16/10/14

Meno di ottanta


Nel settembre del 2011 ci vietarono una trasferta in Piemonte. Una trasferta inedita, senza precedenti di alcun genere. Ce la vietarono così, perché con un No ti spicci. Agevolati, in questa come in altre materie, dall’incertezza vigente all’epoca. Il capriccio era il vero faro, la stella polare, in quel desertico settembre di C1. Il capriccio orientava i viandanti. L’ente preposto a decretare o a negare le concessioni alla libertà di movimento di cittadini italiani col vizio del tifo, era ancora il magmatico, misterioso, para-massonico Osservatorio. Un’emanazione diretta del Ministero degli Interni. Lo stesso che, attraverso direttive a pioggia sull’onda di decreti speciali e invocazioni emozionali di poteri straordinari, si proponeva di debellare la cosiddetta “violenza negli stadi”. Provvedendo a coadiuvare lo svuotamento degli stessi già mirabilmente perpetrato dalla politica delle televisioni a pagamento. Quella piemontese sarebbe stata la prima trasferta della stagione. Il segnale era, dunque, pessimo. Saremmo rimasti a casa – pagando lo scotto della fama, del numero o forse solo, per l’appunto, del capriccio – per l’intero campionato. Ed un ultras senza trasferte è come un romanzo di Ken Follett senza la guerra. Gonfio di una rabbia assai simile alla frustrazione, di un rancore impotente, decido di alzare la cornetta e – previa ricerca sulle Pagine gialle telematiche – di contattare direttamente la società piemontese. “Alle brutte, mi sfogo”, pensavo. Forte del mio diritto e della ragione. Eh, già. Perché l’Osservatorio non è mai stato, neppure in quel lontano 2011, una divinità pagana. L’Osservatorio stilava, ogni settimana, l’elenco delle partite a rischio. E suggeriva – si badi bene: suggeriva – alle società ospitanti di chiudere agli ospiti il settore di competenza. Una direttiva ministeriale, in sostanza. Come quelle che giungono, da che mondo è mondo, ai presidi e ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado. In cui si caldeggia una particolare attenzione per gli Scapigliati o per i Vespri siciliani. Il telefono squillò due o tre volte soltanto, nonostante il pomeriggio inoltrato. Chi controlla i maestri? Quale spia ministeriale s’acquatta nelle aule per sincerarsi della messa in pratica della direttiva? Questo volevo chiedere al malcapitato segretario, o dipendente della società piemontese. E questo chiesi. Ferocemente. Anche quando il brav’uomo mi confessò di essere il presidente in persona. Retoricamente provai a fargli notare che una società come la sua avrebbe soltanto avuto di che perdere dalla sottrazione d’incasso dovuta alla nostra assenza forzata. Che in terza serie non è come in Serie A, dove i diritti televisivi sono così sostanziosi da rendere il pubblico pagante un orpello inutile, quando non un fastidio. Il presidente ascoltò la mia filippica. Poi, placidamente, mi chiese di fare altrettanto. Di ascoltare il suo, di sfogo. E, dopo venti minuti filati in cui io stesso non sapevo cosa ribattere, il suo tono era diventato differente. Era stravolto da una frustrazione che, sebbene diversa per qualità e motivazioni, somigliava alla mia. Ci salutammo con un senso d’impotenza simile ad un’ascia bipenne. Gli avevo chiesto perché diamine le società del cosiddetto “calcio minore” non avessero le palle di ribellarsi alle disposizioni vessatorie, palesemente assurde, ridicole, che settimanalmente piovevano sul regolare svolgimento del campionato. Mi aveva risposto di essere un ostaggio. Un ostaggio dei prefetti e dei questori. “Io ho fatto salti di gioia quando ho visto che diverse squadre meridionali erano state inserite nel nostro girone. Ho pensato agli incassi, perché noi campiamo di incassi. Io potrei, con atto unilaterale, disobbedire alle indicazioni dell’Osservatorio. Avrei il potere di sbloccare la vostra trasferta. Ma poi, sai cosa succederebbe? Che domattina si presenterebbero al campo dei funzionari di polizia, degli ispettori, e chiederebbero di monitorare il nostro impianto sportivo. Troverebbero senza dubbio una violazione di qualche norma di sicurezza. E imporrebbero la chiusura dello stadio. E non me lo posso permettere”.

