07/05/14

L’irrazionale speranza



Sono per la dispersione della stupidità. Non va bene che si concentri per intere settimane in un punto solo. (Karl Kraus)

Lo sport italiano si ferma «perché tutto il mondo guarda a piazza San Pietro e non ce la siamo sentiti di dare il via alle partite sapendo, poi, che al primo gol abbracci ed entusiasmo avrebbero avuto il loro sfogo». Così parlava Gianni Petrucci, presidente del Coni. Era l’ultima settimana di marzo del 2005. Karol Wojyila stava vivendo, sotto gli occhi del mondo, la sua cattolica agonia. Non era ancora morto, non ancora. Ma il calcio decise – per impulso sentimentale – di fermare il carrozzone. Come gesto di rispetto. Lo stesso che tributò a Filippo Raciti, poco meno di due anni dopo. Anche se la moglie, ancora oggi, continua a ripetere come un mantra che bisognava sospendere ben più di una semplice giornata di campionato. Fatto sta che non si giocò. E, tra le schegge della contraddizione aperta da una settimana di perdite, Matarrese definì “esaltati e irresponsabili” coloro che chiedevano di fermare più a lungo, o addirittura definitivamente la giostra. Arrivò persino a dichiarare che i morti “fanno parte di questo grandissimo movimento”. Una sorta di effetto collaterale. Quando si dice la Realpolitik applicata al calcio moderno!

Il calcio moderno. Una girandola da decine di milioni di euro. Un asteroide luminescente che deve giustificare la propria orbita, catalizzare i tele-utenti col telescopio e vendere il proprio marchio, sulle nostre teste cocciute. Tra i due estremi, il dato: il calcio milionario delle società quotate in borsa, del merchandising, delle banche e delle sponsorizzazioni, è capace di “rispetto”. O, almeno, quella è l’immagine retorica che vuole dare di sé. Quando conviene. Il pio inchinarsi dinanzi alla sacralità della vita, il profluvio di petizioni di principio degli editorialisti sul bene unico, irrinunciabile, prioritario, dell’esistenza. Almeno, quando a morire è una personalità o un servitore dello Stato. Per tutti gli altri, si faccia finta di niente. E avanti come al solito, a quantificare i diritti televisivi. A Gabriele Sandri fu negato persino il minuto di raccoglimento. Lo stesso che fummo costretti a sopportare in ogni categoria dopo Nassirya. E che valse anche svariati daspo a coloro che non lo rispettarono a dovere. Un dualismo improvvido, ma gravido di conseguenze sulla mentalità di chi, ancora, si ostina a voler partecipare, fisicamente, allo sport (un tempo) più popolare d’Italia. Vite di Serie A e vite di infimo grado. In mezzo, il nulla e l’ipocrisia. Domando: ma se Ciro Esposito – resisti, Ciro! – fosse morto in ospedale nei minuti che precedevano il fischio d’inizio della finale di Coppa Italia, cosa ci sarebbe stato di abnorme, immorale, persino criminale, nell’imporre – dal basso – quel rispetto che lorsignori impongono normalmente per le vite mancate di coloro che ritengono rispettabili? E a chi critica il comportamento “arrogante”, addirittura “camorristico”, della curva napoletana e dei suoi rappresentanti, non varrebbe la pena di ricordare che, talvolta, è necessario prendersele le cose, senza attendere concessioni e riconoscimenti che non arriveranno mai? Se Ciro fosse morto e la partita si fosse disputata – come quella notte all’Heysel – chi sarebbe stato il mostro immorale? L’uomo coi tatuaggi in balaustra? Facile, per tutti gli snob progressisti, rispondere che sì. Che si è mostri a prescindere. Immorali a prescindere. Che non è compito della plebaglia riprendersi, in una fiammata di dignità, pezzi della propria esistenza. Un protagonismo fuori dal tempo. Che è compito delle istituzioni, alle quali si sono piegati più di un induista a Shiva, concedere. Quando vogliono, quando ritengono, dopo svariate e attente consultazioni. Che esistono ruoli e leggi da rispettare. A mo’ di feticcio, di idolo salvifico. Salvo poi dimostrare di campare su una stella morente quando gli parli dell’arbitrarietà di una diffida o degli inconcepibili limiti posti a certe categorie mostrificate col consenso del media: i famigerati Ultras, ad esempio. Come gli zingari o i rumeni. Ma di costoro è inutile parlare. Da tempo, forse da sempre, hanno disertato – per noia o per reale divergenza di interessi – la barricata della riappropriazione. E arricciano il naso ormai talmente spesso che i loro visi abbronzati sembrano una maschera di Carnevale. A tutti gli altri, a chi ancora s’ostina a porsi delle domande e a resistere, chiediamo un supplemento d’indagine. D’attenzione. La macchina del fango non è mai fine a sé stessa. Non è vero che costoro – giornalisti e propagandisti – viaggiano per intuizioni, a fior di vento. Quando, prima ancora di accertare cause e responsabilità, si comunica già che la risposta sarà nel giro di vite, nell’acuirsi della repressione, allora è chiaro che bisogna scegliersi la parte. Rassegnarsi all’idea – terribile, per qualcuno – che non è in ballo lo svago domenicale di qualche migliaio di sfaccendati, con o senza i padri pregiudicati o sospettati. Chiamarsi fuori, ridurre tutto a sfoggio di brio verbale, a battute fulminanti e sagaci grondanti superficialità, semplicemente non serve. Il gioco, signore e signori, qui non è il calcio. È l’agibilità democratica di questo paese presunto.

