vico dei Conciatoi, il quartier generale, il campo base, la capitale della nostra nazione.
Voci di “allerta” portati oltre i livelli di guardia, di risse, di rivalità ataviche da rinnovare, di sassaiole che furono e che sarebbero state. Rivisitazioni e rievocazioni in chiave romanzata di barelle e di tumulti nella nord, nel derby dell’Immacolata di cinque anni prima.
Riferivo a mio padre che mi invitava a non prendere in considerazione quelle voci, a lasciar perdere chi mi raccontava fandonie, perché “allo stadio si tifa per il Foggia senza pensare agli altri”. Ma mio padre non era quello di sempre. Era distaccato, sfuggiva l’argomento, si defilava, non ne voleva parlare.
Pistella, tale Pistella, era lo spauracchio che agitava la notte della vigilia. All’indomani ero pronto per l’evento. Il giubbino verde con Mickey Mouse sulla schiena, il calendarietto tra le mani. Ero prontissimo per il mio primo Foggia-Barletta. Avrei come al solito, inalato il fumogeno, chiuso gli occhi sentendoli bruciare, risposto “Si” alla domanda “Ci vedi?” di mio padre. Avrei, come al solito, inneggiato a Franco Mancini mentre lui avrebbe salutato la Nord, poco prima del via alle ostilità.
Ma dopo il fugace e silenzioso pasto domenicale, su quel bimbo di 8 anni si abbatté il più cinico e mostruoso dramma. Di quelli che, per quello che eri, ti fanno perdere il respiro e ti fanno piangere ininterrottamente. Nella mia infanzia, mi dicono, non mi sono mai incapricciato e non ho mai sbattuto i piedi dinanzi ai rifiuti, alle negazioni, ai divieti e ai “niet”. Mai preteso un giocattolo incondizionatamente, mai piantato grane, mai rotto i coglioni oltre un certo limite. Ma quella che stava per arrivare, era una mazzata tremenda.
A un’ora e mezza dal derby, mio padre gettò la maschera: “Antonio, con mamma abbiamo deciso che, per oggi e solo per oggi, tu la segui qua. Mamma ti sistema la radio. Allo stadio, è troppo pericoloso”. Capii subito che non c’era nulla da fare, che la sentenza era inappellabile. Nella Opel verde di zio Leonardo, quella ribollente delle passione dell’immediata vigilia che avrebbe finito la corsa come al solito a San Giuseppe Artigiaono io, stavolta, non ci sarei stato.
Francesco e Guido, nella cameretta nuova di zecca, provarono a consolarmi. Vanamente. Simularono un Foggia-Barletta al Subbuteo. Finiva 2-1 e segnava Pistella. Poi andarono e dinanzi a me si spalancò l’abisso.
Ascoltai alla radio la cronaca di quella gara. Strinsi, rabbioso, il pugnetto al gol di Rambaudi, ripresi a piangere al sinistro su punizione di Signori. Non accadde nulla di pericoloso alla stadio, solo qualche pietra.
Mio padre evitò di parlarmi di calcio per i due giorni successivi. Non se la sentiva, forse era il suo modo di chiedermi scusa. Sapeva, e sa, di averla fatta grossa.
P.s: A quella domenica di marzo ripenso spesso. Sono convinto che quel giorno, la tristezza si sia servita del calcio, della mia più grande passione, per palesarsi. Per la prima volta, quasi teneramente, nella mia vita. 
Sabato c’è Foggia-Barletta. Non è un caso. Lo so.

24/11/14

Il divieto di fumo e il rito d'iniziazione


I gobbi stanno passeggiando sulle macerie della Lazio e banchettano sulle speranze di vedere una bella partita nell’anticipo del sabato sera. Fuori c’è gente con buste in nylon. I reduci della fiera di Santa Caterina popolano una Via Onorato accesa solo nel riflesso della grande scritta “Autorimessa”, che campeggia da trent’anni in testa ad una saracinesca, mai doma,di un vecchio garage. Di quelli che hanno ancora la chiusura a mezzanotte e che non si sono arresi alla moderna logica dei telecomandi e dei cancelli apribili dall’esterno. 
Tra un’ora, pure di meno, ci mettiamo il piumino e inzuppiamo in una birra bionda in zona Macchia Gialla, l’attesa dell’evento. Che non sarà mai il gran premio di Abu Dhabi, né tantomeno il singolare che può decidere, a Lille, la coppa Davis. Quelli, al massimo, sono companatico. Sono intrattenimenti che caratterizzano il day-before. Perché l’evento, a queste latitudini, è uno. E stavolta cade di domenica. 
Il babbo versione casalinga è sulla sdraio accanto al sofa.  Ha già, e con irrisoria facilità, violato il protocollo del “non si fuma in casa”. Se l’è cavata con la snervante umiltà del “…che dic, m’a pozz fum’à na s’garett…?”. Tu non rispondi, allarghi le braccia, e lui, che ha già l’accendino in mano, aggredisce smanioso la prima boccata alla Marlboro rossa. Quelle che non posso fumare davanti a lui perché, dice lui, sono troppo forti per me. E non ho mai capito perché per lui no. 
Il trucco per sterzare sull’arida menata del “ma perché non fumi fuori?” è oramai noto. Cambiare immediatamente argomento. Subito dopo aver ottenuto il silenzio-assenso, il babbo è maestro nel cambiare argomento. Come dire, nell’andare oltre, nel metabolizzare quell’ennesimo strappo alla regola. Quasi nell’insabbiare. Una volta tira fuori Renzi che è come quell’altro nanetto, un’altra l’Isis e il paradosso del Kurdistan. Oppure passa agli aneddoti da paramilitante ultras, o si serve del primo spot che passa in tv.  Un tempo, il suo preferito era quello di un liquore.  In quella pubblicità, finiva sempre che i protagonisti superavano un’ardua prova, dovevano sempre portare in salvo qualcosa. E mio padre avrebbe tanto voluto che finisse diversamente. E che finisse male per questi stoici protagonisti dell’advertisement italiota.  Con tanto di rottami dell’aereo ammarato, e senza il cin cin con l’amaro. 
Stavolta è diverso. Si resta sul calcio. Bonucci ha sbagliato il tempo di uscita e ha beccato un giallo. E lui sentenzia: “Non ci sono più di difensori centrali di una volta”. E’ solo l’incipit, la miccia accesa di un discorso che durerà una buona decina di minuti. Mio padre, e sono testimone, è stato un impavido sostenitore di Pasquale Padalino. Dai tempi della nord con Caramanno prima e con quell’altro poi. Diceva che era fortissimo e una volta, me lo ricordo, gli toccò difenderlo alla fine di un Foggia-Padova culminata con la sfortunata autorete proprio di Padalino.  Citiamo Matrecano,  Consagra, Petrucci, Rinaldi, passando per Pirazzini. Io ribatto con Zanetti, Ignoffo, Carannante e Beppe Di Bari. Ad un tratto ha un’amnesia. Non ricorda il nome di uno bravo, che fu pure capitano. “Era con Marchioro e pure con Caramanno. Ma come diavolo si chiamava?”. Scatta, sobbalza dalla sdraio e afferra gli occhiali. “Mo, m’agghia lua’ stu sfi’zi…”. Va tra gli album, poi incrocia l’opera omnia. E’ la storia del Foggia in due volumi, domina la mensola sul corridoio. Lo seguo e lui intima di prendere il secondo volume. “
“Leggi che non vedo”. 
 “Papà, secondo me è Petrucci o Schio”.   
“No, vai avanti…”
Volto pagina e sparo. “Ferrante”. 
“Ferrante, Ferrante. E’ proprio Ferrante”. 
Dice che era una tosto, che si sapeva far rispettare e che “menava taccarate”. Spesso, per mio padre, è quella la dote principale che fa di un difensore il vero difensore. A lui piace il calcio fisico, si infastidisce se qualcuno parla di spettacolo o di soli schemi offensivi. A Foggia, e nelle tavolate delle festività,  mio padre ha sempre avuto vita dura a far prevalere le sue ragioni. Spesso lotta contro i mulini a vento. E, come suo figlio, è sempre stato più orgoglioso della vittoria a Taranto in D che del 3-0 a Cava di qualche anno fa. Questione di mentalità, ma è un altro discorso.
Si risiede e continua a parlare di Ferrante. Io sfoglio ancora quelle pagine. E all’improvviso vengo colto da un’illuminazione improvvisa. Fulminea. Come se qualcuno avesse acceso la luce. Per anni, mi sono sempre chiesto, scavando nella memoria, quando avessi mai messo piede nel tempio, per la prima volta. L’esordio allo Zaccheria, rimaneva avvolto in un alone di mistero.  “L’inconscio comunica coi sogni, frammenti di verità sepolta”, canta Franco Battiato. Solo che, dopo anni di interrogativi, l’inconscio non era più tale. Tutto di un tratto e grazie a quella pagina e, prima ancora, al divieto di fumo infranto. 
Di quel Foggia-Andria finito ai rigori la notte del 26 Agosto 1987 ho solo ricordi sbiaditi. Una bottiglietta d’acqua da mezzo litro che mi fu offerta, le rete di protezione dietro la porta e la luce dei riflettori accesa. Dicevano di Ciucci, dietro di me. E io pensavo che stessero insultando l’altra squadra. Maglie bianche, poi la via dell’uscita e il formicolio di persone su Viale Ofanto.  Ora lo so, ho visto il Foggia battere ai rigori l’Andria. E’ stata la mia iniziazione, da poco avevo spento cinque candeline.
Mia madre, alla luce del mio racconto, è venuta ad ascoltarmi in soggiorno. Ha dato, a 27 anni di distanza dell’incosciente, a mio padre. Perché ero troppo piccolo per andare allo stadio, in Curva Nord, anello inferiore.   

Mio padre non le ha risposto, o forse si. Ha battuto l’indice due volte su una foto a colori di una vecchia formazione e ha detto: “Si, Ferrante. Era proprio lui”.  