Presi per buona questa versione. A tal punto da ripetere questa storia dozzine di volte, come esempio del corto circuito. Soprattutto quando qualche amico – nel dispendio antieconomico di parole sulla Tessera del tifoso – riformulava a me la domanda da cui scaturì la frustrazione del dirigente al telefono: perché le società delle serie inferiori non si ribellano? Non fanno consorzio, non dicono che questo modo di interpretare il calcio senza pubblico sta riducendo ad una mesta morte per inedia le società che non accedono ai diritti televisivi? Nelle parole del presidente c’era tutto il fastidio dell’imprenditore. Ripeto: non era paragonabile al mio, sviscerato per semplice, corrodente passione. Nel suo orizzonte, vincevano i soldi. Come farli e come non farseli togliere. Il nuovo Decreto legge sugli stadi è passato alla Camera dei deputati. Solito schema: sull’onda emotiva per una tragedia (annunciata), sull’alta marea dell’indignazione collettiva fomentata da penne compiacenti e funzionali, il Parlamento italiano ha ritenuto opportuno dichiarare guerra, per la terza volta in sette anni, agli Ultras. O a quel che ne rimane. Il Dl si sbizzarrisce, dipanando la sua rete repressiva tra pene sempre più severe, sorvegliati speciali, distruzione del principio giuridico di responsabilità individuale (diffide di gruppo) e facoltà di sperimentare – finalmente! – la pistola elettrica, il Taser, su un ben nutrito gruppo di cavie. Ma c’è un passaggio che mi ha fatto ripensare alla telefonata piemontese. Riguarda, manco a dirlo, i soldi. Le società dovranno mollare dall’1 al 3% dell’incasso – è infatti specificato nel decreto – agli addetti alla sicurezza. Una forma di “responsabilizzazione” delle società calcistiche che, com’è ovvio, diventeranno ancora più drastiche nell’evitare che i propri facinorosi sostenitori riescano ad accedere agli impianti con strumenti di ottusa violenza quali torce, fumogeni, striscioni non dichiarati, coriandoli, piattini, pon-pon, tappi di sughero, fidanzate. Un provvedimento di scaricabarile da parte dello Stato. Che – leggo con un sorriso tagliato nel marmo – ha fatto insorgere le società. Tra accuse di incostituzionalità e minacce di sospensione del campionato. La riflessione è amara, per quanto banale. Ottocento presenti (questo il numero di spettatori che il presidente telefonico mi garantiva) a dieci euro l’uno fa ottomila euro. L’un percento fa ottanta euro. Sicuramente anche lui, oggi, minaccerà provvedimenti drastici. Si lascerà intervistare per dire che Adesso basta! Che Siamo stufi! Anche lui, tra i tanti, oggi sancirà che è stata violata la Legge, la Costituzione, la Civiltà. Lui, che come tutti gli altri, ha taciuto miserabilmente, avallando la sospensione di ogni diritto quando a farne le spese eravamo noi, che da psicopatici continuiamo a idolatrare una maglia ignorando volutamente il marcio che la circonda. Noi, che da venerdì, sabato o domenica, fronteggeremo la scarica sperimentale dei Taser per rivendicare la nostra libertà di colorare di passione gli stadi. Noi, collettivamente, valiamo meno di ottanta euro.

08/10/14

Non sta succedendo niente!




