20/01/14

Il potere del disinteresse



Domenica 19 Gennaio 2014, Vigor Lamezia-Foggia 0-1

La florida signora ha una sciarpa in tartan a coprirle il collo e una faccia distesa. Quando incrocio il suo sguardo, alza le braccia e mi mostra i palmi. Come si fa in chiesa quando si recita il Padre nostro. O allo stadio prima di Noi non siamo napoletani. Intima di non chiederle niente. Lei non c’entra, non è responsabile dell’ordine pubblico. Eppure un poliziotto in divisa le tiene aperto l’ombrello sul capo scoperto, e la segue passo dopo passo. Faccio capire – allargando le braccia a mia volta – che non intendevo aprire un dibattito, una tavola rotonda o qualcosa di simile. A quel punto faccio l’errore di guardare l’uomo in divisa. Che mi spiazza con una domanda innocente. “Perché non potete entrare?”. Attimi di silenzio. “Perché non abbiamo la Tessera”. Sento che sta per farlo. Avverto il rumore del suo sistema operativo centrale in rielaborazione. Lo fa. Mi rivolge la domanda da un milione di euro. “E perché non ve la fate?”. La signora annuisce, come se fosse stata preceduta. Nelle intenzioni, anche lei voleva chiedermelo. Nei gruppi di studio politici, una delle prime cose che ti insegnano è di non discutere mai coi poliziotti. Un vago ricordo di quei tempi di apprendistato mi attraversa la mente, come un fulmine in una torbiera. Ma sono epoche sepolte. Quindi rispondo. Perché è sbagliata, perché questo modo di intendere il calcio sta svuotando gli stadi, perché la pay-tv, il calcio di un tempo e bla, bla. Quello, alla fine, annuisce. Disinteressatissimo. Poi si volta, mi fissa e mi dice che, comunque, abbiamo fatto due chiacchiere accademiche. Che tanto non dipende da lui. Che non è il responsabile. Mi verrebbe di rispondergli che non l’ho mai sospettato. Ma alzo le spalle anch’io. Un confronto di specchi. Con l’indifferenza in posa egocentrica, nel mezzo. Credo di sapere chi sia il responsabile. Quel tipo che ha tirato la testa fuori dal finestrino abbassato e ci ha chiesto: “Foggia?”, quando i due furgoni si sono arenati davanti all’evidenza di uno stadio che non riuscivamo a vedere. Per quanto ci fossimo davanti. Quello col cappuccio che mi ha gridato, a metà tra l’allarmato e l’autoritario: “Dove vai?” mentre mi avvicinavo al muretto del settore ospiti per fotografare il nobile striscione dei ragazzi di Lamezia. Solidali con il lutto delle famiglie e degli amici delle giovani vite perdute la settimana scorsa, in un incidente stradale. Quello che adesso, dopo la foto di rito – quella di spalle – e gli altrettanto rituali cori per la curva e contro la Tessera, torna col telefono in mano per ribadire che non c’è niente da fare. Siamo arrivati con mezz’ora d’anticipo, stavolta. “Ma è mai possibile? Non ci sono screzi con i rivali, non ci sono problemi tra i gruppi…”. Quello alza gli occhi al cielo. Ok, capiamo al volo l’antifona: neppure lui è il responsabile. Che caricatura di Paese! Dalle bollette della Telecom alla Tarsu, dall’Imu agli stadi blindati, non si riesce mai a capire di chi sia la responsabilità! È la solita scusa del fatalismo che pervade