22/07/10

Le due città – parte II


Sottotitolo: Siete sempre un pubblico di merda


Uno scooter ci affianca. Dev’essere per via delle magliette. Il ragazzo si sporge dal traffico di piazza Cavour: “A che ora inizia, là?”. A colpo sicuro. “Alle sette”, rispondiamo in automatico. Quello fa un cenno col capo, schizza di gas oltre la rotonda e si lascia alle spalle un prolungato colpo di clacson. Ha piovuto grandine, questo pomeriggio. Adesso l’aria è afosa come a Massaua (cit.). Ma c’è luce. Ed un fermento che più che poeticamente palpabile, è prosaicamente solido. Il viale della stazione sembra una lunga appendice del teatro Ariston. La notizia è volata di schermo in schermo, di bocca in bocca. Quella di Tania Zamparo, Sky Sport 24, l’ha detto meglio di tutti, di nuovo, nell’edizione della notte: “Oggi a Foggia è il giorno della presentazione di Zeman”. Ma i primi vecchi del viale stanno parlando di Casillo. Quello che scatta in piedi dalla panchina, l’affabulatore di turno, fa il nome del Conquistatore ad alta voce, senza timori reverenziali. Più avanti, un dubbio amletico percorre una comitiva di vegliardi come una scossa elettrica: “Se andiamo là – e il nonno indica la via che porta al teatro – perdiamo il posto qua”. E le dita puntano la panchina. Un’ambulanza. Il guidatore, fermo al semaforo, ci guarda. Ancora per via della maglietta, presumo. Ci sorride e va di clacson. Pe-pe-pepepe. Il brusio cresce. “Senti?”. Dobbiamo ancora girare l’angolo, ma l’idea della ressa è tutta nelle voci confuse e concitate, nel caos, nella barriera di suono. Un parcheggiatore ci guarda e ci fa: “Si ricomincia a sognare, eh?”. Ce lo troviamo davanti all’improvviso. Non ho la prontezza di rispondergli – chessò – che non abbiamo mai smesso. Ma l’avrebbe interpretata come un’ebraica attesa del Messia, una traversata nel deserto lunga quindici anni, e non come un segno di fedeltà. L’angolo, il teatro, la ressa. I segni di una rissa. “Si sono menati”, sta dicendo un ragazzino. E come prova provata, indica uno squarcio nel vetro. Una crepa. Ci saranno 30 gradi, fuori. Il tempo di passare in rassegna le facce. Ragazzini, sciarpa e maglietta ufficiale, che sciamano fomentati, elettrici. Uomini d’una certa età, al settimo cielo. Quindicenni per cui la cosiddetta Zemanlandia è un mito orale al pari dell’Eneide, solo studiata meglio. Ragazze in pantaloncini, sotto braccio ai rispettivi baldi. E giovani padri con prole: bambini e bambine di pochi mesi, avviluppati in soffocanti tenute Legea di materiale sintetico. Facce sconosciute, neofiti. Facce mai viste. Aprono le porte, e la folla osannante si preme sull’ingresso ed entra a spintoni. Pochi attimi e le sagome si vedono sfilare al piano di sopra, dai finestroni che danno sulla strada. Di corsa, per paura di perdere il posto. Un coro fa da groppo alla gola. Non vedono l’ora di esprimersi, questi innamorati dell’ultimo proclama.

