14/12/09

Ricongiungimenti familiari

Domenica 13 dicembre, Spal-Foggia 0-0

Le famiglie, anche le migliori, vivono di allontanamenti, di disgiunzioni, di separazioni. Ma poi si riuniscono. Ed è allora che bisogna apprezzarne il calore. Irriducibile. D’altro canto, mancano undici giorni al Natale. Il clima è quello.

Ferrara ispira. Chi dorme, regola la sveglia da camera alle 5:30. L’appuntamento è fissato per le 6, il ritardo è canonico. Il tempo di riaprire l’eterno dilemma sulle aste, di diffondere voci fasulle su leggi e regolamenti che manco dei togati in diritto costituzionale. Undici persone, furgone sold out. Imbocchiamo l’autostrada che è giorno pieno. Fa freddo. Deve fare freddo. Chi è rimasto ci ha consigliato di tenere d’occhio le previsioni che danno neve tra Molise ed Abruzzo. La A14 è un deserto che conosco. Lo scenario della consuetudine. Daniele ci omaggia di una compilation, Radio Corsa si spertica in dediche agli innamorati. Da solo non riuscivo a dormire perché, La notte ho ancor bisogno di te. I finestrini aperti di uno spiffero, giusto per respirare. L’odore del fumo si mischia alla traspirazione dei corpi, il ripieno dei panini all’aria bollente del riscaldamento: un unico aroma, un aroma unico. Inconfondibile. Alla fine abbiamo portato il bandierone e uno solo tra noi è senza biglietto. Ma se ne cura poco. Fammi entrare per favore, Solo, Credevo di volare e non volo. Alle undici centriamo per amore divino il curvone dell’uscita di Rimini Sud. Il piano è tattico, ben congegnato: tappa a San Marino per rifornirci di benzina e sigarette, poi statale per Ravenna, per risparmiare sul pedaggio. Un programmino degno di quello coi baffi che su Rai Uno presenta Occhio alla spesa. Lo stradone luccica di pioggia. I semafori (rossi) si susseguono con precisione irritante. Ci mettiamo mezz’ora a varcare un ponte dove si può leggere Benvenuti nella terra della libertà. “Ma sai che per giocare la Coppa Tritone devi essere nato a San Marino o comunque cittadino sammarinese da dieci anni?”. Lo stupore cattura l’abitacolo, gli occhi vagano sui palazzi, sulle rotonde, sugli store d’abbigliamento indiano, di armi medievali, sulla salita. “Quindi, in teoria, dovresti sposare una sammarinese quando hai dieci anni, per esordire nel Murata o nel Domagliano a 20”. Tutti pensano al tempo che hanno sprecato in vita loro. Il primo distributore appare all’orizzonte. Fiduciosi accostiamo. L’andatura si fa lenta e leggiadra. Le auto suonano il clacson. Il silenzio non promette nulla di buono. “Ma costa quanto in autostrada, il gasolio!”. Qualcuno non si capacita: “Ma magari dobbiamo salire ancora, non siamo ancora a San Marino”. “Ma certo che siamo a San Marino, non li vedi i cartelli!”. Cazzo, niente panico. Ancora un paio di tornanti, poi facciamo inversione. “Ma quante squadre ha il campionato di San Marino?”, “Dodici”, “Dodici?”, “Eh… Senza contare che poi c’è una squadra che gioca in C2 e la Nazionale”, “E dove la trovano tutta sta gente?”. Il secondo distributore, poi il terzo e il quarto, confermano la sciagura. Stiamo sfatando un luogo comune. Dovremmo essere felici, e non lo siamo. Anche il tabaccaio è chiuso. Pit-stop tra le imprecazioni sommesse. Il malumore serpeggia. Risparmiamo quattro litri di gasolio e puntiamo la statale. Abbiamo perso un’ora. E, quel che è peggio, il piano perfetto ha già subito due grosse ammaccature. I cartelli indicano Ravenna. Un semaforo. Un secondo. Un terzo. Siamo all’altezza di un centro abitato, non dovrebbe essere anormale. Eppure, la tensione cresce. L’orologio segna le 12:13. Noi viaggiamo ad una media di 70km/h, la strada è bagnata, fuori piove e davanti c’è una discreta fila di macchine. Abbiamo fatto questa strada per andare a Trieste. Ma era estate. Ed era notte. Oggi splende di luce propria. Rientriamo in autostrada, dove la benzina costa meno che a San Marino.