Note a margine di una fotografia

L’istante è nitido cristallo traslucido.
Se questa foto finisse in un blocco di stampe, sarebbe tra quelle che si limitano a fare volume; che vengono passate in rassegna con la rapida superficialità del pollice. In fondo, e all’apparenza, è uno scatto elementare. In bianco e nero. Gente sui gradoni di una curva a due piani. Nulla di rimarchevole, di meritevole, di eclatante. Negli anni Ottanta, la gente andava allo stadio. Punto. Nessuna novità. Quindi. Una foto da volume, per l’appunto.
Eppure.
Se ci facessimo prendere la mano dall’ansia di meraviglia, commetteremmo un errore. Ed in quella  valutazione errata sarebbe condensata – come una metafora del contesto – la natura profonda della città nella quale è stata scattata. Ed alla quale appartiene. Perché quella è la Curva Nord di Foggia. Ed è proprio lo spirito della nostra città che induce alla superficialità, all’indifferenza, al sorvolo del lasciar perdere. Al non aguzzare la vista.
Come le sirene di Ulisse al naufragio.
Foggia ti fa credere nel fato e ti dispone l’animo al fatalismo. Per persuasione più che per violenza. “Nulla può cambiare”, dice la sua baritonale voce senza vocali. “Nulla si muove davvero”. E, anche quando sembra, è la solita, meridionale storia da Gattopardo. Non ne vale la pena. Non ti sbattere, non te ne incaricare, non ti spandicare. Muovi quel pollice, vai avanti con quelle foto! Svelto!
Ma bisogna coltivare il coraggio di disobbedire. Anche al buon senso della terra natìa.
Vale la pena soffermarsi sull’istante nitido e cristallino in cui il falso movimento di questa comunità si autorappresenta. L’attimo in cui si compie, con naturalezza, e quello in cui si ricorda. Si ricostruisce. Urge.

Foggia-Barletta. 9 ottobre 1983.
Quarta giornata d’andata. A bordo campo, lato tribuna, c’è un fotografo barlettano. Le due compagini non si incontrano, non si scontrano, da una ventina d’anni. Dai favolosi anni Sessanta. Da queste parti non è ancora così sentito, a livello calcistico, ciò che a livello popolare è quasi un’ovvia acquisizione dell’esperienza: mai fidarsi di quelli che vengono da Oltreofanto. Per i nostri avi, virgilianamente contadini, quelli dall’altra parte sono tutti baresi. Con lo strascico scontato di ciò che ne consegue; con l’intero portato di caratteristiche opposte alla nostra indole: commercianti, mercanti, speculatori, crumiri. Questo sono. L’Ofanto è il Danubio tra Serbia e Croazia. Da questa parte i martellatori dell’East End, da quella gli antisindacali di Milwall. 1983. Foggia, in quell’inizio di autunno, è una città delusa. Cinque mesi prima si era in B, in una posizione tutt’altro che disprezzabile. Bassa, certo, ma con due match-point da sfruttare in casa, con Varese e Pistoiese, ed una sola proibitiva trasferta in quel di Catania, per centrare la salvezza. E tornare a programmare il grande salto in massima serie. Ma, come spesso nel calcio, succede l’impensabile. Le più oscure previsioni vengono superate di slancio sul rettilineo del tracciato. Non solo i rossoneri perdono col Varese, sano e salvo a centro classifica. Ma per le modalità della rete di rapina, in extremis, del giovane Maiellaro – lucerino! – i foggiani danno vita ad una giornata di guerriglia urbana. L’arbitro, Lo Bello, viene colpito dal pregevole gancio di un invasore di campo. E lo “Zaccheria” squalificato. Dopo la prevedibile sconfitta del “Cibali”, l’appuntamento con la salvezza passa dal “Partenio”, campo neutro scelto per la sfida decisiva. Avversaria, la Pistoiese. Finisce zero a zero. Il Foggia sciupa l’occasione di rimanere in cadetteria nel modo più bislacco di tutti.  Un suicidio. E giacché la cultura giapponese dell’harakiri ha sempre influenzato i tratti culturali di questa parte di Puglia-non-Puglia, i tifosi di ritorno da Avellino compiono il più brutale dei riti di auto-punizione. Sotto la sede della società, bruciano le bandiere. E il primo, glorioso, striscione del Regime Rosso Nero. La sera del 5 giugno chiude nel fuoco un’esperienza ultras durata, a conti fatti, diciotto mesi. Ma i ragazzotti del RRN non si volatilizzano. Non spariscono, non si sciolgono a contatto con l’aria. Restano in Sud, senza segni di riconoscimento, ma insieme al mito che quelle due stagioni e mezzo di tifo hanno creato sottopelle nella foggianità militante.

