18/10/19

Onore ai diffidati


Mettiamola così: io sono un diffidato. A dicembre saranno cinque anni. E ne mancheranno due. Diffidato. Amministrativamente sottoposto, cioè, a misure restrittive che riguardano la mia squadra di calcio: non posso acquistare i biglietti per le partite in casa, non posso andare in trasferta, devo firmare due volte durante le partite, non posso seguire nessun sodalizio sportivo della mia città, devo stare a trecento metri dai calciatori che indossano la mia maglia. Anche per strada, quando non la indossano. Anche se non ne conosco uno. Non sono un condannato. Non ancora, almeno. I due processi riguardanti ciò che mi viene contestato sono ancora in corso. Potrei essere assolto, come tanti altri prima di me. Ma questo non cambierebbe niente: il daspo e la condanna penale sono due cose distinte e separate. In questi cinque anni – nonostante il daspo – sono stato avvicinato da diversi candidati che mi chiedevano il voto, dall’Agenzia delle Entrate che mi comunicava la rateizzazione degli importi dovuti, dagli addetti alla lettura dei contatori dell’acqua, del gas, della luce. Il daspo non mi ha salvato da quanto dovevo al cinema, nei ristoranti, in pizzeria, al teatro, al cinema. Non mi sono sentito particolarmente privilegiato, insomma, dalla mia condizione. La mia vita – fatta eccezione per la sofferenza di non poter seguire il Foggia – è trascorsa come quella di qualunque altra persona Dipendesse da me – ma è evidente che da me non dipende – non ci sarebbe nessuna squadra schierata sotto la curva. O, almeno, non ci sarebbe alcun saluto rituale. Perché i giocatori sono quello che sono: banderuole. E, nei loro confronti, si passa dalle stelle alla polvere nel breve volgere di mezza stagione. Dipendesse da me, al fischio finale, i ragazzi e i ragazzini potrebbero andare a giocare alla play station. Che nessun giocatore merita l’amore di una curva. Ma, fatta questa considerazione, mi ha fatto piacere vedere i nostri, mercoledì, fare il nostro nome dal campo. Non so se meritiamo di essere onorati, l’onore è tanta roba, ma – a parte questo – è stato bello. Perché, dovreste vederci, quando gioca il Foggia sembriamo dei personaggi di un Comics. Supereroi che sbirciano la partita in tv mentre cercano, tra spostamenti in auto e file allo sportello, di non farsi arrestare per mancata firma. È doloroso rinunciare al Foggia. Tanto. E se, come immagino, state pensando che ce la siamo cercata, vi rispondo che è vero. Ma che, altresì, sono certo che non abbiate assolutamente idea dei motivi per cui si viene daspati, oggi come oggi. Voi immaginate patti di sangue, cappucci neri nella notte, lame lunghe trenta centimetri, nemici seviziati alla ruota. E dite: “Siete la rovina del calcio”. Io vi rispondo che basta assai meno. L’accensione di una torcia, o di un fumogeno; un insulto politicamente scorretto; il sedersi in un seggiolino diverso da quello riportato sul biglietto. E fioccano anni di divieti. Come se fosse un luna park. Poi, di solito, scatta il processo. E, assai spesso, l’assoluzione. Ma, ripeto, questo non ha importanza. Io sono fiero delle mie diffide e credo di essermele meritate. Di sicuro le rivendico. Per cui, nessun piagnisteo. Torniamo ai fatti.

