24/08/09

Di questa partitella...

di Lobanowski 2

Domenica 23 agosto, Verona-Foggia 0-0

A Verona non ci fanno andare. Sicuro come la morte. Verona c’ha lo stadio a norma, ci sono andati pure i padovani l’anno scorso. Vedrò, vedrai. Vedremo. Anzi, conviene partire presto, che non si sa mai. C’è il grande rientro, è bollino nero. Avviamoci alle 4. Tardi, è tardi. Ci vogliono sette ore, uagliù, mo non esageriamo. 3,45. E sia. I rintocchi della campana della cattedrale mi si allineano in testa. Occhi serrati a viva forza, senza riposo. Su Telenorba s’agitano scoordinati gli pseudo-tarantolati di Melpignano. Sguardo all’orologio del Televideo. Non ho chiuso occhio. Conviene muoversi. Acqua gelida sulla faccia. Ancora voci: attenzione ai cosentini. Perché, dove vanno i cosentini? A Ferrara. E perché dovrebbero prendere l’Adriatica? Perché si, loro salgono per Taranto. Allungano perché Sarni c’ha gli autogrill da questa parte e non da quella. I baresi, piuttosto. Quelli vanno a Milano per l’esordio in A, ne saranno tantissimi. Ma il Bari gioca alle 6. Ma Milano è più lontana. Nessuno nomina i lancianesi. Mio padre asserisce che siamo a quota 1.800 abbonati. Non superiamo i seicento. Ho ritirato il mio: hanno sbagliato il cognome. In giro ci sono gli Ufo. Da Ticket One alla questura ho pagato la bellezza di 14 euro e 50 il tagliando per il Bentegodi. A Verona non ci fanno andare. Sveglio Antonio. Scendiamo. Notte.

Minimi intoppi. Il pilota del primo tratto ha staccato tardi, un passeggero è riuscito a radersi solo parte dei capelli, un altro è senza macchina e dobbiamo andarlo a prendere. Si bestemmia placidamente. Muoversi! Ci dobbiamo muovere! Ascende al volante Pietro da Wroclaw, che sarebbe Bratislava. Punta il cartello Autostrade, accende una Diana blu. Acceleratore, corsia di sorpasso. Quelli dietro non fanno a tempo ad appisolarsi, il sole a sorgere sull’Adriatico. Al primo autogrill ci si guarda in faccia increduli: Ma davvero siamo ad Ancona? Già? E tutti fissano il Polacco con spaventato rispetto. Di questo passo, supereremo Bologna alle 11. Dovremo anticipare l’aperitivo. È giorno. Si va. Sbirciamo negli abitacoli altrui: sciarpette dell’Inter, turisti, persino una famiglia d’atalantini. Un pullman in lontananza. I baresi. Ci accostiamo. Goliardia. Non la prendono bene. Un rallentamento, un secondo, un terzo. Siamo sulla Riviera romagnola e ad ogni uscita si procede a passo d’uomo. Ma ormai la meta è prossima. Toto Cutugno e Umberto Tozzi se la battono in radio. Lo scatto dell’accendino segnala la presenza tra noi del pilota automatico, Bologna San Lazzaro. È tempo di puntare sul Brennero. Siamo tutti svegli quando scegliamo Carpi come luogo della sosta lunga. Svegli tutti quando parcheggiamo a ridosso del centro. Immaginiamo un tranquillo struscio domenicale, un bar coi tavolini sotto i portici, una scarica di Peroni. Io mi sbilancerei fino ad un Negroni con olive e patatine. Ci muoviamo. Tutti neri, tutti uguali. In dieci con la maglietta d’ordinanza. La gente ci guarda, chiede. Il viale che porta alla piazza è tagliato da biciclette. I primi bar sono chiusi. Il fornaio è caro da morire. La piazza è lunga e larga, la chiesa sullo sfondo. Fermiamo un ciclista. Ci indica un paravento in lontananza: “Quello è poco costoso”, “Ma quanto viene una birra piccola?”, “Mah, non ti so dire… senz’altro meno di 5 euro”. Sguardi perplessi: un Paese diviso, dove anche il senso del caro è federalizzato. “…altrimenti – continua – c’è un bar di fronte al tabacchino. Ci lavorano due ragazze. Abbordabili”. Andiamo lì.