gli umori del nostro spirito mediterraneo. Un vascone in cui nuotano pesci che eseguono soltanto gli ordini, l’Italia. Direttive inflessibili e mute dettate da un funzionario che non si vede, non c’è e che probabilmente non esiste. Il Dio dei cattolici. Va bene, al solito. Allo stadio non si va, non facciamo capricci. Abbiamo percorso più di 400 chilometri filati. Magari una birra, al riparo di un bel bar in centro, o un caffè in tranquillità, ce lo meritiamo pure. Prima di ricongiungerci alla strada del ritorno. Quel che mi sembrava il responsabile dell’ordine pubblico, mi tocca una spalla. Come un maestro deamicisiano – o un pastore transumante – mi invita a raggiungere rapidamente i mezzi. Mi fermo. Niente stadio, niente capricci, si è detto. E sia. Ma questo esula dalla pur assurda sfera dei divieti. Gli faccio presente che non ho più alcuna intenzione di valicare quella zona militare sorvegliata dove ventidue ragazzi danno calci ad un pallone. Conosco la pericolosità della pretesa che mi ero arrogato di fare e mi piego di buon grado all’interesse in materia di difesa dello Stato. Ma ora non sono più un foggiano in trasferta. Sono un cittadino italiano sul suolo italiano. E vado dove voglio. Quello mi risponde che no, non è così. Che devo raggiungere gli altri e accelerare, con gli altri, le procedure d’espulsione forzata. Gli chiedo se pensa che il mio sostare o il nostro girovagare dipendano da una sua concessione, piuttosto che da un diritto. Risponde che comanda lui e tanto deve bastarmi, come spiegazione. Discussione accademica, certo. Ma assai significativa della mentalità dei tutori. Arrivano i ragazzi di Lamezia. Li ringraziamo e stringiamo loro le mani. Poi gli chiediamo dove poter vedere la partita, lontani dallo stadio. In fondo, il campo sportivo è in piano e attorno ci sono diverse collinette. Il responsabile non-responsabile si intromette. Dice che non andiamo proprio da nessuna parte. Che loro adesso ci accompagneranno in autostrada. Facciamo presente che non vogliamo essere scortati e che – da questo momento – siamo turisti in libera uscita. Quello insiste. E ordina una camionetta come si ordina una capricciosa. La vuole piena. Con molti funghi. Non ci siamo proprio capiti. Non si capisce, non si vuole capire, il limite tra un divieto e l’abuso. Perché le due cose, nel frullato mentale poliziesco, sono le due facce della medesima medaglia. Chiedo di mostrarmi la fonte della sua interpretazione estensiva della legge. Consapevole di essere volutamente stronzo e presuntuosamente legalitario. Ma tant’è, non mi piace la sua faccia. E a quello non piace il mio “atteggiamento”. Dice proprio così. E mi propone di seguirlo in centrale. Io sono ben disposto e glielo dico. Altri si intromettono. E in meno di un minuto, un bel corteo di volanti apre e chiude il convoglio di pericolosi non tesserati. Che, per il bene della nazione, anche stasera sono stati respinti. Grazie alla solerte polizia italiana, non ci sarà violenza in questo stadio, oggi. Ci voltiamo e salutiamo con la mano i ragazzi di Lamezia. Che ci rispondono alla stessa maniera.