16/10/14

Meno di ottanta


Nel settembre del 2011 ci vietarono una trasferta in Piemonte. Una trasferta inedita, senza precedenti di alcun genere. Ce la vietarono così, perché con un No ti spicci. Agevolati, in questa come in altre materie, dall’incertezza vigente all’epoca. Il capriccio era il vero faro, la stella polare, in quel desertico settembre di C1. Il capriccio orientava i viandanti. L’ente preposto a decretare o a negare le concessioni alla libertà di movimento di cittadini italiani col vizio del tifo, era ancora il magmatico, misterioso, para-massonico Osservatorio. Un’emanazione diretta del Ministero degli Interni. Lo stesso che, attraverso direttive a pioggia sull’onda di decreti speciali e invocazioni emozionali di poteri straordinari, si proponeva di debellare la cosiddetta “violenza negli stadi”. Provvedendo a coadiuvare lo svuotamento degli stessi già mirabilmente perpetrato dalla politica delle televisioni a pagamento. Quella piemontese sarebbe stata la prima trasferta della stagione. Il segnale era, dunque, pessimo. Saremmo rimasti a casa – pagando lo scotto della fama, del numero o forse solo, per l’appunto, del capriccio – per l’intero campionato. Ed un ultras senza trasferte è come un romanzo di Ken Follett senza la guerra. Gonfio di una rabbia assai simile alla frustrazione, di un rancore impotente, decido di alzare la cornetta e – previa ricerca sulle Pagine gialle telematiche – di contattare direttamente la società piemontese. “Alle brutte, mi sfogo”, pensavo. Forte del mio diritto e della ragione. Eh, già. Perché l’Osservatorio non è mai stato, neppure in quel lontano 2011, una divinità pagana. L’Osservatorio stilava, ogni settimana, l’elenco delle partite a rischio. E suggeriva – si badi bene: suggeriva – alle società ospitanti di chiudere agli ospiti il settore di competenza. Una direttiva ministeriale, in sostanza. Come quelle che giungono, da che mondo è mondo, ai presidi e ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado. In cui si caldeggia una particolare attenzione per gli Scapigliati o per i Vespri siciliani. Il telefono squillò due o tre volte soltanto, nonostante il pomeriggio inoltrato. Chi controlla i maestri? Quale spia ministeriale s’acquatta nelle aule per sincerarsi della messa in pratica della direttiva? Questo volevo chiedere al malcapitato segretario, o dipendente della società piemontese. E questo chiesi. Ferocemente. Anche quando il brav’uomo mi confessò di essere il presidente in persona. Retoricamente provai a fargli notare che una società come la sua avrebbe soltanto avuto di che perdere dalla sottrazione d’incasso dovuta alla nostra assenza forzata. Che in terza serie non è come in Serie A, dove i diritti televisivi sono così sostanziosi da rendere il pubblico pagante un orpello inutile, quando non un fastidio. Il presidente ascoltò la mia filippica. Poi, placidamente, mi chiese di fare altrettanto. Di ascoltare il suo, di sfogo. E, dopo venti minuti filati in cui io stesso non sapevo cosa ribattere, il suo tono era diventato differente. Era stravolto da una frustrazione che, sebbene diversa per qualità e motivazioni, somigliava alla mia. Ci salutammo con un senso d’impotenza simile ad un’ascia bipenne. Gli avevo chiesto perché diamine le società del cosiddetto “calcio minore” non avessero le palle di ribellarsi alle disposizioni vessatorie, palesemente assurde, ridicole, che settimanalmente piovevano sul regolare svolgimento del campionato. Mi aveva risposto di essere un ostaggio. Un ostaggio dei prefetti e dei questori. “Io ho fatto salti di gioia quando ho visto che diverse squadre meridionali erano state inserite nel nostro girone. Ho pensato agli incassi, perché noi campiamo di incassi. Io potrei, con atto unilaterale, disobbedire alle indicazioni dell’Osservatorio. Avrei il potere di sbloccare la vostra trasferta. Ma poi, sai cosa succederebbe? Che domattina si presenterebbero al campo dei funzionari di polizia, degli ispettori, e chiederebbero di monitorare il nostro impianto sportivo. Troverebbero senza dubbio una violazione di qualche norma di sicurezza. E imporrebbero la chiusura dello stadio. E non me lo posso permettere”.

Presi per buona questa versione. A tal punto da ripetere questa storia dozzine di volte, come esempio del corto circuito. Soprattutto quando qualche amico – nel dispendio antieconomico di parole sulla Tessera del tifoso – riformulava a me la domanda da cui scaturì la frustrazione del dirigente al telefono: perché le società delle serie inferiori non si ribellano? Non fanno consorzio, non dicono che questo modo di interpretare il calcio senza pubblico sta riducendo ad una mesta morte per inedia le società che non accedono ai diritti televisivi? Nelle parole del presidente c’era tutto il fastidio dell’imprenditore. Ripeto: non era paragonabile al mio, sviscerato per semplice, corrodente passione. Nel suo orizzonte, vincevano i soldi. Come farli e come non farseli togliere. Il nuovo Decreto legge sugli stadi è passato alla Camera dei deputati. Solito schema: sull’onda emotiva per una tragedia (annunciata), sull’alta marea dell’indignazione collettiva fomentata da penne compiacenti e funzionali, il Parlamento italiano ha ritenuto opportuno dichiarare guerra, per la terza volta in sette anni, agli Ultras. O a quel che ne rimane. Il Dl si sbizzarrisce, dipanando la sua rete repressiva tra pene sempre più severe, sorvegliati speciali, distruzione del principio giuridico di responsabilità individuale (diffide di gruppo) e facoltà di sperimentare – finalmente! – la pistola elettrica, il Taser, su un ben nutrito gruppo di cavie. Ma c’è un passaggio che mi ha fatto ripensare alla telefonata piemontese. Riguarda, manco a dirlo, i soldi. Le società dovranno mollare dall’1 al 3% dell’incasso – è infatti specificato nel decreto – agli addetti alla sicurezza. Una forma di “responsabilizzazione” delle società calcistiche che, com’è ovvio, diventeranno ancora più drastiche nell’evitare che i propri facinorosi sostenitori riescano ad accedere agli impianti con strumenti di ottusa violenza quali torce, fumogeni, striscioni non dichiarati, coriandoli, piattini, pon-pon, tappi di sughero, fidanzate. Un provvedimento di scaricabarile da parte dello Stato. Che – leggo con un sorriso tagliato nel marmo – ha fatto insorgere le società. Tra accuse di incostituzionalità e minacce di sospensione del campionato. La riflessione è amara, per quanto banale. Ottocento presenti (questo il numero di spettatori che il presidente telefonico mi garantiva) a dieci euro l’uno fa ottomila euro. L’un percento fa ottanta euro. Sicuramente anche lui, oggi, minaccerà provvedimenti drastici. Si lascerà intervistare per dire che Adesso basta! Che Siamo stufi! Anche lui, tra i tanti, oggi sancirà che è stata violata la Legge, la Costituzione, la Civiltà. Lui, che come tutti gli altri, ha taciuto miserabilmente, avallando la sospensione di ogni diritto quando a farne le spese eravamo noi, che da psicopatici continuiamo a idolatrare una maglia ignorando volutamente il marcio che la circonda. Noi, che da venerdì, sabato o domenica, fronteggeremo la scarica sperimentale dei Taser per rivendicare la nostra libertà di colorare di passione gli stadi. Noi, collettivamente, valiamo meno di ottanta euro.

08/10/14

Non sta succedendo niente!




Note a margine di una fotografia

L’istante è nitido cristallo traslucido.
Se questa foto finisse in un blocco di stampe, sarebbe tra quelle che si limitano a fare volume; che vengono passate in rassegna con la rapida superficialità del pollice. In fondo, e all’apparenza, è uno scatto elementare. In bianco e nero. Gente sui gradoni di una curva a due piani. Nulla di rimarchevole, di meritevole, di eclatante. Negli anni Ottanta, la gente andava allo stadio. Punto. Nessuna novità. Quindi. Una foto da volume, per l’appunto.
Eppure.
Se ci facessimo prendere la mano dall’ansia di meraviglia, commetteremmo un errore. Ed in quella  valutazione errata sarebbe condensata – come una metafora del contesto – la natura profonda della città nella quale è stata scattata. Ed alla quale appartiene. Perché quella è la Curva Nord di Foggia. Ed è proprio lo spirito della nostra città che induce alla superficialità, all’indifferenza, al sorvolo del lasciar perdere. Al non aguzzare la vista.
Come le sirene di Ulisse al naufragio.
Foggia ti fa credere nel fato e ti dispone l’animo al fatalismo. Per persuasione più che per violenza. “Nulla può cambiare”, dice la sua baritonale voce senza vocali. “Nulla si muove davvero”. E, anche quando sembra, è la solita, meridionale storia da Gattopardo. Non ne vale la pena. Non ti sbattere, non te ne incaricare, non ti spandicare. Muovi quel pollice, vai avanti con quelle foto! Svelto!
Ma bisogna coltivare il coraggio di disobbedire. Anche al buon senso della terra natìa.
Vale la pena soffermarsi sull’istante nitido e cristallino in cui il falso movimento di questa comunità si autorappresenta. L’attimo in cui si compie, con naturalezza, e quello in cui si ricorda. Si ricostruisce. Urge.

