Nel settembre del 2011 ci vietarono una trasferta in Piemonte. Una trasferta
inedita, senza precedenti di alcun genere. Ce la vietarono così, perché con un
No ti spicci. Agevolati, in questa come in altre materie, dall’incertezza
vigente all’epoca. Il capriccio era il vero faro, la stella polare, in quel
desertico settembre di C1. Il capriccio orientava i viandanti. L’ente preposto
a decretare o a negare le concessioni alla libertà di movimento di cittadini
italiani col vizio del tifo, era ancora il magmatico, misterioso,
para-massonico Osservatorio. Un’emanazione diretta del Ministero degli Interni.
Lo stesso che, attraverso direttive a pioggia sull’onda di decreti speciali e
invocazioni emozionali di poteri straordinari, si proponeva di debellare la
cosiddetta “violenza negli stadi”. Provvedendo a coadiuvare lo svuotamento
degli stessi già mirabilmente perpetrato dalla politica delle televisioni a
pagamento. Quella piemontese sarebbe stata la prima trasferta della stagione.
Il segnale era, dunque, pessimo. Saremmo rimasti a casa – pagando lo scotto
della fama, del numero o forse solo, per l’appunto, del capriccio – per l’intero
campionato. Ed un ultras senza trasferte è come un romanzo di Ken Follett senza
la guerra. Gonfio di una rabbia assai simile alla frustrazione, di un rancore
impotente, decido di alzare la cornetta e – previa ricerca sulle Pagine gialle
telematiche – di contattare direttamente la società piemontese. “Alle brutte,
mi sfogo”, pensavo. Forte del mio diritto e della ragione. Eh, già. Perché l’Osservatorio
non è mai stato, neppure in quel lontano 2011, una divinità pagana. L’Osservatorio
stilava, ogni settimana, l’elenco delle partite a rischio. E suggeriva – si badi
bene: suggeriva – alle società ospitanti di chiudere agli ospiti il settore di
competenza. Una direttiva ministeriale, in sostanza. Come quelle che giungono,
da che mondo è mondo, ai presidi e ai docenti delle scuole di ogni ordine e
grado. In cui si caldeggia una particolare attenzione per gli Scapigliati o per
i Vespri siciliani. Il telefono squillò due o tre volte soltanto, nonostante il
pomeriggio inoltrato. Chi controlla i maestri? Quale spia ministeriale s’acquatta
nelle aule per sincerarsi della messa in pratica della direttiva? Questo volevo
chiedere al malcapitato segretario, o dipendente della società piemontese. E
questo chiesi. Ferocemente. Anche quando il brav’uomo mi confessò di essere il
presidente in persona. Retoricamente provai a fargli notare che una società
come la sua avrebbe soltanto avuto di che perdere dalla sottrazione d’incasso
dovuta alla nostra assenza forzata. Che in terza serie non è come in Serie A,
dove i diritti televisivi sono così sostanziosi da rendere il pubblico pagante
un orpello inutile, quando non un fastidio. Il presidente ascoltò la mia
filippica. Poi, placidamente, mi chiese di fare altrettanto. Di ascoltare il
suo, di sfogo. E, dopo venti minuti filati in cui io stesso non sapevo cosa
ribattere, il suo tono era diventato differente. Era stravolto da una
frustrazione che, sebbene diversa per qualità e motivazioni, somigliava alla
mia. Ci salutammo con un senso d’impotenza simile ad un’ascia bipenne. Gli
avevo chiesto perché diamine le società del cosiddetto “calcio minore” non avessero
le palle di ribellarsi alle disposizioni vessatorie, palesemente assurde,
ridicole, che settimanalmente piovevano sul regolare svolgimento del
campionato. Mi aveva risposto di essere un ostaggio. Un ostaggio dei prefetti e
dei questori. “Io ho fatto salti di gioia quando ho visto che diverse squadre
meridionali erano state inserite nel nostro girone. Ho pensato agli incassi,
perché noi campiamo di incassi. Io potrei, con atto unilaterale, disobbedire
alle indicazioni dell’Osservatorio. Avrei il potere di sbloccare la vostra
trasferta. Ma poi, sai cosa succederebbe? Che domattina si presenterebbero al
campo dei funzionari di polizia, degli ispettori, e chiederebbero di monitorare
il nostro impianto sportivo. Troverebbero senza dubbio una violazione di
qualche norma di sicurezza. E imporrebbero la chiusura dello stadio. E non me
lo posso permettere”.
