11/11/13

Quel che c’era. Quel che c’è


Domenica 10 novembre 2013, Casertana-Foggia 0-0

Il cielo plumbeo. Finalmente. L’alternanza delle stagioni che rosicchia terreno ai luoghi comuni. A novembre a mezze maniche, no, è un concetto inaccettabile. C’è bisogno del freddo che ristora. Di felpe e giacche. E da quelle parti, il meteo porta addirittura tempesta. Il parcheggio del benzinaio è un punto di ritrovo adeguato. Picasso a noleggio con gli sportelli aperti e lo stereo a 30. Pizza e birra casuals. Con allegata pipì sul reticolato al limitar della campagna. Lo scempio dell’Hotel President sullo sfondo. Oh, alé Foggia alé, alé Foggia alé, alé Foggia alé, alé Foggia alé. Rispetto.

Nel petto e nella testa di ognuno di noi ardono ancora le torce. Quella curva come un galeone in fiamme, in lotta con le onde della bufera. A vincere la morte. Nei discorsi, Matteo è presente. La sua voce risuona nei racconti, negli aneddoti. Che ci rendono migliori senza farci tristi. D’altronde, stiamo facendo quello che abbiamo sempre fatto assieme: seguire quella maglia nelle sue disperanti avventure. Anche se non è detto che riusciremo a vedere all’opera i nostri semisconosciuti eroi. Anzi, a dircela tutta, la possibilità di essere respinti non la quotano neppure più. Eccesso di giocate anomale. Ci siamo visti presto, ma è meglio mettersi in marcia. Tanto succede sempre qualcosa. Veleggiare verso la Campania ha ogni volta un che di particolare. Affascina e limita. E non è solo geografia. Quando si scala la A14 o si declina verso la Calabria, l’impressione che se ne ricava è quella di scivolare sull’Italia e la sua vasta complessità. Quando si imbocca la Candela, invece, gli spazi si stringono d’incanto. Forse per l’obbligo di fare l’autostrada, forse per la mancanza di statali. Ma si vede il Vesuvio in fondo. E l’asse cartesiana dello spazio si zippa. Lacedonia è ancora Daunia, Vallata è già un altro mondo. A Grottaminarda si ha la percezione di essere arrivati. Ed Avellino è dietro l’angolo. Eppure, quando si deve calcolare il tempo necessario, da queste parti si utilizzano sempre i parametri del Clp. Ma le macchine non sono pullman. Neppure la nostra, a gas, che tossisce e fatica sulle salite. Freccia a destra e area di servizio Irpinia. Un’icona della Vergine brandita a mo’ di ombrello per giapponesi, guida una comitiva di pellegrini verso un Gran turismo addormentato sul retro. Pienone di viaggiatori a dividersi brioche. Per noi, bagno e tramezzini. Il frigo. Peroni a 3,10, Ceres piccola a 3,70. Sono queste le cose che fanno vacillare i convincimenti. Ladri da autogrill. Notizie da Salerno. Partita sospesa e scontri. Le conseguenze della politica dei Questori Superstar. Sorridiamo. Non è una bella cosa augurarsi la morte del calcio, ma da qualche parte bisognerà pur riprendere il filo. Rompere il giocattolo per ridare un senso alle cose. Anche se sappiamo per esperienza che quel che sta accadendo a pochi chilometri da qui, otterrà il più classico degli effetti opposti. Si parlerà di calcio in ostaggio degli Ultras. Magari si invocheranno, appronteranno e applicheranno nuovi e sofisticati metodi di repressione. Ma, per ora, sorridiamo. Del punto di non ritorno. E di chi sta dimostrando – nel modo che i giornali riterranno sbagliato e criminale – che il calcio è della gente. E senza la gente, c’è spazio solo per il teatro.