Foggia-Barletta. 9 ottobre 1983.
Quarta giornata d’andata. A bordo campo, lato tribuna, c’è un fotografo barlettano. Le due compagini non si incontrano, non si scontrano, da una ventina d’anni. Dai favolosi anni Sessanta. Da queste parti non è ancora così sentito, a livello calcistico, ciò che a livello popolare è quasi un’ovvia acquisizione dell’esperienza: mai fidarsi di quelli che vengono da Oltreofanto. Per i nostri avi, virgilianamente contadini, quelli dall’altra parte sono tutti baresi. Con lo strascico scontato di ciò che ne consegue; con l’intero portato di caratteristiche opposte alla nostra indole: commercianti, mercanti, speculatori, crumiri. Questo sono. L’Ofanto è il Danubio tra Serbia e Croazia. Da questa parte i martellatori dell’East End, da quella gli antisindacali di Milwall. 1983. Foggia, in quell’inizio di autunno, è una città delusa. Cinque mesi prima si era in B, in una posizione tutt’altro che disprezzabile. Bassa, certo, ma con due match-point da sfruttare in casa, con Varese e Pistoiese, ed una sola proibitiva trasferta in quel di Catania, per centrare la salvezza. E tornare a programmare il grande salto in massima serie. Ma, come spesso nel calcio, succede l’impensabile. Le più oscure previsioni vengono superate di slancio sul rettilineo del tracciato. Non solo i rossoneri perdono col Varese, sano e salvo a centro classifica. Ma per le modalità della rete di rapina, in extremis, del giovane Maiellaro – lucerino! – i foggiani danno vita ad una giornata di guerriglia urbana. L’arbitro, Lo Bello, viene colpito dal pregevole gancio di un invasore di campo. E lo “Zaccheria” squalificato. Dopo la prevedibile sconfitta del “Cibali”, l’appuntamento con la salvezza passa dal “Partenio”, campo neutro scelto per la sfida decisiva. Avversaria, la Pistoiese. Finisce zero a zero. Il Foggia sciupa l’occasione di rimanere in cadetteria nel modo più bislacco di tutti.  Un suicidio. E giacché la cultura giapponese dell’harakiri ha sempre influenzato i tratti culturali di questa parte di Puglia-non-Puglia, i tifosi di ritorno da Avellino compiono il più brutale dei riti di auto-punizione. Sotto la sede della società, bruciano le bandiere. E il primo, glorioso, striscione del Regime Rosso Nero. La sera del 5 giugno chiude nel fuoco un’esperienza ultras durata, a conti fatti, diciotto mesi. Ma i ragazzotti del RRN non si volatilizzano. Non spariscono, non si sciolgono a contatto con l’aria. Restano in Sud, senza segni di riconoscimento, ma insieme al mito che quelle due stagioni e mezzo di tifo hanno creato sottopelle nella foggianità militante.

Nell’inattesa, fastidiosa, bruciante nuova stagione di terza categoria, girone meridionale, il Foggia ha un inizio pessimo, ideale trait d’union con l’epilogo di quella lasciata alle spalle. Perde di misura a Benevento e ad Agrigento, pareggia in casa con la Ternana. Col Barletta c’è voglia di riscatto, ma lo stadio presenta ampi spazi vuoti. Insoliti per l’epoca. Il fotografo immortala in bianco e nero il diagonale con il quale il Foggia passa in vantaggio. È un bel tiro, che muore nell’angolo sinistro, imparabile. Oltre la traversa, più su, le facce della gente di curva sono ancora inconsapevoli. Sulla balaustra, uno striscione bianco-rosso. Commando. Qualche minuto dopo, un secondo scatto. Quello incriminato. Quello che la prosaica Foggia ci invita ad ignorare. Lo striscione non c’è più. Le ipotesi s’alzano come un vento. Forse i barlettani, delusi, l’hanno ritirato. In segno di protesta per la rete subita. Oppure, non resta che mutare lo sguardo. Come sotto una lente, suddividere i fatti minuti che si snodano, impressi sulla carta fotografica. Un critico dell’arte fiamminga alle prese con Brueghel. Con la scomposizione e l’interpretazione di ogni singola parte del concerto di colori, luci ed ombre. C’è agitazione. Un movimento discontinuo, scomposto, percorre le teste, i corpi, la postura del popolo della Nord. In basso a sinistra, a ridosso del boccaporto d’ingresso, è in atto un dibattito. Lo si evince dalle pose. Dalla tensione elettrica. Un ragazzo con la maglietta bianca è di spalle al muro. Una mano gli tocca il petto, nel tipico atto del rapporto di forza in dispiegamento. Attorno a lui ce ne sono altri tre. E non sembrano amici. Uno, di cui si intravede la nuca, gli sta a pochi centimetri dal viso. Gli sta dicendo qualcosa, con la foga della sfida. Due ragazzini, di cui uno con una bibita, osservano. Sembrano divertiti. Un fuori programma, senza dubbio. Tre gradini più giù c’è la balaustra. È lì che si consuma tutto. È l’epicentro dell’onda di tensione. I racconti chiariscono. Sono entrati in cinquanta, forse sessanta. Anonimi, casual prima del tempo. Ed hanno portato via gli striscioni dei cugini barlettani. Così, uno per uno. Tranquillamente. Sotto lo sguardo degli ospiti, divisi tra l’incredulità e l’impotenza. Del resto, sono baresi come tutti gli altri. Anche se non quel tipo di baresi con cui a Foggia è sempre finita a scazzottata. Dopo vent’anni di nulla, è evidente che non s’aspettavano un’accoglienza simile. Tanto più che di fronte non c’era il Regime. O, almeno, non c’era lo striscione e la Sud si presentava spoglia. Invece, all’improvviso, il raid. Un ragazzo col caschetto ed una polo blu a righe bianche, placidamente, porta in braccio, come fosse un neonato, una bandiera. Un pezzo di stoffa dal bianco predominante. Nessuno lo contrasta. Sembra sul punto di abbandonare il quadro. Di sfilare via, calmo e soddisfatto. Missione compiuta. Più in là, sempre seguendo la balaustra, un gruppo di foggiani s’agita. Uno spettatore seduto sbuca dal movimento catturato. Avrà avuto da ridire su quel comportamento antisportivo. Sta ricevendo la sua rimata risposta. La preda è nelle mani di un giovane plasticamente piegato sulle ginocchia, come il David al contrattacco, mentre il confronto tra due uomini lievemente defilati non diventerà rissa perché la fermezza di uno dei due è frutto del suo difendere un bambino. Una scampagnata a Foggia anche per lui. E per l’altro ragazzino, ugualmente protetto da un braccio paterno. Ne capitavano spesso, ai tempi, di scene del genere. I padri poco meno che trentenni svezzavano i figli alla pugna maschile dei gradoni, li trascinavano al campo per addestrarli alla vita. Ma si indignavano dinanzi a scene di lotta che trascendevano dal rettangolo di gioco, che rovinavano l’idillio di quella promiscuità da spalti. Come a voler instillare nei cuccioli della specie un codice cavalleresco che non esiste, non è mai esistito, se non a posteriori. Una posterità di cui la paternità è simbolo e schermo. Fatto sta che sta succedendo. I barlettani erano venuti a Foggia placidamente, senza immaginare ritorsioni. Con parte delle famiglie al seguito. Volevano godersi un sano pomeriggio di sport. Invece, perdono uno a zero e sono dinanzi ad una situazione inattesa. I foggiani sono pochi. Il manipolo, il drappello, o come lo si voglia definire quel nucleo di soggetti che ha sfilato Commando, si sta portando a casa gli striscioni. Sono più determinati, più cattivi. All’epoca, magari, perdere gli striscioni non era cosa tanto grave. Del resto, ciò che veniva scritto sulla stoffa era, tante volte, poco più che l’ispirazione di un momento. E non durava più di qualche partita in casa. Da noi c’era già stato di tutto. I Panthers, il Commando Ultrà, il Foggia Club Ultras di via Silvio Pellico, i Fedelissimi, i Boys. Nel 1973 finanche un Foggia Commandos, la cui data di nascita si confonde con quella di morte. Gruppi differenti, talvolta neanche gruppi propriamente detti. Ma alternative esterofile, aggiornate, avanguardie moderniste, rispetto ai Tifosi di Piazza Giordano, a quelli di Via Da Zara o ai ragazzi del Geometra. Il Regime è stato – e di lì a un paio d’anni, tornerà ad essere – altra cosa. Il Regime aveva condensato la novità radicale della cultura giovanile, di strada, che divampava in Italia, con la foggianità diffusa. Con gli occhi dell’oggi, bruciare uno striscione per un risultato sarebbe impensabile. Ma eravamo quelli, un tempo: zero pose, piena sostanza. Passione reale. Il sacrificio dello striscione ha alimentato l’attesa, oltre al mito. La messianica venuta del nuovo Regime era bramata come certi catastrofisti attendono l’Anticristo. Nel frattempo, ci si teneva in esercizio.
Dall’epicentro si sale di sette, otto gradoni. Il baffone ha i tratti tipici di quello scorcio di secolo. Con la sciarpa biancorossa in testa, catalizza le attenzioni. Le cattura. Le frammenta sui contorni, sul Tutto intorno a lui. Ci lascia presagire un pensiero, un’ipotesi di ragionamento. Rapido, come si conviene alla situazione. In quell’attimo frastornante, quell’uomo è chiamato a riflettere. Come il suo vicino, è guardingo. Punta verso l’alto. Ci invita a seguirlo. E, aguzzando la vista, spuntano piccoli vessilli biancorossi un po’ ovunque. Impensabile, oggi. Sparsi, sparpagliati così, mescolati ai foggiani eppure palesemente barlettani. Ripresi nel momento della paura e dell’incomprensione. Fermati nell’attimo esatto in cui nasce una rivalità.
Perché è questo che la foto immortala. Va da sé l’importanza del documento. Cosa sta pensando il baffone? Teme per la sua sciarpa o per la sua faccia? E tutti gli altri, colti alla sprovvista? Lo “Zaccheria” improvvisamente insicuro. Zero guardie nei dintorni. La foto dei soldati tedeschi che smantellano le linee di frontiera ed entrano in Cecoslovacchia. Stesso impatto epocale. E il centro della scena tenuto da un uomo col berretto, che ride di gusto, mentre con la mano destra tiene un radione. È foggiano, lo sappiamo per certo. E, senza volerlo, racchiude – a distanza di trent’anni – lo spirito arrembante, incosciente, spensierato ed in qualche misura eroico e goliardico dell’epoca. Quando anche la goliardia non era posa. Ed era in grado di gonfiarti la faccia a suon di manrovesci.  Ricapitolando: c’è gente che popola una gradinata. As usual. Gente d’ogni estrazione che guarda ovunque, che fuma, che beve. Che esplicita indifferenza per il circondario. Sguardi annoiati, da intervallo di partita e di vita. Mentre una tellurica variazione del microclima, un terremoto dell’aria, sconquassa alcuni volti e deforma alcuni corpi nel brivido di un movimento tribale, nel bel mezzo della comunità più estesa. È il 9 ottobre del 1983. Sembra niente. Ma sta nascendo una rivalità.