Il proprietario del Wine Bar s’informa: “Ma quando torneranno i bei tempi di Zeman?”, “Speriamo mai”, rispondiamo. Non capisce, ma è scontato. Ci siamo accampati nel parco, a bere il nostro Borghetti casalingo e, intanto, c’è turnover nel bagno. A giudicare dai prezzi, l’idea di Bossi di ingabbiare il costo della vita non sembra proprio così geniale. E chiarifica i motivi del recente exploit leghista in queste terre. Abbandoniamo l’Emilia senza rimpianto alcuno. Puntiamo le montagne. Gli altri sono all’autogrill, a 20 chilometri dalla meta. Ci uniamo alla carovana. Spunta una bottiglia d’Averna, ancora nessuna notizia dei lancianesi. Al casello non c’è ad aspettarci nessuno. La tangenziale, l’uscita stadio. La colonna di furgoni e macchine mette la freccia a destra e svolta. Nessuno. Siamo a Verona, in carovana e senza scorta puntiamo il Bentegodi. Adrenalinico, anche se qualche domanda balza in testa: eccola, l’idea del calcio da tessera del tifoso. Una specie di ventriloquo che con la prima voce ti dice che la sicurezza è tutto, e con il falsetto ti annuncia che – se vuoi coltivare l’insana passione – devi arrangiarti. Cazzi tuoi. I veronesi dalle macchine ci affiancano, stupefatti. Noi affianchiamo loro. Un carosello. Poi il parcheggio ospiti. Siamo confusi e felici. Gli steward aprono i cancelli. Incalza il tamburello delle prime tarante. Uno vestito d’arancione sta dicendo ad un signore che il biglietto di gradinata non vale per il settore. Quello, giustamente, fa storie. Entro, documento alla mano, e un giallo mi dice: “Lo fai finire?”, “Finiscila tu”. Respingono la pezza. Di dieci centimetri troppo larga. “Non è colpa mia – mi fa un secondo giallo – ci sono delle regole” e mi indica un secondo arancione, che si dichiara impotente e mi gira all’ispettrice, che domanda ad un terzo arancione. Due celerini sbadigliano. Uno dei due sta dicendo ad un tale che loro, qui, non comandano niente. Le responsabilità rimbalzano da un capo all’altro. E svaniscono nel nulla. “Guarda che se continui a far polemica ti perdi la partita…”. Sai che danno. Non entra neppure la Jolly Roger, che “inneggia alla morte”. Secondo blocco, tornelli. Terzo pit-stop all’imbocco delle scale. Volevamo entrare tra i primi, per sentire la Sud fischiarci compatta. Invece, quando arriviamo su, è già tutto avvenuto. Maledetti. Senza pezza non vale, allora decidiamo di toglierci le t-shirt ed allinearle alla balaustra, una accanto all’altra per un totale di dieci. Ci posizioniamo. In alto le mani. Forza Foggia, Vinci per noi. Sudo. Di solito questo coro rimbalza, rimbomba. Qui a stento arriva a centrocampo, o almeno così mi sembra. Dovremo cantare il doppio, il triplo. È uno stadio strano, questo. La Sud apre le danze, tenebrosa. C’è tanta gente, qui hanno fatto una signora campagna acquisti, è l’anno della risalita.

I nostri, in maglia bianca, si dispongono ordinatamente a difesa del forte. Mi piace. Resistere senza fronzoli, senza l’idea assurda che in ogni parte del globo si debba andare a fare calcio. Difendersi. E anche noi, in alto a destra, ci difendiamo. Timidamente, all’inizio, poi cresciamo. La Sud cala quasi subito. Ha fatto tre cori imponenti, rabbiosi e compatti, gutturali. Poi, per lunghi tratti, è rimasta in silenzio. Noi siamo usciti dal guscio progressivamente. Il Foggia ha spazzato senza ripartire. Bene così. All’intervallo il barman barricato nel suo loculo ha comunicato all’umanità disidratata che non vende bottiglie d’acqua. Solo birra e coca, a 4 euro cad. Gli steward incalzano con pretese assurde. Per difendere la loro incolumità, l’intero gruppetto di celerini sale ad occupare lo spiazzo angusto del baretto. È uno stillicidio di provocazioni. È ancora il falsetto del ventriloquo: Siete voluti venire, mo cazzi vostri. Beviamo l’acqua dei bagni, senza sapere quanto sia potabile. La partita ricomincia. Lo spartito è lo stesso del primo tempo. Ci va bene così. Cantiamo, finché la voce non svanisce in un gorgo. Mi fa male l’addome, ma è necessario. Di questa partitella non ce ne frega un cazzo, Verona, Verona, vaffanculo. La gradinata si scuote. Quel gruppetto lì sembra Napoli. Insorge. Ogni tanto qualcuno dei nostri torna a stendere le t-shirt alla balaustra, come una massaia. Stavolta mi dispiace di non avere con me una macchinetta fotografica. Alcuni scorci sono davvero suggestivi. In campo ci difendiamo senza affanni particolari. Loro hanno smesso di incitare. Un solo boato quando la palla finisce per scheggiare la traversa. Ma è niente. Triplice fischio. Noi non molleremo mai. E squadra sotto il settore.