L’uomo coi tatuaggi in balaustra s’è preso cinque anni di daspo per “istigazione a delinquere”. Formula vaga, applicabile per estensione alla quasi totalità della popolazione mondiale, in qualunque istante. Ce ne fosse la volontà. Se ne sentisse l’urgenza. In questo caso, il bisogno era il medesimo di sempre: quell’uomo ha condensato, sulla propria figura, il fallimento dello Stato. E, cosa imperdonabile, l’ha fatto in diretta tv. Sotto gli occhi del mondo. Se fuori dallo stadio la polizia – e in Italia, quando si organizza qualcosa, si parla esclusivamente di polizia – lascia un varco aperto ad un assalto ai furgoni in arrivo, che non hanno trovato posto in altri parcheggi; se dai furgoni scendono e contrattaccano; se i sopraffatti sparano e feriscono quattro persone; se una delle quattro persone è ridotto in fin di vita; se le ambulanze tardano a giungere sul posto; il responsabile non può che essere l’uomo coi tatuaggi. Perché i suoi gesti hanno svergognato uno Stato che, per la propria indole d’efficienza, non a caso, s’è fatto soffiare gli Europei di calcio dalla Polonia e dall’Ucraina. Come Ivan “il terribile” la notte di Genova. Provavi a chiedere in giro: “Sì, vabbé, ma che ha fatto? S’è arrampicato su una balaustra, ha sbraitato e ha provato a tagliare la recinzione. Senza manco riuscirci”. E la gente rispondeva: “è un bandito”. Come a dire: me l’ha detto Collovati. In Italia è imperdonabile fare da frontman di un fallimento. Non devi mai esporti quando gli fai capire che sono dei cialtroni senza principi, dei buffoni che ballano al ritmo dei contanti. Meglio rimanere in retrovia. Ma sanno, lorsignori, che senza l’uomo coi tatuaggi a fare da interfaccia – senza tutti quelli come lui, in ogni situazione di crisi e in ogni stadio, come in ogni manifestazione – il passo successivo è lo strapotere della retrovia? Hanno idea, lorsignori, di cosa sia una massa anonima, senza faccia, quando dilaga e imperversa? A me dispiace solo che l’abbiano provato poco spesso. Ma, posso garantire: è infinitamente peggio di una “trattativa”. Ma tant’è. Il mostro si deve sbattere in prima pagina. Anche e soprattutto, si diceva, per quella maglietta. Quel grido di libertà contro una palese ingiustizia. Imperdonabile, ancora una volta. E lo stadio, il luogo dove secondo i benpensanti “tutto è concesso”, torna ad essere il baluardo di una morale parallela. Cinque anni di interdizione per un sanguinoso delitto d’espressione. Di libero pensiero. Calderoni rivendicò come tale la sua t-shirt anti-Islam che provocò scontri e morti nei paesi arabi. Lo stesso fecero la Mussolini e Buffon. E Giuliano Ferrara. E i deputati, in Parlamento, in difesa di Silvio Berlusconi. Pregiudicato. Ma, quando si parla di curve e di stadi, anche i più ferrei tra i garantisti, evaporano come foschia chimica. È inutile: non si vogliono mischiare con questa gentaglia. Perché, al di là delle semplificazioni, questa gentaglia – noialtri – rappresenta ancora l’ultimo grado di irriducibilità delle istanze del basso. Dell’Italia subalterna. Pre o post-politica, e proprio per questo, irrazionale e furente, capace ancora di mostrare muscoli e tatuaggi. Di suscitare la paura in coloro che ritengono, erroneamente, di aver placato, addomesticato, sedato, il popolo bue. Ma quando una curva avvampa, personalmente – prima di ogni analisi – io penso sempre due cose: che non siamo sconfitti. E che c’è ancora speranza. 