Fuori a fumare. Si, il cielo è plumbeo. Più plumbeo di prima. Ci piace. Oltre quella siepe c’è il “Partenio”. Altre storie. Fantastichiamo. Perché ci piace fantasticare. Finché una voce pacata non annuncia pacatamente che una delle vetture del convoglio ha problemi all’iniezione. Ormai non ci facciamo più caso. Siamo la Crociata dei pezzenti. Testa bassa e pedalare. A velocità contenuta. Il cartello che ci sorprende di più proclama lo svincolo per Caserta a 22 chilometri. Serpeggia scetticismo. Si paventa una misura drastica della contro-propaganda. Invece, Nola. Direzione Roma. Siamo arrivati davvero. L’autostrada costeggia Caserta verso Ovest. Lo stadio è ad Est. E piove, a secchiate. È tutto così dannatamente perfetto che viene quasi da commuoversi. Per giungere al settore ospiti dovrebbe sbucare, da un momento all’altro, l’uscita per Maddaloni. La strada statale che sopraggiunge da Napoli ed entra in città. Invece, l’uscita si rivela una pia illusione e, dinanzi alla scelta tra casello e casello, ovviamente, sbagliamo. Avessimo optato per Caserta Sud non saremmo in fila ai margini della carreggiata sotto il diluvio sottile. Circumnavigare la città. Mentre telefonicamente ci preparano la psiche allo sbarramento delle forze dell’ordine che troveremo. Ci inoltriamo. Il satellitare stima in sette minuti l’arrivo. Ma lo scetticismo è un vezzo duro a morire. “Questa non è ancora Caserta”, sentenzia qualcuno dal sedile posteriore. E reitera il suo mantra ad ogni curvone. “Hai presente quella cosa lì?”, “Eh”, “Ecco. Quella è la Reggia. Se si chiama Reggia di Caserta un motivo ci sarà, convieni?”. Ci siamo quasi. La partita, prestando fede agli orari predefiniti, è cominciata da qualche minuto. C’è ancora gente in fila per entrare. I vigili urbani ci danno il benvenuto e ci teletrasportano fino al drappello della polizia di Stato. Alle cui cure ci mollano. Oltre questo muro, s’odono cori. Noi, fuori, ripetiamo la recita del muro contro muro. Il dirigente è irremovibile. Come a Cosenza, come a Messina, come a Melfi. Ma stavolta si fa più profonda la breccia. Non è solo questione di “rapporto col pubblico”, di fare la faccia garbata, di mantenere calmi gli animi. Poliziotto buono. Non c’è solo un agente che “dipendesse da lui” ci farebbe entrare. Stavolta è un fare a capirsi. “Se ci fate entrare vi fanno un mazzo così, ci è chiaro”. L’inflessibilità dei divieti è come il Cristianesimo delle origini. O come la religione presso i Greci. In un Olimpo deresponsabilizzato, entità astratte temono il precedente. E sono disposte a comminare daspo e punizioni al primo segno di frana. Queste divinità non si pongono neppure il problema di comunicare con gli esecutori. Li ispirano. Una messinscena ben peggiore di quella per cui i Nocerini finiranno, stasera e domani, sul banco degli imputati di un’intera nazione. “Girate le macchine e andatevene”. La stanchezza nel tono è già più di un manifesto programmatico. Manca il “Per favore, che abbiamo famiglia”. E saremmo in pieno Pasolini. Nel mese di novembre, oltretutto. Capita l’antifona. Il tempo di lanciare un paio di cori al vento che, libero, sorvola gli ingressi blindati e presidiati. Lo striscione per Matteo. Anche i Casertani ne hanno fatto uno. Onore a loro e a chi, ancora, fa venire voglia di giocarlo per bene, questo gioco dell’Ultras. Un coro contro la Tessera. E l’ispettrice con la ricetrasmittente fa la sua comparsa. Ordina una volante come al Pizza taxi una Margherita con gorgonzola. Ma sono tutte donne – oggidì – gli ispettori di polizia? Una macchina bianca e verde con la sirena si offre di farci strada fino allo svincolo per la Napoli-Bari-Pescara. O è la polizia tedesca in trasferta vietata, o la Protezione animali. La carovana si muove. Tra le grate e sulla sommità della gradinata, la gente si sporge a guardarci andar via. È durata poco. Come tutte le cose belle.