Presi per buona questa versione. A tal punto da ripetere questa storia dozzine di volte, come esempio del corto circuito. Soprattutto quando qualche amico – nel dispendio antieconomico di parole sulla Tessera del tifoso – riformulava a me la domanda da cui scaturì la frustrazione del dirigente al telefono: perché le società delle serie inferiori non si ribellano? Non fanno consorzio, non dicono che questo modo di interpretare il calcio senza pubblico sta riducendo ad una mesta morte per inedia le società che non accedono ai diritti televisivi? Nelle parole del presidente c’era tutto il fastidio dell’imprenditore. Ripeto: non era paragonabile al mio, sviscerato per semplice, corrodente passione. Nel suo orizzonte, vincevano i soldi. Come farli e come non farseli togliere. Il nuovo Decreto legge sugli stadi è passato alla Camera dei deputati. Solito schema: sull’onda emotiva per una tragedia (annunciata), sull’alta marea dell’indignazione collettiva fomentata da penne compiacenti e funzionali, il Parlamento italiano ha ritenuto opportuno dichiarare guerra, per la terza volta in sette anni, agli Ultras. O a quel che ne rimane. Il Dl si sbizzarrisce, dipanando la sua rete repressiva tra pene sempre più severe, sorvegliati speciali, distruzione del principio giuridico di responsabilità individuale (diffide di gruppo) e facoltà di sperimentare – finalmente! – la pistola elettrica, il Taser, su un ben nutrito gruppo di cavie. Ma c’è un passaggio che mi ha fatto ripensare alla telefonata piemontese. Riguarda, manco a dirlo, i soldi. Le società dovranno mollare dall’1 al 3% dell’incasso – è infatti specificato nel decreto – agli addetti alla sicurezza. Una forma di “responsabilizzazione” delle società calcistiche che, com’è ovvio, diventeranno ancora più drastiche nell’evitare che i propri facinorosi sostenitori riescano ad accedere agli impianti con strumenti di ottusa violenza quali torce, fumogeni, striscioni non dichiarati, coriandoli, piattini, pon-pon, tappi di sughero, fidanzate. Un provvedimento di scaricabarile da parte dello Stato. Che – leggo con un sorriso tagliato nel marmo – ha fatto insorgere le società. Tra accuse di incostituzionalità e minacce di sospensione del campionato. La riflessione è amara, per quanto banale. Ottocento presenti (questo il numero di spettatori che il presidente telefonico mi garantiva) a dieci euro l’uno fa ottomila euro. L’un percento fa ottanta euro. Sicuramente anche lui, oggi, minaccerà provvedimenti drastici. Si lascerà intervistare per dire che Adesso basta! Che Siamo stufi! Anche lui, tra i tanti, oggi sancirà che è stata violata la Legge, la Costituzione, la Civiltà. Lui, che come tutti gli altri, ha taciuto miserabilmente, avallando la sospensione di ogni diritto quando a farne le spese eravamo noi, che da psicopatici continuiamo a idolatrare una maglia ignorando volutamente il marcio che la circonda. Noi, che da venerdì, sabato o domenica, fronteggeremo la scarica sperimentale dei Taser per rivendicare la nostra libertà di colorare di passione gli stadi. Noi, collettivamente, valiamo meno di ottanta euro.
Presi per buona questa versione. A tal punto da ripetere questa storia dozzine di volte, come esempio del corto circuito. Soprattutto quando qualche amico – nel dispendio antieconomico di parole sulla Tessera del tifoso – riformulava a me la domanda da cui scaturì la frustrazione del dirigente al telefono: perché le società delle serie inferiori non si ribellano? Non fanno consorzio, non dicono che questo modo di interpretare il calcio senza pubblico sta riducendo ad una mesta morte per inedia le società che non accedono ai diritti televisivi? Nelle parole del presidente c’era tutto il fastidio dell’imprenditore. Ripeto: non era paragonabile al mio, sviscerato per semplice, corrodente passione. Nel suo orizzonte, vincevano i soldi. Come farli e come non farseli togliere. Il nuovo Decreto legge sugli stadi è passato alla Camera dei deputati. Solito schema: sull’onda emotiva per una tragedia (annunciata), sull’alta marea dell’indignazione collettiva fomentata da penne compiacenti e funzionali, il Parlamento italiano ha ritenuto opportuno dichiarare guerra, per la terza volta in sette anni, agli Ultras. O a quel che ne rimane. Il Dl si sbizzarrisce, dipanando la sua rete repressiva tra pene sempre più severe, sorvegliati speciali, distruzione del principio giuridico di responsabilità individuale (diffide di gruppo) e facoltà di sperimentare – finalmente! – la pistola elettrica, il Taser, su un ben nutrito gruppo di cavie. Ma c’è un passaggio che mi ha fatto ripensare alla telefonata piemontese. Riguarda, manco a dirlo, i soldi. Le società dovranno mollare dall’1 al 3% dell’incasso – è infatti specificato nel decreto – agli addetti alla sicurezza. Una forma di “responsabilizzazione” delle società calcistiche che, com’è ovvio, diventeranno ancora più drastiche nell’evitare che i propri facinorosi sostenitori riescano ad accedere agli impianti con strumenti di ottusa violenza quali torce, fumogeni, striscioni non dichiarati, coriandoli, piattini, pon-pon, tappi di sughero, fidanzate. Un provvedimento di scaricabarile da parte dello Stato. Che – leggo con un sorriso tagliato nel marmo – ha fatto insorgere le società. Tra accuse di incostituzionalità e minacce di sospensione del campionato. La riflessione è amara, per quanto banale. Ottocento presenti (questo il numero di spettatori che il presidente telefonico mi garantiva) a dieci euro l’uno fa ottomila euro. L’un percento fa ottanta euro. Sicuramente anche lui, oggi, minaccerà provvedimenti drastici. Si lascerà intervistare per dire che Adesso basta! Che Siamo stufi! Anche lui, tra i tanti, oggi sancirà che è stata violata la Legge, la Costituzione, la Civiltà. Lui, che come tutti gli altri, ha taciuto miserabilmente, avallando la sospensione di ogni diritto quando a farne le spese eravamo noi, che da psicopatici continuiamo a idolatrare una maglia ignorando volutamente il marcio che la circonda. Noi, che da venerdì, sabato o domenica, fronteggeremo la scarica sperimentale dei Taser per rivendicare la nostra libertà di colorare di passione gli stadi. Noi, collettivamente, valiamo meno di ottanta euro.
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