Nell’inattesa, fastidiosa, bruciante nuova stagione di terza categoria, girone meridionale, il Foggia ha un inizio pessimo, ideale trait d’union con l’epilogo di quella lasciata alle spalle. Perde di misura a Benevento e ad Agrigento, pareggia in casa con la Ternana. Col Barletta c’è voglia di riscatto, ma lo stadio presenta ampi spazi vuoti. Insoliti per l’epoca. Il fotografo immortala in bianco e nero il diagonale con il quale il Foggia passa in vantaggio. È un bel tiro, che muore nell’angolo sinistro, imparabile. Oltre la traversa, più su, le facce della gente di curva sono ancora inconsapevoli. Sulla balaustra, uno striscione bianco-rosso. Commando. Qualche minuto dopo, un secondo scatto. Quello incriminato. Quello che la prosaica Foggia ci invita ad ignorare. Lo striscione non c’è più. Le ipotesi s’alzano come un vento. Forse i barlettani, delusi, l’hanno ritirato. In segno di protesta per la rete subita. Oppure, non resta che mutare lo sguardo. Come sotto una lente, suddividere i fatti minuti che si snodano, impressi sulla carta fotografica. Un critico dell’arte fiamminga alle prese con Brueghel. Con la scomposizione e l’interpretazione di ogni singola parte del concerto di colori, luci ed ombre. C’è agitazione. Un movimento discontinuo, scomposto, percorre le teste, i corpi, la postura del popolo della Nord. In basso a sinistra, a ridosso del boccaporto d’ingresso, è in atto un dibattito. Lo si evince dalle pose. Dalla tensione elettrica. Un ragazzo con la maglietta bianca è di spalle al muro. Una mano gli tocca il petto, nel tipico atto del rapporto di forza in dispiegamento. Attorno a lui ce ne sono altri tre. E non sembrano amici. Uno, di cui si intravede la nuca, gli sta a pochi centimetri dal viso. Gli sta dicendo qualcosa, con la foga della sfida. Due ragazzini, di cui uno con una bibita, osservano. Sembrano divertiti. Un fuori programma, senza dubbio. Tre gradini più giù c’è la balaustra. È lì che si consuma tutto. È l’epicentro dell’onda di tensione. I racconti chiariscono. Sono entrati in cinquanta, forse sessanta. Anonimi, casual prima del tempo. Ed hanno portato via gli striscioni dei cugini barlettani. Così, uno per uno. Tranquillamente. Sotto lo sguardo degli ospiti, divisi tra l’incredulità e l’impotenza. Del resto, sono baresi come tutti gli altri. Anche se non quel tipo di baresi con cui a Foggia è sempre finita a scazzottata. Dopo vent’anni di nulla, è evidente che non s’aspettavano un’accoglienza simile. Tanto più che di fronte non c’era il Regime. O, almeno, non c’era lo striscione e la Sud si presentava spoglia. Invece, all’improvviso, il raid. Un ragazzo col caschetto ed una polo blu a righe bianche, placidamente, porta in braccio, come fosse un neonato, una bandiera. Un pezzo di stoffa dal bianco predominante. Nessuno lo contrasta. Sembra sul punto di abbandonare il quadro. Di sfilare via, calmo e soddisfatto. Missione compiuta. Più in là, sempre seguendo la balaustra, un gruppo di foggiani s’agita. Uno spettatore seduto sbuca dal movimento catturato. Avrà avuto da ridire su quel comportamento antisportivo. Sta ricevendo la sua rimata risposta. La preda è nelle mani di un giovane plasticamente piegato sulle ginocchia, come il David al contrattacco, mentre il confronto tra due uomini lievemente defilati non diventerà rissa perché la fermezza di uno dei due è frutto del suo difendere un bambino. Una scampagnata a Foggia anche per lui. E per l’altro ragazzino, ugualmente protetto da un braccio paterno. Ne capitavano spesso, ai tempi, di scene del genere. I padri poco meno che trentenni svezzavano i figli alla pugna maschile dei gradoni, li trascinavano al campo per addestrarli alla vita. Ma si indignavano dinanzi a scene di lotta che trascendevano dal rettangolo di gioco, che rovinavano l’idillio di quella promiscuità da spalti. Come a voler instillare nei cuccioli della specie un codice cavalleresco che non esiste, non è mai esistito, se non