06/01/14

Il secolo scorso



Domenica 5 Gennaio, Aprilia-Foggia 1-1

Il vomito sa di vomito. Cacofonia, ridondanza. Eppure, non c’è altro modo – se non il modo suo stesso – per definire quel sentore di frutti di bosco che ti resta appiccicato al palato. Una giornata passata a rimandare impegni immaginari. E a leggere Ken Follett. Una nottata a sudare. Una metafora al risveglio: ti preoccupi tutto il tempo di tenere sotto controllo naso e gola, e al canto del gallo ciò che ti sorprende è lo stomaco. Do la colpa al mostacciolo superstite. Ma alle otto e trenta i dubbi danzano sul davanzale. L’immaginazione funesta fa il resto. Già mi vedo implorare l’autista di accostare. Aprire la portiera con furia e in fretta. E muovere il torace su e giù, come i gatti quando si liberano dei peli. No, no, imbarazzante. Troppo. Questa mi sa che la salto. Però  poi penso alle suggestioni. Al potere del cervello. A quando, pur provando a concentrarmi sull’indice della Borsa di Tokyo, immancabilmente riuscivo a sentire brontolare gli intestini nel silenzio del chiostro universitario. E poi stavolta siamo tutti. O quasi. Ci sono i profughi rimpatriati all’ultima chiamata “natalizia” prima di tornare ad emigrare. Una volta a destinazione, ci saranno anche i romani. Non posso e non voglio mancare. Così, ingoio le mie paure, i miei imbarazzi e una buona dose di acido, e mi mescolo agli altri. In Via della Repubblica i lunghi e lenti preliminari sono stati ultimati. I furgoni stanno facendo manovra. Le macchine sono piene. Le nostre tre sono un Tetris. Quando attraverso la strada per andargli incontro, i compari stanno mischiando le squadre. Intorno a noi c’è una città placidamente attiva. Il banco della frutta, la Camera del Lavoro, il negozio dei cinesi. Un lampo attraversa lo sguardo. La mesta consapevolezza che questa gente non sa neppure dove stiamo andando, cosa stiamo facendo. E men che meno gliene importa qualcosa. Dovremmo dire che “un tempo non era così”, ricordare i settanta e passa pullman ai Mercati generali, prima dell’invasione di Campobasso. 1989. Il secolo scorso. Meglio scacciare la mosca della nostalgia. E mettere in moto i motori. Che, in fondo, la strada è la stessa di allora. Anche se sgombra di mezzi. Il castello di Lucera a sinistra. Un asfalto omicida sotto i nostri pneumatici. Stavolta ho evitato la colletta alcolica. Che poi, tanto, l’alcool resta confinato in una sola macchina e la tentazione per i passeggeri è così forte che, alla prima sosta, si beve il rimasuglio. Ho preso una Vivin C. L’alibi morale. Eh, beh. Non siamo in carovana. Chi si ferma a fare pipì sul ciglio della statale è superato senza pietà, come i feriti nella ritirata del Don. Piove. Piove molto. Fino ad Isernia e oltre. In macchina un estenuante dance hall. Roba da fattoni. Lo stomaco regge, tanto che alla consueta sosta di Venafro, riesco ad ingerire persino un’arancia di Sicilia. Il tratto d’autostrada suscita perplessità. C’è uno dei nostri da recuperare, appiedato, al casello di Ceprano. Da qui, secondo qualcuno, si potrebbe persino raggiungere il Pontino e Aprilia. Ma altri dicono di no, che non conviene. E propongono Frosinone. Altro diniego. Gli esperti del National Geographic optano per Valmontone. In linea d’aria è perfetta, dicono. Sarebbe perfetta, effettivamente. Se esistesse una funivia di vento tra le case di zucchero filato e marzapane. Ma la realtà non è mai in linea d’aria. È piena di curve solide. Di cartelli che indicano una cosa, ma che alludono ad altro. Che devi capire ciò che tacciono. Così, riuniti al guard-rail, tra altre arance sicule, uova sode e whiskey a 8 euro, ci incolonniamo per l’avventura dei Castelli romani. Contiamo di non perderci, di non separarci mai più. Dura fino a Velletri, per la bellezza di diciannove chilometri, immersi in uno scenario mozzafiato di carrozzerie e autoricambi. Poi, come spesso capita nella vita, è una rotonda a snellire il traffico e a farci perdere l’orientamento. Uno dei nostri mezzi si attarda in un improvviso impeto al volontariato. I furgoni filano in uno sprofondo. Noialtri c’imbizzarriamo in un girotondo all’ultimo sangue. Le indicazioni ignorano la nostra destinazione. Spaziano tra Nettuno e Latina. Tiriamo a sorte. Un girotondo russo, a un proiettile solo. Seguiamo Latina. E sbagliamo. L’area di recente bonifica ci accoglie voltandoci le spalle. Ci siamo persi, ma continuiamo a credere nell’uomo e nel progresso scientifico. E ci consoliamo telefonando alla vettura dei volontari, figurandoceli sul cucuzzolo di chissà quale monte della Verna. A parlare coi lupi. Nessun cellulare prende. L’assenza di segnale è il segnale. “Poverini, si sono