* la foto è un graditissimo regalo di Costantino Mariella

07/05/14

L’irrazionale speranza



Sono per la dispersione della stupidità. Non va bene che si concentri per intere settimane in un punto solo. (Karl Kraus)

Lo sport italiano si ferma «perché tutto il mondo guarda a piazza San Pietro e non ce la siamo sentiti di dare il via alle partite sapendo, poi, che al primo gol abbracci ed entusiasmo avrebbero avuto il loro sfogo». Così parlava Gianni Petrucci, presidente del Coni. Era l’ultima settimana di marzo del 2005. Karol Wojyila stava vivendo, sotto gli occhi del mondo, la sua cattolica agonia. Non era ancora morto, non ancora. Ma il calcio decise – per impulso sentimentale – di fermare il carrozzone. Come gesto di rispetto. Lo stesso che tributò a Filippo Raciti, poco meno di due anni dopo. Anche se la moglie, ancora oggi, continua a ripetere come un mantra che bisognava sospendere ben più di una semplice giornata di campionato. Fatto sta che non si giocò. E, tra le schegge della contraddizione aperta da una settimana di perdite, Matarrese definì “esaltati e irresponsabili” coloro che chiedevano di fermare più a lungo, o addirittura definitivamente la giostra. Arrivò persino a dichiarare che i morti “fanno parte di questo grandissimo movimento”. Una sorta di effetto collaterale. Quando si dice la Realpolitik applicata al calcio moderno!

Il calcio moderno. Una girandola da decine di milioni di euro. Un asteroide luminescente che deve giustificare la propria orbita, catalizzare i tele-utenti col telescopio e vendere il proprio marchio, sulle nostre teste cocciute. Tra i due estremi, il dato: il calcio milionario delle società quotate in borsa, del merchandising, delle banche e delle sponsorizzazioni, è capace di “rispetto”. O, almeno, quella è l’immagine retorica che vuole dare di sé. Quando conviene. Il pio inchinarsi dinanzi alla sacralità della vita, il profluvio di petizioni di principio degli editorialisti sul bene unico, irrinunciabile, prioritario, dell’esistenza. Almeno, quando a morire è una personalità o un servitore dello Stato. Per tutti gli altri, si faccia finta di niente. E avanti come al solito, a quantificare i diritti televisivi. A Gabriele Sandri fu negato persino il minuto di raccoglimento. Lo stesso che fummo costretti a sopportare in ogni categoria dopo Nassirya. E che valse anche svariati daspo a coloro che non lo rispettarono a dovere. Un dualismo improvvido, ma gravido di conseguenze sulla mentalità di chi, ancora, si ostina a voler partecipare, fisicamente, allo sport (un tempo) più popolare d’Italia. Vite di Serie A e vite di infimo grado. In mezzo, il nulla e l’ipocrisia. Domando: ma se Ciro Esposito – resisti, Ciro! – fosse morto in ospedale nei minuti che precedevano il fischio d’inizio della finale di Coppa Italia, cosa ci sarebbe stato di abnorme, immorale, persino criminale, nell’imporre – dal basso – quel rispetto che lorsignori impongono normalmente per le vite mancate di coloro che ritengono rispettabili? E a chi critica il comportamento “arrogante”, addirittura “camorristico”, della curva napoletana e dei suoi rappresentanti, non varrebbe la pena di ricordare che, talvolta, è necessario prendersele le cose, senza attendere concessioni e riconoscimenti che non arriveranno mai? Se Ciro fosse morto e la partita si fosse disputata – come quella notte all’Heysel – chi sarebbe stato il mostro immorale? L’uomo coi tatuaggi in balaustra? Facile, per tutti gli snob progressisti, rispondere che sì. Che si è mostri a prescindere. Immorali a prescindere. Che non è compito della plebaglia riprendersi, in una fiammata di dignità, pezzi della propria esistenza. Un protagonismo fuori dal tempo. Che è compito delle istituzioni, alle quali si sono piegati più di un induista a Shiva, concedere. Quando vogliono, quando ritengono, dopo svariate e attente consultazioni. Che esistono ruoli e leggi da rispettare. A mo’ di feticcio, di idolo salvifico. Salvo poi dimostrare di campare su una stella morente quando gli parli dell’arbitrarietà di una diffida o degli inconcepibili limiti posti a certe categorie mostrificate col consenso del media: i famigerati Ultras, ad esempio. Come gli zingari o i rumeni. Ma di costoro è inutile parlare. Da tempo, forse da sempre, hanno disertato – per noia o per reale divergenza di interessi – la barricata della riappropriazione. E arricciano il naso ormai talmente spesso che i loro visi abbronzati sembrano una maschera di Carnevale. A tutti gli altri, a chi ancora s’ostina a porsi delle domande e a resistere, chiediamo un supplemento d’indagine. D’attenzione. La macchina del fango non è mai fine a sé stessa. Non è vero che costoro – giornalisti e propagandisti – viaggiano per intuizioni, a fior di vento. Quando, prima ancora di accertare cause e responsabilità, si comunica già che la risposta sarà nel giro di vite, nell’acuirsi della repressione, allora è chiaro che bisogna scegliersi la parte. Rassegnarsi all’idea – terribile, per qualcuno – che non è in ballo lo svago domenicale di qualche migliaio di sfaccendati, con o senza i padri pregiudicati o sospettati. Chiamarsi fuori, ridurre tutto a sfoggio di brio verbale, a battute fulminanti e sagaci grondanti superficialità, semplicemente non serve. Il gioco, signore e signori, qui non è il calcio. È l’agibilità democratica di questo paese presunto.

L’uomo coi tatuaggi in balaustra s’è preso cinque anni di daspo per “istigazione a delinquere”. Formula vaga, applicabile per estensione alla quasi totalità della popolazione mondiale, in qualunque istante. Ce ne fosse la volontà. Se ne sentisse l’urgenza. In questo caso, il bisogno era il medesimo di sempre: quell’uomo ha condensato, sulla propria figura, il fallimento dello Stato. E, cosa imperdonabile, l’ha fatto in diretta tv. Sotto gli occhi del mondo. Se fuori dallo stadio la polizia – e in Italia, quando si organizza qualcosa, si parla esclusivamente di polizia – lascia un varco aperto ad un assalto ai furgoni in arrivo, che non hanno trovato posto in altri parcheggi; se dai furgoni scendono e contrattaccano; se i sopraffatti sparano e feriscono quattro persone; se una delle quattro persone è ridotto in fin di vita; se le ambulanze tardano a giungere sul posto; il responsabile non può che essere l’uomo coi tatuaggi. Perché i suoi gesti hanno svergognato uno Stato che, per la propria indole d’efficienza, non a caso, s’è fatto soffiare gli Europei di calcio dalla Polonia e dall’Ucraina. Come Ivan “il terribile” la notte di Genova. Provavi a chiedere in giro: “Sì, vabbé, ma che ha fatto? S’è arrampicato su una balaustra, ha sbraitato e ha provato a tagliare la recinzione. Senza manco riuscirci”. E la gente rispondeva: “è un bandito”. Come a dire: me l’ha detto Collovati. In Italia è imperdonabile fare da frontman di un fallimento. Non devi mai esporti quando gli fai capire che sono dei cialtroni senza principi, dei buffoni che ballano al ritmo dei contanti. Meglio rimanere in retrovia. Ma sanno, lorsignori, che senza l’uomo coi tatuaggi a fare da interfaccia – senza tutti quelli come lui, in ogni situazione di crisi e in ogni stadio, come in ogni manifestazione – il passo successivo è lo strapotere della retrovia? Hanno idea, lorsignori, di cosa sia una massa anonima, senza faccia, quando dilaga e imperversa? A me dispiace solo che l’abbiano provato poco spesso. Ma, posso garantire: è infinitamente peggio di una “trattativa”. Ma tant’è. Il mostro si deve sbattere in prima pagina. Anche e soprattutto, si diceva, per quella maglietta. Quel grido di libertà contro una palese ingiustizia. Imperdonabile, ancora una volta. E lo stadio, il luogo dove secondo i benpensanti “tutto è concesso”, torna ad essere il baluardo di una morale parallela. Cinque anni di interdizione per un sanguinoso delitto d’espressione. Di libero pensiero. Calderoni rivendicò come tale la sua t-shirt anti-Islam che provocò scontri e morti nei paesi arabi. Lo stesso fecero la Mussolini e Buffon. E Giuliano Ferrara. E i deputati, in Parlamento, in difesa di Silvio Berlusconi. Pregiudicato. Ma, quando si parla di curve e di stadi, anche i più ferrei tra i garantisti, evaporano come foschia chimica. È inutile: non si vogliono mischiare con questa gentaglia. Perché, al di là delle semplificazioni, questa gentaglia – noialtri – rappresenta ancora l’ultimo grado di irriducibilità delle istanze del basso. Dell’Italia subalterna. Pre o post-politica, e proprio per questo, irrazionale e furente, capace ancora di mostrare muscoli e tatuaggi. Di suscitare la paura in coloro che ritengono, erroneamente, di aver placato, addomesticato, sedato, il popolo bue. Ma quando una curva avvampa, personalmente – prima di ogni analisi – io penso sempre due cose: che non siamo sconfitti. E che c’è ancora speranza. 

05/05/14

Un banale deja vu

Gli spalti sono una cosa, il campo ne è un’altra.

Quindi, tralasciando per un attimo i gradoni, e la vita parallela che vi si svolge, e soffermandosi pochi secondi su quel che avviene sul rettangolo e nei palazzi dei burattinai del sedicente “spettacolo”, proviamo a ragionare.