I giocatori del Foggia hanno cantato: “Onoriamo i diffidati” sotto la Nord. Qualcuno – maledizione a voi! – ha postato il video su una piattaforma social. La questura – problemi di traduzione – ha capito: “Rivogliamo i diffidati”. Ha annunciato provvedimenti. Ha aperto le indagini. L’Ansa ha battuto la notizia. E ci è mancato poco che non dicesse la sua pure El Pais. I teleschermi, per un’intera serata, si sono popolati di ingessati analisti, di antropologi sociali, di criminologi, di patologi forensi. Tutti hanno fatto la faccia triste e pensosa di chi soffre a parlare di certe cose. E, dalla responsabilità sociale dei calciatori al saluto militare della nazionale turca, ogni punto del possibile è stato toccato. Il Tg1 delle 20 ha sancito che “nella terra della quarta mafia nulla avviene per caso”. Io – come Homer con Willy il giardiniere – gli avrei pure creduto. Se non fosse che stava, stavano, parlando anche di me. Ma negare qui non avrebbe senso. Servirebbe solo ad alimentare un vittimismo che è distante da me quanto un accredito in sala stampa. Allora, vi invito a riflettere. Su quanto sia diventato insopportabile il moralismo di questo circo stupido e poco divertente. Sull’idea bislacca di un codice etico stringente che debba riguardare i luoghi del calcio. E possa tranquillamente essere ignorato altrove. Di una netiquette stile internet che debba scattare nella vita reale. Come se il campo del pallone dovesse divenire il regno dei sogni dei perbenisti. Come se costoro potessero imporre ai reclusi del biglietto ciò che all’esterno, per mancanza d’ascendente, non possono neppure sognarsi di proporre. Come se il fruitore di calcio, oltrepassati i tornelli, dovesse subire una modificazione genetica rispetto al cittadino che di solito è, quando veste i panni borghesi. E allora: sugli spalti tutti buoni, tutti green, tutti educati e cortesi come quaccheri. Tutti ordinati, a farsi inquadrare e diffidare come stronzi per comportamenti che sull’autobus non fanno scattare manco due pizze in faccia. Dagli stadi – pena la moltiplicazione esponenziale degli anni di estromissione – vengono, per decreto, banditi la discriminazione territoriale, l’insulto all’avversario, il buuu razzista, il sessismo e qualsiasi altra tendenza “politically correct” del momento. Come se lo stadio fosse una bolla. Una società obbligatoriamente perfetta depurata dall’esterno. La patria sospesa della correttezza formale. Personalmente, ritengo che si sia oltrepassato il limite della decenza. Sento parlare di daspo a vita inflitti direttamente dalla Fifa per non meglio specificati atteggiamenti discriminatori, di punti di penalizzazione e diffide ai tesserati del Foggia per un aver risposto al canto di una curva. Per un coro. Che gli aspiranti stregoni hanno immediatamente trasformato in una sorta di inno malavitoso all’impunità, un inchino al boss, un rito iniziatico. Perché, come diceva De Martino, il Sud è magia. E il brand del Sud magico, esoterico e malavitoso “acchiappa” sempre le anime pubblicamente belle che in privato coltivano il perverso culto del brivido. Fa turismo come Cogne, come la casa di Meredith, come Avetrana. Lo stadio deve trasformarsi in una residenza nobiliare, gli ultras devono diventarne i fantasmi. Ridicolo. Ridicoli i dirigenti dell’anticrimine, gli organizzatori del circo, i giornalisti, gli esperti. Ma, detto tra i denti, io di questo non posso che rallegrarmi. Sono felice del vostro rendervi ridicoli. Non solo per la gente che vi risponde quanto sia paradossale aprire un procedimento d’indagine per un coro ai diffidati in una delle città peggio messe d’Italia, ma soprattutto perché la vostra idea di addomesticare le curve è un insulto sanguinoso. E agli insulti si risponde. Che non limiterete mai la nostra libertà. Che non dovete neppure pensarci.

08/10/19

Cosmonautica


Il video del gol di Tortori è già un classico della cinematografia sportiva contemporanea.
Nella versione adrenalinica commentata da Antonio Di Donna, in quella – per certi versi ancor più soddisfacente – di Studio 100, coi commentatori tarantini che smorzano la voce e il fiato come dopo un pugno nello stomaco; nelle varianti amatoriali dalla Sud, dalla Nord, dalla gradinata, dalla tribuna, dal palazzo di viale Ofanto angolo “Il pneumatico”, dal drone di stanza sullo “Zaccheria”.
Quarto di recupero, rinvio del portiere, Taranto – in dieci da cinquanta minuti – che occupa militarmente il centrocampo in vista di una “spizzata” verso una punta, che non si sa mai, oppure semplicemente per tenere il pallone lontano dalla propria area; un rimpallo, un giocatore in maglia rossonera che stoppa e ne lancia un altro, in uno spazio sin lì inimmaginato; il difensore tarantino che si protende, inciampa, prova a reagire, cade; il nostro solo davanti al portiere, lo stadio che trattiene il fiato, la palla che sfila di lato ai guantoni, lo stadio che sbotta come uno sbuffo vulcanico. Da noi, in una stanza, nella stessa stanza di sempre, sembra Agodirin a Benevento.
Il gol nel recupero. In un derby di D e senza tifosi ospiti.
Probabilmente è questo il metro di giudizio di una passionalità mai sopita. Irriducibile e non perimetrabile. Il momento esatto in cui, smessi i panni del difensore della Mentalità, ti ritrovi nudo con quel che realmente provi. Senza infingimenti. Senza paludamenti. Senza stronzate.