persi”, ci diciamo. Mentre seguiamo un improbabile Cisterna di Latina. Avevamo un vantaggio di mezz’ora sul fischio d’inizio. Ora è come se l’avessimo sentito nelle orecchie, colpire il timpano e riecheggiare nel vasto deserto. “Dovevate seguire Nettuno”. Ma in base a cosa, di grazia, se voglio andare in un posto devo seguirne un altro? Inversione. L’inversione è un atto di fede  nello sbaglio. È un gesto meccanico profondamente umano. La quintessenza stessa della nostra umanità. La macchina ha i freni bagnati. E quando rallenta fa un rumore simile a quello dei caccia giapponesi a Pearl Harbour. La strada per Aprilia è un’interpoderale tra risaie. Il nostro altruismo non ci abbandona. Chiamiamo il Soccorso invernale, sotto sotto per bearci del loro essere più inguiati di noi. Una voce allegra ci risponde che sono arrivati, che sono tutti assieme, che il botteghino li/ci ha respinti, ma che c’è un bel muretto su cui arrampicarsi tutti assieme per goderci la prima di ritorno. Con l’aria dolce e comprensiva, bestemmiamo. In fondo a questa strada dovrebbero esserci Aprilia e il suo stadio. O i Re magi al gran completo. Non ci resta che sperarlo. Un cartello, finalmente. E i calcoli renali che dettano i tempi dell’ultima sosta. La prima cosa che vediamo, lì a sinistra, è il gruppetto sul muro. Incorniciati dai fari del campo sportivo. Sembra una scena berlinese. 1989. Il secolo scorso. Parcheggiamo, scendiamo. Ci arrampichiamo. È vero, si vede tutto. Sembra Santa Croce sull’Arno, ma c’è molto più spazio calpestabile e la visuale è ottima. Votiamo per questo settore. Le pezze sono già sul reticolato. I cori sfilacciati. Del resto, per salire in cima ci sono montagne di sabbia o di ghiaia da scalare. E non si può impedire ad un branco di quaranta bambini di giocare con la ghiaia o con la sabbia. Bandierine al vento. La polizia sul fianco sinistro accende la camionetta per riscaldarsi. Dietro di loro c’è il settore foggiano. Silente. Dall’altra parte, i locali. Cori in difesa della libertà degli ultras e contro i ciociari. Un bandierone. Si, lo so, sono incontentabile. Ma mi sento meglio, molto meglio. Non temo più i conati. E chiedo del whiskey. La festa comincia. I cori secchi riescono a mitigare l’effetto playback. Ma siamo tutti in fila sul muretto. Non va bene. Le canzoni cantilenanti, poi, manco a dirlo. Vagano da destra a sinistra del fronte, come al cinema il dolby surround di un bombardamento. O di una partita a poker. Il Foggia segna. Poi, almeno da qui, è solo Aprilia. Una traversa, un tiraccio a lato, molta pressione. E il pari su autorete. I nostri hanno una seconda occasione. Il loro portiere si distende e allunga in angolo. Il nostro, salva al 45’. Finisce il primo tempo. Si vede che l’ho visto? Nell’intervallo c’è finalmente modo di salutarsi tutti. Manca il pallone e la brace. Ma per il resto, è una pasquetta perfetta. Tanta bella gente, tantissima birra, Borghetti&Oldmoore. Cori di scherno e di irrisione. Altro scotch a sorsate. Decidiamo: nella ripresa entriamo tutti dallo stesso Gate. Una corona di persone in piedi circonda altrettanta gente coi piedi nella sabbia rossa. Si canta guardandosi in faccia. Attorno a quel rettangolo di superstiti, il sistema calcio che piace ai burocrati. E la polizia che, annoiata, osserva. Nicola ha fatto il biglietto. Ma alla fine del primo tempo, è venuto tra noi. “Mi annoiavo”. Fossi qualcuno, rifletterei a lungo su questa osservazione basica. Ma siccome qualcuno non sono, mi limito a osservare, a mia volta, che a Poggibonsi mi sono quasi emozionato a rivedere dei gradoni in trasferta. E no, non mi sono annoiato. Neppure oggi, tra il sabbione e il muretto di mattoni, mi annoio. Nessuno si annoia. Quelli nel parterre chiedono a quelli in alto cosa stia accadendo. Improvvisati Sandro Ciotti riferiscono. “Il Foggia è rimasto in dieci”. “Come sempre”. Cori, altri cori. Brasiliani e non. All’ultimo dei quattro di recupero, chi è sulle punte vede – con orrore – un uomo in maglia blu presentarsi tutto solo davanti al nostro estremo. E vorrebbe essere tra quelli giù. Quelli sotto percepiscono la paura. E allungano il collo. Come a voler essere tra quelli in alto. Col solo risultato che ognuno si percepisce nel posto sbagliato. “Che è successo?”. “Uagliù, non avete idea del palo che ha preso quello!”. “Ma è finita?”. “Si”. “Meh, bene così”. La squadra ci viene a salutare. Saluta i clandestini del sistema calcio. I ragazzi che, per continuare a sognare un gioco che non esiste più, si sporcano le scarpe e scavalcano i muretti. Come negli anni Ottanta. Già, come nel 1989. Il secolo scorso.

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