a posteriori. Una posterità di cui la paternità è simbolo e schermo. Fatto sta che sta succedendo. I barlettani erano venuti a Foggia placidamente, senza immaginare ritorsioni. Con parte delle famiglie al seguito. Volevano godersi un sano pomeriggio di sport. Invece, perdono uno a zero e sono dinanzi ad una situazione inattesa. I foggiani sono pochi. Il manipolo, il drappello, o come lo si voglia definire quel nucleo di soggetti che ha sfilato Commando, si sta portando a casa gli striscioni. Sono più determinati, più cattivi. All’epoca, magari, perdere gli striscioni non era cosa tanto grave. Del resto, ciò che veniva scritto sulla stoffa era, tante volte, poco più che l’ispirazione di un momento. E non durava più di qualche partita in casa. Da noi c’era già stato di tutto. I Panthers, il Commando Ultrà, il Foggia Club Ultras di via Silvio Pellico, i Fedelissimi, i Boys. Nel 1973 finanche un Foggia Commandos, la cui data di nascita si confonde con quella di morte. Gruppi differenti, talvolta neanche gruppi propriamente detti. Ma alternative esterofile, aggiornate, avanguardie moderniste, rispetto ai Tifosi di Piazza Giordano, a quelli di Via Da Zara o ai ragazzi del Geometra. Il Regime è stato – e di lì a un paio d’anni, tornerà ad essere – altra cosa. Il Regime aveva condensato la novità radicale della cultura giovanile, di strada, che divampava in Italia, con la foggianità diffusa. Con gli occhi dell’oggi, bruciare uno striscione per un risultato sarebbe impensabile. Ma eravamo quelli, un tempo: zero pose, piena sostanza. Passione reale. Il sacrificio dello striscione ha alimentato l’attesa, oltre al mito. La messianica venuta del nuovo Regime era bramata come certi catastrofisti attendono l’Anticristo. Nel frattempo, ci si teneva in esercizio.
Dall’epicentro si sale di sette, otto gradoni. Il baffone ha i tratti tipici di quello scorcio di secolo. Con la sciarpa biancorossa in testa, catalizza le attenzioni. Le cattura. Le frammenta sui contorni, sul Tutto intorno a lui. Ci lascia presagire un pensiero, un’ipotesi di ragionamento. Rapido, come si conviene alla situazione. In quell’attimo frastornante, quell’uomo è chiamato a riflettere. Come il suo vicino, è guardingo. Punta verso l’alto. Ci invita a seguirlo. E, aguzzando la vista, spuntano piccoli vessilli biancorossi un po’ ovunque. Impensabile, oggi. Sparsi, sparpagliati così, mescolati ai foggiani eppure palesemente barlettani. Ripresi nel momento della paura e dell’incomprensione. Fermati nell’attimo esatto in cui nasce una rivalità.
Perché è questo che la foto immortala. Va da sé l’importanza del documento. Cosa sta pensando il baffone? Teme per la sua sciarpa o per la sua faccia? E tutti gli altri, colti alla sprovvista? Lo “Zaccheria” improvvisamente insicuro. Zero guardie nei dintorni. La foto dei soldati tedeschi che smantellano le linee di frontiera ed entrano in Cecoslovacchia. Stesso impatto epocale. E il centro della scena tenuto da un uomo col berretto, che ride di gusto, mentre con la mano destra tiene un radione. È foggiano, lo sappiamo per certo. E, senza volerlo, racchiude – a distanza di trent’anni – lo spirito arrembante, incosciente, spensierato ed in qualche misura eroico e goliardico dell’epoca. Quando anche la goliardia non era posa. Ed era in grado di gonfiarti la faccia a suon di manrovesci.  Ricapitolando: c’è gente che popola una gradinata. As usual. Gente d’ogni estrazione che guarda ovunque, che fuma, che beve. Che esplicita indifferenza per il circondario. Sguardi annoiati, da intervallo di partita e di vita. Mentre una tellurica variazione del microclima, un terremoto dell’aria, sconquassa alcuni volti e deforma alcuni corpi nel brivido di un movimento tribale, nel bel mezzo della comunità più estesa. È il 9 ottobre del 1983. Sembra niente. Ma sta nascendo una rivalità.


* la foto è un graditissimo regalo di Costantino Mariella

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