12/01/10

La favola di G. e N.

di Lobanowski 2

Domenica 10 gennaio, Giulianova-Foggia 1-2

La chiave piccola che gira nella toppa. La saracinesca che si solleva con malagrazia. oooooOOOOOO. L’odore bianco che fa bruciare gli occhi. OOOOlllé! Eccole! Tra il tavolaccio da falegname aperto sui cavalletti e le corde tese come la pubblicità del Sole Lavatrice. Le bandierine. Il frutto del lavoro indefesso di un ordinario sabato di follia. Da quando quei due sono andati a chiedere il costo delle vernici acriliche, da quando la sarta ha smembrato e nuovamente assemblato il bandierone fallato, da quando i solerti amanuensi hanno preso ad intagliare il cartone, da quando i messaggeri son tornati coi 2 cm di diametro (che non sono la circonferenza), sono passate meno di 24 ore. Abbiamo finito all’una, col pasticcio dell’inguacchio, coi ricordi del Bhg e lo sventolio nottambulo. Ora è giorno. Si può ammirare il frutto del sacrificio: da lontano, da vicinissimo. Prove generali a centro strada. Un tizio dal Cocozza urla: “Trovatevi un lavoro!”, un secondo si ferma e chiede: “Andate a Giulianova?”, “No, ce la vediamo qua in televisione”. Un terzo si sofferma: “Gridate anche per me”. Non sappiamo perché, rispondiamo si si. L’entusiasmo di questa città si taglia a fette. Basta vedere gli autisti che salutano svogliatamente. È deciso: statale fino a Termoli, poi usciamo a fare metano.

Nicola, si sa, per il metano ha un debole che sfocia pubblicamente nella dipendenza. Senza il metano si incupisce, si imbroncia, smadonna soliloqui, costringe la sua figura a sigillarsi nell’abitacolo – posto di guida – e sgrana rosari di mute maledizioni. Quando, al contrario, vede in lontananza – o anche solo sulla cartina o sulle guide in Google Maps – un distributore, il suo volto si spalanca come il sipario di Natale in casa Cupiello. Si rasserena come un pupo. Dev’essere qualcosa di esistenziale. Col metano pasteggia, festeggia. Si fa di metano, il pilota della macchina n.2. E nel suo veicolo è proibito fumare. Ergo: la situazione è già tesissima a via Fioritto. Dei mostri in crisi d’astinenza si approssimano ai nostri finestrini come affamati ai forni durante la peste. Ai lati della statale per San Severo, le prostitute nigeriane. È una giornata poco rigida, per essere gennaio. Spunta finanche il sole. Chiacchiere da bar sport, e neanche tante. Le bandiere. Tutta la nostra concentrazione è sulle bandiere. L’autostrada è semideserta, anche se potrebbe fare di più. Siamo in orario, più o meno, o forse no, non conta. L’autogrill. Il piazzale invoglia, e stavolta c’abbiamo il pallone. Il gioco è fluido sulle fasce e i registi tendono ad allargare il raggio d’azione finché non copre l’intero parcheggio. Finché il Conte, per recuperare un lancio di cinquanta metri, non rischia d’emulare Verdone. Un sacco bello. Qualcuno mette fretta: “Guardate che ci vuole ancora un’ora di strada”. Allora chiudiamo col calcio e cominciamo un rudimentale rugby, che si conclude con la meta da incorniciare del maniaco in tuta, che esulta e quasi si denuda, davanti agli occhi di tanti ignari passanti che sono costretti a bendare i propri pargoli per evitargli shock di difficile assorbimento.

Ci vuole un’ora, effettivamente. I casellanti incrociano le braccia, i vi-i vi-i vigili ci catturano. Giulianova, vialetto d’accesso al Rubens Fadini. Ore 14:18. Siamo in clamoroso anticipo. Una fila festante e scomposta si trasmette l’informazione che quelli – gli stiu-stiu-steward giuliesi – non lasciano passare i clandestini senza documenti. I saggi giocano a rimproverare gli sbadati: “Checcà… eppure lo sapete!”. L’omino Michelin in gruppo, il maniaco col vino, il metanomane in attesa: “Uagliù, datele tutte a me le bandiere”. Svelti, che si entra. Un coro dall’interno. Magliette giallorosse e bianche. Stanno giocando. Solita routine iniziale: trovare un posto in corrispondenza col lanciacori della nostra curva, accorparci. In alto a destra fa il richiamo della foresta Antonio, che è arrivato da Chieti e da due giorni è diventato un bambino indaco. La sua luccicanza illumina Federica, Mariangela e un tesissimo zio Franco, che vive la sfida abruzzese come un playout anticipato. Primo battimani corale. E le bandiere vedono la luce. Mattia scopre che di lato al settore c’è una vetrata che ci riflette. E quei pochi che ancora avevano dubbi su dove guardare, li sciolgono. Enzo si trasforma in Garrison, o nella maestra di Billy Elliot: dirige dallo specchio, più vero del vero. L’inizio è buono. Poi segna il Giulianova. Ma non cambia granché. Il pari del Foggia, l’X2 sulla bolletta senza coraggio. A quanto pare i nostri se la giocano, anche con un minimo d’intraprendenza. Passano anche in vantaggio. I duecento nel settore si scompongono in una lunga esultanza, ignari del vociare dei più accorti che ripetono: “L’hanno annullato, l’hanno annullato”. Sarà difficile, penso, a bocce ferme aggiornare il parziale. Il primo tempo si chiude con Bindi che si lascia sfuggire un pallone e con quest’ultimo che batte strafottente sulla traversa, ed un tale che chiede al prete a bordo campo una benedizione speciale per gli undici: “Padre! Padre, perdona loro perché non sanno quel che fanno”.