Appendice

Mi scuoto, il finestrino mi respinge. Mi ero già addormentato. Incredibile. Riannodo i pensieri. Ricordo che abbiamo incrociato i veronesi sul ponte e ritirato il biglietto al casello. Questo è il primo autogrill. Ci stiamo parcheggiando. Scendo, entro e m’aggiro come uno zombie tra gli scaffali. Acqua, mi serve acqua. Prima, però, una birra. Una Paulaner, va bene. Alla cassa cerco gli spiccioli. Entra un gruppetto, lo seguo con distrazione. Ragazzini con una strana polo rossonera. Non mi dire che… Non mi dire che… Ma certo! Questi qui sono i nostri, è il Foggia. Dio santo, ma sono dei bambini! “Tu giochi nel Foggia? Ma ce l’hai la patente?”. Angioletto è in estasi, può entrare in scena. Ne avvinghia un paio a caso: “Zero a zero per noi!”, continua a ripetere. Poi ne inquadra uno e si confessa: “Senti, io ti abbraccio perché c’hai sta maglietta… ma sia chiaro: io non so se hai giocato o se sei stato seduto a vederti la partita… In fondo, non so neanche chi cazzo sei…”. Poesia pura.

10/08/09

Settore Out (Triestina-Foggia)

di Lobanowski 2

Per raggiungere il Nereo Rocco c’è da percorrere il lungomare per intero: lasciarsi a sinistra piazza dell’Unità d’Italia, coi suoi magniloquenti palazzi asburgici, e imboccare la tangenziale. Godersi per qualche minuto il panorama della baia, rendersi conto che la strada è quasi sgombera. Una città in ferie. Dal sottopasso al parcheggio ospiti ci si impiegano due minuti, non di più. Sono le 17 e 30 del nostro sabato di vigilia. I botteghini sono chiusi, ma un cancello socchiuso lascia intravedere una mezza fila all’angolo tra la curva (Sud) e la gradinata alabardata. Entriamo. Ma prima ancora di avventurarci verso l’assembramento, ci lasciamo sedurre dalla scalinata che porta ai seggiolini. L’effetto è notevolissimo: uno stadio all’inglese, quasi interamente coperto, con una fila di posti ad altezza manto erboso e gradoni imponenti. Sul prato si sta allenando la Triestina. Provano dei contropiede anomali, che finiscono tutti con un cross altissimo verso il centro. Attorno a noi, una dozzina di curiosi. Decidiamo di domandare all’assemblea dove si facciano i biglietti. Ci rispondono coralmente che sono in fila già da qualche tempo, ma che – ahiloro! – dietro alla scrivania c’è un solo addetto al ritiro delle carte d’identità; che è vecchiotto e non sa usare il pc. Ergo: le operazioni proseguono a rilento. Circoscriviamo la richiesta e chiediamo del settore ospiti. Ci guardano lievemente stralunati: “Quali ospiti?”. “I tifosi del Foggia, no?”. Ancora sguardi perplessi: “Ma non verranno mica su da Foggia per una partita di Coppa Italia?”. Stavolta tocca a noi perplimere. “Certo che verranno”. “Ma no, dai… Magari verrà qualcuno che è in vacanza da queste parti”. Uno, più attento degli altri, aggiunge: “Ma perché? Voi siete di Foggia?”. Annuiamo come muli. “Non mi direte che siete venuti apposta?”. “E perché, sennò?”. Non certo per la piazza, mi verrebbe da dire, che si, è bella, ma da sola non vale nove ore di macchina. No di sicuro.