05/05/14

Un banale deja vu

Gli spalti sono una cosa, il campo ne è un’altra.

Quindi, tralasciando per un attimo i gradoni, e la vita parallela che vi si svolge, e soffermandosi pochi secondi su quel che avviene sul rettangolo e nei palazzi dei burattinai del sedicente “spettacolo”, proviamo a ragionare.

La Coppa Italia è quella competizione resa inutile che alla fine vincono sempre, a rotazione, quelle quattro o cinque squadre di Serie A. Perché la formula è stata ideata, trascritta e realizzata affinché nessuna compagine minore, coi grilli per la testa, potesse turbare i sogni delle blasonate. Che entrano in gioco a scaglioni, come al militare. Mentre tutte le altre giocano da agosto. E di solito, ad agosto tolgono l’ingombro. Niente di coraggioso proviene dai mangiafuoco del calcio. Se applicassero da noi la stessa formula delle Coppe di Lega inglesi, con il “tutti contro tutti” già dal primo turno, la Juventus rischierebbe seriamente ad Avellino, col caldo torrido e lo stadio strapieno. E il Parma a Caserta. Come il City a Rochdale. E questo, no, non lo possono in alcun modo permettere. Presidenti e manager immaginano il tracollo probabile e lo evitano come gli scorpioni il fuoco. A prescindere. Si chiama business. E non ha niente a che vedere col “gioco” che commentatori e giornalisti – angelicamente – invocano ogni qualvolta gli Ultras si prendono a cinghiate. E ci scappa il ferito. Business. Lo stesso motivo per il quale è stato aggiunto il nome dello sponsor alla competizione in questione. Per il quale è stato reso superfluo il confronto andata/ritorno ai turni preliminari. Per il quale s’è inventata una Supercoppa italiana e la si è disputata a Pechino. Lo stesso per il quale si è spalmato e spezzettato il palinsesto, con partite anticipate e posticipate fino all’assurdo di giocare a Udine, di sera, un mercoledì di febbraio. Esigenze televisive. Soldi, soldi e ancora soldi. Fino al ripristino della finale unica.

Un tempo, neanche tanto tempo fa invero, questo paese in questo campo, dettava le regole. In questo paese si disputava “il campionato più bello del mondo”. E – incredibile a pensarci, considerata l’italica vanagloria – non ce lo dicevamo da soli! Gli altri campionati, dalla Premier alla Bundesliga, non erano altro che surrogati. Più o meno ancorati alle loro peculiarità, ma pur sempre minori, terreno di conquista delle società italiane. Dei loro calci e dei loro portafogli. Da qualche tempo, complice il sopravvento acquisito dal capitale finanziario nel presunto mondo del “gioco”, da queste parti si è deciso di emulare le società dell’immagine più mature. L’Inghilterra, gli Stati Uniti. La spettacolarizzazione a tutti i costi, che dovrebbe accalappiare allocchi e nuovi clienti – nella pallavolo si è arrivati ad eliminare la fondamentale regola del “cambio palla” per stringere gli eventi televisivi a continui highlights – ha portato i geni del marketing applicato allo sport ad introdurre silver e golden gol, da quegli incolti degli americani a mutuare persino gli shot-out in luogo dei calci di rigore. Ma, soprattutto, ha rapinato a man bassa gli stili. A noi estranei per cultura. L’evento passerella, le luci di scena, la musica, i monitor luminosi, lo speaker da villaggio vacanze. L’inno nazionale eseguito dalla pop-star di turno, sulla scia di un Superbowl qualsiasi. E, di nuovo sul punto, la finale unica.