La Coppa Italia è quella competizione resa inutile che alla fine vincono sempre, a rotazione, quelle quattro o cinque squadre di Serie A. Perché la formula è stata ideata, trascritta e realizzata affinché nessuna compagine minore, coi grilli per la testa, potesse turbare i sogni delle blasonate. Che entrano in gioco a scaglioni, come al militare. Mentre tutte le altre giocano da agosto. E di solito, ad agosto tolgono l’ingombro. Niente di coraggioso proviene dai mangiafuoco del calcio. Se applicassero da noi la stessa formula delle Coppe di Lega inglesi, con il “tutti contro tutti” già dal primo turno, la Juventus rischierebbe seriamente ad Avellino, col caldo torrido e lo stadio strapieno. E il Parma a Caserta. Come il City a Rochdale. E questo, no, non lo possono in alcun modo permettere. Presidenti e manager immaginano il tracollo probabile e lo evitano come gli scorpioni il fuoco. A prescindere. Si chiama business. E non ha niente a che vedere col “gioco” che commentatori e giornalisti – angelicamente – invocano ogni qualvolta gli Ultras si prendono a cinghiate. E ci scappa il ferito. Business. Lo stesso motivo per il quale è stato aggiunto il nome dello sponsor alla competizione in questione. Per il quale è stato reso superfluo il confronto andata/ritorno ai turni preliminari. Per il quale s’è inventata una Supercoppa italiana e la si è disputata a Pechino. Lo stesso per il quale si è spalmato e spezzettato il palinsesto, con partite anticipate e posticipate fino all’assurdo di giocare a Udine, di sera, un mercoledì di febbraio. Esigenze televisive. Soldi, soldi e ancora soldi. Fino al ripristino della finale unica.

Un tempo, neanche tanto tempo fa invero, questo paese in questo campo, dettava le regole. In questo paese si disputava “il campionato più bello del mondo”. E – incredibile a pensarci, considerata l’italica vanagloria – non ce lo dicevamo da soli! Gli altri campionati, dalla Premier alla Bundesliga, non erano altro che surrogati. Più o meno ancorati alle loro peculiarità, ma pur sempre minori, terreno di conquista delle società italiane. Dei loro calci e dei loro portafogli. Da qualche tempo, complice il sopravvento acquisito dal capitale finanziario nel presunto mondo del “gioco”, da queste parti si è deciso di emulare le società dell’immagine più mature. L’Inghilterra, gli Stati Uniti. La spettacolarizzazione a tutti i costi, che dovrebbe accalappiare allocchi e nuovi clienti – nella pallavolo si è arrivati ad eliminare la fondamentale regola del “cambio palla” per stringere gli eventi televisivi a continui highlights – ha portato i geni del marketing applicato allo sport ad introdurre silver e golden gol, da quegli incolti degli americani a mutuare persino gli shot-out in luogo dei calci di rigore. Ma, soprattutto, ha rapinato a man bassa gli stili. A noi estranei per cultura. L’evento passerella, le luci di scena, la musica, i monitor luminosi, lo speaker da villaggio vacanze. L’inno nazionale eseguito dalla pop-star di turno, sulla scia di un Superbowl qualsiasi. E, di nuovo sul punto, la finale unica.

La partitissima coi lustrini, i politici, le luci della ribalta, gli attori da fiction e i cantanti a bordo campo. Una specie di Partita del cuore con in palio una coppa. Per il tornaconto. Dimenticando volutamente che il calcio è ancora, per qualcuno, un fenomeno sociale fatto di carne, sangue, polvere e passione. E che Roma non è Londra, come l’Olimpico non è Wembley. Chi ambisce a contare il cash dell’affare milionario, deve considerare il rischio d’impresa. E il rischio è semplice, come la natura stessa di una nazione fondata sulla rivalità. È in quella gente che non s’arrende al ruolo obbligatorio di cliente. A Roma ci sono due tifoserie rivali tra loro. E se in finale ci vanno il Napoli e la Fiorentina, gli “eserciti” sul campo d’onore della capitale diventano quattro. Cinque, considerata la celere. Alè. E pensare di risolvere tutto disseminando il terreno di camionette e blindati, è un aspetto anch’esso tipico della mentalità imprenditoriale di questo ceto di sciacalli. Dopo anni di imposizioni, limitazioni della libertà individuale e di movimento, isolamento tentato e ritorsioni repressive, il resto va da sé. Ed è scandaloso chi si scandalizza. Che forse, costoro, vorrebbero semplicemente incassare? Impossibile, neppure nell’epoca del capitale finanziario.

Senza dubbio alcuno è più comodo, dopo, utilitaristicamente mostrare le immagini del grande spavento al circo. Il video col leone che si ribella al domatore e strappa urla terrorizzate ai bambini e ai loro genitori. Perché è questa la sintesi della grande, superficiale, artefatta falsità di chi orienta le telecamere del media. E detta i tempi e i modi della paura. Per dirla alla Brecht, tutti a parlare della violenza del fiume e nessuno della violenza degli argini che lo costringono. Da due giorni fanno il giro del mondo le immagini dell’uomo sulla balaustra della Nord. Da due giorni, piccole iene e grandi avvoltoi, scavano nella sua vita privata, alla ricerca di pezzi di carne appetibili. Da due giorni, parlano tutti. Anche, e soprattutto, quelli che allo stadio non c’hanno mai messo piede. E via di repertorio! Le immagini di Italia-Serbia a Genova, del “derby del bambino morto”, dei genoani che ritirano le magliette ai loro “idoli” di cartapesta. Di nuovo il refrain, il più gettonato, fintamente scandalizzato, indignato degli ultimi quindici anni: “Il calcio è malato perché è ostaggio degli Ultras”. Eppure, nello stesso arco temporale, abbiamo ingoiato le pay tv, la Serie B al sabato, gli anticipi e i posticipi più irragionevoli, i divieti di trasferta, la Tessera del tifoso, lo strapotere della discrezionalità del daspo, le schedature, i capricci di prefetti e questori. Ci dicono con lieve preavviso dove giocano i nostri, a che ora e con quali limitazioni. E noi proviamo ad esserci, a tenere in vita il nostro sogno di calcio. Siamo sempre di meno, sempre più frustrati, ma resistiamo nella consapevolezza d’avere ragione, d’essere baluardi di una partecipazione che non esiste più. Fossimo davvero dei sequestratori, saremmo dei pessimi negoziatori.

Alla fine della giostra, resta sul palato il retrogusto del già vissuto. Un banale deja vu. Il fuoco di fila di chi ancora, retoricamente, fa bere agli inconsapevoli l’idea di un calcio da restituire alle famiglie “a tutti i costi”, criminalizzando “i facinorosi”. Senza mai accennare alla violenza del denaro, che ha mutilato l’entusiasmo del popolo, a cui il calcio appartiene. L’incompetenza dei politici col pugno di ferro da sbandierare in campagna elettorale. L’idea del daspo a vita. Nessuna volontà di invertire una rotta che punta dritto al fallimento. E tanto fumo a fare da sbarramento delle responsabilità reali. Zero chiacchiere da talk sulla disorganizzazione, persino sull’assenza di un’ambulanza nei paraggi del misfatto. E tante, a piena bocca, sulla maglietta per Speziale. Che il Corriere, in un conato di vomito, ha definito “killer” di Raciti. Disgusto e disprezzo. Per la verità, per la verosimiglianza, prima ancora che per la vita umana. Allora, facciamoci due conti e tiriamo le somme. Si sta alzando la marea della nuova repressione. Cerchiamo di capire chi siamo e cosa ci spinge a continuare. E facciamo quadrato, tra mille e mille dita puntate. Isolati ma non domi. Come leoni nel circo del denaro.   

09/03/14

Il bilancio dell’insoddisfazione



Domenica 9 marzo 2014, Foggia

Appuntamento alle 13 a Piazza San Francesco. Ho lo zaino con i guanti e le anti-infortunistiche. Un’ora, poco più, di viaggio. E, ritardo compreso, sarò al Pala Florio prima delle 15. Ora d’inizio dei lavori. Gli altri saranno con me. È venerdì. Claudio Baglioni si esibirà domani e domenica. Il Foggia andrà a Gavorrano. Io non ci sarò. È un discorso economico, chiaro. La precarietà circonda i progetti come i Russi Sebastopoli. Bisogna sacrificarsi. Anche se l’impressione è quella di non aver mai fatto altro nella vita. Ma in realtà, molto ha contribuito – nel bilancio dell’insoddisfazione – anche l’inutile traversata di Ischia. Una visione dilatata del tempo, ampliata dal movimento delle onde, nel mio ricordo parziale. Sono le 11. Devo ancora scendere a fare la spesa per stasera e passare da un cliente con la mia scorta di libri speranzosi d’avere un acquirente. Posso farcela, se mi sbrigo a scendere. Il cellulare sotto carica. Una chiamata persa. E, in diretta, tra le mie mani, un messaggio. Baglioni ha annullato il concerto. Forse l’ha solo rinviato. Non è specificato. Di sicuro, oggi non si lavora. Non più. E, di conseguenza, neppure domenica sera. Quel senso di inusitata, autolesionistica felicità che scaturisce da un dovere che salta ingaggia una mezza rissa con l’insperata apertura di uno spiraglio. Che porta il nome di questo paese trenta chilometri a Nord di Grosseto. Gavorrano. Abbiamo noleggiato le macchine e le abbiamo riempite. È già tutto deciso. L’orario di partenza, i nomi e cognomi delle persone che s’incammineranno per l’ennesimo pellegrinaggio espiatorio della stagione. Non c’è margine per rimettere tutto in discussione a meno di 48 ore dalla partenza. Quindi, meglio non mettersi strane idee in mente. Svuotare lo zaino e passare oltre. E l’idea di rimanere a casa la domenica pomeriggio, col Foggia impegnato altrove, assume i contorni di una concretezza ambivalente. Io, bipolare, penso al mio gruppo. Ma poi mi risale l’alta marea del braccio di mare tra Procida e Casamicciola. E la nausea cancella i rimpianti. Così sarà.