Il sogno. Qui nessuno contesta il sogno. La parte più pura, angelicata, dell’essere umano. Il volano d’ogni salto senza ali. Le mie critiche sono nulle dinanzi a quei venticinquenni che non hanno mai visto neppure la serie B. È ovvio che le aspirazioni di una piazza a secco da troppo tempo non possono finire così, semplicemente e completamente, sul banco degli imputati. Qui si contesta l’opportunità. Perché c’è modo e modo finanche di saltare sul cavallo vincente. È un fatto di stile. Niente da dire, o quasi, a quelli che silenziosamente, pudicamente, timidamente si sono lasciati trasportare dalla scia di una passione nuova, o appena rinata, o dalla curiosità della massa in marcia. Niente da dire per quelli che rispettosamente si sono accodati alla processione, ben sapendo di non poter ambire a soppiantare, a colpire di spugna, quelli che c’erano quando il pane era raffermo. Ed amaro. Quelli che hanno fame di calcio – persino quelli che bramano spettacolo – e che proprio non ce la facevano a sopportare i calci dell’anonimato, che ora sono tornati e riconoscono di doversi riambientare, non meritano la gogna. Ma che dire degli altri?

Un telo bianco annuncia un maxischermo. La gente che non è riuscita ad entrare si posiziona. Anche noi prendiamo posto tra gli esclusi – volontari, nel nostro caso – al gran ballo del consenso. Ci sono i veicoli di Telenorba, Teleradioerre, Telefoggia, Teleblu. C’è una giornalista della Rai che si aggira tra i capannelli, a chiedere se qualcuno, in definitiva, l’ha mai visto giocare sto famoso Foggia dei miracoli degli anni Novanta. Parte la diretta. Ma è giorno, e c’è luce come a Massaua (cit.). Ma per gli idolatri non è un problema. Loro vedono gli eroi anche su un telo bianco. Del resto, siamo la città che supplica una madonna mai vista, celata com’è dietro sette veli neri. Un boato. Dev’essere successo qualcosa, anche se non sembra. Il nostro striscione recita: No alla tessera del tifoso. Le bandiere sono al vento. Dall’interno esplode il coro trattenuto: Zeman, Zeman, olè, olè, olè, olè, Zeman, Zeman. E il rimando è d’obbligo: Siete sempre un pubblico di merda. Per un momento sembra che l’aria smetta di circolare. È una spaccatura, questa. Dalle grate del teatro si affacciano in tanti, ad osservare, ad osservarci. Non se l’aspettavano. Nel clima di solidarietà cittadina, i nostri cori dividono, stridono, quasi offendono. “Ma possibile che ci troviamo sempre dalla parte della minoranza?”, sento chiedere. È così. Ma è inevitabile. Non si può lavare il passato recente con una botta di straccio. La nostra memoria non è il bancone di un bar. Quanti tra quelli che ora osannano il Profeta e si permettono di alzare cori per allenatori e dirigenti, ci aspettavano al bivio d’ogni trasferta per non perdersi la battuta di spirito, il motto di sarcasmo? “Ancora appresso al Foggia? Ma chi te lo fa fare?”. E giù risate, le grasse risate di chi non potrebbe mai, neppure per un istante, sopportare il peso dell’impopolarità, della minoranza. E fino all’altro ieri, era saggio e al contempo popolare infangare i colori e deridere chi ancora s’ostinava a sostenerli. Oggi, che il vento è cambiato, si inneggia finanche a Casillo. L’uomo che è tornato per prendersi la sua vendetta, che nelle inquadrature della differita aveva lo sguardo del capitano di ventura rientrato tra gli onori nella piazza che l’aveva scacciato da reietto. L’uomo che ha espugnato Foggia, e si è trovato Foggia ai suoi piedi.

Come giudicarli? Come giudicare quelli del Pasquale Casillo e-eh, o-oh? Ero dietro lo striscione, con la mia famiglia allargata. Ho eseguito l’intero repertorio, come da copione, per un’ora e passa. Circondato dalle telecamere, dalle fotocamere, dai cellulari dello zoo safari. Da Il Foggia siamo noi a Noi non siamo napoletani. Da quando sei in C non ti seguono più. E, verità per verità, ad ogni coro che partiva dall’interno, mi sono sentito sfidato. Da una tifoseria a me estranea, ostile, quasi rivale. L’altra città, quella troppo impegnata ad aver ragione da non sentire il dovere, due settimane fa, di fare due passi con noi, quando era il momento di chiedere chiarezza sul futuro dell’US Foggia. La città che ora s’è offerta, come una sposa al padrone feudale. La città che, per mancanza di rispetto, per baldanza e guapperia, ancor più che per oltraggio alla coerenza, merita ogni singola parola che ieri, come una sassaiola, gli è stata lanciata addosso. Gli ultras non sono contro la città; sono contro l’altra città. Ed è un concetto diverso. Chi vuol capire, capisca. “Questa non è più una festa, questa è cattiveria”, ha detto un signore al suo vicino. E dove stava scritto, zio, che festa doveva essere?

