13/04/17

Null'altro


Quando il Foggia salì in B Leonardo, mio padre, aveva la varicella.
Franco, mio zio, salì le scale di casa con una foga che imprimeva sconsiderata fretta ad ogni passo sui gradini. La varicella non era prevista. A quarant’anni non è mai prevista. Zio, da sempre entusiasta fino al rovesciamento del visibile, l’aveva interpretata come una punizione divina al cauto ottimismo di mio padre. Visitò il malato giusto il tempo di urlare, dalla porta della cameretta, che la Madonna l’aveva voluto. Poi si rifece le scale al contrario e tornò a farsi ingoiare dalla festa che ingoiava Foggia.
Quando, nove anni dopo, il Foggia retrocesse in C1, io non ero a Salerno. Non ricordo neppure più perché. In mezzo c’era stato Zeman, c’era stato Catuzzi, le quattro stagioni di serie A, la Uefa persa nello scontro diretto col Napoli. Bacchin. Di Canio sotto la Sud. C’erano state le stagioni della cadetteria percepita come declassamento. Anni di una disillusione cocente, ustionante, diffusa. Anni di ambizioni frustrate, di miraggi e disaffezioni. L’incantesimo spezzato tra una piazza asfissiante e la sua maglia rossonera. Quei tempi passati a ritenerci di passaggio che finivano per non finire più. Eravamo pochissimi a Benevento, la domenica delle Palme del 1995. Giocavamo in casa, formalmente. In campo neutro. Pochissimi erano anche i pescaresi, che in classifica volavano altissimi. Una telefonata a casa. Un sentimento di avulsa alterità rispetto ad una città che, inutile nasconderselo, si era offesa come una collegiale ed aveva voltato le spalle ai suoi ragazzi. Sette minuti di recupero lunghi come una rinascita. Vincemmo uno a zero, immeritatamente. E Burgnich si ripeté la settimana successiva, vincendo di misura a Brescia e vendicando uno 0-5 finito alle tre del mattino, con il faccia a faccia negli spogliatoi. Sabato di Pasqua. Come il prossimo. Come quello del 1989, quando Fabio Fratena uscì in barella dal “Pinto” di Caserta. Che i foggiani erano talmente tanti da spostare il settore ospiti. Ero in un locale che forse era un pub e che di sicuro oggi non esiste più. A via Ciampitti, accanto alla saletta di Savino e alla Pizzeria America. Non piansi. Prevalse l’incredulità per quella prova agonisticamente impeccabile quanto inutile di una Salernitana già promossa che voleva vederci sprofondati. Come i ricordi di un passato recente. Come Ciccio Baiano sotto la loro curva. È il calcio, mi ripetevo. La raggelante bellezza di uno sport impietoso ed ingiusto. Del resto, avevamo sciupato la salvezza la settimana prima, col Ravenna, allo “Zaccheria”. Vincevamo due a zero. Non piansi. E non lo feci neppure ad Ancona, nello spareggio play-out che ci affossò in C2. A noi. Che pensavamo che Marsala – raggiunta da una decina di eroi – fosse il letto dell’orrido. Le circolari dei martinesi in una mezza sera di lunedì. La neve col Brindisi. L’Andria che vince al 94’.

