28/08/18

Perugia, l’anno della retrocessione


La prima di campionato non è la settima, la nona, la quattordicesima. E manco la prima di ritorno.
La prima di campionato vaporizza, dalla sua estiva anatomia in raffreddamento, le lisergiche spore di ogni nuovo principio. L’inizio. Che è settembre, l’inizio, ben più di quanto non lo sia mai stato gennaio. Settembre. Anche se i campionati cambiano nomi, importano sigle astruse, inventano piattaforme internet che costringono a cambiarsi il televisore in soggiorno, riducono gli organici e cominciano sempre prima. Ad agosto. Come la Ligue 1 o la Premier. La Coppa Italia, addirittura, a luglio. Ma poco importa, adesso. Le polemiche furenti dell’estate sono alle spalle come e peggio delle inzuppate vele veneziane a Lepanto. È tempo, adesso, di reiterare il rito. Di ritornare ad incorporarsi nell’infanzia ricordata. In quella immaginazione favolistica che, di suo, costituisce gran parte della tradizione alla quale, post-moderni, ci appelliamo. Il calcio dei pionieri è tutto qua, da un lembo all’altro del lobo frontale. È incastonato tra gli scaffali – profumati legni levigati a mo’ di gabinetto farmaceutico – accanto al mezzobusto di Paolo Valenti, alle note della sigla di Domenica sprint, alla voce roca di Sandro Ciotti, agli scudetti stilizzati, alla Pasta Barilla che accompagna la testa della lupa capitolina, all’olio Cuore del diavolo trasfigurato in lineari fiamme d’inferno. Con l’Ascoli che ha Pop 84. E l’Atalanta, Sit-in.
Ogni agognata nuova stagione nasce antica. E il paradosso è solo apparente. O, forse, non è neppure un paradosso fatto e finito. Siamo appassionati di antiquariato che sfioriscono quando chattano e riprendono colore alla vista di un’acquasantiera. È così che funziona. Senza il calcio che abbiamo amato, non riusciremmo ad amare il calcio. Ad ignorare la betoniera che, instancabilmente, asfalta ciò che ci è sempre piaciuto. A disinteressarci degli interessi che governano il mondo del pallone e sovrintendono, cinicamente, il nostro spiacevole ruolo di clienti. Una macchina elettronica stila i calendari in diretta streaming. E noialtri, foglio e penna, prendiamo appunti. Anche se ci sono da attendere i ricorsi, le richieste di ripescaggio, i punti di penalizzazione per frode; anche se le date indicate dall’elaboratore a primo acchito saranno inevitabilmente modificate quando verranno resi pubblici gli anticipi del venerdì, i posticipi del lunedì e gli orari del sabato. Per noi, ogni volta, è niente: è un segreto che pare solo nostro e che si racchiude nella dialettica tra un coso elettronico e la penna Bic.
Un elenco di sigle e di giorni. Una punes per fissarlo in bacheca. E si riparte.
Col filo dei ricordi finalmente libero di scalare le sue vette in verticale. Finalmente affrancato dai rovi della consapevolezza che aggredisce nei momenti di stasi (e non c’è stasi più statica dell’estate per chiedersi: “Chi me lo fa fare?”). In fuga, ancora finalmente, sui tetti delle città, a ritroso, verso il paese dell’infanzia. Quello con la piazza rettangolare, di 110x70 come lo “Zini”, regolamentare; con le porte dai supporti tondeggianti, come al “Comunale” di Torino quando Rush segnava allo Standad Liegi; coi quattro fari per illuminare la notte, le righe a terra, il sottopasso, la tribuna centrale coi seggiolini, le curve spioventi sull’area di rigore e la bandierina del calcio d’angolo. Col bar che dispensa ghiaccioli e Big babol, One-o-one e chewing-gum col Ponte di Brooklyn. E sui tavoli, il Guerin sportivo e l’album Panini.