Ferrara Sud. Ovvero: l’impazienza. Siamo riusciti ad arrivare con mezz’ora di autonomia sul fischio d’inizio. Vaghiamo nella zona industriale della Città Patrimonio dell’Umanità, come annuncia il cartello all’ingresso. Una volante della polizia ci affianca. Ci fa segno di seguirla. Scommetto che siamo gli unici. Puntiamo il centro cittadino. I lampeggianti feriscono le cornee. Vediamo lo stadio in lontananza, dalla fine di un vialone. Ci fanno accostare. Un poliziotto ci dice di trovare parcheggio. Noi chiediamo cosa ne sia del settore ospiti. Quello indica un muro grigio: “Eccolo”. C’è gente che attende d’entrare. Foggiani. Tanti, c’è da dire. Come in ogni trasferta emiliano-romagnola, del resto. Noi abbiamo un paio di ricongiungimenti familiari da ottemperare, qualche birra da stappare. Un paio di macchine da Bologna, una da Roma. Avevamo immaginato un’altra location, ma adesso siamo qui. E dobbiamo fare tutto di fretta. Di corsa alle porte. Poi l’attesa. Tre ragazzi sbarcano. Si avvicinano alle transenne e parlano tra loro: “Ma quante squadre ha il campionato di San Marino?”. Giuseppe mi fissa. È l’argomento del giorno, evidentemente. “A San Marino dovevamo nascere. Ci facevamo la Champions. Il San Marino ha giocato pure a Tel Aviv”. Ho seri dubbi al riguardo, ma una certezza le batte tutte: neppure una partita ad Anfield o al White hart lane mi farebbe preferire il Tre Fiori all’Uesse. E diamine, un po’ di dignità! Guardo la struttura esterna del Mazza. È affascinante questo stadio. Il più vecchio, il più antico d’Italia, se si escludono alcuni pezzi del Penzo di Venezia. Tutto è old style, qui, dalla scritta “Gradinata Ospiti” sul cancello al colorito grigio degli alberi spogli, dalle tettoie ai palazzi limitrofi. Un senso da 90° minuto mi assale. Paolo Valenti e, perché no, pure Furino. Dentro cantano: Fuori le palle, tirate fuori le palle. Noi proviamo a contattare gli assenti. Ingiustificati, visto che dovevano farsi poco più di 30 chilometri per essere tra noi. Un sms annuncia il forfait dei romani. Undici, undici, undici leoni. Due macchine parcheggiano in fondo al viale. Angioletto, Valerio, gli altri. Non c’è tempo per i saluti. Dentro, a cercare un posto per la nostra ciurma sfilacciata.

Siamo in gradinata. Ci sono due ali di emigranti, di residenti all’estero, di foggiani fuori sede. Si nota da come seguono la partita. Noi proviamo a tagliare in mezzo. I gruppi si sono mescolati in maniera anomala. Individuiamo il nostro spazio, quello che ci ha riservato il Fato. Il Destino. Enzo, in virtù di questa sciamanica consapevolezza, chiede ad una schiera di adolescenti di farsi qualche gradino più su. Ci siamo. Il pugno, il pugno. Forza Foggia, Forza Foggia, eh, eh. Vorrei accendermi una sigaretta, vorrei non avere questo giubbino pesante, vorrei più spazio per aprire il battimani. A rondine! Ma stiamo uno sull’altro, e non c’è un attimo di pausa. Allora un coro sull’altro, senza soste, mentre chiamiamo i dispersi nella traversata. Blocco! Facciamo blocco! Tossisco per il freddo e per lo sforzo a crudo. Il Foggia attacca verso sinistra. Prende pure una traversa. Il rumore mi fa tornare alla mente Furino. In basso, tra la gradinata e la curva assente, c’è il chiosco con la scritta Bar che si illumina. I palazzi dietro sono grigi. Il cielo è grigio. Il cartellone recita: Spal, Cento anni di Passione. O qualcosa del genere. Mi sale alla mente l’ardore degli spallini. E la pasta Divella. Passione mediterranea. Sto sempre meglio. Urliamo. Chi era in astinenza da Reggio e chi s’era sorbito pure la Cavese. Finisce il primo tempo. È volato. Una scia di cappotti corre a farsi di Redbull. Io posso fumare. Sulle transenne elastiche, possiamo darci al revival. Nella ripresa il sostegno cresce di tono, ma alla lunga ne risente. Dobbiamo cantare per pareggiare il conto dei giocatori in campo. Un brusio da capo a capo: “Che ci hanno espulso uno?”, “Mi pare di si”, “E chi?”, “Salgado”, “At’bastard!”. Accendono i riflettori. Furino e Pasta Tamma.
A mezzanotte, uscite a mezzanotte. Gli spallini urlano verso la tribuna. Ce l’hanno con la squadra. È finita zero a zero. Diranno che è stata una partita noiosa, brutta, scialba. Usciamo con la consueta lentezza. “Ma com’è che contestate? Avete uno squadrone!”. Eh, beh, fa il signore biancoblu. E fila via. Noi dobbiamo ancora bere quelle venti birre nel bagagliaio. Mangiare quei panini al prosciutto. Chiedere: “Beh, come va?” ai nostri fratelli emigrati. Si decide per un paesello. Si decide per l’ovvio.