Questa settimana è una seduta di ipnosi. Un viaggio terrificante e cardiopatico, che salta battiti e pompa sangue alla rinfusa. All’indietro, random. Sembra impossibile. Che sia la stessa squadra. Quella che di lunedì andava a giocarsela a Sassari e quella che perdeva Baldini, che se ne andava a Mantova, mentre in maternità aspettavamo Antonio. Quella che ci portava a Venezia e quella di Roccotelli che batteva i calci d’angolo dalla destra della Nord. Quella di cui parlava nonno e quella che doveva fare la tournee in Cina, nell’estate del 1992. Quella che giocò in maglia verde al “Veneziani” di mercoledì, quella che battendo la Casertana fece un favore al Barletta, quella che schierava Petrescu alla conduzione di una trasmissione di Teleradioerre e quella che seguivamo in furgone. Quella del “Delle Alpi” e quella di Gualdo e Nardò. Le repliche di Telefoggia la domenica alle 21:30, il pellegrinaggio in via Gioberti quando venne giù la vecchia tribuna, la presentazione di Campilongo all’anfiteatro. Entrambi sostanzialmente declinabili al passato remoto. Questa settimana è un bilancio. È una constatazione che funge da avvertimento. Il Foggia ha macinato le nostre vite. E non c’è distanza che sia mai riuscita a metterci in salvo da questa sorta di astro perverso. Ora non stiamo più nella pelle. Ma se la pelle ci fosse ancora sarebbe dura e annerita dalla sovraesposizione alla luce fortissima e alle intemperie di questa stella folle. La stella del Sud, come recitava uno striscione in centro, ai tempi del Totip. Non c’è discontinuità, è questo che spaventa e toglie il fiato. Tra “all’attacco, brutti scimmioni” e la mentalità. Il Foggia è il nostro viaggio sentimentale. Null’altro, se si esclude la famiglia o gli occhi che portiamo in fronte, dura da tanto. Null’altro è più difficile da abbandonare. Null’altro sembra più scontato. Ce ne siamo resi conto il giorno in cui Samele vinceva in squadra il bronzo olimpico. Il giorno di quell’imprenditore foggiano che, da Milano, aveva salvato i rossoneri dall’inferno. Più ancora di Caraccio. A volte vorrei che il Foggia fosse uno di quei film alla “Big fish”, di quelli in cui i protagonisti sparpagliati sulla celluloide alla fine si incontrano tutti in un posto e si guardano e si conoscono da sempre. Il nostro Walhalla simile ad una celebrazione. La sforbiciata di Mounard a Cremona con il tuffo di Barbuti a Teramo, la rovesciata di Bozzi al “Ferraris” con Schio e Orati a Brindisi. Con Paolo List dal limite, al Barletta. Sotto l’incrocio. Con le banane in Sud. E Signori che dribbla Galli al “San Paolo” e corre sotto la Nord laziale, ammainando la stagione delle bandiere improbabili. Il tutto confuso, meraviglioso come un precipizio, come una scogliera battuta dai venti. C’è gente che quando canta “Il Foggia è tutto per me” non scherza affatto. Magari pecca di approssimazione, di ingenuità, ma il vero è dietro il velo delle parole. Perché non stiamo parlando di una squadra di calcio. Stiamo parlando della nostra storia collettiva. Del nostro essere comunità in una città che tale s’è sentita solo dinanzi alle sciagure. Oggi, a meno di quarantotto fottutissime ore dalla prima ordalia, la mia città non somiglia in nulla a quella di dieci mesi fa.  Non ci sono strade imbandierate, non ci sono festoni, tutti parlano di piedi per terra. Ma il fatto che non parlino d’altro dimostra quale fuoco provi a nascondersi sotto la cenere del tempo che non passa mai. Foggia, oggi, ripete che non abbiamo fatto ancora niente, ma è cautamente ottimista. Come Leonardo, prima di prendersi la varicella. E noialtri, entusiasti che ancora non scordano le lacrime di giugno, non possiamo fare altro che guardare fuori dalla finestra e tirare fuori un’idea che ci strappi all’immobilismo delle lancette. Tipo scrivere parole superflue, che suonino da ode e da preghiera laica. A quegli uomini che sabato dovranno scendere in campo sapendo cosa rappresentano. Per questa gente che solo quando li vede in campo si sente davvero una città.

Allora avanti, nel nome di tutto ciò che ci ha preceduti e lambiti. Di tutto ciò che è trascorso e, in virtù di questo, è al nostro fianco più del presente. Dell’urlo dei trentamila quando Bresciani sparò alle spalle di Peruzzi. E del silenzio sotto i portoni dei notai, fallimento dopo fallimento. Avanti, nel nome di quel che conta davvero, del nostro gioco di bambini che è diventato una faccenda dannatamente seria. Nel nome di chi ha amato quella maglia e di chi la amerà. Di chi non c’è e di chi non può. Avanti, cazzo, brutti scimmioni. Che Foggia è stanca di patire. 

Il Libro