Di mio, ci penso spesso. Fisso lo schermo che si carica di passaggi in orizzontare troppo indietro o troppo avanti rispetto al compagno di squadra, di falli laterali, di cross sbagliati, e provo a sovrapporre a quel che vedo quel che vedevo. Mi dico che è lo stesso rettangolo verde di Roccotelli, di Stimpfl, di List e di Marsan, la stessa curva dello striscione del Regime con le lettere squadrate ed arrotondate, lo stesso stadio delle gradinate nude, la stessa città. Gli anni cambiano le mode, le mode influenzano gli anni. Ma dietro quegli sponsor, quei seggiolini colorati, quegli effetti sonori, c’è ancora quel che era. Mi dico. E provo a convincermene. Anche quando è oggettivamente difficile pensare che quel che c’era possa essere sopravvissuto. Che un Tormen, un De Marco, un Englaro, un Seno, possano essere riproducibili nella scala discendente del tempo. A volte, lo ammetto, non ci vedo niente, vedo solo il presente. E resto deluso. Ma, altre volte, c’è una squadra in inferiorità numerica che sbaglia lo schema sul rinvio dal fondo, una carambola, un lancio ed un uomo in maglia rossonera solo davanti al portiere. In quell’attimo – l’attimo del soldato – il procedere insensato dei secondi, si blocca. Il tempo, lo sciocco tempo, si curva come un televisore degli anni Ottanta. Mentre Tortori, che non so ancora veramente chi sia, sta per tirare, il mio pensiero finisce risucchiato. Un’esperienza extracorporea. Una di quelle storie sui moribondi che rivedono la loro vita in un flash.

All’improvviso non c’è più stanza o gente che scatta in piedi. Sono in via Caldara, una traversa di Via Vittime Civili, all’ultimo piano, sul terrazzo da cui si vede il campo di San Michele. È domenica sera, siamo in visita ai parenti e sono orgoglioso d’essere stato fondamentale per il pari su rigore del Foggia a Perugia. Marzo del 1989. Non c’è stata ancora Hillsborough, non è ancora caduto il Muro. Io e i miei amici del quartiere abbiamo una radiolina. Ci vediamo dopo pranzo e diventiamo cosmonauti, alla ricerca di una frequenza, di un’onda radio sempre variabile, sempre imprecisata. Ci fondiamo con la voce di Peppino Baldassarre, rassicurante terminale d’ogni nostra emozione, ripetitore di un sentimento condiviso e totalizzante. Una partecipazione mai più ritrovata, parzialmente svanita con lo svanire dell’infanzia. Ho provato qualche grande gioia, dopo il rigore di Onofrio Barone che riagguanta il vantaggio perugino di Manfrin. Quattro o cinque promozioni, un paio di vittorie sulla Juventus, un paio di derby col Bari. E diversi dolori, più o meno lancinanti. Svariati play-off, il play-out di Ancona, Rivaldo. E curatele fallimentari, fallimenti, dilettantismo. Il mio cuore ha sempre retto fieramente, fieramente issato sul vessillo rossonero, di sconfitta in sconfitta. Vittorie comprese. Eppure, nonostante le feste e le tristezze, non ho più provato quella frenesia della radiolina. Del gruppo attorno alla saltellante frequenza con Foggia tutta intorno. La differenza tra l’infantilismo e l’infanzia. Non ho più provato l’orgoglio di quella visita ai parenti in cui sembrava che fossi lì lì per chiedere tributo ai grandi: il tributo che si deve a chi è stato determinante. Gli ultimi anni sono stati all’insegna di altre urgenze. Il gruppo è cambiato. È diventato anagraficamente adulto. Si è parlato di presenze, di incontri e di scontri, e poco di calciatori e di calcio giocato. I tempi dettano le priorità. Ma poi, al quarto di recupero, c’è un portiere che sbaglia un rinvio, un centrocampo affollato che sbaglia la “spizzata”, un lancio che sotterra il difensore ed uno sconosciuto con la maglia rossonera solo davanti all’estremo difensore del Taranto. C’è un gol, c’è un urlo. E, d’improvviso, svanisce la categoria e si trascina con sé l’età, il contegno ed ogni ragionamento serio sul nostro apparire di questi anni. E ritornano tutti, come una sfilata di rilucenti ricordi, ad incarnarsi in quella maglia che corre sotto la Nord. Ritorna Barbuti, ritorna Porro, ritorna Lunerti. Ritornano in vita i caduti di Sheffield. E pure qualche pezzo di Muro. Ritorna l’infanzia perduta. Urli come un matto, come se nulla avesse più importanza. E tutto ricomincia. Dal principio dei tempi.
Ammettiamolo: niente al mondo è più entusiasmante.