Anche perché è inutile che lo nasconda a me stesso. Di Poggibonsi, di Aprilia, persino di Santa Croce, mi è piaciuto rivedere gli emigranti. Il resto della Ciurma dislocato tra l’Emilia e il Lazio. Di questa stagione, ricordo l’adrenalina del furgone per Lecce, l’alcolismo consapevole e suicida di Cosenza, la tensione nel ventre del traghetto a Messina. Poco altro. Degli ultimi cinque anni, con emozione ed amore, alcuni bar. Alcune notti. E i soliti volti. Ma devo risalire a quando in trasferta ci andavamo tutti, sapendo di entrare, per avvertire la pelle accapponarsi per un coro. Per un gol. Domenica un paio di auto si divoreranno altre 6 ore di asfalto. E altrettante a tornare. Senza alcuna garanzia. Io non ci sarò. Chiamerò gli altri per sapere come sta andando, certo. E fuori dal covo, dove in tre guarderemo il Foggia perdere 1-0 contro l’ultima in classifica, quella luce inutile che è propria del periodo che va dalla fine del Festival di Sanremo alle Giornate di Primavera del FAI, mi comunicherà per intero la tristezza. La tristezza delle cose che si perdono. La frustrazione di ciò che era bello e non ritorna. La rabbia della frenesia del fare che tramonta nell’impotenza del non poter fare. O del non aver nulla di meglio, da fare, che tornare a casa e scrivere di questa inutile luce di inizio marzo.

Buon rientro, ragazzi.

25/02/14

Soundtrack



Domenica 23 Febbraio 2014, Ischia-Foggia 1-0

C’è sempre un altro modo per raccontare gli eventi. Un altro registro.
Le immagini di uno spaventoso incidente di un gatto delle nevi possono finire indifferentemente su Real tv o su Paperissima, senza alcuna modifica sostanziale. Basta cambiare il jingle in sottofondo.
Le strade strette di Pozzuoli che sfociano sulle banchine popolate dai pescatori della domenica mattina; l’attracco della Caremar; il mare che solleva e affossa il traghetto, mentre isole e promontori circondano la vista; la calura già opprimente di Casamicciola, con gli sbirri in servizio appoggiati al muro; i saliscendi, i vicoli, l’unico ingorgo dell’isola; il casaro, i negozi di souvenir, l’edicola in centro. E, ancora, l’attesa del nuovo imbarco. La marina di Napoli in dissolvenza. Immagini. Nient’altro che questo. Che rendono diversamente in base alla musica che si sceglie per montarle. Così, ormai ben saldo alla terraferma, passo in rassegna i cd, allineati nel cassettone a scomparsa della mia mente. Di sicuro non Zimmer. Né tanto meno Kilar. Il tema del Benny Hill’s show, tutt’al più. E che nessuno si senta offeso. Non è mia intenzione sminuire il sacro idolo dei Chilometri. Ma ho bisogno di sposare un’altra prospettiva. Giacché fingere d’essersi divertiti è il tributo minimo che penso si debba pagare alla malandata passione.
Questo sono io. Mi guardo nel pezzo di specchio usurato sospeso sul lavandino lercio. L’aliscafo è polveroso. Il sapone è stitico. Ho una faccia preoccupante. Gli occhi gonfi sono feritoie di torre nelle rughe della facciata. Tra meno di un’ora saremo al Molo Beverello. Per intraprendere l’ultima parte del percorso a ritroso. Mi asciugo il mento, sento la barba ispida, i baffi. Non stacco gli occhi dallo specchio. Sono di un’altra generazione, penso. Ma la considerazione scivola lungo le arterie senza vittimismi. Non è uno spot sugli acciacchi dell’età. Non è una Pubblicità progresso. Anzi. Ho due ore di sonno – quel lasso di tempo che va dalle 3 alle 5 di un giorno che ha smarrito la propria collocazione sul calendario, anche se dovrebbe essere ieri – non ho mangiato, non ho bevuto che un paio di Peroni. Ma non avverto alcuna stanchezza fisica. Sono ben altre le stanchezze che mi fissano dallo stomaco. Che implorano soluzioni che non ho.
Le strade strette di Pozzuoli che sfociano sulle banchine popolate dai pescatori della domenica mattina; l’attracco della Caremar; il mare che solleva e affossa il traghetto, mentre isole e promontori circondano la vista; la calura già opprimente di Casamicciola, con gli sbirri in servizio appoggiati al muro; i saliscendi, i vicoli, l’unico ingorgo dell’isola; il casaro, i negozi di souvenir, l’edicola in centro. E, ancora, l’attesa del nuovo imbarco. La marina di Napoli in dissolvenza.
Ve l’ho già raccontata quella di Barletta? Quella volta in Coppa Italia? Giocavamo contro la Fidelis Andria, in campo neutro. Epica allo stato puro. Avevo diciannove anni. Non sapevo cosa fosse un Casual e nessuno sapeva cosa fosse un social network. La prima trasferta l’avevo fatta quattro anni prima. Avevo così tanta voglia di essere un Ultrà che se mi avessero proposto di andare a lavare a terra settimanalmente la sede del Regime di Via della Repubblica, avrei recepito l’incarico come un inglese recepisce il titolo di Baronetto. Così tanta voglia di appartenere, da scappare di casa per andare a Napoli. Così tanta da accettare di non avere voce in capitolo. Perché, a quei tempi, questo era un mondo gerarchico e meritocratico. Non parlavano tutti. Il diritto di parola si acquisiva coi gesti. A Barletta, nell’agosto del 1996, dilagammo nel piazzale della stazione. Nella loro città. Il giorno dopo, uno dei “grandi” chiese il mio parere su una faccenda di nessun interesse. Ed io sentii le gambe cedere dall’emozione d’essere stato interpellato. Sono di un’altra generazione, penso. Mentre lo specchio segue il movimento costante delle onde. È stata una lunga giornata. E non è successo niente. Niente di più di quanto succede normalmente a questo mondo nel 2014.  

13/02/14

Fantasmi nel campo santo



Domenica 9 Febbraio 2014, Martina-Foggia 1-1

C’è un istante preciso.
Quando nell’abitacolo si diffonde il giornale orario di Radio Capital, a volume sommesso. Renzi che sta facendo le scarpe a Letta. Quando i passeggeri dell’ennesimo viaggio della speranza elencano e motivano i perché delle loro scelte in materia di whiskey. Lagavulin, Laphroaig, Oban. Quando fuori l’inverno arretra, e dissemina il terreno di nuvole cariche tendenti allo scarlatto. Quando gli altri mezzi della legione sono a distanza di sicurezza, perfettamente visibili, uno avanti e uno dietro. E gli altri due ci aspettano al distributore di Casamassima. E la strada scorre via con implacabile costanza.
C’è un istante preciso. In cui tutto sembra andare come dovrebbe. In cui gli astri sono al loro posto, senza pretese illegittime. In cui il tempo sembra assolvere al proprio dovere, per il bene degli uomini. Ma gli esseri umani sono animali perfettibili. E non colgono. Non hanno sensori sufficientemente allenati a comprendere la grandezza dell’attimo.
È quello il momento in cui, di solito, chiama Arnaldo.

Si esce dalla carreggiata. Sosta forzata ad una pompa di benzina. I nostri sospetti erano fondati. Del resto, siamo cresciuti con quello spot di Tele Norba che parlava del Baricentro. E qui, più che alle porte della città innominabile, siamo in odor di Mar Ionio. Chi siamo? Dove andiamo? Ma soprattutto: Perché avete preso la Taranto? Domande irrisolte, nell’aria come spore in plotone d’avanguardia. Dietro le linee nemiche di febbraio. Giù fino a Mottola, a 120 all’ora, per recuperare il ritardo che credevamo anticipo. Bestemmie soffocate. E, ciò che è peggio, nessuno da incolpare. Geografia, a scuola, non si fa più. Svolta per Noci. La Valle d’Itria. Stiamo andando a fanculo. I bassi muretti di pietra ricordano la Sardegna. E l’argomento vira. I viaggi di nozze. Il più classico dei dibattiti ultras. Dall’altra macchina giungono schiamazzi via Wind. Capiamo. E sbulloniamo il nostro Oldmoor. Per non soffrire di invidia all’arrivo.

Appuntamento alle porte di Martina Franca. Facile a dirsi. Tutt’altro a farsi. Perché noi proveniamo da Ovest, e Martina si palesa senza annunciarsi. D’un tratto. Palazzi senza uno straccio di benvenuto. Esistono i tom-tom. Gli altri ne possiedono uno. Si tratta d’attendere. E noi, in questo, siamo maestri. La carovana si ricongiunge in capo a dieci minuti. Sono quasi le quattro. Le squadre saranno nel sottopassaggio. Perché c’è sempre un sottopassaggio, nella vita. Tutti in coda, verso il settore ospiti. Fino al primo incrocio. Perché nella vita ci sono anche questi. E noi, in onore alla tradizione dauna del carnevale, ci sparpagliamo come coriandoli. Siamo dei posseduti. Gli autisti non meno dei navigatori e dei passeggeri. Ad ogni snodo, le mani scottano sul volante ignaro. E si gira a casaccio. Rarissimi i casi in cui più di due mezzi abbiano svoltato nella medesima direzione. Posseduti. Senza esorcismi possibili. Giro panoramico. Poi, finalmente, settore ospiti.