Una signora si affaccia sull’uscio di una porta scudettata. Intima di fare presto, che stanno per chiudere i cancelli. Chi c’è, c’è. La fila per il tagliando si trasferisce all’interno. Entriamo e la porta alle nostre spalle si chiude con un clac. E ci rendiamo conto un qualche attimo di essere all’interno del Centro Coordinamento dei Triestina Clubs. Un locale come si deve, c’è da dirlo, con tanto di manifesti d’epoca ai muri, banco bar e pavimento biancorosso a scacchi. Come la bandiera croata, come il piastrellato dei bagni dell’impianto. Ci sono quattro foggiani in fila, ma questa cosa sembra non scandalizzare nessuno. Anzi. Si parla di calcio moderno e pay-tv, di glorie vecchie e precedenti, di Zeman e Casillo. È una specie di nuvola fantozziana, che mi perseguita. Il vecchietto al computer non è solo lento come preventivato, ma anche insopportabilmente cavilloso. Zelante, si direbbe. Un poliziotto accede in divisa ed usufruisce di un’inspiegabile precedenza. Mi chiamano da Foggia. Mi dicono che tutto è bloccato, che il circuito informatico non risponde, che nessun barista di buona volontà riesce a stampare i biglietti di questo secondo turno di Coppa. Alle 20 passate tocca a noi. Due vengono fatti accomodare ad altrettante poltroncine, gli altri rimangono in piedi alle loro spalle. “Quattro biglietti per il settore ospiti”. Quello, che ha già ritirato le nostre carte d’identità, ferma sul nascere l’atto di battere sui tasti. “Quale settore ospiti? Non c’è nessun settore ospiti…”, “Come no? C’è anche specificato sul sito della Triestina: settore ospiti, 12 euro”. Ah, si? Il nonno guarda un collega, come a chiedere lumi in merito. E quello interviene in soccorso: “Si, la Triestina ci ha comunicato stamattina che ha intenzione di aprire solo una curva e la tribuna. Poi, se dovesse arrivare qualche tifoso del Foggia, probabilmente lo si metterà in tribuna laterale. Ma non penso… Insomma, è agosto, è Coppa Italia, Foggia non è mica dietro l’angolo…”. Mi viene da ridere, ma mi trattengo. Penso alla faccia che faranno tra ventiquattro ore scarse. “Allora? – incalza il primo addetto, quello che aveva fatto la domanda e che si è beato della risposta – Che faccio? Quattro biglietti di Tribuna Laterale?”. L’istinto è rispondere: No, grazie… Ma la curiosità veleggia altrove: “Prezzo?”, “15 euro”. Vogliamo evitare di piantare una polemica (che pure rasentiamo), perché non ci sembra il luogo: “Va bene – ci limitiamo a rispondere – vorrà dire che lo compreremo domani…”, diciamo per chiuderla lì. Ma quello ritorna sull’argomento: “E non vi conviene! Domani il biglietto costerà 17”. Penso a come chiederanno 17 euro a certa gente di mia conoscenza. Con che faccia. Con che forza. Nuovo istinto a ridere. Represso. “Guardi – medio – vedrà che domani noi saremo in curva, nel settore ospiti…”. “Impossibile”, si ritrae quello. “La Triestina non apre la curva Sud”. Ma per sincerarsi dell’inattaccabilità della sua posizione, fa lo stesso partire una telefonata verso il responsabile dell’area. A voce alta sentiamo ripetere che effettivamente una trentina di foggiani hanno fatto richiesta di tagliandi. “Arrivano in pullman”, dice. E un triestino in polo verde alza lo sguardo da terra e ci inquadra con uno stupore che rasenta l’imponderabile: “Fosse per mi – chiosa – non vi farei pagare niente”.