15/07/10

Spettri

Virgin Radio ci include tra le quattro notizie del giorno. Repubblica ci sbatte in home. Foggia, torna Casillo: ora rifà Zemanlandia. E giù aneddoti: quella volta che Don Pasquale aprì la porta ai portoghesi e nessuno osò entrare gratis (!), quella volta che il Profeta restò seduto alla panca paralizzando ai propri posti un intero stadio, quella volta che il tizio offrì il pacchetto di caramelle al mister. E intanto, per far comprendere che conoscono ogni piega della faccenda, ci collocano in un geografico Salento immaginifico. Su Sky Sport la parola “Foggia” sulle labbra di una spettacolare Tania Zamparo causa stati ipnotici. Ma poi parte il servizio e sono ancora i siparietti a tenere banco. Zeman e Casillo sulle poltrone vintage di un documentario, frammenti di ritiri alpestri, il patron che si aggira in tribuna d’onore. Sulle tv locali è più o meno lo stesso, coi limiti di budget. Ostentazione d’archivio. Antenna sud immortala Shalimov che buca la Viola. Telefoggia affonda il Piacenza. Teleblu monta in fretta un filmato dove ai nostri eroi dell’epoca non riescono a fare tre passaggi di fila.

In città la voce girava da giorni. E all’annuncio è seguito il tripudio.
Foggia si riscopre tifosa, innamorata d’un amore malato. Perverso. Feticista. Non della maglia, quel glorioso simbolo che, vada come vada, resta il tutto/niente che possediamo. Da amanti. Amano Zeman, amano Casillo, questi. Innamorati del passato, questi. O, meglio, di una proiezione epica dello stesso. Di quelle Serie A che molti neppure hanno vissuto ma che – e questo lo ricordano tutti – portavano il Foggia a prendere a sberle chiunque, da Nord a Sud. O, come diceva quel tale in quel cortile da sala ricevimenti, a battere, finanche ad umiliare la Juve, il Milan, l’Inter, la Roma. Il fatto che non sia vero – falso dal punto di vista storico, del dato elementare, ma certamente non falso per quella sorta di disciplina parallela che è la Storiografia emozionale o della percezione – influisce poco. Anzi. Quel passato mitico, tutto racchiuso in una miriade di microstorie, ha trasformato l’amore puro, totale, disinteressato, passionale, a prescindere (l’Amore, in sostanza) in una sorta di condizione, di subordinata, di incidentale. Come di una donna amare un vestito, o amarla solo in funzione di quello. O di un paio di scarpe, o di una borsa. Come del mio autobus amare il pilota, il copilota, il proprietario della ditta. Zeman, in quanto allenatore, non è che un bene fungibile. Scarpa o borsa dell’Uesse. Casillo peggio ancora, manco quello. Orpelli, come i giocatori, optional inutili al fine dell’amore supremo, incapaci di alimentarlo o deprimerlo. Invece la piazza, che nel suo seno dovrebbe raccogliere l’essenza, il fulcro e il senso ultimo del tifo, questa piazza fredda e scostante, pronta a festeggiare le Champions altrui o a sbeffeggiare – in tempi di vacche magre – chi ancora seguita a seguire i colori rossoneri, adesso è in estasi. Perché il Foggia ha cambiato il vestito. O, meglio, ha recuperato dal guardaroba quello vecchio. Quello di quando tutti l’amavano perché si vinceva. E anche la vita sembrava più lieve.