Il botteghino è incassato nel cemento. Dagli spalti, i cori dei padroni di casa. Scenario consueto: la camionetta, gli sbirri annoiati, l’ispettore con la ricetrasmittente. Pioggia. Freddo. Le prime voci allarmate. Le chiacchiere. Quello chiuso nel cubicolo, in pratica, comunica con gli occhi. Le luci azzurre che provengono dall’interno ci fanno immaginare un monitor. È così. Tutto informatizzato. Spersonalizzato, in questo cacchio di calcio del 2014. Ci dice che il suo compito è battere sui tasti. Che non ha margini d’autonomia ulteriori. Neppure il falso ideologico! Ovviamente, non riesce ad inserire un bel nulla. Il circuito ha chiuso i battenti col fischio d’inizio. Gli chiediamo se ha biglietti tipo Riserva A. Ma ci risponde con uno sguardo da ventenne ignaro. Evidentemente, a furia di lavorare con queste diavolerie tecnologiche, questi uomini – pur datati – hanno dimenticato il calore della carta prestampata. Chiama un responsabile. C’è sempre un responsabile. Sull’Olimpo. Nel frattempo, l’ispettore ci intrattiene con un saggio di giurisprudenza, disceso a cascata dalla solita domanda: “Perché non ve la fate la Tessera? È una legge”. “No, che non lo è!”, “E cos’è?”, “Una direttiva ministeriale”. Piove più forte. Alcuni fantasmi dal vestiario casuale si aggirano attorno al loculo dell’uomo dei biglietti. Come anime di defunti assediano la casa del custode di un cimitero. Non sono molesti, non sono cattivi. Sono persi. Smarriti, dall’idea che varcare questi cancelli sia tanto ostico quanto calarsi dalle sbarre di una galera. Ma quello, l’uomo-biglietto, si spaventa lo stesso. E chiama la police. È questo l’effetto che fanno i fantasmi sui funzionari. Il responsabile arriva. E prima ancora di poter candidamente ammettere che non è lui colui che cerchiamo, prima ancora di poter sviare l’interesse dalla sua persona indicando il suo superiore nelle sfere celesti, ci mostra quel che il funzionario ci aveva già mostrato. Niente, la tastiera – alla mezz’ora del primo tempo – è inservibile come un giradischi all’età dei Comuni e delle Signorie. Non ci resta che salutare.

Si smantellano le tende provvisorie del nostro provvisorio accampamento di illusi, speranzosi e sognatori. Si lanciano due o tre cori nel silenzio. E sotto l’acquazzone, si monta nei mezzi. In corteo, si prende la via della campagna, al limitare di un arcobaleno che non è né presagio, né auspicio. Soltanto il banale risultato delle piogge in dissolvenza. Un trullo, due, cinque. La sosta e sulla provinciale. Un I-phone capta lo streaming. Finisce sulla tettoia di una macchina, tra gli schiamazzi della platea, a sostenere i pixel rossoneri. Calcio moderno. Post-moderno, addirittura. Gli ultimi romantici alle prese con l’oggettistica del cinico presente. Con la metafora dell’assassinio di una passione. Contraddizioni. Come idolatrare l’arma di un delitto. In altri tempi, dicono i reduci, non sarebbe mai successo. In altri tempi, gli si potrebbe rispondere, una radio locale avrebbe trasmesso la partita. In altri tempi, ad essere ancor più pignoli, al botteghino ci avrebbero mollato dei biglietti senza fare troppe storie. E ci saremmo visti la partita sui gradoni. Poi il Foggia segna. Noi esultiamo. E un villico sbuca dal trullo. In mano ha un coltellaccio da cucina. Di quelli per tagliare il pane.   

20/01/14

Il potere del disinteresse



Domenica 19 Gennaio 2014, Vigor Lamezia-Foggia 0-1

La florida signora ha una sciarpa in tartan a coprirle il collo e una faccia distesa. Quando incrocio il suo sguardo, alza le braccia e mi mostra i palmi. Come si fa in chiesa quando si recita il Padre nostro. O allo stadio prima di Noi non siamo napoletani. Intima di non chiederle niente. Lei non c’entra, non è responsabile dell’ordine pubblico. Eppure un poliziotto in divisa le tiene aperto l’ombrello sul capo scoperto, e la segue passo dopo passo. Faccio capire – allargando le braccia a mia volta – che non intendevo aprire un dibattito, una tavola rotonda o qualcosa di simile. A quel punto faccio l’errore di guardare l’uomo in divisa. Che mi spiazza con una domanda innocente. “Perché non potete entrare?”. Attimi di silenzio. “Perché non abbiamo la Tessera”. Sento che sta per farlo. Avverto il rumore del suo sistema operativo centrale in rielaborazione. Lo fa. Mi rivolge la domanda da un milione di euro. “E perché non ve la fate?”. La signora annuisce, come se fosse stata preceduta. Nelle intenzioni, anche lei voleva chiedermelo. Nei gruppi di studio politici, una delle prime cose che ti insegnano è di non discutere mai coi poliziotti. Un vago ricordo di quei tempi di apprendistato mi attraversa la mente, come un fulmine in una torbiera. Ma sono epoche sepolte. Quindi rispondo. Perché è sbagliata, perché questo modo di intendere il calcio sta svuotando gli stadi, perché la pay-tv, il calcio di un tempo e bla, bla. Quello, alla fine, annuisce. Disinteressatissimo. Poi si volta, mi fissa e mi dice che, comunque, abbiamo fatto due chiacchiere accademiche. Che tanto non dipende da lui. Che non è il responsabile. Mi verrebbe di rispondergli che non l’ho mai sospettato. Ma alzo le spalle anch’io. Un confronto di specchi. Con l’indifferenza in posa egocentrica, nel mezzo. Credo di sapere chi sia il responsabile. Quel tipo che ha tirato la testa fuori dal finestrino abbassato e ci ha chiesto: “Foggia?”, quando i due furgoni si sono arenati davanti all’evidenza di uno stadio che non riuscivamo a vedere. Per quanto ci fossimo davanti. Quello col cappuccio che mi ha gridato, a metà tra l’allarmato e l’autoritario: “Dove vai?” mentre mi avvicinavo al muretto del settore ospiti per fotografare il nobile striscione dei ragazzi di Lamezia. Solidali con il lutto delle famiglie e degli amici delle giovani vite perdute la settimana scorsa, in un incidente stradale. Quello che adesso, dopo la foto di rito – quella di spalle – e gli altrettanto rituali cori per la curva e contro la Tessera, torna col telefono in mano per ribadire che non c’è niente da fare. Siamo arrivati con mezz’ora d’anticipo, stavolta. “Ma è mai possibile? Non ci sono screzi con i rivali, non ci sono problemi tra i gruppi…”. Quello alza gli occhi al cielo. Ok, capiamo al volo l’antifona: neppure lui è il responsabile. Che caricatura di Paese! Dalle bollette della Telecom alla Tarsu, dall’Imu agli stadi blindati, non si riesce mai a capire di chi sia la responsabilità! È la solita scusa del fatalismo che pervade gli umori del nostro spirito mediterraneo. Un vascone in cui nuotano pesci che eseguono soltanto gli ordini, l’Italia. Direttive inflessibili e mute dettate da un funzionario che non si vede, non c’è e che probabilmente non esiste. Il Dio dei cattolici. Va bene, al solito. Allo stadio non si va, non facciamo capricci. Abbiamo percorso più di 400 chilometri filati. Magari una birra, al riparo di un bel bar in centro, o un caffè in tranquillità, ce lo meritiamo pure. Prima di ricongiungerci alla strada del ritorno. Quel che mi sembrava il responsabile dell’ordine pubblico, mi tocca una spalla. Come un maestro deamicisiano – o un pastore transumante – mi invita a raggiungere rapidamente i mezzi. Mi fermo. Niente stadio, niente capricci, si è detto. E sia. Ma questo esula dalla pur assurda sfera dei divieti. Gli faccio presente che non ho più alcuna intenzione di valicare quella zona militare sorvegliata dove ventidue ragazzi danno calci ad un pallone. Conosco la pericolosità della pretesa che mi ero arrogato di fare e mi piego di buon grado all’interesse in materia di difesa dello Stato. Ma ora non sono più un foggiano in trasferta. Sono un cittadino italiano sul suolo italiano. E vado dove voglio. Quello mi risponde che no, non è così. Che devo raggiungere gli altri e accelerare, con gli altri, le procedure d’espulsione forzata. Gli chiedo se pensa che il mio sostare o il nostro girovagare dipendano da una sua concessione, piuttosto che da un diritto. Risponde che comanda lui e tanto deve bastarmi, come spiegazione. Discussione accademica, certo. Ma assai significativa della mentalità dei tutori. Arrivano i ragazzi di Lamezia. Li ringraziamo e stringiamo loro le mani. Poi gli chiediamo dove poter vedere la partita, lontani dallo stadio. In fondo, il campo sportivo è in piano e attorno ci sono diverse collinette. Il responsabile non-responsabile si intromette. Dice che non andiamo proprio da nessuna parte. Che loro adesso ci accompagneranno in autostrada. Facciamo presente che non vogliamo essere scortati e che – da questo momento – siamo turisti in libera uscita. Quello insiste. E ordina una camionetta come si ordina una capricciosa. La vuole piena. Con molti funghi. Non ci siamo proprio capiti. Non si capisce, non si vuole capire, il limite tra un divieto e l’abuso. Perché le due cose, nel frullato mentale poliziesco, sono le due facce della medesima medaglia. Chiedo di mostrarmi la fonte della sua interpretazione estensiva della legge. Consapevole di essere volutamente stronzo e presuntuosamente legalitario. Ma tant’è, non mi piace la sua faccia. E a quello non piace il mio “atteggiamento”. Dice proprio così. E mi propone di seguirlo in centrale. Io sono ben disposto e glielo dico. Altri si intromettono. E in meno di un minuto, un bel corteo di volanti apre e chiude il convoglio di pericolosi non tesserati. Che, per il bene della nazione, anche stasera sono stati respinti. Grazie alla solerte polizia italiana, non ci sarà violenza in questo stadio, oggi. Ci voltiamo e salutiamo con la mano i ragazzi di Lamezia. Che ci rispondono alla stessa maniera.