La partitissima coi lustrini, i politici, le luci della ribalta, gli attori da fiction e i cantanti a bordo campo. Una specie di Partita del cuore con in palio una coppa. Per il tornaconto. Dimenticando volutamente che il calcio è ancora, per qualcuno, un fenomeno sociale fatto di carne, sangue, polvere e passione. E che Roma non è Londra, come l’Olimpico non è Wembley. Chi ambisce a contare il cash dell’affare milionario, deve considerare il rischio d’impresa. E il rischio è semplice, come la natura stessa di una nazione fondata sulla rivalità. È in quella gente che non s’arrende al ruolo obbligatorio di cliente. A Roma ci sono due tifoserie rivali tra loro. E se in finale ci vanno il Napoli e la Fiorentina, gli “eserciti” sul campo d’onore della capitale diventano quattro. Cinque, considerata la celere. Alè. E pensare di risolvere tutto disseminando il terreno di camionette e blindati, è un aspetto anch’esso tipico della mentalità imprenditoriale di questo ceto di sciacalli. Dopo anni di imposizioni, limitazioni della libertà individuale e di movimento, isolamento tentato e ritorsioni repressive, il resto va da sé. Ed è scandaloso chi si scandalizza. Che forse, costoro, vorrebbero semplicemente incassare? Impossibile, neppure nell’epoca del capitale finanziario.

Senza dubbio alcuno è più comodo, dopo, utilitaristicamente mostrare le immagini del grande spavento al circo. Il video col leone che si ribella al domatore e strappa urla terrorizzate ai bambini e ai loro genitori. Perché è questa la sintesi della grande, superficiale, artefatta falsità di chi orienta le telecamere del media. E detta i tempi e i modi della paura. Per dirla alla Brecht, tutti a parlare della violenza del fiume e nessuno della violenza degli argini che lo costringono. Da due giorni fanno il giro del mondo le immagini dell’uomo sulla balaustra della Nord. Da due giorni, piccole iene e grandi avvoltoi, scavano nella sua vita privata, alla ricerca di pezzi di carne appetibili. Da due giorni, parlano tutti. Anche, e soprattutto, quelli che allo stadio non c’hanno mai messo piede. E via di repertorio! Le immagini di Italia-Serbia a Genova, del “derby del bambino morto”, dei genoani che ritirano le magliette ai loro “idoli” di cartapesta. Di nuovo il refrain, il più gettonato, fintamente scandalizzato, indignato degli ultimi quindici anni: “Il calcio è malato perché è ostaggio degli Ultras”. Eppure, nello stesso arco temporale, abbiamo ingoiato le pay tv, la Serie B al sabato, gli anticipi e i posticipi più irragionevoli, i divieti di trasferta, la Tessera del tifoso, lo strapotere della discrezionalità del daspo, le schedature, i capricci di prefetti e questori. Ci dicono con lieve preavviso dove giocano i nostri, a che ora e con quali limitazioni. E noi proviamo ad esserci, a tenere in vita il nostro sogno di calcio. Siamo sempre di meno, sempre più frustrati, ma resistiamo nella consapevolezza d’avere ragione, d’essere baluardi di una partecipazione che non esiste più. Fossimo davvero dei sequestratori, saremmo dei pessimi negoziatori.

Alla fine della giostra, resta sul palato il retrogusto del già vissuto. Un banale deja vu. Il fuoco di fila di chi ancora, retoricamente, fa bere agli inconsapevoli l’idea di un calcio da restituire alle famiglie “a tutti i costi”, criminalizzando “i facinorosi”. Senza mai accennare alla violenza del denaro, che ha mutilato l’entusiasmo del popolo, a cui il calcio appartiene. L’incompetenza dei politici col pugno di ferro da sbandierare in campagna elettorale. L’idea del daspo a vita. Nessuna volontà di invertire una rotta che punta dritto al fallimento. E tanto fumo a fare da sbarramento delle responsabilità reali. Zero chiacchiere da talk sulla disorganizzazione, persino sull’assenza di un’ambulanza nei paraggi del misfatto. E tante, a piena bocca, sulla maglietta per Speziale. Che il Corriere, in un conato di vomito, ha definito “killer” di Raciti. Disgusto e disprezzo. Per la verità, per la verosimiglianza, prima ancora che per la vita umana. Allora, facciamoci due conti e tiriamo le somme. Si sta alzando la marea della nuova repressione. Cerchiamo di capire chi siamo e cosa ci spinge a continuare. E facciamo quadrato, tra mille e mille dita puntate. Isolati ma non domi. Come leoni nel circo del denaro.   

Il Libro