La ripresa è, come sempre, migliore del primo tempo. Pochi cori secchi, però diversi intermezzi melodici prolungati. Andiamo bene, i tre vessilli non cessano di sventolare, e la jolly roger sembra leggera come una piuma d’oca. Burzigotti, imbizzarritosi, batte una punizione da trenta metri. Così, tesa e potente. Io me la perdo, ma sento il boato. In tempo per vedere che la palla è sulla linea di porta e un tale, che scoprirò essere Ferrari, la sta buttando dentro di testa. E parte la gara di tuffi. In vantaggio a Giulianova. Buono. Ottimo viatico per l’anno solare dei Novanta. Un fuggi-fuggi, un parapiglia, lì, sulla destra. Sono certo d’aver visto male, ma uno dei nostri – un tizio che scoprirò essere Ferrari – ha sferrato un pugno a uno dei loro. Ma un pugno vero, serio, non quelle scaramucce senza senso delle categorie superiori, dove poi tutti fanno scena, il pubblico sbraita e per ore ci si chiede se è razzismo. No, un diritto serio. Pare sia un bomber, questo Ferrari. Tutti dicevano “scuola Samp”, ad agosto. Non ha ancora segnato un gol. Anche quello di prima è stato assegnato al Burzigotti imbizzarrito. Però il pugno è stato bello. Anzi, dicono che quello che ho visto io sia stato il secondo. Esce tra gli insulti dei giuliesi. Passa accanto a noi. Uno gli si avvicina: “Ferrà, vafammocc a mammt pur tu!”. Effettivamente, dopo il caso-Salgado di Ferrara, questi si sono di nuovo complicati la vita da soli. Il sole tramonta e quel che segue è assedio, normalissimo assedio. I nostri, senza arte né parte, si difendono. Sventolo e canto con soddisfazione: mi piacciono le squadre così, dai. Gli ultimi dieci minuti sono adrenalinici, accompagnati da cori alti che però si destrutturano al secondo giro. Eco su eco, ma va bene. Cinque di recupero, un paio di orrende mischie in area nostra, poi le braccia in alto. Corsari, per la seconda volta dopo Reggio. Certo, c’è pure Andria, ma non c’eravamo e non vale. La squadra prova a venirci incontro: “Meritiamo di più” e “Il Foggia siamo noi” le uniche risposte possibili. Zio Franco cala dalle alture a mille. Lo schiatteremo in quel posto a qualcuno. Anche se non ho capito con precisione a chi si riferisca, dico di si.

Cronache dall’alto

Si che ho capito, devo abbandonare il settore. Fuori, saluti e baci e auguri di buon anno. Guido si fa sgamare mentre al telefono dice: “…non tanto dal punto di vista del gioco”. Viene giustamente deriso fino al commiato. Avanziamo una sfida a calcetto cinque contro cinque dall’autogrill dell’andata. Al calore dell’ennesimo distributore di metano, ne parliamo. Una piazza di paese. Scegliamo un paese a caso e andiamo a giocare a pallone per strada. Al bar c’è quella luce e quel tepore da domenica di viaggio. Bellissimo. Ancor più bello quel che segue. Un signore col figlio ci avvicina: “Siete di Foggia? Cosa posso offrirvi?”. E, a prescindere dal fatto che le due risposte, se concatenate, danno un unico risultato, la storia che ci racconta è emozionante. È di Macerata e non vedeva il Foggia da 41 anni. E ci teneva a dirci che siamo bellissimi, colorati, di un’altra categoria. Che per gente come noi la serie A non è mai passata. Una lacrima cade nel Borghetti. Termoli, anzi no… Campomarino, il belvedere di Campomarino. La scelta offende Mattia, che per vendetta comincia a girare il coltello nella ferita sanguinante di Lello, che ha perso 700 euro per il pari del Lanciano a Verona. Ci vuole un’ora, dice, e gli passa la fame. “Meglio, no? Non hai neanche un panino”. Girano voci allusive sul bar della piazza. Il freddo è quasi vero, il paesino finanche gradevole. “Abbiamo già parlato di…?”, “Si, si”. E alcuni suggerimenti autoerotici sfiorano 90° minuto. Il belvedere è inadatto ad ospitare il big match. Al primo cross rischieremmo di diventare nove. E così, basta il pensiero. E al bar – di cui la leggenda aveva amplificato il mito – è toccato il compito di lenire il dolore.

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