Il paracadute azzurro col tricolore, come omaggio o vaticinio per la nazionale di Bearzot nella stagione che porta al Mundial. I baffi a manubrio del paracadutista, sagoma tondeggiante fuoriuscita – in 3D – da una commedia sexy. A ben guardarlo, sembra di intravedere il segno della serratura attorno agli occhi, a ricordare – a se stesso e a noi tutti – la linea sublime della coscia di Edwige che finisce per diventare il divino culo della Fenech. Oggi il paracadutista sarebbe un palestrato buzzurro con mille e mille followers su Instagram. Metterebbe in mostra i pettorali per pubblicizzare pillole che smorzano l’appetito. Ma nel settembre del 1981, il paracadutista che – prima di Foggia-Catania – atterra senza troppa grazia sul manto verde dello “Zaccheria”, lato curva Nord, per augurare buon campionato a tutti gli sportivi, è ancora un amico nostro. È ancora uno di noi. Uno di quelli che puoi trovare sul retro del Bar Mexico 70 a sbattere le carte napoletane sui tavoli di alluminio, accompagnando la giocata con un verso a metà tra Dioniso e Belzebù. È ancora un conoscente di famiglia, che beve Stock 84 o Vecchia Romagna dai bicchieri tozzi di vetro. E che quando ti incontra per strada ti chiede quanti anni hai e come vai a scuola. Esce coi pugni al cielo, felice dell’esito del lancio. E degli applausi che gli piombano addosso dalle gradinate. Oggi, il palestrato, avrebbe evitato di mostrarsi appagato. Avrebbe fatto un gesto alla telecamera, una cosa figa, massonica, per iniziati. Il suo saluto alle sue folle. E sarebbe uscito tronfio, senza tracce di felicità. Perché il paracadutista coi pettorali dietetici non è mai stato uno dei nostri, nel paese dell’infanzia. Altrimenti, avrebbe i segni della felicità come geometriche spirali di rughe sul viso. E l’impronta della serratura a ricordare, a se stesso e a noi tutti, la bellezza sublunare dell’anca della Fenech. 

C’era il Catania, di fronte, anche nel 1988. Un attesissimo 0-0 che frustrò il bisogno di una svolta che non si poteva più procrastinare. La stessa che accompagnava l’undici di un giovane Zeman, nell’anno che – lo avevamo stabilito – sarebbe stato il nostro. Il 5-0 al Cosenza del 1990. Poi furono storie di A. Con “San Siro” che sostituiva, sebbene temporaneamente, il “San Francesco”. E il “Simonetta Lamberti” che tendeva le costole e allargava il respiro di cemento fino a diventare l’Olimpico, nel giorno in cui eravamo almeno tremila ed un ragazzino biondo ci bucò, dritto per dritto, proprio sotto al settore. Francesco Totti. 4 settembre 1994.
Eppure, a memoria mia, direi Perugia. Il primo anno di cadetteria dopo la grande sbandata. Anticipo serale. Tele+. Le torce nel settore, il gol di Di Bari, il pullman sulla strada del ritorno, nella notte del Centro Italia. Un pari, all’ultima settimana di agosto che, nel mio ondeggiare tra i fiori ritrovati, diventa un tutt’uno con una tromba d’aria che spazza Piazza Battisti e si porta via la bella stagione, spalancando su di noi un autunno coi grandi numeri della Serie A assai ridimensionati da una squadra scialba e perennemente affaticata, dall’affanno congenito, che si salverà a stento. Poco importa se la tromba d’aria, cronologicamente parlando, andrebbe posizionata un anno prima. Che di quella formazione ricordo solo Kolyvanov e Bresciani. E che il 1995, in definitiva, non sia stato un anno memorabile. Se mi chiedete qual è stata la mia prima di campionato preferita, vi risponderò: “Perugia, l’anno della retrocessione”. Senza una reale spiegazione logica. Perché, in questa storia di amore alimentata dall’ostinazione, in questo rapporto dei sensi in cui godi solo se ignori mercimoni e tradimenti, in questo guardare Iemmello e pensare a Roccotelli, non può esserci logica.

In definitiva, noi siamo quelli che vivono della certezza che una nuova stagione farà sempre seguito ad una vecchia. E questa cosa, in tempi di precariato, conta assai più della pensione di cui non godremo o dei governi che si susseguono. Amare la prima di campionato è, in questo senso, non voler cedere al pessimismo. O all’età della ragione.     

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