Frazione di Frigento

Il cellulare di nuova generazione esegue il Buffering con lodevole solerzia. Fuori, il paesaggio scorre via autunnale. Il Foggia è piccolo, sullo schermo. La Casertana, proporzionata. Zero a zero. Un tempo c’erano le radiocronache. Un tempo c’era pure Bim, bum, bam. Inutile pensarci. La consueta birra post-partita, stavolta, rischiamo di farla atterrare sul fegato a gara ancora in corso. Come a Melfi. Inutile pensarci. La Picasso a noleggio è un puledro onnivoro che vorrebbe divorare l’asfalto. Lo teniamo a freno col la sola forza del pensiero. Da una macchina all’altra, ci comunichiamo i reciproci desideri da terzo tempo. “Grottaminarda no. Un posto più bello. Un bel bar”. Così ci inerpichiamo. E i contorni del parabrezza diventano bosco. Cinque chilometri appena, in apnea. E la connessione salta. Dannazione. Mancano dieci minuti. Da quel che abbiamo visto, non si è tirato in porta al “Pinto”. “Vi andrebbe bene il pareggio?”, “Assolutamente si”. Dritti per Frigento. Pioviggina. Perfetto. La frazione si chiama Carpignano. 612 metri sul livello del mare, duecento abitanti. C’è il santuario della Madonna. C’è l’inverno. Parcheggiamo. Il locale è bello. Domenicale. Sembra quello di Schiava di Tufino, svariati anni orsono. “Attenti al lupo” dietro al bancone, tra le bottiglie e le cartoline. Un certo reciproco imbarazzo. Sciolto nel Jack Daniel’s e nelle Budweiser. E dal flipper, ritenuto ormai gioco d’azzardo. L’Avellino è in B. Non ci sembra vero. In chiesa si recita il rosario in codice. Attorno al nostro nucleo di fanatici, cala la sera. Non ne vale la pena. Oggettivamente, scarpinare così, investirci soldi e impegno. Per essere spediti indietro con un repentino movimento del capo. Oggettivamente, però, noi non siamo l’emblema dell’Oggettività. E il calore della compagnia al decrescere della temperatura circostante, la latente consapevolezza della nostra diversità, la maniera assurda che abbiamo trovato per riempire il nostro tempo interiore, sono sensazioni sensazionali. I pensieri virano al cupo variabile. Ma quando la strada riprende a scendere, dalla macchina che ci precede giunge una telefonata: “Oh, ragazzi, su le mani, che dobbiamo fare un coro”. Viene potente. E ricominciamo a ridere. Senza chiederci più nulla.