08/03/19

Il disfattismo di piazza



La prima volta che ho sentito qualcuno urlare: “Faccill!”, non avevo ancora compiuto dodici anni.
Era una calda domenica di primavera. Uno sfrontato Licata si stava imponendo 1-0 allo “Zaccheria”. E i suoi esterni continuavano senza sosta a fendere una linea difensiva – la nostra – più smarrita che lenta. Almeno tre volte i loro ragazzi si presentarono al tiro, soli davanti a Stefano Ciucci, il nostro portiere. E per almeno tre volte fallirono il colpo fatale.
In una di queste occasioni, di questi più o meno frettolosi ripiegamenti della nostra difesa, con i loro centrocampisti, le loro ali, a sembrare non solo più veloci, ma anche più giovani dei nostri, che la folla attorno a me parve sbandare dalla retta via della fede. E qualcuno – il primo, a memoria – gridò: “Faccill!”.

Il bello è che “faccill!” può significare tanto “Faglielo!” che “Faccelo!”.
E nella distanza tra la seconda e la prima plurale, c’è un mondo.
Non solo. “Faccill!” è tanto un imperativo quanto una preghiera. Un’invocazione pura e semplice.
La voce del tormentato che implora al boia: “Finiscimi!”. O: “Finiscili!”.
Decine di altre volte, in questi successivi trent’anni, ho visto ripartenze avversarie. Sullo zero a uno al quinto di recupero, in tre contro uno, alla disordinata ricerca di una vittoria che sfugge allo scoccare dei novanta regolamentari, col Gualdo Tadino come con la Juventus al “Delle Alpi”, in inferiorità numerica e al primo turno in Coppa Italia. E altrettante volte, da arnie talmente distanti e disambigue da non metterci la mano sul fuoco, ho sentito qualcuno urlarlo. Urlare: “Faccill!”.

Gridare, in sostanza, all’avversario di farla finita. Di troncare l’insopportabile esercizio della speranza. Di seppellire un colpo di pistola nel nostro dolente cuore di amanti respinti. È il segno della resa, non c’è dubbio. Io, personalmente, lo detesto. Perché detesto chi molla, chi chiede pietà, chi si dichiara vinto. Dalla sorte e dall’undici avversario. Ma è il paradigma di quel che siamo. E devo riconoscerlo. Come un tratto sporgente, montuoso, della nostra piana morfologia collettiva. Un rilievo, come una vena azzurra sull’avambraccio. Noi – e in questo noi c’è l’intera piazza XX settembre la sera del Venerdì santo, a prescindere da come la si pensi – siamo gente che non sopporta il dolore. Che preferisce morire pur di non soffrire. Umorali, lunatici, indolenti. Probabilmente incapaci di slanci stoici. “Meglio soffrire per poi gioire”, c’era scritto in Sud. Vero. Ma questo, come al solito nella storia umana, riguarda una minoranza. Foggia, di solito, non soffre con dignità. Foggia s’abbatte. Di colpo. Di botto. Come un albero o l’impero romano. Perché sente un condizionante peso sullo stomaco ma non vuol farsi vedere in lacrime. E allora spegne la tv. O cambia canale.