06/01/14

Il secolo scorso



Domenica 5 Gennaio, Aprilia-Foggia 1-1

Il vomito sa di vomito. Cacofonia, ridondanza. Eppure, non c’è altro modo – se non il modo suo stesso – per definire quel sentore di frutti di bosco che ti resta appiccicato al palato. Una giornata passata a rimandare impegni immaginari. E a leggere Ken Follett. Una nottata a sudare. Una metafora al risveglio: ti preoccupi tutto il tempo di tenere sotto controllo naso e gola, e al canto del gallo ciò che ti sorprende è lo stomaco. Do la colpa al mostacciolo superstite. Ma alle otto e trenta i dubbi danzano sul davanzale. L’immaginazione funesta fa il resto. Già mi vedo implorare l’autista di accostare. Aprire la portiera con furia e in fretta. E muovere il torace su e giù, come i gatti quando si liberano dei peli. No, no, imbarazzante. Troppo. Questa mi sa che la salto. Però  poi penso alle suggestioni. Al potere del cervello. A quando, pur provando a concentrarmi sull’indice della Borsa di Tokyo, immancabilmente riuscivo a sentire brontolare gli intestini nel silenzio del chiostro universitario. E poi stavolta siamo tutti. O quasi. Ci sono i profughi rimpatriati all’ultima chiamata “natalizia” prima di tornare ad emigrare. Una volta a destinazione, ci saranno anche i romani. Non posso e non voglio mancare. Così, ingoio le mie paure, i miei imbarazzi e una buona dose di acido, e mi mescolo agli altri. In Via della Repubblica i lunghi e lenti preliminari sono stati ultimati. I furgoni stanno facendo manovra. Le macchine sono piene. Le nostre tre sono un Tetris. Quando attraverso la strada per andargli incontro, i compari stanno mischiando le squadre. Intorno a noi c’è una città placidamente attiva. Il banco della frutta, la Camera del Lavoro, il negozio dei cinesi. Un lampo attraversa lo sguardo. La mesta consapevolezza che questa gente non sa neppure dove stiamo andando, cosa stiamo facendo. E men che meno gliene importa qualcosa. Dovremmo dire che “un tempo non era così”, ricordare i settanta e passa pullman ai Mercati generali, prima dell’invasione di Campobasso. 1989. Il secolo scorso. Meglio scacciare la mosca della nostalgia. E mettere in moto i motori. Che, in fondo, la strada è la stessa di allora. Anche se sgombra di mezzi. Il castello di Lucera a sinistra. Un asfalto omicida sotto i nostri pneumatici. Stavolta ho evitato la colletta alcolica. Che poi, tanto, l’alcool resta confinato in una sola macchina e la tentazione per i passeggeri è così forte che, alla prima sosta, si beve il rimasuglio. Ho preso una Vivin C. L’alibi morale. Eh, beh. Non siamo in carovana. Chi si ferma a fare pipì sul ciglio della statale è superato senza pietà, come i feriti nella ritirata del Don. Piove. Piove molto. Fino ad Isernia e oltre. In macchina un estenuante dance hall. Roba da fattoni. Lo stomaco regge, tanto che alla consueta sosta di Venafro, riesco ad ingerire persino un’arancia di Sicilia. Il tratto d’autostrada suscita perplessità. C’è uno dei nostri da recuperare, appiedato, al casello di Ceprano. Da qui, secondo qualcuno, si potrebbe persino raggiungere il Pontino e Aprilia. Ma altri dicono di no, che non conviene. E propongono Frosinone. Altro diniego. Gli esperti del National Geographic optano per Valmontone. In linea d’aria è perfetta, dicono. Sarebbe perfetta, effettivamente. Se esistesse una funivia di vento tra le case di zucchero filato e marzapane. Ma la realtà non è mai in linea d’aria. È piena di curve solide. Di cartelli che indicano una cosa, ma che alludono ad altro. Che devi capire ciò che tacciono. Così, riuniti al guard-rail, tra altre arance sicule, uova sode e whiskey a 8 euro, ci incolonniamo per l’avventura dei Castelli romani. Contiamo di non perderci, di non separarci mai più. Dura fino a Velletri, per la bellezza di diciannove chilometri, immersi in uno scenario mozzafiato di carrozzerie e autoricambi. Poi, come spesso capita nella vita, è una rotonda a snellire il traffico e a farci perdere l’orientamento. Uno dei nostri mezzi si attarda in un improvviso impeto al volontariato. I furgoni filano in uno sprofondo. Noialtri c’imbizzarriamo in un girotondo all’ultimo sangue. Le indicazioni ignorano la nostra destinazione. Spaziano tra Nettuno e Latina. Tiriamo a sorte. Un girotondo russo, a un proiettile solo. Seguiamo Latina. E sbagliamo. L’area di recente bonifica ci accoglie voltandoci le spalle. Ci siamo persi, ma continuiamo a credere nell’uomo e nel progresso scientifico. E ci consoliamo telefonando alla vettura dei volontari, figurandoceli sul cucuzzolo di chissà quale monte della Verna. A parlare coi lupi. Nessun cellulare prende. L’assenza di segnale è il segnale. “Poverini, si sono persi”, ci diciamo. Mentre seguiamo un improbabile Cisterna di Latina. Avevamo un vantaggio di mezz’ora sul fischio d’inizio. Ora è come se l’avessimo sentito nelle orecchie, colpire il timpano e riecheggiare nel vasto deserto. “Dovevate seguire Nettuno”. Ma in base a cosa, di grazia, se voglio andare in un posto devo seguirne un altro? Inversione. L’inversione è un atto di fede  nello sbaglio. È un gesto meccanico profondamente umano. La quintessenza stessa della nostra umanità. La macchina ha i freni bagnati. E quando rallenta fa un rumore simile a quello dei caccia giapponesi a Pearl Harbour. La strada per Aprilia è un’interpoderale tra risaie. Il nostro altruismo non ci abbandona. Chiamiamo il Soccorso invernale, sotto sotto per bearci del loro essere più inguiati di noi. Una voce allegra ci risponde che sono arrivati, che sono tutti assieme, che il botteghino li/ci ha respinti, ma che c’è un bel muretto su cui arrampicarsi tutti assieme per goderci la prima di ritorno. Con l’aria dolce e comprensiva, bestemmiamo. In fondo a questa strada dovrebbero esserci Aprilia e il suo stadio. O i Re magi al gran completo. Non ci resta che sperarlo. Un cartello, finalmente. E i calcoli renali che dettano i tempi dell’ultima sosta. La prima cosa che vediamo, lì a sinistra, è il gruppetto sul muro. Incorniciati dai fari del campo sportivo. Sembra una scena berlinese. 1989. Il secolo scorso. Parcheggiamo, scendiamo. Ci arrampichiamo. È vero, si vede tutto. Sembra Santa Croce sull’Arno, ma c’è molto più spazio calpestabile e la visuale è ottima. Votiamo per questo settore. Le pezze sono già sul reticolato. I cori sfilacciati. Del resto, per salire in cima ci sono montagne di sabbia o di ghiaia da scalare. E non si può impedire ad un branco di quaranta bambini di giocare con la ghiaia o con la sabbia. Bandierine al vento. La polizia sul fianco sinistro accende la camionetta per riscaldarsi. Dietro di loro c’è il settore foggiano. Silente. Dall’altra parte, i locali. Cori in difesa della libertà degli ultras e contro i ciociari. Un bandierone. Si, lo so, sono incontentabile. Ma mi sento meglio, molto meglio. Non temo più i conati. E chiedo del whiskey. La festa comincia. I cori secchi riescono a mitigare l’effetto playback. Ma siamo tutti in fila sul muretto. Non va bene. Le canzoni cantilenanti, poi, manco a dirlo. Vagano da destra a sinistra del fronte, come al cinema il dolby surround di un bombardamento. O di una partita a poker. Il Foggia segna. Poi, almeno da qui, è solo Aprilia. Una traversa, un tiraccio a lato, molta pressione. E il pari su autorete. I nostri hanno una seconda occasione. Il loro portiere si distende e allunga in angolo. Il nostro, salva al 45’. Finisce il primo tempo. Si vede che l’ho visto? Nell’intervallo c’è finalmente modo di salutarsi tutti. Manca il pallone e la brace. Ma per il resto, è una pasquetta perfetta. Tanta bella gente, tantissima birra, Borghetti&Oldmoore. Cori di scherno e di irrisione. Altro scotch a sorsate. Decidiamo: nella ripresa entriamo tutti dallo stesso Gate. Una corona di persone in piedi circonda altrettanta gente coi piedi nella sabbia rossa. Si canta guardandosi in faccia. Attorno a quel rettangolo di superstiti, il sistema calcio che piace ai burocrati. E la polizia che, annoiata, osserva. Nicola ha fatto il biglietto. Ma alla fine del primo tempo, è venuto tra noi. “Mi annoiavo”. Fossi qualcuno, rifletterei a lungo su questa osservazione basica. Ma siccome qualcuno non sono, mi limito a osservare, a mia volta, che a Poggibonsi mi sono quasi emozionato a rivedere dei gradoni in trasferta. E no, non mi sono annoiato. Neppure oggi, tra il sabbione e il muretto di mattoni, mi annoio. Nessuno si annoia. Quelli nel parterre chiedono a quelli in alto cosa stia accadendo. Improvvisati Sandro Ciotti riferiscono. “Il Foggia è rimasto in dieci”. “Come sempre”. Cori, altri cori. Brasiliani e non. All’ultimo dei quattro di recupero, chi è sulle punte vede – con orrore – un uomo in maglia blu presentarsi tutto solo davanti al nostro estremo. E vorrebbe essere tra quelli giù. Quelli sotto percepiscono la paura. E allungano il collo. Come a voler essere tra quelli in alto. Col solo risultato che ognuno si percepisce nel posto sbagliato. “Che è successo?”. “Uagliù, non avete idea del palo che ha preso quello!”. “Ma è finita?”. “Si”. “Meh, bene così”. La squadra ci viene a salutare. Saluta i clandestini del sistema calcio. I ragazzi che, per continuare a sognare un gioco che non esiste più, si sporcano le scarpe e scavalcano i muretti. Come negli anni Ottanta. Già, come nel 1989. Il secolo scorso.

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