09/11/13

La trasferta più lunga



Quando ricevi certe notizie, la prima cosa che ti viene da esclamare è: “Stai scherzando?”.
Una domanda istintiva, stupidissima. Come se fosse perfettamente normale che qualcuno possa divertirsi ad annunciare una tragedia. Ma lo metti in conto all’indole. L’incredulità è una forma di resistenza umana dinanzi all’orrore. E la morte rientra – tra gli orrori – in pieno.
Così, cominci a fare telefonate, ossessivamente, freneticamente. Anche se tutti i tasselli combaciano alla perfezione e non lasciano spazio ai dubbi. O al fiato. Quando l’evidenza è contro di te e la tua sciocca speranza di sfuggire. E resti incredulo. Ti lasci sopraffare da un senso d’emergenza, di straordinarietà. Il giorno non è più lo stesso giorno, la via in cui ti trovi non è più la stessa via. E la gente attorno svanisce. Perché non sa e non partecipa.
E ti salgono alla mente i ricordi.
Ho pensato a Napoli. Al Vomero. Alla volante della polizia che mi scarica nello spiazzo del casello, dove i pullman e i furgoni sono, nella prematura sera autunnale, illuminati a intermittenza dai lampeggianti delle camionette. A quell’abbraccio inatteso. Alla sincerità di un’empatia che superava i ruoli, le pose, le mode. “Cazzo, mi dispiace!”. E null’altro da aggiungere. Se non sdrammatizzare. Perché anche saper sdrammatizzare, in un mondo che oscilla pericolosamente, perennemente, sul baratro del fanatismo, è una dote preziosa. Ti conserva umano. Ti porta a relativizzare. Eppure giochiamo seriamente, noialtri. È complicato capirci, nei nostri apparenti deliri di onnipotenza. Nei nostri discorsi sull’onore e la supremazia. Nei nostri scazzi. E sapere che c’è qualcuno che – nella semplicità dell’atteggiamento, in uno sguardo canzonatorio o nel doppio fondo di un mezzo sorriso – ti ricorda che, alla fine, stai giocando, è vitale. Ti mantiene sulla terra. Ti riporta ai bisogni autentici, ti restituisce i valori.
C’è una dose di egoismo anche nel dolore. È il tuo mondo che intendi conservare quando scuoti la testa e ti ripeti che non è possibile, che sembra ieri che stavamo lì a discutere dello striscione in Sud, del gruppo o del passaggio dei Pescaresi su Viale Ofanto. Ti aggrappi con le unghie al terreno che scivola sotto i piedi. Mentre il passato si spopola, lasciandoti solo con un presente che, più lo guardi, più non ti somiglia. Che non ha i contorni di città in cui sei cresciuto. Matteo era in balaustra. E cantava forte. Per spingere la squadra. Tu eri un ragazzino e volevi imitarlo. E lo seguivi, come logica conseguenza. Dapprima in casa, rispondendo al suo incitamento. Poi in trasferta, con le migliaia di lire per un bigliettino con un numero che corrispondeva al tuo nome. Sul pullman o sul treno speciale. Tutto qui. Semplice. Elementare. Come dev’essere.
E ti ritrovi dentro un universo parallelo governato dalla passione, quando qualcuno ti ci traghetta. E ti accorgi che non è poi così sciocco cantare a squarciagola per quelle maglie in campo. Non è disdicevole , né imbarazzante. È magnifico.
Eppure, c’è stata gente che questo passaggio non te l’ha mai fatto vivere come un rito iniziatico, come roba da massoni. Beh, è a questa gente che bisogna riferirsi quando si parla di “vecchio stampo”. E quando questa gente viene a mancare, manca sul serio.
Il fuoco di decine di torce. Come quando non era proibito.
Le teste da una parte all’altra dei gradoni. Come quando non si era in quattro gatti. E lo stile contava tanto quanto. Le mani al cielo. Tutti. Un solo striscione, un solo nome. Quello a cui dobbiamo quel che siamo, in un modo o nell’altro. Il coro: Come i vichinghi re dei mari. E non ho pensato più all’sms del primo dell’anno, quello con cui ci auguravi serenità e felicità; né alle lavate di testa ai giocatori negli spogliatoi; né a quella volta coi giornalisti; né al fatto che no, non mi sei mai sembrato cambiato dal Novantuno. “Insò, Mattè, come lo vedi sto Foggia?”. Ho fissato la foto sul carro funebre. Incredibile. Puoi non frequentarti per mesi. Ma sapere che le persone ci sono, è un’assicurazione sulla vita. L’ultima volta ci siamo incrociati di sfuggita. Non mi avevi visto. “Buon lavoro, Mattè”. E mi hai risposto voltandoti di scatto, col sorriso di chi sa che – oltre ogni divergenza scaturita dal gioco di quel mondo parallelo in cui quelli come te ci hanno traghettato – sono queste le cose che contano. Il rispetto, l’onestà, la sincerità. Come i vichinghi re dei mari. Ed è salito il magone. E la rabbia. Per la tua vita, per i tuoi figli, per la tua famiglia. Per come è andata. Per come non doveva andare. Ma anche per noi tutti. Uno accanto all’altro in quella che era la nostra casa. Così presi dalla gara del chi è migliore da dimenticarci che, uniti, siamo uno schianto. Così coinvolti nelle nostre esistenze separate da dover attendere la morte di uno di noi per ritrovare il senso di ciò che ci legava. Questo, come capita nelle famiglie, ci ha insegnato la tua morte orribile, Matteo.
Il dramma è che non impareremo proprio un bel niente.

Buon viaggio. Se esiste un Aldilà, di sicuro non avrà il prefiltraggio.

Il Libro