Alle 19 domenicali – minuto più, minuto meno – le nostre due macchine s’adagiano nel parcheggio interno dello stadio. Veniamo dalla piazza, dove tra un Borghetti d’importazione al ghiaccio e una foto ricordo, abbiamo incontrato la terna arbitrale – “Godeas è un cascatore, mi raccomando” e “Sei un bastardo, sei un bastardo, sei un bastardo arbitro!” ripetuto come un canto chiesastico – e ci siamo goduti il panorama sulla tangenziale, il sole sui palazzi montani, il mare e le gru. Fronna, 'na luce sbatte 'into 'e cchiocche se 'nchiomma, chistu calore me lassa 'ntrunato. Alle 19 domenicali, si diceva, scendiamo dai mezzi, alziamo lo sguardo e lo spettacolo che si riflette rasenta il delirio. Sessanta, settanta, forse cento foggiani occupano lo spazio calpestabile del rettangolo d’asfalto. 9 agosto. Coppa Italia. 900 chilometri. Pazzi, tutti pazzi. Saluti, abbracci, strette di mano. Pochi emigranti, qua la maggioranza schiacciante viene da Foggia. Dalla City in persona. In macchina, in treno, in Transit. Hanno bivaccato un po’ qua e un po’ là, nelle ore di calura e d’attesa. Ora sono in fila per i biglietti. Documenti, steward e poliziotti. Una telecamera riprende le nostre facce mentre saliamo la prima rampa d’accesso allo stadio. L’altoparlante diffonde musica. Dentro. La pezza all’angolo della balaustra, la tettoia sulle nostre teste. L’uomo in giallo conosceva i Metallica e non ha fatto problemi. Il collega, invece, ha chiesto la traduzione. “C’è un bel po’ di ignoranza al riguardo, al centro-nord… La Gelmini dovrebbe intervenire”. Caldo umido e stadio deserto. Il primo coro serve a sfogare, oltreché a precisare intenti e motivazioni: Di questa partitella non ce ne frega un cazzo, Verona, Verona vaffanculo! A scanso d’equivoci.

Fatto sta che di fronte la Curva Furlan è solo sporadicamente occupata e gli stimoli, tra noi e loro, fanno la differenza. Perché noi cantiamo come ossessi, e i battimani sono sempre più aperti, sempre più corali, sempre più metallici, mentre loro si limitano ad osservare. C’è qualche esponente della Nord laziale, da quella parte. Ne prendiamo atto. Il Foggia è in maglia bianca, coi pantaloncini neri. I fari sono accesi. Lo scenario invoglia. E lo spettacolo comincia. L’intero repertorio srotolato sui gradoni del Nereo Rocco con stile e classe da navigato cantautore d’Oltreoceano. Inappuntabili. Per tutto il primo tempo, e il secondo, con la sola eccezione dell’intervallo, passato a rastrellare bottigliette d’acqua senza tappo al barista d’occasione. In campo il Foggia si difende con ordine. È pulito e ha un ottimo centrocampo. Pare. Riparte sulle fasce con autorità, anche se difetta ancora di forma e fiato. Ma ha schemi, sebbene manchi di soluzioni offensive. Me ne accorgo. Mi accorgo di tutto questo perché, con uno stadio così, puoi accorgerti della partita senza venir meno ai tuoi doveri. È una grossa comodità, anche se da queste parti non sembrano usufruirne al massimo. Al novantesimo siamo ancora 0-0. Ed è pur sempre un pari in casa di una squadra di B. Ma più che la gioia, nel settore prevale uno strano sentimento di calcolo: in pochi hanno previsto la mezz’ora supplementare, e qui tra coincidenze ferroviarie e turni lavorativi previsti per l’indomani, la cosa si fa poco scherzosa. Té fatic, tè. Concentrati! Compatti! Tu non sai cosa ho fatto quel giorno quando io la incontrai. La filarmonica dei cento è sul palco, in scena, e chiama il resto dello stadio in pista. Lo stadio, che muto era già prima, ammutolisce più profondamente, profondamente incuriosito. Tutti ci fissano. Il godimento lo possono comprendere solo gli artisti. E gli egocentrici incurabili. In spiaggia ho fatto il pagliaccio per mettermi in mostra agli occhi di lei. L’esecuzione è integrale, sentita, passionale. Magistrale. Celentano in persona avrebbe apprezzato lo schiaffo all’improvviso. È roba da pazzi, non tutti possono accedervi. Le squadre in campo. Godeas che casca. L’avevamo detto all’arbitro, l’avevamo messo in guardia, quel bastardo. Ma abbocca tale e quale. Milan, strepitoso fino a quel momento (con la famiglia sugli spalti e un fratello minore in estasi), non ci arriva. L’uno a zero qualifica gli alabardati. Ma noi insistiamo. E di fronte ai gestacci della fino ad allora silente tribuna, auguriamo ai confinanti una rapida vittoria tricolore. Poi ci ricompattiamo. Le braccia aperte, ampie. Il coro che nasce nello stomaco della curva. Di questa partitella non ce ne frega un cazzo, Verona, Verona vaffanculo! Ripetuto così. A scanso d’equivoci.

PS: Gli sportelli che sbattono, la coda che si snoda sul primo tratto di tangenziale in uscita.
900 chilometri all’incontrario.
Ma ne è valsa la pena. Eccome se ne è valsa la pena.

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