Prendete questi giorni. Il vertice alto di un mese febbrile, con tre finali e una sosta forzata da qui ad aprile. E l’incubo di una crepa che s’apre ogni settimana di più, fino a divenire sentore di voragine. Il fantasma della retrocessione, dopo due soli anni di cadetteria. Il presagio della retrocessione, quando quel giorno in piazza Cavour eravamo forse 60 mila, pronti a marciare sulla Serie A, sull’Europa, sull’universo-mondo. Prendete la sofferenza che proviamo, tutti. E l’impazienza che, da mesi, ci spinge a dire che la prossima è risolutiva. E poi la prossima diventa passato e la miccia s’è fatta più corta. E ci resta in mano. Prendete le paure di non limitarsi a retrocedere. Prendete il terrore di fallire. Di scomparire. Di ritornare a vivere la stagione all’inferno: le estati trascorse in corteo o sotto i portoni degli avvocati, mentre il resto del mondo “normale” va in cerca di sesso facile a Gran Canaria. Ed ecco che Foggia reagisce come sa: sbroccando. “Muoia Sansone con tutti i Filistei!”. “Magari fallissimo! Ricominciamo tutto da capo! E avast!”.

Ognuno di noi ha – in questi giorni – Whatsapp intasato di vocali da quattro, cinque o sei minuti, in cui perfetti sconosciuti svelano ad altri perfetti sconosciuti la verità sulla situazione societaria e sugli arcani invisibili agli occhi. Ognuno di noi ha saputo da voci senza volto che la proprietà ha intenzione di cedere a fine anno, che la squadra sarà consegnata al sindaco, che a giorni prendiamo i punti di penalizzazione, che l’anno prossimo – se tutto va bene – si riparte dalla Serie D. Qualcuno ha detto che i Sannella si son fatti prestare 350mila euro da Pio e Amedeo. Stamattina al chiosco della frutta davano per scontato il commissariamento. È il “faccill!”. Sotto sembianze che travalicano il campo da gioco, sotto le mentite spoglie del pourparler, Foggia – messa dinanzi alla prova della sofferenza, all’attesa dei novanta minuti di Lecce e poi agli altri – si ritrae, rifiuta il dolore che sa che proverà e invoca la mannaia. Facciamola finita!, dice. E spuntano i disfattisti, quelli che sanno perché hanno origliato e quelli che non sanno e inventano catastrofi. Così. Per il gusto di scatenare il panico, la reazione emotiva irrazionale, il suicidio di massa. Il disfattista è una voce che ti dice che è inutile battersi, è inutile lottare, tanto è tutto già scritto, tutto già deciso. Il disfattista prende in giro la tua credulità, si fa beffe del tuo coraggio. Ti vuole simile a lui. Ti vuole disfattista. Ti vuole portare ad urlare con lui: “Faccill!”.

È la grandezza e la miseria di questa piazza. CapacIl disfatte di soffiare alito d’inferno sul culo di quegli interpreti senza i piedi buoni, ma col cuore dalla parte giusta, e di trasformarli in idoli. E di sprofondare – e far sprofondare chiunque – in un dirupo di scetticismo, di dramma, di apocalisse. Voi che vivete a Trento, ad Asti, a Sondrio, immaginateci così: gente che mentre i governi entrano in crisi e crollano; mentre la Cina testa i suoi missili nel Mar di Taiwan; mentre l’OCSE rivede al ribasso i dati della crescita nazionale, ascolta vocali. E si sconforta. E per lo sconforto, vorrebbe che la Terra finisse, giù di botto, col Foggia calcio.

Postilla

Da foggiano, capisco. E una parte di me riesce persino filosoficamente ad ammettere certe cadute dell’animo. Ma non scherziamo proprio! La Serie D non è mai un nuovo inizio. E se a noi è sembrata bella e bellissima – ammesso che possa essere bella e bellissima una cosa seguita da poca gente – è stato perché ci è andata di culo. Perché un conto è incontrare il Sant’Antonio Abate una volta: ci sta la goliardia, il divertimento del viaggio, l’allegria immotivata. Un conto è andare a Sant’Antonio Abate tutti gli anni, per anni, con la stessa cadenza d’un fedele a Santa Rita. Non scherziamo. Che la stagione di D è stata foriera di decine di aneddoti divertentissimi: il trenino di Santa Maria Capua Vetere, l’acquazzone di Nardò, il Vomero. Indubbio. Ma quasi nessuno ricorda cosa abbiamo fatto a Battipaglia, d’inverno, trasferta vietata, in quella fase del campionato in cui sapevamo già che sarebbe salita l’Ischia. Non cercate su Wikipedia, rispondete al volo. Se ne avete il coraggio. E smettetela di infondere paura. Spalla a spalla, teniamoci la categoria sul campo. Che ci serve più dell’aeroporto. 



Il Libro