Ma adesso si pone la vera questione, che non è il sogno bello di questa buona gente domenicale (o occasionale, fate voi). Non è la serenata perpetua all’idolo che fu – Pagani laddove noi si è Luterani – né i fuochi d’artificio sparati ieri sera in diversi focolai di questa Baghdad minore. La questione vera, seria e pesante come tutte le questioni, si chiama Campagna abbonamenti. Francavilla, direttore sportivo fino a qualche giorno fa, aveva annunciato che non sarebbe stato possibile abbonarsi senza la Tessera del Tifoso, questo mostro civile frutto di abile mix tra rigurgito securitario e interessi finanziari. Con un Foggia da zona play-out, in mano a quei famosi otto soci (che escono da pezzenti dopo aver sborsato una marea di soldi per regalare il Foggia a Casillo, quando si dice “saper fare comunicazione”…), con i punti di penalizzazione quasi certi, la squadra da allestire in fretta, due turni di squalifica del campo da scontare e lo stadio nuovamente inagibile per via della questione-tornelli, non si sarebbe andati oltre le 7-800 tessere complessive. Quei trecento dissidenti, quelli che la Tessera del Tifoso non la faranno a prescindere, in un bilancio non alimentato da diritti televisivi e introiti da sponsor, sarebbero pesati. Eccome. Invece, da ventiquattro ore la Foggia che un tempo si definiva “pallonara” è in subbuglio. In migliaia sono pronti a mettersi in fila per l’abbonamento. E se c’è la Tessera da farsi, beh, la si farà. Che tanto “non abbiamo niente da nascondere”, dice la piazza stolta che crede alla leggenda della violenza e non comprende la sperimentazione repressiva, né la manovra delle banche. I diritti civili in cambio di Zeman, Casillo e il sogno malato di ritornare vent’anni indietro. A godersi la città del 1991.

E noi? Quelli di Cosenza, di Trieste, di Portogruaro? E quelli di Sant’Anastasia, di Castrovillari, di Cuneo? Quelli per cui la stagione non finisce mai, che da ritiro a ritiro mettono le loro vite, il loro tempo libero e non solo, al servizio di una passione onnivora? Beh, quelli, noi, fuori. Il paradosso. Perché non ci va di essere schedati, autorizzati, pedinati. Non ci va di trasformarci in utenti del Circo-calcio. Non ci va di sottomettere le nostre domeniche sui gradoni al benestare di una Questura. Non ci va di immettere nuovo denaro pulito nelle speculazioni finanziarie dei broker. Settimana dopo settimana, forse, cercheremo il tagliando per varcare i cancelli. Ma se questa piazza volubile dovesse davvero sottoscrivere le 7.500 tessere (qualcuna in meno, considerando il settore ospiti); se questa gente immemore dovesse, e parlo del nostro caso specifico, anche solo consumare in qualche giorno l’intera fornitura di abbonamenti della Curva, allora lo spettro delle domeniche fuori, a bere al chiosco mentre le rossonere corrono sul prato verde circondate da migliaia di feticisti d’occasione, diventerà più che reale. Saremo fantasmi fatti della stessa sostanza di cui è fatta la malacoscienza di questa città incapace di lottare, ma al contempo irrispettosa e superficiale, pronta a donarsi anima e corpo (e non solo) ad ogni nuovo padrone che promette la luna. Senza pudore o vergogna per le passate diserzioni. Vivremo da spettri e da spettri ascolteremo gli spalti unirsi nello “Zeman Zeman” che ci ripiomberà negli anni dell’assenza di stile. Senza cori continui a spingere, senza colori, bandiere, torce a far vibrare l’aria, vivrete, tesserati, il calcio che vi hanno disegnato addosso. Il calcio che meritate.

Il Libro