Colpa di Altedo

Altedo dista 25 chilometri da Ferrara. E 25 da Bologna. A garantirmelo è un attempato avventore del Bar dello Sport. Non credo sia vero. In ogni caso, gli faccio presente che anche se fosse, ha scelto di tifare per i 25 chilometri più comodi. Ride. Un secondo signore con la spilla del Bologna entra. Qui mi sa che sono in tanti ad aver fatto come il protagonista di Febbre a 90°, che va ad Highbury pur essendo nato a 2 chilometri da Reading. E vabbé, debolezze. Del resto, anche loro hanno perso un derby, oggi. A Parma. E, per giunta, devono sorbirsi questa ventina di individui che fanno viavai tra dentro e fuori, che davanti all’ingresso cantano Prima squadra, panchinaro, primavera. Il Bar dello Sport di questa strada-paese di 5mila anime non poteva lasciarci indifferenti. A due passi dalla pizzeria, sulla piazza, con accanto un negozio dalla sfavillante insegna Fuochi d’artificio. Aperto, nella spettrale domenica sera. Angioletto è entrato in avanscoperta. Non è detto che tutti i gestori dei Bar Sport siano simpatici zuzzurelloni pronti a ricambiare una battuta. Questo qui è bassino e tarchiatello. “Buonasera, sa i risultati delle partite?”. “Certo – replica quello con un marcato accento ferraro-bolognese – quale ti interessa?”. Angelo ci pensa: “Il Catanzaro”. Quello ride: “Me l’avessi chiesto trent’anni fa, l’avrei saputo…”. Il test è superato. Si piantano le tende. Siamo già birra-muniti, per cui si entra solo a riempire bicchieri di Borghetti o Montenegro. Colletta per una torcia da quello a fianco. 10 euro, il prezzo che ci spara. Scandalo. I 10 euri vengono reinvestiti. Sambuca e San Marzano Borsci. Il freddo è pungente. Si canta. C’è una squadra che di gioia impazzire mi fa. Dentro gli anziani sorridono e scuotono la testa. Guardano Novantesimo da una tv d’altri tempi piazzata su una mensola d’altri tempi. I tavolini sono di legno. Per strada passa pochissima gente. Quei pochi, entrano. Nicola stappa la sua seconda birra. Sembra felice. Il repertorio si srotola tra un aneddoto e qualche riepilogo. Com’è difficile stare al tuo fianco a cantare. La familia è riunita, finalmente. Certo, ci sono quelli a casa. Ma l’attimo merita d’essere bevuto e fumato. È di quelli da ricordare. “Allora… mi fai un Vov, un Brancamenta e un Punt-e-mes”. L’oste tarchiatello si gira per raccattare le bottiglie. “No, macchevveramé? Sto scherzando: tre Borghetti”. “Senza di voi questa bottiglia sarebbe rimasta qui un mese”, annuncia l’oste. “Allora facciamo 2 euro invece di 2,30”. Sotto la tv, il nostro secondo Enzo è crucciato per la striminzita vittoria senza gioco. È Giacinto a doversi accollare la dolorosa rettifica: “Guarda che il gol che hai visto l’hanno annullato”. “Cioè, voi mi state dicendo che non l’abbiamo neppure vinta la partita?”. Si parla di Maccarone, di come sia possibile che quel soggetto lì segni in serie A, quando sui display dei cellulari appare la notizia che qualcuno ha colpito Berlusconi con qualcosa. E alé. Da quando sei in C non ti seguono più. Quelli che stavano levando le tende, quelli che stavano chiamando giro, ci rinunciano. Sono le sette. “Capo, ci vediamo il tg3?”. E tutti dietro i tavolini. Seduti e in piedi. Nicola stappa la sua terza birra. È senz’altro felice. Chiedo uno Jagermeister, l’oste mi versa un Montenegro. Si parla di politica, adesso. Sinistra e destra. Un nonno emblematico fissa la scena da un’altra stanza, seduto su una sedia. Sorride. Fuori il dibattito impazza. Argomenti: la depilazione femminile e il tonno Palmera. Mattia colpisce Nicola con un buffetto. Nicola prova ad inseguirlo e rischia di travolgere la macchinetta delle sigarette. “Uagliù, avete mai visto Nicola ubriaco? No? E allora venite fuori!”. Anche questo vale la pena di essere ricordato. “Zio, mettiamo a Rai Uno che comincia il telegiornale?”, “Si, ragassi, ma io tra un po’ dovrei chiudere”, “Va bene, zio, ma prima vediamo il telegiornale”, “Va bene, ragassi”, “Zio, posso toccarti la pancia?”. Un signore parla a Giuseppe della mamma novantottenne, una ragazza che lavora in Comunità (“Quanto ti diverti con noi?”), una giovane signora in nero che s’informa da Mattia se per caso andiamo a San Remo, quest’anno. Poi due napoletani. E non c’è bisogno di aggiungere altro. Time to go. “Occhio alla neve per strada, ragazzi”. Si, si, certo. Tanto che siete sbirri vi si legge in faccia. Un giorno è nata una puttana…

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